Arrivato al secondo piano, aprí l'uscío con un movimento risoluto, e andò difilato verso la
camera di suo zio, il commendatore Celzani, padrone di casa, per rimettergli le pigioni dell'altra sua
casa di Vanchiglia, e andar subito dopo a rilegger l'ultima volta la lettera che doveva decidere del
suo destino. Ma a un passo dall'uscio, udendo due voci nella camera, s'arrestò, e messo l’occhio al
buco della serratura, vide in compagnia del padrone un uomo bassotto e grasso, con un largo viso
imberbe e rugoso di ragazzo invecchiato e enfiato ad un tratto, e una piccola parrucca nera messa
per traverso, ch'egli conosceva da un pezzo. Era il direttore generale delle scuole municipali che,
passando ogni mattina per via San Francesco per andare all'uffizio, saliva ogni tanto a salutare il
commendatore, col quale aveva stretto amicizia intima, otto anni prima, quando quegli era assessore
supplente dell'istruzione pubblica. Non di meno, essendo diventato diffidente di tutti, dopo che
aveva il segreto di quella passione nel cuore, il segretario si mise a origliare all'uscío, col sospetto
che parlassero di lui. Si tranquillò un poco udendo che il direttore discorreva, secondo la sua
consuetudine, delle grandi e delicate difficoltà della propria carica, per ciò che riguardava le
maestre.
- Lei capisce, - diceva con voce asmatica e lenta, - vanno a dar lezioni in famiglie nobili,
hanno conoscenze fra i deputati e i senatori, alcune sono anche in relazione con alti funzionari del
Ministero. Bisogna andare adagio. Qualche volta son perfino appoggiate dalla casa di Sua Maestà.
Si fa presto a sollevare un vespaio. È una carica, lei lo sa, che richiede un tatto, una delicatezza...
che pochi hanno. Si tratta di mandare avanti una famiglia da duecento cinquanta a trecento fra
signorine giovani e mature, maritate e vedove, provenienti da tutte le classi sociali, e con loro, un
corpo di direttrici che... sarebbe più comodo aver da fare con le trenta principesse di casa
Hohenzollern. S'immagini i pensieri che mi dànno fra amori, malattie, matrimoni, lune di miele,
esami, puerperi, rivalità, contrasti con superiori e parenti... Creda che, alle volte, io darei del capo
nel muro.
E andava avanti cosí, sulle generali. Il segretario, rassicurato del tutto, si trasse in disparte ad
aspettare. Uscíto appena il direttore, entrò dallo zio, ch’era ancora seduto sulla poltrona, ravvolto
nella veste da camera, coi suoi gravi e dolci occhi azzurri fissi alla vôlta, come assorto in
contemplazioni celesti, e resogli conto del suo operato, gli mise sul tavolino i biglietti di banca.
Quegli fece un cenno d’approvazione con la sua bella testa bianca, senza parlare, com’era suo uso, e
volti di nuovo gli occhi per aria, si rimise a pensare. Allora il segretario se n’andò in punta di piedi,
entrò nella sua camera, cavò da un cassetto chiuso una lettera di quattro facciate scritte con perfetta
calligrafia, la rilesse con profonda attenzione, la rimise nella busta con gran riguardo, vi attaccò un
francobollo con molta cura, uscí di casa senza farsi sentire, e arrivato al canto della strada, dopo
esser rimasto un po’ incerto con la mano alzata davanti alla buca delle lettere, vi lasciò cadere la
sua. Poi tirò un lungo respiro. Il dado era tratto. Non c'era più che a rimettersi a Dio.
Il segretario Celzani passava di pochi anni la trentina; ma aveva la compostezza d'aspetto e
di modi d'un uomo di cinquanta, una figura di notaio da commedia o di precettore di casa patrizia
clericale. Rimasto orfano da ragazzo, era stato raccolto da uno zio materno, parroco di villaggio, che
l'aveva tirato su in sagrestia e poi messo in seminario per farlo prete; ma, morto il parroco,
lasciandogli un po’ di peculio, l'aveva levato di seminario e preso in casa sua lo zio Celzani, vedovo
senza figliuoli, per fargli fare da segretario e da fattore di campagna: ufficio in cui egli metteva una
probità e uno zelo veramente esemplari. Andava in chiesa, frequentava dei preti, e di prete gli eran
rimaste certe mosse e certi atteggiamenti, come quello di tener spesso una mano nell'altra serrate sul
petto, l'avversione ai baffi e alla barba e l’abitudine di vestir tutto di scuro, ma non era bigotto, e si
vantava senza mentire d'essere patriotta e liberale. Ciò non ostante, a cagione della sua apparenza,
tutti gl'inquilini della casa lo chiamavano da anni, per celia, don Celzani. E pure trovando in lui
un'ombra leggiera di ridicolo, lo stimavano e gli volevano bene, poiché era cortese e servizievole,
timidamente rispettoso con tutti, e sempre eguale; non avendo, quando la sua pazienza era messa
alla più dura prova, altra esclamazione più risentita di quella di: «Dio grande!» ch'egli metteva fuori
alzando gli occhi al cielo e allargando le braccia, in atto d'invocazione. Ma v’era un lato della sua
natura che nessuno conosceva. Sotto quell’aspetto composto di prete travestito si celava un
temperamento fisico vivacissimo, una forte sensualità contenuta, non per ipocrisia, ma in parte per
timidezza, in parte per sentimento di decoro, e dissimulata per lo più da un'aria di profonda