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I Fratelli Bandiera
Mazzini, Giuseppe
TITOLO: I Fratelli Bandiera
AUTORE: Mazzini, Giuseppe
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "I fratelli Bandiera ; con sei appendici
storico-illustrative";
di Giuseppe Mazzini;
Edizioni del centenario;
Libreria Editrice Milanese;
Milano, 1944
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 15 ottobre 2006
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Paolo Alberti, [email protected]
REVISIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]
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GIUSEPPE MAZZINI
I FRATELLI BANDIERA
EDIZIONI DEL CENTENARIO
LIBRERIA EDITRICE MILANESE
1944
A
JACOPO RUFFINI,
MORTO MARTIRE DELLA FEDE ITALIANA,
NEL 1833.
A te, fratello mio d'amore, io dedico, venerando, queste poche pagine scritte col nome tuo sulle
labbra, colla santa tua immagine davanti agli occhi dell'anima. Io non trovo qui sulla terra, fra quei
ch'hanno concetto di fede e costanza di sacrificio, creatura che ti somigli.
M'ami tu sempre come, vivendo della vita terrestre, m'amavi? Io non mi sento ora, poi che tu se'
fatto angiolo, degno di te; ma due o tre volte nella mia vita da che il martirio ti trasformava, quando
tra le sciagure della mia patria e le delusioni dell'individuo, io sentiva il dubbio infernale sfiorare,
senza vincerla, l'anima mia, ho pensato che la tua preghiera intercedeva per me, e che la potenza di
fede indomita, eterna, d'onde io traeva subitamente forze a combattere, era un bacio delle tue sante
labbra sulla fronte del tuo povero amico.
Dammi, oh dammi ch'io non disperi! Dalla sfera ove oggi tu vivi d'una vita più potente d'intelletto e
d'amore che non è la terrena, e dove i nuovi martiri della fede italiana salivano poc'anzi a
incontrarti, tu preghi con essi a Dio padre ed educatore, perchè s'affrettino a compiersi i fati ch'Ei
prefiggeva all'Italia. Ma se mai la luce dubbia, ch'io saluto talora indizio dell'alba, non fosse che
luce di stella cadente; - se lunghi anni di tenebre e di sconforto devono ancor passar sull'Italia prima
che si rivelino ad essa le vie del Signore: - per l'amore ch'io t'ho portato e ti porterò, fa che il tuo
povero amico pensi ed operi, viva e muoia incontaminato; fa ch'egli non tradisca mai, per
intolleranza di patimenti o per amarezza di delusioni, il culto all'eterna idea: Dio e l'Umanità
interprete progressiva della sua legge; e fa ch'egli possa, nella serie delle vite assegnate alla
creatura, incontrarti senza che tu debba velarti, arrossendo, dell'ali, e pentirti dell'affetto che in lui,
sulla terra, ponesti.
ads:
Londra, ottobre 1844.
"Ma se nella tempesta, ch'io sto combattendo, soccombo, onde non lasciar a' miei cari vergogna
dell'avermi amato, non negate di dare alla mia memoria un fiore che la depuri dall'infamia che i
nostri tiranni non mancheranno certamente d'applicarle."
(Attilio Bandiera. Lett. del 14 nov. 1843.)
"Addio; addio. Poveri di tutto, eleggiamo voi nostro esecutore testamentario per non perire nella
memoria dei nostri concittadini."
(Emilio Bandiera. Lett. del 10 marzo 1844.)
Io scrivo queste pagine per obbedire all'ultimo voto dei fratelli Bandiera, e perchè gli Italiani
sappiano quali uomini fossero quei che morirono per la libertà della patria, il 25 luglio 1844, in
Cosenza. E le scrivo ora, mentre io avrei per più ragioni desiderato adempiere all'obbligo mio
alcuni anni più tardi, perchè le gazzette austriache e le polizie italiane hanno diffuso e
diffonderanno intorno a quei nomi asserzioni riecheggiate dai molti vili e dai moltissimi stolti, che
tendono a calunniare, non dirò i vivi - che importa a noi di siffatte accuse? - ma la fama di martiri
che gl'Italiani non dovrebbero nominare, se non prostrati, adorando. Fu detto che mal si tenta con
venti uomini la libertà dell'Italia, e che l'entusiasmo, quando non è regolato da' freddi calcoli della
ragione, tocca i confini della follia e nuoce alla causa che vorrebbe promoversi. Fu detto che i
Bandiera, entrati nella cospirazione italiana per impulso altrui, furono sedotti, spronati all'impresa
di Calabria come a iniziativa d'insurrezione architettata da esuli agitatori, anzi segnatamente da me
che scrivo e da un amico mio intimo risiedente a Malta, Nicola Fabrizi. E dietro a quelle asserzioni
deliberatamente bugiarde, vengono le conseguenze affrettate che dichiarano l'Italia impotente a fare
da per sè, disastroso ogni tentativo, reo d'imprudenza o peggio qualunque predichi o promova
azione: vergogna de' tempi e d'uomini che non sapendo esser forti e pur non volendo apparire
codardi, seminano sistematicamente sconforto per timore d'essere chiamati all'opre dai loro fratelli.
Intanto l'anime giovani si sfrondano più sempre d'affetti generosi e di reverenza ai pochi devoti; le
menti, invece d'affratellarsi operose in un concetto di tremenda unità, s'arretrano, sviandosi in
un'anarchia che conduce all'inerzia, davanti al sospetto di tutto e di tutti; e i nostri padroni
sogghignano, e sprezzano.
I pochissimi dei quali avrei caro il suffragio sanno che io non ordinerei mai spedizioni armate senza
dividerne in un modo o in un altro i pericoli: degli altri i dieci anni or decorsi m'hanno insegnato a
non curar più che tanto. Ho troppi dolori sull'anima, perchè le scalfitture della calunnia vi possano;
e per morire senza rimorsi, parmi che basti trovarsi in pace colla propria coscienza e con Dio. A me
dunque poco importa di quelle accuse; nè, se importasse, vorrei scendere, profanando, a lunghe
difese e recriminazioni in queste pagine sacre alla memoria d'uomini superiori a tutti noi quanti
siamo. Ma importa a noi tutti che la fama dei Bandiera e dei loro compagni scenda pura,
incontaminata d'errori, a quei che verranno: importa che i nostri giovani possano venerare in essi i
martiri, non i settari: importa che tutti, amici e nemici, sappiano, a conforto o terrore, come l'idea
nazionale italiana frema oggimai spontanea, ingenita, senza bisogno d'impulso estranio, anche nel
petto degli uomini che, vincolati all'insegna straniera, hanno contro, oltre i più gravi pericoli, le
abitudini della disciplina militare, l'influenza d'esempi domestici, l'isolamento, e il sospetto de' loro
concittadini. E a questo, spero, provvederanno i pochi frammenti(1) di lettere ch'io pubblico in
questo scritto. Gli autografi stanno presso di me, e li serbo religiosamente come reliquia dell'anime
più candide, più nobilmente temprate, e sante d'amore e di sagrificio, che a me fosse dato
d'incontrare, da dieci anni e più, sulla terra.
Attilio ed Emilio Bandiera, nati Veneti, figli del barone Bandiera, contr'ammiraglio delle forze
navali austriache, e noto all'Italia per la cattura sul mare, nel 1831, degli uomini che, imbarcatisi
sotto l'egida della capitolazione d'Ancona, veleggiavano verso la Francia, avevano, fin da' primi
tempi spesi nelle cure della milizia, afferrato e venerato il concetto nazionale italiano, e
s'adoperavano, più anni innanzi al primo loro contatto con esuli o congiurati dell'interno d'Italia, a
prepararsi le vie di tradurre il concetto in azione. Nella seconda metà del 1842, mi giunse da Smirne
una lettera con data del 15 agosto, firmata di nome evidentemente non vero, che diceva:
"Signore, - È da diversi anni che ho preso a stimarvi e ad amarvi, perchè intesi esser voi da
riguardarsi qual capo dei generosi che nella presente generazione rappresentano la nazionale
opposizione alla tirannide e agli altri conseguenti vituperi che spietatamente contaminano l'Italia.
So che siete il creatore d'una patriotica società che chiamaste della Giovane Italia; so che scriveste
sotto lo stesso titolo un giornale diretto a propagarne le massime, ma nè d'esso nè d'alcun'altra
vostra opera mi venne mai fatto di procurarmi, ad onta dell'ardente mio desiderio, una copia;
soltanto, son pochi giorni, pervenni ad avere i numeri primo e secondo del vostro Apostolato
Popolare, e mi riescivano tanto preziosi in quanto che alla dolce soddisfazione di vedere da un
uomo come voi pubblicati gli stessi miei principii politici, si aggiunge l'altro non meno cospicuo
vantaggio d'un modo, comunque indiretto, per farvi giungere questa mia. Il vostro indirizzo io
cercava trovarlo da più d'un anno, non pretermettendo per ciò alcun tentativo; e tra questi non sarà
forse inutile di citarvi l'aver io incaricato un mio amico, che nel corrente agosto o prossimo
settembre doveva per qualche giorno approdare in Inghilterra, di fare il possibile onde recarsi a
Londra per colà scoprire il vostro alloggio, abboccarsi con voi, darvi contezza di me, e annunciarvi
che con vostro permesso, dietro le sue informazioni, io presto intraprenderei un carteggio nello
scopo di utilmente servire la nostra patria. Prima però d'entrare in sì delicato argomento, so che mi
corre l'obligo di darvi qualche nozione personale di me, perchè voi poi in seguito non abbiate a
lagnarvi d'esservi troppo avventatamente confidato con un ignoto. Se l'amico di cui scrissi qui sopra
avrà eseguito la mia commissione, voi avrete da lui a quest'ora rilevato il vero mio nome. Ma il di
lui soggiorno in Inghilterra deve essere così breve e assediato di tanti incarichi, che pur troppo temo
fortemente ch'egli non avrà potuto soddisfare all'impegno assuntosi. E in quel caso, io mi riserbo di
palesarvelo colla prima sicura opportunità che potrà presentarsi.
"Sono Italiano, uomo di guerra, e non proscritto. Ho quasi trentatre anni. Sono di fisico piuttosto
debole; fervido nel cuore, spessissimo freddo nelle apparenze. Studiomi quanto più posso di
seguitar le massime stoiche. Credo in un Dio, in una vita futura, e nell'umano progresso: accostumo
ne' miei pensieri di progressivamente riguardare all'umanità, alla patria, alla famiglia ed
all'individuo; fermamente ritengo che la giustizia è la base d'ogni diritto; e quindi conchiusi, è già
gran tempo, che la causa italiana non è che una dipendenza della umanitaria, e prestando omaggio a
questa inconcussa verità, mi conforto intanto delle tristizie e difficoltà dei tempi colla riflessione
che giovare all'Italia è giovare all'Umanità intera. Sortito avendo un temperamento ardito
egualmente nel pensare come pronto all'eseguire, dal convincermi della rettitudine degli accennati
principii, al risolvere di dedicar tutto me stesso al loro sviluppo pratico, non fu quindi che un breve
passo. Ripensando alle patrie nostre condizioni, facilmente mi persuasi che la via più probabile per
riescire ad emancipar l'Italia dal presente suo obbrobrio, consisteva forzatamente nel tenebroso
maneggio delle cospirazioni. Con quale altro mezzo infatti che con quello del segreto può
l'oppresso accingersi a tentar la sua lotta di liberazione? . . . . . . . . . . . . . Intanto, fu sempre, da
quando mi dedicai a tentare il bene della patria, mia idea fondamentale che tutti quelli che vanno in
cerca dello stesso fine, dovessero per assoluta necessità, prima di nulla intraprendere allo scoperto,
studiarsi d'entrare in relazione onde conoscersi a vicenda, unire le proprie forze, e formolare i
singoli pensieri a quella formola d'unità senza la quale presto o tardi la dissensione succede e rovina
ogni meglio fondata speranza. Ed è perciò che tanto anelo di farvi giungere un mio scritto, e la
recente lettura del vostro Apostolato mi confermò vieppiù in questa determinazione. Io vengo a
ripetervi le vostre stesse parole: Consigliamoci, discutiamo, operiamo fraternamente. Non isdegnate
la mia proposta. Forse, troverete in me quel braccio che primo nella pugna che s'appresta osi
rialzare il rovesciato stendardo della nostra indipendenza e della nostra rigenerazione . . . . . . . . . . ."
Questa lettera era del maggiore de' due fratelli, Attilio. L'amico, ch'egli aveva incaricato d'una
comunicazione verbale, fece quanto gli era commesso, ed era Domenico Moro, nato egli pure
Veneto, luogotenente sull'Adria, e caduto martire in Cosenza co' suoi fratelli d'armi e di fede.
Il 28 marzo 1844, in una lettera scritta dopo la fuga, Emilio Bandiera compiva l'esposizione delle
credenze politiche nazionali che dirigevano Attilio e lui. "Mio fratello ed io - diceva - convinti del
dovere che ogni Italiano ha di prestar tutto sè stesso a un miglioramento di destini dello sventurato
nostro paese, cercammo ogni via per unirci a quella Giovine Italia che sapevamo formata ad
organizzare l'insurrezione patria. Per tre anni i nostri sforzi riuscirono inutili; i vostri scritti non
circolavano più in Italia; i governi vi dicevano separati e fiaccati dal mal esito della spedizione di
Savoia... Senza conoscere i vostri principii, concordavamo con essi. Noi volevamo una patria libera,
unita, repubblicana: ci proponevamo fidare nei soli mezzi nazionali: sprezzare qualunque sussidio
straniero e gittare il guanto quando ci fossimo creduti abbastanza forti, senza aspettare ingannevoli
rumori in Europa...".
E a queste idee intorno ai modi di redimere la Nazione, i due fratelli accoppiavano una serie di
previsioni concernenti il futuro ordinamento europeo, ch'essi stringevano per me nei pochi rapidi
cenni ch'io qui trascrivo:
"Noi consideriamo l'Europa come riordinata in grandi masse popolari che avranno inghiottito molte
delle odierne così spesso irragionevoli suddivisioni politiche Così noi antiveggiamo il popolo
Spagnuolo ed il Portoghese fusi in una sola nazione: la Francia appoggiante del tutto i suoi confini
orientali al Reno e quindi assorbendo il Belgio: la Germania costituita in una sola nazione e
ingrandita coll'Olanda e colla Danimarca continentale: la Svezia aumentata essa pure delle vicine
isole Danesi e della Finlandia; la Polonia risorta e forte come ai tempi del generoso Sobieski: la
Russia possibilmente divisa in due: la Valacchia, la Serbia, la Bulgaria, la Croazia, l'Erzegovina, il
Montenero e la Dalmazia riunite in una nazionalità Illirica o Serba: l'Ungheria colle presenti sue
dipendenze, più la Moldavia e la Bessarabia: la Grecia aumentata della Tessaglia, della Macedonia,
dell'Epiro, dell'Albania, della Romelia, di Candia e più tardi dell'Ionio.
"Da questo quadro, tralasciando l'Occidente, ove pure si avrebbero tanti aderenti, e mirando
soltanto alla parte di Levante, presto si deduce che Polonia, Ungheria, Grecia, Serbia ed Italia
hanno interessi comuni contro la Russia, l'Austria e la Turchia: non si collegheranno mai dunque
abbastanza quei popoli contro i loro governi, e se una volta avvertiti di questa verità, cominciassero
ad agire conseguentemente, la lotta cesserebbe tosto d'essere così ineguale come sembra a prima
vista. Ogni Polacco, Ungherese, Serbo, Greco, Italiano, che ama il bene della propria patria e per
essa quello dell'Umanità intera, lavori dunque indefessamente a sempre più propagare questa
plausibile politica. Le suddette nazionalità confederate son tutte ancora nella mente degli ideologi, e
tra esse la Grecia può dirsi la più inoltrata: conviene dunque insinuarle di non arrestarsi sulla via
gloriosa e profittevole che le s'apre dinanzi, ma fidare nelle proprie forze, nelle simpatie che la
circondano, nella giustizia della sua causa, e non soddisfatta delle ristrette concessioni d'un governo
imperfettamente rappresentativo, spingersi avanti animosa, spiegare di nuovo la bandiera
dell'unione e dell'indipendenza, e liberare dal mal fermo giogo del tiranno del Bosforo le
popolazioni che devono appartenerle. Allora comincierà l'omai resa inevitabile guerra dei popoli
contro i re; e per essa la vecchia Europa sarà interamente rifusa. Allora gli assassinii di Rigas e
d'Ypsilanti verranno dagli Italiani vendicati; e forse gli Ungheresi, oggi nostri oppressori, nostri
fratelli allora, laveranno l'onta del presente aiutando a vendicare quei di Menotti e Ruffini. Allora la
Polonia e l'Italia, sorelle da tanto tempo per la somiglianza delle patrie sventure, non combatteranno
più inutilmente sotto le insegne d'un apostata, ma riunite ne' loro sforzi pugneranno per Dio, per la
giustizia, per l'umanità e per la patria".
Non tutte forse le idee sul rimaneggiamento europeo contenute in questo frammento son vere; ma
tutte rivelano un giusto concetto delle tendenze che domineranno il futuro, e spirano un alito di
quella fede che sola può santificare le rivoluzioni e liberarle dai pericoli dell'anarchia e delle
delusioni amarissime che comprano a prezzo di sangue mutazioni di nomi alle cose e non altro. Dio,
la Patria, l'Umanità: su questi tre termini i Bandiera edificavano tutta la loro credenza politica. Dalla
nozione di Dio desumevano l'unità e la vita collettiva della razza umana, la legge di sviluppo
progressivo ed armonico imposta al Creato e la santa teorica del Dovere fidata come regolatrice de'
suoi atti alla creatura. Dalla nozione dell'Umanità interprete e applicatrice progressiva di quella
legge, traevano i caratteri della missione assegnata alla Nazione, alla Patria; dal concetto della
Patria i caratteri della missione assegnata all'individuo. E a queste idee che il secolo ha conquistato
penosamente per mezzo a lunghi errori e sacrificii di sangue, e che in essi, isolati per forza di
circostanze dal moto intellettuale europeo, erano visioni dell'anima vergine, potente d'entusiasmo
d'amore, i Bandiera accoppiavano un culto religioso d'azione incessante rinfiammato dal pensiero
che lo stendardo sventolante ad essi sul capo, e del quale le apparenze li accusavano difensori era
l'Austriaco: pareva ad essi che spettasse ad uomini del Lombardo-Veneto iniziare l'impresa italiana
e ferire il nemico nel core. Questa speranza era l'anima della loro vita. Amavano ambi con
tenerezza la madre; ma di quell'amore che leva all'angiolo, non respinge fra i bruti, di quell'amore
che confessa suo primo debito far del core un tempio a' più alti e nobili affetti, purificandolo d'ogni
egoismo e consacrandolo al Giusto, al Bello, e all'eterno Vero. Attilio era marito e padre; ma la
missione da Dio commessagli d'educare un'anima al bene gli era di sprone, anzichè di ritegno,
all'impresa; e la donna del suo core, oggi morta, come dirò, di dolore, era degna di lui e partecipe,
quanto conveniva, de' suoi segreti.
Della corrispondenza dei due fratelli con me da quel primo giorno sino alla loro fuga d'Italia, e dei
disegni ch'essi maturavano a prò del paese io non posso, per ragioni che tutti intendono, dar conto
alcuno. Ma dall'unico frammento, spettante alla fine del 1843, che mi sia dato, senza pericolo d'altri,
inserire, apparirà come più potente di tutti i meditati disegni fremesse fin d'allora nell'anima loro la
febbre d'azione, d'azione personale, immediata, che decretava non molto dopo la loro morte in
Calabria. "Il fermento insurrezionale in Italia - mi scriveva Attilio - dura, se debbo credere alle voci
che corrono, tuttavia; e pensando che potrebbe ben essere l'aurora del gran giorno di nostra
liberazione, mi pare che ad ogni buon patriota corra l'obbligo di cooperarvi per quanto gli è
possibile. Sto dunque studiando il modo di potermi recare io stesso sulla scena d'azione. . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . e, se non vi riescirò, non sarà certamente mia colpa. Sarebbe mio pensiero di
costituirmi, giunto su' luoghi, condottiero d'una banda politica, cacciarmi ne' monti, e là combattere
per la nostra causa sino alla morte. L'importanza materiale sarebbe, ben lo veggio, per questo fatto
assai debole, ma molto più importante sarebbe l'influenza morale, perch'io porterei il sospetto nel
cuore del più potente nostro oppressore, darei un eloquente esempio ad ogni altro che come me
fosse legato da giuramenti assurdi ed inammissibili, e fortificherei quindi la fiducia dei nostri,
deboli più che per altro, per mancanza di fede ne' propri mezzi e per l'esagerata idea delle forze
nemiche...".
Quando Attilio mi scriveva (il 14 novembre) quelle parole e vagheggiava il partito estremo
d'abbandonare elementi che potevano riuscire un giorno decisivamente importanti all'insurrezione
italiana, per cacciarsi disperatamente con pochi individui sull'Apennino, egli avea già, quanto agli
uomini d'oggi, il tarlo dello sconforto nell'anima. I lettori ricordano come dall'agosto al novembre
del 1843 un fermento insolito, prodotto in parte da promesse inadempite di cospiratori, ma più assai
dal mal governo e dalla naturale impazienza d'un popolo tormentato, agitasse l'Italia centrale. E da
quel fermento che poteva, tanto era energico e unanime, esser cominciamento dell'impresa italiana,
e che, per errori e colpe da non discutersi qui, non fruttò se non morti, prigioni ed esiglio ai
migliori, i Bandiera avevano tratto speranze e ardire come di chi sente vicini i tempi. Tra gl'indizi,
emergenti dalla banda dei Muratori, d'un miglioramento nell'opinione circa i modi da tenersi nella
guerra d'insurrezione, le risse continue fra popolani e pontificii nelle città di Romagna, e i romori
insistenti di moto imminente nell'Italia meridionale, essi, scesi a contatto con taluni fra gl'influenti,
alle proposte d'azione, alcune importanti davvero e facilmente verificabili con pochi mezzi, ebbero
risposta funesta di promesse per un tempo vicino, poi di dilazioni e illusioni senza fine fondate su
piani vasti e ineseguibili: i pochi, meschinissimi aiuti in danaro negati. Cercavano l'entusiasmo che,
raccolti una volta gli elementi a fare, è il più alto calcolo delle insurrezioni, e trovavano diplomazia:
cercavano la lava ardente d'anime vulcanizzate e trovavano rigagnoletti d'acque tiepide volgenti a
palude: il Fiat onnipotente di fede e di volontà , e udivano vocine d'eunuchi sussurranti computi
d'aritmetica e di paura. Cominciava per essi quella trista esperienza che travolge tante nobili anime
allo scetticismo, e che essi troncarono in un subito col martirio.
Di queste delusioni, sia per altezza d'animo, sia perch'ei temesse di ferire uomini che potevano
essermi amici, Attilio tacque sempre con me. Ma in una lettera scritta, dopo la fuga, il 28 marzo
1844, Emilio, più giovane d'anni, e di natura, non dirò più candida, ma più aperta agli impulsi, si
sfogava dicendomi: "Nell'autunno del 1843, la sollevazione dell'Italia centrale minacciava di farsi
nazionale dove fosse stata soccorsa, e noi domandavamo un aiuto di 10.000 franchi, e in ricambio
avremmo . . . . . . . . . . . . . . . - Non so di chi sia stata la colpa, ma noi non fummo soccorsi. Si
sprezzò quasi una dimostrazione che avrebbe forse assicurato la vittoria, se non altro per l'esempio
contagioso che la nostra diserzione avrebbe messo dinanzi a 40.000 Italiani che amanti del loro
paese stanno contro lui vincolati da un vano giuramento. Intanto, noi ci eravamo esposti; non
temevamo violenze, perchè un ordine imprudente di arresto (fosse stato pronunciato!) ne avrebbe
suscitato difensori più del bisogno. Tutto finì: i Bolognesi fugati, gli arresti moltiplicati; e quasi per
derisione, a noi frementi, a noi già troppo scoperti, si manda a dire, come se fossimo vegetabili,
aspettate la primavera. Noi però non ci scoraggiammo. . . . . . Io domandava per questo poche
migliaia di franchi; mio fratello mi rispose che ognuno li negava! Intanto, il governo impaurito
sospettava noi rivoltosi, e non osando farci arrestare con la forza, impiegava l'artifizio e richiamava
in Italia mio fratello, facendolo in pari tempo osservare da spie e da' suoi tedeschi. Egli chiese
anche una volta danaro, promettendo a fronte di tutti gli ostacoli tentare la sorte: non fu ascoltato; e
alla vigilia della sua partenza per Venezia, fuggì, mentre io contemporaneamente lo facea da
Trieste. . . . . . Ricadano i danni sui neghittosi che ci sprezzarono, sugli uomini, che avvertiti da ***
che in un mese noi saremmo perduti se prima del mese non ci si davano mezzi d'operare, in capo al
mese rispondevano freddamente: Non parliamo più de' tuoi amici. . . . . che a quanto mi scrivi
devono a quest'ora essere perduti. Perdonate se io mi lascio andare a parlare altamente il linguaggio
dell'abbandonato; lo fo perchè so che voi siete innocente degli indugi che ci hanno sacrificati; ma
dite a coloro che ne furono consiglieri che quando la patria sarà liberata, io li accuserò al suo
tribunale come cospiratori che cospirarono a prolungarne la schiavitù e il disonore".
Ho trascritto deliberatamente, e checchè altri possa dirne o pensarne, queste parole, perchè toccano
una piaga ch'io reputo mortale all'Italia, se la crescente generazione non fa di liberarsene ad ogni
patto. È sorta negli ultimi otto o nove anni, fra coloro che si professano amatori della patria loro,
una setta d'uomini che diresti avessero tolto ad impegno d'infamare gl'Italiani davanti a sè stessi ed
a' popoli, non solamente come codardi, ma come codardi e millantatori. Influenti, taluni per
condizione sociale o ricchezza, tutti per opinione di liberalismo forse sentito, ma di certo
tiepidamente sentito - non privi d'ingegno, ma senza scintilla di genio e guasti dalle abitudini
d'un'analisi gretta, sterile, cadaverica, tolta in prestito al secolo decimottavo - fermi
irrevocabilmente nell'animo, tra per difetto di vera scienza rivoluzionaria, tra per paura, di non mai
fare, ma pur vogliosi, per certo senso d'obbligo che corre a ogni uomo in Italia, d'essere e più di
parere agitatori animosi - stanno fatalmente capi ed oracoli della gioventù buona della Penisola, e
s'inframmettono inevitabili moderatori in ogni moto di malcontento popolare che minacci di
tradursi in azione, in ogni ardito disegno degli uomini che amano davvero la patria e con animo
deliberato di sacrificare ogni cosa più cara a farla libera e grande. Costoro, con tre o quattro adagi
rubati all'aggrinzita, decrepita, diplomatica politica conservatrice e con certi ragionari ad arzigogolo
ch'essi intitolano machiavellici e sono un insulto all'ingegno di Machiavelli, fanno l'uffizio della
torpedine sull'anime più avide di vita e di moto. Quando il fremito non prorompe in segni manifesti
e le proposte d'azione non partono se non dai pochi valenti a indovinare, anche latente, quel fremito,
essi - ed è il meglio - armeggiano a viso aperto contro ogni possibilità d'insurrezione italiana se
prima tutti i re non siano in guerra accanita fra loro e tutta Europa in fiamme da un capo all'altro:
gemono la gioventù corrotta, il popolo ignorante, il clero onnipotente ed avverso: evocano,
computando e ricomputando, sì che appaiono tre volte tanti, gli 80.000 Austriaci che stanziano in
Lombardia, più gli 80.000 che verranno dalla Boemia e dall'Ungheria, più gli 80.000 che verranno
non si sa di dove. Ma quando il grido di sommossa è, come nell'anno or decorso quanto a una parte
d'Italia, grido di popolo anzichè di pochi cospiratori ed essi temono ch'altri prenda il campo senza di
loro, accettano - ed è il peggio - volonterosi in sembianza, l'idea di fare, non serbandosi che il diritto
di discutere il quando e il come. E allora sorgono - se l'agitazione è in autunno - le teoriche della
primavera, quando i fiori sbocciano e i salassi giovano agli uomini, o - se l'agitazione è in
primavera - le teoriche dell'autunno, quando le piogge rigonfiano i torrentelli e le vigne fronzute
proteggono le imboscate: allora s'affacciano, da sostituirsi ai disegni semplici e logicamente
rivoluzionari degli uomini d'azione, disegni vasti, imponenti, magnifici, a' quali non manca - e lo
sanno - se non d'esser fattibili; disegni di metropoli sostituite a provincie, di fusioni d'elementi
eterogenei sostituite all'azione sicura e spedita d'elementi omogenei, d'insurrezioni architettate a
scocco d'oriuolo oggi in un punto, domani in un altro, il dì dopo in un terzo, ma in nessuno se se
non irrompe, per ostacoli impensati, in quel primo. Quindi, le dilazioni di quindicina in quindicina,
di mese in mese. Intanto, il fermento che non può regolarsi a oriuolo si sfoga in ciarle, risse e
sommosse microscopiche inutili, anzi dannose, all'intento, poi gradatamente s'acqueta; i molti
giovani disposti all'opre, ma facili allo sconforto, cominciano a diffidare, a calcolare i pericoli ed a
sviarsi; i pochi nati al martirio si cacciano disperatamente nella voragine delle imprese avventate,
sperando di rompere coll'esempio gl'indugi; e intanto i governi che vegliano col sospetto di chi ha il
MANE, THECEL, PHARES di Dio davanti agl'occhi dell'anima, imprigionano cautamente,
tacitamente, or in una or in altra città, oggi uno, domani un altro degli uomini ch'essi temono,
raccolgono le loro forze, raddoppian le spie, seminano terrori di scoperte, di tradimenti, d'interventi
immediati d'eserciti forastieri: - finchè il tentativo, reso davvero impossibile, sfuma tra i lontani
orizzonti d'un incerto futuro, i buoni si coprono, per rossore, la faccia, i tristi sogghignano, i deboli
e quei che non sanno dichiarano utopia la risurrezione d'Italia, le madri piangono i morti sul palco,
le iene delle polizie s'affrettano a sbranarne i cadaveri profanandone - se potessero - ai posteri la
memoria, gli stranieri dicono: vorrebbero ma non s'attentano, i governi ciarlano per due mesi di
concessioni probabili; e gli uomini della primavera, dopo avere, a scolparsi, scelto dentro o fuori -
meglio se fuori e tra gli esuli - un irco emissario de' loro peccati e apposto impudentemente ordini,
contr'ordini, imprudenze ed errori a chi probabilmente gridava tutto quel tempo alla gioventù: voi
non farete mai nulla se prima non vi sgombrate ne' vostri consigli di siffatta genia, ricominciano
pacificamente i loro computi e ricomputi sugli 80.000 uomini austriaci moltiplicati per tre. Io a
queste mie parole potrei fare un commento storico, e lo farò, ma non qui.
Le insurrezioni non si faranno ora nè mai in Italia per fusione, come dicono, d'elementi eterogenei
tendenti ognuno a diverso fine ma uniti per rovesciare, quando per forza immutabile di logica a
ognuno di questi fini corrisponde un metodo diverso d'azione; - nè per viluppo di vasti disegni
lungamente premeditati a far sollevazioni simultanee in più parti e in un'ora prestabilita, perchè i
governi ne avranno infallibilmente sentore e potranno sempre impedire; - nè , se non
difficilissimamente, per iniziativa di metropoli dove il governo tiene naturalmente accentrati più
mezzi di resistenza, di spionaggio e di corruttela, e dove un tentativo fallito riesce decisivo e dà
legge d'inerzia a tutto il paese; nè finalmente per altezza di virtù cittadine o d'istruzione popolare
impossibili dove non è patria, nè popolo, nè mezzo alcuno d'educazione se non gesuitica o austriaca
o neo-cattolica - torna tutt'uno - e dove appunto si cerca l'insurrezione per far che nascano le virtù.
Un popolo che fosse virtuoso davvero non avrebbe mai bisogno d'insurrezioni, perchè non sarebbe
mai schiavo; ma i Francesi del 1789, gli Spagnuoli del 1808, i Greci del 1821 non erano meno
corrotti di quel ch'oggi noi siamo, e nondimeno fecero prodigi di valore e di sacrificio.
L'insurrezione, in Italia, s'avrà quando gli uomini vogliosi d'agire, credenti in un patto, intesi sui
modi e sul fine, serrati a unità di falange, si prevarranno d'un fermento, nato spontaneo o creato, ma
diffuso più o meno generalmente nella Penisola, per operare improvvisi, in nome di tutta Italia, a
bandiere spiegate e cacciando via la guaina del ferro, sul punto dove la vittoria sarà meno
contrastata e men dubbia. Dato un primo successo, dalla scelta dei cinque, dei tre, dell'uno chiamati
a diriger la mossa, dipenderà lo spandersi e il vincere dell'insurrezione. Tutta la questione sta nel
decidere se, per malcontento, per istinto di patria, per universalità d'opinione, il popolo d'Italia è
maturo pel tentativo o non è. I Bandiera - ed io consentiva con essi - ritenevano che fosse maturo;
però anelavano azione, e se gli uomini della primavera non erano, avrebbero agito.
Intanto erano sospetti e vegliati. E agli indizii che il governo austriaco andava colle sue spie
raccogliendo s'aggiunsero, se credo ai Bandiera, l'arti d'un traditore. "Gravi avvenimenti per me -
mi scriveva Attilio da Sira il 19 marzo - non meno che per la causa comune, accaddero qui in
Levante dalla seconda metà del gennaio in poi. Un certo T. V. Micciarelli, che voi già forse di fama
conoscerete, denunziò ogni mia trama. . . . . . . Mi convenne obbedire e infatti il 3 del corrente partir
doveva il bastimento che mi trasportava dove non è che luca; ma io per queste ed altre prove
antecedenti istruito dell'animo perfido del Micciarelli, temendo che al primo suo colpo avesse a
succederne un secondo men difendibile, aveva clandestinamente preparato la fuga, e al 29 del
trascorso la cominciai, e dopo accidentata peregrinazione qui in questi ultimi giorni la compiei. A
mio fratello ch'era anch'egli dal traditore conosciuto e che in Venezia trovavasi, ho per tempo dato
cenno della mia determinazione, perchè da sua parte agisse conformemente, ma non ebbi per anco
di lui nuova alcuna. Come sosterranno questa rovina mia madre e mia moglie, creature delicate,
incapaci forse di resistere a grandi dolori? Ah! servire umanità e patria fu e sarà sempre, io spero, il
primo mio desiderio, ma confessar devo che molto mi costa. . . . . ." Quand'egli mi scriveva queste
parole, la moglie era morta. Avvertita da Emilio del progetto di fuga, avea, finchè l'esito rimanevasi
dubbio, mantenuto il segreto e la forza d'animo necessaria a non tradire le inquietudini mortali che
l'opprimevano; poi, saputo in salvo il marito, aveva ceduto al dolore: donna rara, al dir di chi la
conobbe, per core, per intelletto e per bellezza di forme, vittima anch'essa, come Teresa
Confalonieri, Enrichetta Castiglioni, e tante altre ignote a tutti fuorchè ai pochissimi che rimangono
a piangerle, della fatale condizione de' tempi che non concede in Italia esercizio di virtù cittadine
senza il doppio martirio di sè stessi e di chi più s'ama.
Emilio s'era, fuggendo, ridotto a Corfù, dove l'aspettava la più terribile fra le prove. Il governo
austriaco, impaurito dal fermento che la partenza dei due Bandiera aveva desto nella sua flotta,
temendo la virtù dell'esempio e più d'ogni altra cosa la fiducia che la rivelazione d'un elemento
nazionale, fin allora non sospettato in mezzo alle forze nemiche, darebbe ai rivoluzionari Italiani,
cercava modo perchè il fatto apparisse piuttosto avventatezza di giovani traviati che proposito
d'anime deliberate, e tentava le vie pacifiche. "L'arciduca Ranieri - mi scriveva Emilio il 22 aprile
da Corfù - vicerè del Lombardo-Veneto, mandò uno de' suoi a mia madre, a dirle che ov'essa
potesse da Corfù ricondurmi a Venezia coll'autorità che una genitrice deve saper conservare sopra
un figlio, egli impegnerebbe la sacra sua parola che io sarei non solo assolto, ma tornato al mio
grado, alla mia nobiltà, a' miei onori. Aggiungeva poter subito farsi mallevadore della mia
impunità, come di giovine che gli empi perturbatori avevano traviato approfittando
dell'inesperienza di venticinque anni, e che la medesima circostanza non potendo militare per mio
fratello, la cosa sarebbe più difficile, però non dubbia in riguardo alla clemenza di Ferdinando
magnanimo suo nipote. Mia madre crede, spera, parte all'istante, e giunge qui dove vi lascio
considerare quali assalti, quali scene debba io sostenere. Invano, io le dico che il dovere mi
comanda di restar qui, che la patria mi è desideratissima, ma che allorquando mi moverò per
rivederla non sarà per andarmene a vivere d'ignominiosa vita, ma a morire di gloriosa morte; che il
salvacondotto mio in Italia sta ormai sulla punta della mia spada, che nessuna affezione mi potrà
strappare dall'insegna che ho abbracciato, e che l'insegna d'un re si deve abbandonare, quella della
patria non mai. Mia madre agitata, acciecata dalla passione, non m'intende, mi chiama un empio,
uno snaturato, un assassino, e le sue lacrime mi straziano il cuore, i suoi rimproveri, quantunque
non meritati, mi sono come punte di pugnale; ma la desolazione non mi toglie il senno; io so che
quelle lacrime e quello sdegno spettano ai tiranni, e però, se prima non era animato che dal solo
amore di patria, ora potente quant'esso è l'odio che provo contro i despoti usurpatori che per infame
ambizione di regnare sull'altrui, condannano le famiglie a siffatti orrori. . . . . . . Rispondetemi una
parola di conforto; il vostro applauso mi varrà per le mille ingiurie che a gara mi mandano i vili, gli
stolti, gli egoisti, gli illusi".
Tra i fatti - e non ne eccettuo il morire - che onoreranno il nome dei fratelli Bandiera tra i posteri,
parmi che questo del rifiuto di sottomettersi, a fronte anche delle supplicazioni materne, sarà tenuto
il più degno. E so di molti pur troppo che dissentiranno da me e avrebbero non solamente ceduto,
ma adonestato il loro cedere di belle parole sugli obblighi del sangue, sulla onnipotenza dei moti del
cuore e sugli affetti di famiglia anteriori e superiori ad ogni altro: frasi tutte che suonano
commoventissime a chi non s'addentra, ma che a me paiono veramente significare: noi siamo
egoisti che tentiamo innalzare l'egoismo a virtù. Oggi, generalmente parlando, non s'ama. L'amore,
la più santa cosa che Dio abbia dato all'uomo come promessa di sviluppo di vita, s'è fatto, sotto
l'ugne d'arpia del secolo profanatore, una lordura di sensi, un bisogno febbrile, un istinto di bruti: la
famiglia, simbolo del modo con che si compie nell'universo l'incessante operazione di Dio e germe
della società s'è convertita in una negazione d'ogni vocazione, d'ogni dovere sociale: il maschio e la
femmina hanno cancellato l'UOMO e la DONNA. Le povere madri in Italia, schiave anch'esse d'una
tristissima educazione e nulle nell'ordinamento sociale, predicano trepidanti ai figli la sommessione
al potente qualunque ei sia; i padri che sanno come al limitare d'ogni famiglia veglia una spia, li
ammaestrano alla diffidenza e all'isolamento, e le fanciulle innamorate balzano di gioia quando alle
loro istanze s'odono rispondere dall'amato: io vivrò per te sola; poi d'amanti beate di frenesie senza
nome riescono per più infelicissime mogli, perch'io ho sempre veduto mariti pessimi e tiepidi amici
i pessimi tra' cittadini. Ma se ogni amica rispondesse al frenetico o forse ipocrita amante: "Tu non
devi vivere, ma gioire in me e per me sola, e in me sola confortarti ne' tuoi patimenti: noi dobbiamo
fare delle nostre due vite una sola vita più potente d'intelletto e d'amore, un solo continuo sacrificio
al grande, al bello, al divino, una sola continua aspirazione, un solo moto verso l'eterno Vero;" - se i
padri definissero la vita ai figli, non come la ricerca del piacere quaggiù, bensì come preparazione,
per mezzo di doveri adempiti, a uno stadio di sviluppo superiore; - se le madri, che pur si dicon
cristiane, meditassero più sovente e ripetessero ai nati da loro alcune delle parole di Cristo e tutto
quel libro de' Maccabei che par dettato per gl'Italiani - adempirebbero tutti, meglio ch'oggi non
fanno, ai debiti dell'amore, e l'Italia non avrebbe da piangere ad ogni tanto i migliori, tra' suoi
cittadini spenti ad uno ad uno isolatamente di morte violenta sul palco o di lenta consunzione
d'anima nell'esiglio. Parmi che tutti i grandi profeti d'affetto da Platone a Schiller, e sovra tutti i
nostri sommi Italiani e fra gl'Italiani Dante, che avea tanto amore nell'anima da infiammarne due o
tre delle nostre generazioni pigmee, intendessero quei due santi vocaboli di famiglia e d'amore in un
modo diverso assai da quel d'oggi, e parmi che i credenti in un'anima immortale - dacchè dei
materialisti, nei quali l'amore è necessariamente cosa schifosa o contradizione, non parlo - non
possano amare se non immedesimando l'amore coll'adorazione del Vero e presentando all'ente
ch'essi amano, simboleggiato nell'anima loro, il più alto spettacolo di virtù ch'essi possano. Tolga
Iddio ch'io mova il più lieve rimprovero alla madre d'Attilio e d'Emilio: dico solo - e vorrei ch'essa
potesse leggere queste linee - che qui o altrove essa intenderà un giorno come i figli l'amavano più
che mai quando ricusavano, benchè trasmesso da lei, il perdono dell'arciduca Ranieri.
E del ricusato perdono, nuovo indizio di bene, i tristi s'inviperivano. Il 4 maggio, appariva in
Venezia, firmato d'un nome barbaro, Poosch, con qualificazione anche più barbara e inintelligibile
d'auditore stabale, un editto di citazione che diceva: " L'I. R. Auditorato Stabale di marina rende
pubblicamente noto che i signori barone Attilio Bandiera, alfiere di vascello, e barone Emilio
Bandiera, alfiere di fregata, essendosi resi fuggiaschi, cioè il primo ai 28 di febbraio anno corrente
dal bordo dell'I. R. fregata Bellona in rada di Smirne, insieme col di lui servo privato Paolo Mariani
appartenente all'artiglieria di marina; ed il secondo al 24 dello stesso mese da Trieste per dove avea
ottenuto un permesso di quarantott'ore, e non essendo ritornati, ed apparendo eziandio ambedue
legalmente prevenuti di essersi resi colpevoli del delitto di alto tradimento coll'unirsi alla setta della
Giovine Italia, erano perciò ambedue tenuti di presentarsi nello spazio di giorni novanta, a partire
dalla pubblicazione del presente editto, innanzi al tribunale suddetto od all'I. R. comando di piazza
in Venezia, ecc. ecc." Rispondevano da Corfù, dove anche Attilio s'era ridotto, i due fratelli:
"All'eccelso I. R. comando superiore della marina austriaca. - Al 14 del corrente noi qui sottoscritti
abbiamo ricevuto l'editto di citazione speditoci dall'I. R. Auditorato Stabale di cotesto eccelso
comando superiore. Noi ci vantiamo di ciò che l'accennato tribunale minaccia di chiamare alto
tradimento. La nostra scelta è determinata fra il tradire la patria e l'umanità o l'abbandonare lo
straniero e l'oppressore. Le leggi, alle quali ci si vorrebbe ancora soggetti, sono leggi di sangue che
noi, con ognuno che sia giusto ed umano, sconosciamo e abborriamo. La morte a cui esse
immancabilmente ci dannerebbero, val meglio incontrarla in qualunque altro modo che sotto la
bugiarda e infame lor egida. La forza è il loro solo diritto, e noi in qualche parte almeno
mostrandoci ad esse consentanei, cercheremo di metter la forza dalla nostra parte, ma per poi far
trionfare il vero diritto - Corfù, 19 maggio 1844 - Attilio Bandiera. Emilio Bandiera." - E questa
risposta fu da essi inviata al Mediterraneo, gazzetta maltese, preceduta dalle linee che qui trascrivo:
"Signor editore - Noi qui sottoscritti venimmo officiosamente a conoscere come il governo
austriaco abbia pubblicato il suo atto d'accusa contro di noi. La pubblicità nelle procedure è un
principio così incontrastabile ed universalmente desiderato che anche quei degni successori della
Veneta Inquisizione attraverso ai tenebrosi lor conciliaboli pur lasciano di tratto in tratto balenare
qualche omaggio a tale verità; se non che tali concessioni sono in essi piuttosto ironia che sincere
dimostrazioni di rispetto. Comunque però siasi la cosa, ad ognuno, per debole che sia, corre
l'obbligo d'incoraggire le disposizioni al bene, dovunque e comunque desse appariscano. Noi ci
crediamo quindi tenuti a secondare da nostra parte la via presa dai tribunali austriaci, e
conseguentemente osiamo rivolgerci a voi per pregarvi d'inserire nel vostro giornale tanto l'editto
quanto la risposta da noi data. I giudici austriaci dicono d'aver pubblicato in Venezia la nostra
accusa, e noi non intendiamo che di compire la loro opera se per via di Malta trasferiamo la
istruzione del processo da un pubblico ristretto e circondato di baionette ad un pubblico più esteso e
libero dai terrori d'una forza inesorabilmente ostile. Aggradite, ecc. - Corfù, 21 maggio. - Attilio
Bandiera. Emilio Bandiera. -"
Nel frattempo dell'editto di citazione e della risposta dei due fratelli, un altro ufficiale della flotta
austriaca s'era aggiunto, esule volontario, ai Bandiera: DOMENICO MORO, giovine d'anni
ventidue, il cui sembiante ricordava il verso di Dante
Biondo era e bello e di gentil aspetto;
natura angelica dotata d'un'intrepidezza di lione e d'una docilità di fanciullo amoroso. Era
luogotenente sull'Adria, e toccando, reduce da Tunisi, Malta, abbandonò la corvetta, e raggiunse gli
amici. E inserirò la lettera ch'egli indirizzò al suo comandante. "Allorquando - diceva - i vostri modi
poco usitati mi hanno avvertito in questi ultimi giorni di qualche sospetto a mio carico nell'animo
vostro, io mi sono persuaso che più d'ogni altra cosa vi avesse dato luogo la mia antica amicizia agli
onorevoli patrioti e commilitoni Bandiera. Sapendo pur troppo per dolorose sciagure italiane che i
sospetti son tutto presso un governo come l'austriaco e presso i suoi servitori, potei facilmente
supporre le conseguenze che mi avrebbero atteso. Nondimeno un pensiero mi balenò puranco di
pietosa amicizia da vostra parte, che Italiano qual siete, di nascimento almeno, abbiate voi stesso
colle vostre asprezze voluto darmi un avviso a salvamento, e se ciò fosse, ve ne sono riconoscente.
Ma qualunque sia l'intenzione che vi ha diretto, la prevenzione mi ha valso. Quando vi giungerà
questa lettera, io sarò già lontano; e però facendo voti per la mia patria, perchè presto possa
presentarsi l'occasione, a voi di smentire le fallaci apparenze che, come Italiano, vi disonorano, a
me di provare col fatto la verità di quei generosi sentimenti che finora in faccia a voi sono un
delitto, ho creduto del mio decoro lasciare queste spiegazioni nell'atto di risolvermi al presente
solenne passo della mia vita. - DOMENICO MORO "
Intanto i malumori in Italia erano più vivi che mai. Il fermento sopito verso la fine del 1843, s'era
nel 1844 risvegliato più minaccioso, e dal centro s'era steso al mezzogiorno della penisola. In
Calabria, una sommossa armata, tentata e repressa a Cosenza, avea lasciato gli spiriti eccitati e
vogliosi di ritentare. La Sicilia, paese sistematicamente angariato da ogni sorta di vessazioni e
d'espilazioni, fremeva rivolta, e, popolata di gente più avvezza all'opre che alle parole, l'avrebbe
osata, se in una città, che dava, sei secoli addietro, ben altri esempi alle città sorelle, i
temporeggiatori non avessero trovato centro e influenza predominante su tutta l'isola. I governi
titubavano paurosi. Gli Austriaci ingrossavano a Ferrara e facevano correre per ogni dove minacce
d'un intervento, inevitabile dopo un'insurrezione italiana, ma impossibile prima. Gli uomini della
primavera s'affaccendavano a fare e disfare. Annunziavano per quel tal giorno, anzi per quella tal
ora, la mossa: decretavano il dì dopo reo senza scusa di lesa patria chi s'attentasse di movere, finchè
i giornali parlavano: non volendo avvedersi che le ciarle de' giornalisti profetizzanti preparavano
non foss'altro, in Italia e in Europa, al primo fatto propizio opinione e importanza d'insurrezione
potente e degna d'aiuti. Sola una provincia d'Italia esibiva, tristo spettacolo - parlo degli influenti e
non della povera gioventù buona e ingannata - il coraggio della paura, e predicava, con un
entusiasmo di crociata per lo statu quo, l'immobilità dell'abbietta rassegnazione. Ma i giovani
popolani degli Stati Pontifici e delle provincie del Regno minacciavano a ogni tanto di romper
gl'indugi. E un riflesso di tutta questa vampa d'insurrezione che scaldava il core alla gioventù,
un'eco di tutto questo tumulto di speranze, di terrori, di promesse e scoraggiamenti, si ripercoteva
sull'anima dei Bandiera, i quali da Corfù, guardandosi intorno, cercavano, come lioni la preda, il
dove e il quando potessero scendere sull'arena.
Lo scendere era fin d'allora spontaneamente, irrevocabilmente, determinato dai due fratelli: il dove
e il quando fu scelto, temo - e apparirà tra non molto, - dal governo di Napoli.
E le cagioni dello scendere sull'arena, cercate da uomini che non sanno intendere sacrificio se non
comandato in disegni e incitamenti d'associazioni segrete o capi influenti, stavano, pei Bandiera,
nella condizione morale degl'Italiani, unanimi nell'opinione, lenti a tradurre l'opinione in atti e a far
della vita un commento pratico alle credenze. Manca agl'Italiani pur troppo il concetto religioso
della nazione e dei doveri del cittadino, quindi l'unità della vita che dev'essere un'armonia
progressiva d'idee rappresentate coll'opere, di pensiero espresso in azione. Tra i materialisti, che
diseredano l'uomo d'ogni alto intento abbandonandolo agli arbìtri del caso o al dominio della forza
cieca, e i neo-cattolici (peste nuovissima del paese) che lo chiamano ad adorare un cadavere
galvanizzato, gl'Italiani hanno smarrito il pensiero di Dante, il pensiero della grande missione
commessa da Dio alla patria loro e con quello la coscienza delle forze che Dio dà sempre eguali alla
vocazione. Il loro patriotismo non è il proposito solenne, severo, tenace che rivesta i caratteri d'una
fede e proceda in continuo sviluppo, senza foga, ma senza posa, come le stelle nel cielo verso il
fine, remoto o prossimo non importa, segnato dalla Provvidenza al paese: non è l'idea dominatrice
d'un'intera vita, scintillante di tutta la poesia del sole che sorge negli anni fervidi giovenili,
incoronata di tutta la poesia del sole al tramonto negli anni canuti, forte come il diritto, perenne
come il dovere, grande come l'avvenire: è patriotismo d'impulsi, febbre di sangue meridionale che
tocca subitamente il delirio, poi per poche ore di sonno svanisce, fiamma d'orgoglio, generoso
nudrito di ricordi e di mal definiti presentimenti; ma quale orgoglio può reggere lungamente davanti
alle mille delusioni che s'affacciano inevitabili sulla via d'ogni ardito e vasto disegno? Collocati fra
il palco e lo Spielberg da un lato, fra il tradimento e l'indifferenza dall'altro, i giovani, dopo avere
lottato con impeto per un tempo più o meno breve, si ritraggono stanchi e rinnegano, non le
opinioni, ma l'attività pel trionfo delle opinioni. Nè le opinioni avranno trionfo mai, se prima
gl'Italiani non imparino ad affratellarsi colla morte del corpo e colla morte, assai più dura,
dell'anima come in questo stadio di vita si manifesta: colla morte del corpo, imparando che la vita
terrestre non è se non preparazione ad un'altra che ha culla in ciò che noi chiamiamo sepolcro: colla
morte dell'anima imparando che glorie, speranze terrene, orgoglio di trionfo immediato e felicità,
come dicono, son tutte illusioni, fantasmi più o meno dorati, ma pur sempre fantasmi, e che il
dovere è l'unica verità dell'umana esistenza e l'incarnazione in atti di ciò che la coscienza e la
tradizione dell'umanità tutta quanta c'insegnano, la sola cosa che possa togliere alla vita d'apparire
bestemmia e ironia. I Bandiera sentivano che la coscienza e la voce profetica del passato insegnano
agli Italiani che la loro patria è chiamata ad essere nazione libera e grande pel progresso
dell'umanità; ch'essi pur sapendolo, non s'attentano d'oprare e di morire, occorrendo, per far che sia;
e che un de' modi più efficaci a ridurveli è, nelle condizioni attuali d'Italia, l'esempio. Però avean
fermo nell'anima, non potendo vincere, di morire.
Pochi giorni dopo esser giunto a Corfù, Attilio mi scriveva (10 maggio) le linee seguenti: "Il 28 del
trascorso, dopo un viaggio variato d'avventure e pericoli, giunsi finalmente in Corfù. Da Malta mi
s'indirizzò la vostra del 1° aprile. Vi rendo grazie dell'interesse che prendete per la mia sorte, e il
vostro affetto è certamente il più valido sprone per operare il bene. Non temete ch'io dubitar mai
possa de' nostri comuni principii. Nessuno più di me è persuaso che a mali estremi convengono
estremi rimedi; e tanto più quando per questi militano l'utile, la verità e la giustizia. Ciò che può
parere eccessivo ad altri popoli non deve sembrarlo agli Italiani. È da lungo tempo che ho ammesso
per insegna nazionale l'aquila legionaria, e per motto di guerra l'antico grido guelfo: Popolo,
popolo! Potete dunque credere che con simili credenze non si potrà mai rimaner soddisfatti di tutti
quei mezzi termini che, più per tradirci che per placarci, i nostri nemici possono mai concedere.
Italia indipendente, libera ed unita, democraticamente costituita in repubblica con Roma per
capitale: ecco l'esposizione della mia fede politica nazionale. - Il grido di guerra dei nostri fratelli
mi romba continuamente all'orecchio; ed ho già preso tutte le disposizioni per slanciarmi quanto
prima a combattere con essi e perire. Occupatissimo di tali preparativi, non ho tempo per entrare
con voi su' particolari; ma incarico *** di comunicarveli. Dacchè sono a Corfù, ho maturato due
progetti, uno su. . . . . . . l'altro sulla Calabria: il primo esige più tempo e danaro, mentre il secondo
sarebbe più sollecito e meno dispendioso. La forza delle circostanze mi determinò pel secondo.
Onde eseguirlo, mio fratello ed io stiamo vendendo a rovina tutto quel poco che abbiamo potuto
portare con noi, ma non ne ricaveremo nemmeno mille cinquecento franchi, e ce ne occorrono
almeno quattro mila. In tali ristrettezze, io mi credo obbligato a giovarmi dell'offerta che in altro
tempo mi faceste di tre mila franchi, e scrivo a Nicola perchè mi spedisca colla prima occasione
danaro. Perdonatemi questa libertà, ma non il mio, l'interesse bensì della causa comune lo esige, e
mi conforta la fiducia che voi non vorrete ritrarvi dal cooperare a qualunque patrio ed utile
tentativo. Addio dunque, e se fosse per sempre, per sempre addio."
E in calce a questa lettera Emilio scriveva con anima piena degli affetti supremi: "Mio fratello -
Una riga anche da me, poichè saran queste forse le ultime che da noi due ricevete. Il cielo vi
benedica per tutto quel gran bene che alla patria avete fatto. Alla vigilia dei rischi io proclamo
altamente che ogni Italiano vi deve gratitudine e venerazione. I nostri principii sono i vostri e ne
vado fiero, ed in patria con l'arme in mano griderò quello che voi da tanto tempo gridate. Addio,
addio; poveri di tutto eleggiamo voi nostro esecutore testamentario per non perire nella memoria
dei nostri concittadini".
Allora tra i due fratelli da un lato, me e l'amico mio di Malta dall'altro, cominciò una lotta pur
troppo ineguale; noi a tentar di smoverli dal disegno d'agir soli e immediatamente, essi ad aprirsi
comunque una via. I tremila franchi, da me profferti per altro quando i Bandiera erano ancora in
Italia, furono dall'amico, che n'era depositario, negati; e il tentativo ch'essi intendevano di compiere
prima che il maggio spirasse, si rimase per allora sventato. Il 21 maggio, Attilio riscriveva
sconfortatissimo: "Al 10 del corrente io vi scriveva credendo di presto dover partire per l'Italia; ma
la mia supposizione riescì fallace; mi conforta però almeno la riflessione che di questo risultato la
mia volontà è affatto innocente. Con modica spesa noi avevamo noleggiato una barca: un nativo
della provincia dove intendevamo sbarcare ci avrebbe servito di guida tanto più sicura ch'egli
guerreggiò lungo tempo colà contro la gendarmeria: saremmo scesi in vicinanza d'un bosco che
continua sino alle montagne dove stanno gl'insorti. Avremmo potuto sommare a più di trenta; ma
non avevamo scelto che una ventina incirca di risoluti e bene armati; il numero era sufficiente per
respingere qualche picchetto che forse avremmo incontrato per via, e conveniente per poterci con
facilità muovere, nasconderci, e sussistere. A quest'ora, vivo o morto, sarei in Italia. Tutte queste
disposizioni vennero rese nulle dalle lettere di Nicola. Io gli aveva domandato i tremila franchi pei
quali m'avevate un tempo accordato autorizzazione; ma egli ricusò spedirli e insinuò anzi agli amici
di non secondarci in questa impresa ch'egli chiama pazza e dannosa. Questo suo giudizio non
m'avrebbe smosso dal mio progetto, perchè dieci valevano come venti e di dieci io avrei sempre
potuto disporre: gl'insorti non domandano già uomini, ma rappresentanza attiva della connivenza
degli altri Italiani al loro movimento. La mancanza bensì di danaro ci ha messi nell'assoluta
impossibilità d'operare, perchè noi non potevamo ragionevolmente sbarcare se non muniti di
qualche somma tanto per poter sussistere senza violenze, quanto per ricompensare gli emissari e le
guide e provvedere a tutti siffatti bisogni di guerra. Mio fratello ed io abbiamo intanto venduto tutto
per far danaro e lo scarso risultato di questa nostra estrema risoluzione fu tutto impiegato nel
compenso di noleggio alla barca che dovemmo licenziare e nel provvederci d'armi e di munizioni.
Come vivremo d'ora innanzi, nol so, perchè la nostra famiglia corrucciata non vuole spedirci un
soldo, e qui poi più forse che altrove è difficile trovare impiego. Non dovete credere peraltro che la
miseria ci abbia menomamente cangiati; ci accora solamente il pensiero che noi perdiamo nel
merito del sacrifizio, non potendo omai dar più alla causa dell'umanità e della patria se non
un'esistenza travagliata e infelice, mentre potevamo un giorno sagrificarle una vita avventurosa ed
agiata. . . . . . Intanto cominciano i supplizii in Bologna! Non sarebbero dunque davanti all'Eterna
Giustizia i delitti dei nostri padri ancora scontati? Checchè ne sia, aspiriamo almeno a legare alla
generazione ventura l'esempio d'una inconcussa perseveranza. - Fidando sempre sulla nota lealtà
delle poste inglesi, potete indirizzar qui al mio nome le vostre lettere. Addio.
"Attilio."
Alla nobile fiducia d'Attilio nella nota lealtà delle poste inglesi, il governo inglese rispondeva
dissuggellando sistematicamente per sette mesi, con arti infami e contraffazioni degne della più
abbietta poliziuccia italiana, la mia corrispondenza, e comunicandone quanto importava al gabinetto
napoletano e all'austriaco: atto nefando che commosse di sdegno unanime la nazione e ch'io resi
pubblico perchè s'aggiungesse una prova alle tante della immoralità di tutti i governi attuali
d'Europa fondati sopra una menzogna, se di diritto divino o di patto monarchico-costituzionale poco
rileva. Ma quanto ai progetti dei due fratelli, l'impotenza li ritardava senza distruggerli; e riardevano
al menomo rumore che venisse d'Italia. La corrispondenza, che ho tutta sott'occhio, corsa a quel
tempo e intorno a quel primo disegno, tra l'amico mio di Malta e i due martiri, prova che tutte l'arti
della persuasione furono tentate a salvarli, e che tutte andavano a rompersi, contro la
determinazione irrevocabile che li consacrava alla morte. E di questa corrispondenza, per più ampia
confutazione delle calunnie avventate all'amico, io inserirò due frammenti, il primo spettante a
Nicola Fabrizi, il secondo a Emilio Bandiera.
"Considero - diceva, in data del 15 maggio, il primo ai due fratelli - considero il mio sangue e
quello de' miei amici una moneta da spendere per l'onore e per lo scopo. Ed è perciò che non esito a
dirvi, che il vostro, nel modo in cui volete esibirlo, frutto di generosa impazienza, non ha per
risultato possibile nè l'uno nè l'altro; bensì apparirà in un senso di frenetica esigenza di
soddisfazione vostra tutta personale la noncuranza dello scopo che unicamente comprometterete, e
degli uomini che s'abbandonano alla vostra fede e che voi inesorabilmente sacrificherete. Quindici o
venti uomini sono peggio che un solo, e assai peggio dove tutto essi debbon crearsi cominciando
dalle prime relazioni. Un uomo trova simpatia e ascolto per potere essere individualmente assistito
da chi l'intenda. Venti, sono prima schiacciati che ascoltati. Un equivoco, un mal volere, un tocco di
campana li annienta. Le cose in Calabria sono o disperse o paralizzate. A noi però . . . . . . . E questo
è il caso unico per cui può essere importantissimo un atto, ancorchè limitato di mezzi, a ridare
andamento sotto una nuova impressione alle cose sopite sul punto che dite o su d'altro, ma il
numero a tale effetto non può in tal caso neppure restringersi oltre il completo delle nostre
precedenti intelligenze. - La delusione inaspettata che mi portò la tua lettera, rovesciando a un tratto
ogni nostro accordo, mi ha ben fortemente sorpreso; nè io credeva più possibile tra voi il ritorno
alla stessa natura d'illusioni che hanno già fatalmente influito sulla divergenza di mezzi che non
dimandavano se non un po' di calma per essere calcolati e attivati a tempo e con efficacia. Non
credeva possibile che l'incontro d'un individuo, l'accidente d'una barca, e il discorso d'un capitano
senza garanzia alcuna, senza mandato, potessero bastare a porvi totalmente sul nuovo, cangiando
ogni fiducia di persone e di relazioni. . . . . . . . . .- Se voi mi aveste avvertito che persona d'onore a
voi nota nell'interno, sicura per tranquillità di spirito e per aderenze, offriva anche solamente di
farci arrivare in quattro, in tre e meno ancora fra gente in armi e decisa a seguirci, io sarei venuto
con mezzi e ogni cosa immediatamente, poichè sono codeste le offerte sulle quali posano le
trattative del giorno, e quelle uniche per cui e dalla coscienza e del mandato dell'altrui fiducia io sia
autorizzato. Io verrei oggi, se la brevità del tempo non mi trattenesse, nella fiducia che uomini
d'onore e di coscienza quali voi siete e di senno non esitereste a ricredervi d'una risoluzione
promossa da calcoli su fatti erronei - e verrei per oppormi personalmente, dirigendomi a tutti e
singoli che parteggiano con voi su tale argomento. Non solo non approvo, nè intendo cooperare, ma
intendo aver solennemente dichiarato il mio più aperto disparere dal fatto della natura che
esprimete, come da fatto incapace d'alcun risultato, se non la rivelazione intempestiva delle nostre
intenzioni, il sacrificio dei migliori, la dispersione irreparabile del tanto che poteva eseguirsi con
elementi conservati intatti fin oggi, e l'assoluta esclusione d'ogni fiducia interna ad ogni nostra
proposta smentita sì compiutamente da uomini di concetto quali voi siete in un simulacro di fatto
che solo può dar prova d'una irragionevole disperazione . . . . -"
"Terrò la tua lettera - rispondeva Emilio quattro giorni dopo - a documento della buona volontà che
mi avrebbe condotto nel luogo dell'azione, dove poco ragionevoli pretesti non mi avessero chiusa la
strada che il dovere mi additava unica a percorrere. . . . . . . Convinti che il punto più strategico ad
incominciare la guerra è appunto l'estremità della penisola; che là per energia di popolazione, per le
montagne alte, per le foreste fitte, e per esempi in altra epoca offerti, si devono rivolgere tutti i
nostri sforzi, credemmo che ogni pericolo fosse giustamente affrontato a suscitare una insurrezione
che avrebbe potuto estendersi in Sicilia e negli Abruzzi prima che l'Austriaco avesse tempo di
precipitarvisi addosso. L'anno scorso si esposero uomini che valevano meglio di noi per favorire nel
centro una sommossa che per quanto bene fosse riescita sarebbe stata in tre giorni schiacciata dagli
Austriaci, e quest'anno non si vuole far niente pei Calabresi che insorsero se non altro più
apertamente dei Romagnoli, cioè colla nostra bandiera e il nostro programma. In verità la cosa è
assai strana. Se la tua lettera giungeva favorevole, questa sera noi saremmo partiti; così, restiamo
invece colla convinzione che non riesciremo in cosa alcuna. . . . . . Le tue speranze sono nel Centro:
Dio mio! e il più debole, il più spregevole de' nostri tiranni fa giustiziare in Bologna sei patrioti, e il
popolo, se non applaude, tace almeno, soffre, e piuttosto che recidere la mano omicida, la bacia e la
rispetta. Questo fatto m'ha interamente palesato a qual punto siamo. Io non voglio disperare della
salvezza della mia patria, perchè il disperarne sarebbe delitto, ma temo assai che guerrieri della sua
redenzione saranno i nostri figli se non i nostri nepoti.
". . . . . . . . . Quando tu dici che eseguendo il mio progetto avremmo perduto la vita, te lo posso
credere, ma quando aggiungi che avremmo perduto l'onore, mi ribello. Se fossimo stati presi, si
sarebbe detto che gli esuli fedeli alla loro missione, attraverso pericoli e stenti, si trasportano
sempre colà dove i loro compatrioti alzano un grido di libertà e sollevano una bandiera italiana.
Fino adesso i governi dicono a coloro che si mostrano insofferenti: - "State tranquilli; non fidate
nelle istigazioni della propaganda che vi eccita alla rivoluzione e vi lascia quindi soli alle prese con
essa. -" E in Italia si comincia a credere che quei di fuori, impazienti di trionfare, fanno vedere ogni
cosa in color di rosa e sperano che un caso trarrà d'una debole scintilla un generale divamparsi e
però stanno pronti a profittar del buon esito senza durare la prima incertezza. E noi recentemente
proscritti fummo testimoni di quanto siate voi (ingiustamente lo accordo) calunniati per non esservi
fatti ammazzare cercando mettervi alla testa dei primi moti, procurando di dare ad essi forza colla
vostra presenza e colla vostra esperienza. E però, volendo rispondere per tutti, oggi che la sciagura
ci ha confusi con voi, volevamo far vedere ai milioni che se ne stanno incerti, che ovunque sorga un
commovimento, gli esuli corrono a parteciparne la gloria e i pericoli senza aspettare che riusciti
vittoriosi quei moti siano tali da non aver più bisogno della loro influenza.
". . . . . Spero che questa mia lettera non ti offenderà. Per quanto contrario tu sia a quello che io
faccia o mediti, io nondimeno ti stimo uno dei patrioti più benemeriti, e t'amo come un compagno,
come un fratello. . . . ."
Nel frattempo di questa corrispondenza partiva da Londra per Malta e Corfù un altro dei martiri di
Cosenza, Nicola Ricciotti, amico mio fin dal 1831.
Ricciotti era nato col secolo in Frosinone, terra degli Stati Papali. A diciotto anni l'idea nazionale
s'impossessò di lui, ed egli giurò che avrebbe speso la vita in promoverne lo sviluppo e il trionfo. Di
giuramenti siffatti, io ne ho udito tanti, negli ultimi quindici anni, pronunziati da uomini ben
altramente potenti d'intelletto, e poi, dopo due o tre anni di tiepidi sforzi, traditi, che le parole stesse
mi suonano oggi tristissime come contenessero una profezia inesorabile di delusione. Ma egli
attenne il suo giuramento: disse e fece. Nelle facoltà limitate d'una natura semplice, onesta, diritta,
fermissima, come è descritta in parecchi degli uomini di Plutarco, trovò la forza che le vaste facoltà
intellettuali dovrebbero dare, e pur troppo, quando sono scompagnate da una credenza, non dànno:
avea l'ingegno del cuore. Da quando ei giurò fino al giorno della sua morte, la sua vita non fu che
una serie di patimenti. E nondimeno, ei portava sul volto, quand'io lo rividi in Londra nel 1844, lo
stesso sorriso di pace con sè stesso e cogli altri che i più vecchi amici avean notato nella prima sua
giovinezza: la virtù, che in altri ha sembianza di lotta, in lui s'era fatta natura; nè alcuno avrebbe
mai potuto indovinar da' suoi modi ch'egli avea per ventiquattro anni patito e s'apprestava, lasciando
Londra, a correre i rischi supremi. Nel 1821, affrettatosi a Napoli, fece parte, in qualità di tenente,
d'un battaglione attivo delle milizie del regno, e v'ottenne testimonianze onorevoli di coraggio e di
zelo. Tornato in paese, fu imprigionato e consumò i nove più belli anni della sua gioventù nel forte
di Civita Castellana. Liberato dai terrori del Papa nel 1831, avresti detto ch'egli avesse sofferto, non
nove anni, ma nove giorni di carcere, tanto era lo stesso di prima: sereno nell'anima e nell'aspetto,
caldo d'affetti patrii e voglioso di ritentare e noi c'incontrammo quell'anno in Corsica in cerca
ambedue d'una via per la quale si potesse raggiungere gl'insorti dell'Italia Centrale. Caduto, per
colpa di chi fu messo a dirigerlo, quel tentativo, quando, perchè gl'Italiani arrossissero d'aver
sperato negli aiuti di Francia, Casimiro Perier mandò i soldati francesi a far da birri del Papa,
Ricciotti si cacciò in Ancona, dove creato comandante della così detta Colonna mobile di volontari,
protesse la città da crisi di sangue e ordinò i giovani a una serie di manifestazioni pacifiche
nazionali, tanto che il mondo sapesse che cosa volevano: poi, ottenuto compenso d'accuse infami
dalla immoralità sistematica de' nostri nemici, e di più infame silenzio dal generale francese, che
pur s'era valso sovente dell'opera sua ad acquetare gli spiriti bollenti de' giovani anconitani, tornò in
Francia quando l'occupazione cessò, e si ricongiunse a' suoi fratelli d'esiglio, finchè nel 1833,
mentre la gioventù italiana pareva apprestarsi all'azione, ei mi ricomparve davanti, chiedendo
d'andare in Italia per trovarsi ai primi pericoli; e v'andò. Tornatone anche quella volta salvo per
mezzo a pericoli assai più gravi che non quei dell'azione, errò, povero e angariato dalle autorità
francesi che facevano a quel tempo quanto umanamente potevasi per istancare la pazienza e la virtù
de' proscritti, di deposito in deposito, senza lasciarsi avvilire dalle persecuzioncelle dei prefettucci
di polizia, senza lasciarsi contaminare dall'arti sozze e dalle sozze querele della compagnia
malvagia e scempia che pur troppo grava in ogni tempo le spalle agli esuli buoni. Finalmente, nel
1835, non vedendo probabilità di salute vicina, ei decise giovarsi del tempo per impratichirsi più
sempre nelle discipline della milizia, e scrisse annunziando la sua determinazione ai figli - perch'ei
s'era ammogliato giovanissimo ed era padre - le linee seguenti, fra le pochissime che a me rimangon
di lui: "Eccomi giunto ad uno dei momenti più tristi della mia vita e forse al più decisivo per me.
Un cumulo di ragioni mi costringono ad abbandonare la Francia, ad allontanarmi più ancora da voi.
Mille privazioni m'attendono, infiniti pericoli circondano il sentiero che devo scorrere, la morte
stessa è forse là per colpirmi. L'amore ch'io m'ebbi per voi, e che per lontananza non s'è giammai
diminuito, il dovere di padre e di buon cittadino non mi permettono di dare esecuzione al mio
divisamento senza ricordarmi di voi e senza darvi alcuni precetti ch'io spero vorrete adempiere. Se
mi è riserbata una sorte crudele, se dovessi mai esser rapito al vostro affetto, conservate memoria di
me, la mia sventura non vi sgomenti, e sia questo mio scritto un documento della mia tenerezza per
voi. Onorate, voi lo sapete, furono le cagioni che togliendomi alla patria, mi condannarono a
languire sulla terra straniera. La condizione d'Italia è così crudele, così basso è ora caduta questa
terra un dì sì gloriosa, che qualunque tra i suoi figli ha sensi d'onore, qualunque sente nel suo cuore
l'offesa che i despoti fanno alla dignità nazionale italiana, qualunque ama la libertà e la virtù, è
condannato a trascinare nell'esiglio i suoi giorni se ha ventura di sottrarsi alla prigione o alla morte.
Noi siamo martiri della causa d'Italia, ma il nostro patire prepara alla patria giorni di libertà e di
trionfo. Chi ingiustamente ora ci opprime sarà alla sua volta oppresso, e gli Italiani vincitori
sapranno usare con magnanimità della riportata vittoria. Intanto, io parto per la Spagna; combatterò
anche una volta per la causa della libertà, e se il destino mi è propizio, metterò a profitto d'Italia le
cognizioni che avrò acquistate. Voi, miei figli, dirizzate sulle mie tracce i vostri passi; fate ch'io
abbia almeno il conforto di sapere che lascio in voi degli imitatori, e che l'Italia potrà calcolare su
voi come su di me". - Questa lettera non fu mai, ch'io mi sappia, ricapitata; ma in novembre egli
partì per la Spagna, dove, raccomandato dal maresciallo Maison, ministro della guerra in Francia, e
dal generale d'Harispe, ottenne d'entrare col grado di tenente in un battaglione dei tiratori di
Navarra. Dai documenti officiali ch'egli, partendo, lasciò in mie mani, io potrei desumere la lista dei
molti fatti d'armi contro i guerilleros carlisti nei quali ei meritò da' suoi capi menzione onorevole;
ma nol farò, e basterà il dire ch'egli nel giugno 1837 fu innalzato al grado di capitano, ottenne,
nell'aprile 1841, per le vittorie riportate l'anno innanzi contro il ribelle Balmaseda, la croce di San
Fernando, e fu promosso, il 30 giugno 1843, al grado di comandante di fanteria. E non molto dopo,
quando udì ravvivarsi le speranze italiane, lasciò la Spagna, e venne al solito ad offrirsi volontario
per la causa della nazione. Il primo tentativo per penetrare in Italia gli andò fallito: imprigionato,
per opera d'un denunziatore, dal governo francese in Marsiglia, tornò, appena fu lasciato libero, in
Inghilterra, di dove, aiutato, poich'ei lo voleva, di mezzi, ripartì lietamente per Malta e Corfù, con
animo di ripatriare. Il luogo d'Italia dov'egli, per propria scelta, per invito d'altri, e per ingiunzione
strettissima degli amici che gli spianavan la via, dovea cercar d'introdursi, non apparteneva ai
dominii del governo napoletano. Era Ancona.
Giunto sui primi di giugno in Corfù, Ricciotti s'affratellò coi Bandiera. La loro mente ondeggiava
allora tra il fare e il non fare, tra il mantenersi a Corfù finchè tutte speranze d'azione non fossero
dileguate e il ridursi immediatamente, poverissimi com'erano, in Algeri dove speravano trovare
impiego. L'idea d'uno sbarco in Calabria era a ogni modo abbandonata, e le ragioni addotte
dall'amico li avevano persuasi a promettere ch'essi non agirebbero mai senza il nostro consenso, e
s'uniformerebbero alle condizioni d'un disegno più vasto dipendente dalle mosse dell'interno
d'Italia. Le rivelazioni di Ricciotti intorno all'intento prefisso al suo viaggio e al punto dov'egli
intendeva recarsi, ridestarono in essi il desiderio d'un'azione immediata; ma il vecchio progetto s'era
di tanto rimosso dall'animo loro, ch'essi non pensavano se non ad accompagnarsi all'amico. "Ho
abbracciato Ricciotti - mi scriveva, il 6 giugno, Attilio - e si farà il possibile per ispingerlo al suo
destino. Il *** mostrasi renitente perché il viaggio per *** è lungo; nondimeno non dispero di
persuaderlo. Ma Ricciotti andrà solo? Perchè i venti risoluti di qui non si moverebbero? ed io con
essi? Ho stabilito di farlo, perchè qualunque sia l'evento, meglio è ch'egli vada accompagnato che
non solo. Lasceremmo a *** le nostre comunicazioni per quello che concerne il regno". Un giorno
dopo scriveva Emilio: "Vi ringrazio delle parole amorevoli recatemi da Ricciotti. L'amicizia che mi
accordate v'è da me professata da assai lunghi anni, da quell'epoca in che sorta la Giovine Italia io
me ne procurava gli scritti per ripeterli nel collegio a' miei compagni, e non potendo meglio, per
aizzarli all'odio e alle zuffe contro i figli degli oppressori. Qualunque sia la mia sorte, mi mostrerò
costante; all'Italia dedicherò sempre mente, cuore e braccio; a voi e ai pochi altri che la rendono
rispettabile anche prostrata, affezione di fratello. Con Ricciotti stiamo risolvendo la questione
dell'intricato problema. Ad ogni modo spero d'esser presto in azione con lui. Lasceremo a ***, che
accorrerà al ritorno del messo, le pratiche colla Calabria. Addio, e serbatemi sempre il patto
fraterno che avete stretto con Emilio". - E un altro giorno dopo, li 8, poche righe di Ricciotti
dicevano: "In questo momento non v'è occasione alcuna di partenza per dove sapete, ma spero si
presenterà presto, e meco verrà uno dei fratelli Bandiera, e forse ambidue con altri venti uomini".
Ho insistito su questo punto, perchè mi pare elemento essenziale di giudizio, a qualunque voglia
esplorare le cagioni probabili della sùbita mossa, la certezza che non era, tre giorni prima,
premeditata.
Nella notte dal 12 al 13, tre giorni dopo scritte quell'ultime righe, i fratelli Bandiera partivano, con
Ricciotti e gli altri, per la Calabria; ed ecco l'ultima loro lettera a me.
"Corfù, 11 giugno 1844.
"Carissimo amico.
"Si fece il possibile per poter inviare al suo destino Ricciotti; non si potè riuscire poichè da qui, per
là dov'era destinato, barche non partono, e in ogni modo non si sarebbero incaricate del trasporto.
Le notizie di Calabria e di Puglia giungevano favorevoli; dimostravano però sempre mancanza
d'energia e di confidenza nei capi. Convenimmo correr la sorte - Fra poche ore partiamo per la
Calabria.
"Se giungeremo a salvamento, faremo il meglio che per noi si potrà, militarmente e politicamente.
"Ci seguono diciasette altri Italiani, la maggior parte emigrati: abbiamo una guida calabrese -
Ricordatevi di noi, e credete che se potremo metter piede in Italia, di tutto cuore ed intima
convinzione saremo fermi nel sostenere quei principii che, riconosciuti soli atti a trasformare in
gloriosa libertà la vergognosa schiavitù della patria, abbiamo assieme inculcato.
"Se soccombiamo, dite ai nostri concittadini che imitino l'esempio, poichè la vita ci venne data per
utilmente e nobilmente impiegarla, e la causa per la quale avremo combattuto e saremo morti è la
più pura, la più santa che mai abbia scaldato i petti degli uomini; essa è quella della LIBERTÀ,
dell'EGUAGLIANZA, dell'UMANITÀ, dell'Indipendenza e dell'Unità Italiana.
"Quelli che ci seguono sono i seguenti:
"DOMENICO MORO, di Venezia, ex-ufficiale della marina austriaca.
"NARDI, della Lunigiana, esule del 1831.
"Boccheciampi, di Corsica(2).
"MAZZOLI, di Bologna.
"MILLER, di Forlì, esule del 1832.
"ROCCA, di Lugo.
"VENERUCCI, di Forlì.
"LUPATELLI, di Perugia, carcerato per gli affari del 1831 fino al 1837, poi esiliato.
"OSMANI, di Ancona.
"MANESSI, di Venezia.
"PIAZZOLI, di Lugo, esule nel 1832.
"NATALI, di Forlì.
"BERTI, di Ravenna.
"PACCHIONI, di Bologna.
"NAPOLEONI, di Corsica.
"MARIANI, di Milano, ex-cannoniere a servizio dell'Austria.
"Il Calabrese, di cui vi sarà riferito il nome da ***.
"Le notizie avute d'Italia furono le seguenti:
"I Calabresi si mantenevano armati e numerosi. Molta truppa occupava i declivi delle montagne e le
città. Agli inviti d'impunità rispondevano: Non aver più che fare col re di Napoli. Difettavano di
munizioni. Da Bitonto in Puglia una grossa banda sortì, e sotto gli ordini di ***, occupò la foresta
di Gioia. Un Calabrese fu arrestato a Bitonto; egli confessò d'essere per le montagne disceso dal suo
paese, dove avea preso l'armi, su Bitonto, apportatore d'un invito a ***.
"Le provincie di Lecce, Bari, Foggia, e Avellino sono agitatissime; l'ultima massimamente.
"Abbiamo con noi quanta più munizione ci abbiamo potuto procurare.
"Abbiamo incaricato *** di tenervi informato delle nostre operazioni. Fate voi altrettanto con lui,
poichè lo lasciamo in caso di potere probabilmente comunicare con noi.
"Furono prese tutte le misure; fu calcolato il numero degli individui; a tutto fu disposto. Se non
riesciremo, sarà colpa del destino, non nostra.
"Addio.
"Nicola Ricciotti.
"Emilio Bandiera".
"Addio: il tempo mi manca. Porto meco gli articoli principali d'una nuova costituzione politica
all'Italia, cioè quello dell'organizzazione comunale, della guardia nazionale, e delle elezioni. La
prima di queste è necessario che sia dovunque uniforme per far dimenticare tante funeste e
sanguinose antecedenze. Per individualità nazionale ho scelto il circondario e non il comune, perchè
questo è di sua natura ineguale, l'altro formato, senza riguardo al territorio, di dieci mila cittadini
attivi. Da ventun'anni in poi s'è cittadini, ecc., ecc. Il giurì è applicato al criminale soltanto, perchè
per adesso la nostra nazione non è ancora abbastanza matura per questa ottima istituzione.
Insomma, conviene far tavola rasa, ma coll'obbligo di subitamente o bene o male riedificare, onde
non cadere nell'anarchia che porta sempre seco la morte. Se mai la sorte vuole arridere finalmente
alla nostra causa, accorrete; venite fra chi da tanti anni vi stima ed ama, tra chi voi più d'ogni altro
poteste risvegliare dal sonno che, per esser profondo, i malvagi dicevano essere di tomba. Venite, e
ricordatevi degli Ebrei reduci dalla schiavitù che ricostruivano il sacro lor tempio sempre colla
spada brandita. Abbiatemi presente, e credetemi sempre vostro amico
"Attilio Bandiera".
Come mai, a fronte dei nuovi progetti, delle promesse fatte all'amico e del mandato positivo,
esplicito, dato a Ricciotti, poche e incerte voci di circostanze propizie in Calabria indussero i due
fratelli e gli amici loro alla sùbita determinazione?
Io non presento accuse formali, perchè non ho prove dirette, e l'impudenza delle asserzioni
deliberate quando non s'hanno che indizi mi par arte da lasciarsi ai nemici, immorali per vocazione
ed oggi per necessità di difesa, dacchè, se combattessero ad armi eguali e da generosi, cadrebbero, e
lo sanno. Ma accennerò alcuni fatti su' quali ogni uomo potrà fondare spassionatamente il proprio
giudizio.
Per gli indizi desunti da lettere mie e d'altri violate per uffizio di spionaggio dal gabinetto inglese, e
per le imprudenze commesse da quei che più ciarlano e meno fanno, il governo napoletano e
l'austriaco sapevano che gli esuli italiani si preparavano ad accorrere, con mezzi abbastanza forti ed
animo assai più forte, dovunque sorgesse una bandiera italiana; ignoravano, come appare dalle
mille e una sciocchezze pubblicate ne' loro giornali, i modi e i disegni. Pareva, in siffatta incertezza,
savio partito lo smembrarne le forze anzi tratto, e seducendo alcuni de' migliori a una impresa
disperata, perchè calcolata dal nemico, spegner quei pochi, sfiduciar tutti gli altri, far credere agli
esuli che non v'era da sperare in moti di popolazioni italiane, e a quei dell'interno che a un drapello
di venti si riducevano tutti gli aiuti che dar potevano gli esuli alla causa italiana: poi, prepararsi la
via di logorare colla calunnia l'influenza esercitata da alcuni individui, imposturandoli ordinatori del
tentativo. I Bandiera ardentissimi e improvvidi, erano tali da dar nel laccio. Importava spegnerli,
perchè già abbastanza pericolosi per le facoltà dell'animo e dell'ingegno, lo erano poi oltremodo per
le aderenze nella marina dell'Austria e pel nome: importava che non pellegrinassero tra le nazioni,
simbolo vivo dell'estensione conquistata oggimai dall'opinione nazionale italiana: importava che a
quanti, nelle file dell'esercito austriaco, avessero in animo di seguir l'esempio, un fatto solenne
intimasse: morrete. Il nome dei Bandiera influente nel Lombardo-Veneto, e quello di Ricciotti
potente assai nelle Marche, erano pressochè ignoti tra le popolazioni delle Calabrie. E quanto al
tender l'insidia, il fermento lasciato negli spiriti dal tentativo di Cosenza, i decreti regi che
sottomettevano ai rigori di leggi repressive straordinarie le due provincie, e la fuga nelle foreste di
molti pericolanti, dovevano dar sembianze di vero a quante voci d'insurrezioni iniziate o imminenti
avrebbero suonato all'orecchio degli esuli di Corfù.
Per tutto il mese di maggio e sul cominciare del giugno siffatte voci abbondarono stranamente
moltiplicate a Corfù: recatevi da capitani ignoti di barche mercantili provenienti da Cotrone, da
Rossano, da Taranto, da più altri punti. Dicevano le montagne di Cosenza, Scigliano e San
Giovanni in Fiore, popolate, gremite d'insorti armati, nudriti con viveri mandati dalle città,
determinati ad agire e solamente incerti del come. Dicevano gl'insorti mancanti unicamente di capi
eguali all'impresa, desiderosi d'alcuni uomini militari scelti fra gli esuli influenti a rappresentare in
Calabria l'unità del Pensiero Italiano, anzi queruli dell'indugio e di ciò che pareva ad essi diffidenza
o tiepidezza negli esuli. Aggiungevano le spiaggie non essere custodite più severamente del solito e
facilissimo il passaggio da quelle ai luoghi dove si tenevan gl'insorti. Un capitano austriaco
proveniente da Rossano affermava che in un bosco distante mezz'ora dalla città stava una buona
mano d'insorti che assalivano quasi ogni notte la gendarmeria. Un altro, credo certo Cavalieri,
satellite austriaco, dava avviso che due o più centinaia di sbandati s'erano affacciati a Cotrone e
n'erano stati respinti, ma non distrutti, e mentre depredavano nei dintorni qualche podere di ricchi,
spargevano oro fra' contadini. Altre consimili nuove stanno registrate nell'ultima lettera dei
Bandiera. Le più erano assolutamente false: l'altre esageratissime.
Gli esuli e segnatamente i fratelli Bandiera erano in Corfù noti, vegliati, ricinti di spie. Del loro
antico disegno era corso romore fino all'orecchio dei consoli che ivi rappresentano i tirannucci
d'Italia. La loro partenza ebbe luogo senza che vi fosse frapposto il menomo ostacolo; nè ostacolo
alcuno da legni in crociera o da altro ebbe il loro sbarco in Calabria. Il console napoletano in Corfù,
stando a' meriti noti, avrebbe dovuto ricevere accuse e rimproveri di noncuranza dal suo governo. E
nondimeno, con disposizione del 18 luglio, Ferdinando II volendo ricompensarne la condotta e lo
zelo spiegato in quella circostanza, conferì la croce di cavaliere dell'ordine regio di Francesco I a
Gregorio Balsamo, console del re in Corfù.
Finalmente - e questo a molti parrà indizio equivalente a una prova diretta - un dei ventuno,
tristissimo a dirsi, tradiva(3): il Boccheciampi. Fomentatore arditissimo dell'impresa, partiva da
Corfù recando seco alcuni documenti che rivendicavano dal governo di Napoli certi diritti concessi
a un suo zio per servigi prestati appunto nelle Calabrie a' tempi dell'invasione francese. Toccato
appena, e senza pericoli sovrastanti, il suolo italiano, spariva. Nell'ombre della notte andava a
Cotrone a dar nuova degli ultimi concerti presi e della via tenuta dagli esuli. I nostri non lo rividero
se non davanti alla commissione militare in Cosenza, accusato di scienza e di non rivelazione di
complotto, libero quindi d'ogni rischio di vita.
Or giudichi ognuno se il quando e il dove dell'impresa fossero scelti dal governo di Napoli o dai
nostri fratelli.
Partirono, poichè alcuni incidenti ritardarono di ventiquattr'ore l'esecuzione del loro progetto, nella
notte dal 12 al 13: sbarcarono dopo quattro giorni di viaggio, la sera del 16, agli sbocchi del fiume
Neto, e s'inselvarono. Era loro intento apparire improvvisi, fuggendo ogni scontro, davanti a
Cosenza e tentare, per cominciamento all'impresa, la liberazione dei prigionieri politici che v'erano
numerosi. Ma dopo tre giorni di viaggio attraverso foreste, affacciatisi a un burrone presso San
Giovanni in Fiore, dove gli esperti de' luoghi affermavano non essere via di salute possibile se non
la vittoria, si trovarono aspettati, circondati, assaliti da forze regie, composte di cacciatori del
secondo battaglione, di gendarmi e di urbani, numericamente tali da rendere inutile ogni
combattere. Combattevano nondimeno, e con qual vigore lo dica il decreto del 18 luglio, col quale
Ferdinando II assegna ricompense di croci, medaglie, promozioni e danaro a più di centosettanta
individui presenti al conflitto: decreto che sarebbe ridicolo se non fosse machiavellicamente
architettato a vincolare, infamandoli, uomini incerti e a ingannare le popolazioni lontane, ma che
lascia a ogni modo intravvedere quante centinaia di soldati fossero stimate necessarie dal governo
napoletano a vincere i ventun uomini della libertà. Spento Miller(4), caduto per gravi ferite
Domenico Moro, la guida calabrese e due altri riuscirono a rinselvarsi; i rimanenti, afferrati, furono
trascinati al martirio in Cosenza.
Del loro contegno nel tempo decorso tra il conflitto di San Giovanni in Fiore e la morte, io non so
cosa alcuna; nè del processo o della condotta dei giudici. Alcuni tra gli amici dei Bandiera
s'illudevano in quei giorni a sperare che l'arciduca Federico, fratello della regina di Napoli,
s'indurrebbe, allievo, com'era stato, del contr'ammiraglio, e condiscepolo e commilitone d'Emilio, a
intercedere spontaneo per essi: poco esperti conoscitori dei principi e della fredda, infernale,
immutabile politica austriaca.
Il 25 luglio, alle cinque del mattino, ATTILIO ed EMILIO BANDIERA(5), NICOLA RICCIOTTI,
DOMENICO MORO, ANACARSI NARDI(6), GIOVANNI VENERUCCI, GIACOMO
ROCCA(7), FRANCESCO BERTI(8), DOMENICO LUPATELLI, morirono di fucilazione. I loro
compagni all'impresa gemono, e gemeranno Dio sa per quanto, a vergogna degli Italiani, in catena.
Gli ultimi momenti dei nove martiri furono degni della loro vita e della Fede Italiana ch'essi col
sangue santificarono. Estraggo quanto segue da una lettera di Calabria, contenente il ragguaglio
d'un testimonio oculare:
"La mattina del giorno fatale furono trovati dormendo. S'abbigliarono con somma cura, e per
quanto potevano con eleganza, come se s'apparecchiassero a un atto solenne religioso. Un prete
venne per confessarli; ma essi lo respinsero dolcemente(9) dicendogli: ch'essi, avendo praticato la
legge del Vangelo e cercato di propagarla anche a prezzo del loro sangue fra i redenti da Cristo,
speravano d'esser raccomandati a Dio meglio dalle proprie opere che dalle sue Parole, e lo
esortavano a serbarle per predicare ai loro oppressi fratelli in Gesù la religione della Libertà e
dell'Eguaglianza. S'avviarono col volto sereno e ragionando tra loro al luogo dell'esecuzione.
Giunti, e apprestate l'armi dei soldati, pregarono che si risparmiasse la testa, fatta ad immagine di
Dio. Guardarono ai pochi muti, ma commossi circostanti, gridarono: VIVA L'ITALIA! e caddero
morti".
VIVA L'ITALIA! - Sarà quel grido, o giovani, un'amara ironia, o lo raccoglierete voi, santo com'è
dell'ultimo sagrificio dei migliori tra noi, per incarnarlo nelle vostre vite? In nome dei martiri che
morirono per redimervi non foss'altro dalla taccia di codardia che tutta Europa vi dà; in nome della
vostra Patria, io vi chiedo: proferirete quel grido a fronte delle persecuzioni, tra le delusioni
dell'anima, in faccia al patibolo, o perduti nelle stolide o viziose abitudini del servaggio, direte, iloti
avvinazzati d'Europa: muoia l'Italia! muoia l'onore! perisca la memoria dei martiri! viva il cappello
gesuitico! viva il bastone tedesco!
Molti fra voi vi diranno, lamentando ipocritamente il fato dei Bandiera e dei loro compagni alla
bella morte, che il martirio è sterile, anzi dannoso, che la morte dei buoni senza frutto di vittoria
immediata incuora i tristi e sconforta più sempre le moltitudini, e che giova, oggi, anzichè operare
prematuramente, rimanersi inerti, addormentare il nemico, poi giovarsi d'una circostanza propizia
europea per trucidarlo nel sonno. Non date orecchio, o giovani, a quelle parole. Meschini politici e
peggiori credenti, gli uomini che così insidiano alla santità dell'anima vostra, immiseriscono la
nostra FEDE nei falsi calcoli d'una gretta questione politica: avrebbero rinegato, nel dì del
supplizio, la virtù della croce di Cristo per poi benedirla con pompose parole, se la vita fosse loro
bastata sino a quel tempo, quando al segno del martirio Costantino sovrappose il segno della
vittoria. Il martirio non è sterile mai. Il martirio per una Idea è la più alta formola che l'Io umano
possa raggiungere ad esprimere la propria missione; e quando un Giusto sorge di mezzo a' suoi
fratelli giacenti ed esclama: ecco: questo è il Vero, ed io, morendo, l'adoro, uno spirito di nuova vita
si trasfonde per tutta quanta l'Umanità, perchè ogni uomo legge sulla fronte del martire una linea de'
proprj doveri e quanta potenza Dio abbia dato per adempierli alla sua creatura. I sagrificati in
Cosenza hanno insegnato a noi tutti che l'Uomo deve vivere e morire per le proprie credenze: hanno
provato al mondo che gl'Italiani sanno morire: hanno convalidato per tutta Europa l'opinione che
una Italia sarà. La Fede per la quale uomini così fatti cercano la morte come il giovane l'abbraccio
della fidanzata, non è frenesia d'agitatori colpevoli o sogno di pochi illusi; è religione in germe, è
decreto di Provvidenza. Alla fiamma di patria ch'esce da quei sepolcri, l'Angiolo dell'Italia
accenderà, presto o tardi, la fiaccola che illuminerà una terza volta da Roma - dalla Roma non già,
come v'insinuano i falsi profeti, del papa, grande un tempo, oggi, checchè cinguettino, spenta e per
sempre - ma dalla Roma del Popolo, le vie del Progresso all'Umanità.
L'Italia è chiamata, o giovani, a grandi destini. Solcata l'anima di mille dolori e piena d'alto
sconforto ogni qualvolta io guardo agli uomini d'oggi e a quelli segnatamente che s'assumono or di
dirigervi, io pur sento tanta fede nel core, quando guardo negli anni futuri e in voi che sarete uomini
fra non molto, da trovare forza che basti a intuonarvi l'inno della speranza e la profezia dei vostri
destini fin sulla pietra dei martiri. Una grande missione aspetta l'Italia. L'Europa è oggi in cerca
d'unità religiosa. La Francia colla sua rivoluzione - non parlo della sommossa del 1830 -
rivoluzione non intesa finora se non dai pochi, compendiava in una gigantesca manifestazione il
lavoro di molti secoli e traducendo nel linguaggio politico la somma di progresso conquistata in
quelli dall'anima umana, conchiudeva un ciclo d'attività religiosa, che avea ricevuto da Dio la
missione di costituire ordinato all'intento l'UOMO: l'uomo-individuo libero, eguale, ricco di diritti e
d'aspirazioni a uno sviluppo maggiore. E d'allora in poi, presaga dell'epoca nuova, dell'epoca che
avrà per termine dominatore d'ogni sua attività l'uomo collettivo, l'UMANITÀ l'Europa erra nel
vuoto in cerca del nuovo vincolo, che annoderà in concordia di religione le credenze, i
presentimenti, l'energia degli individui, oggi isolati dal dubbio, senza cielo e quindi senza potenza
per trasformare la terra. Tentennante fra il dispotismo del Cattolicismo e l'anarchia del
Protestantismo, fra l'Autorità illimitata che cancella l'uomo e la libera coscienza dell'individuo
impotente a fondare una fede sociale, il mondo invoca e presente una nuova e più vasta Unità che
congiunga in bella e santa armonia i due termini Tradizione e Coscienza oggi in cozzo fra loro e che
pur sono e saranno sempre le due ali date all'anima umana per raggiungere il Vero: - una Unità che
mova da' pie' della Croce per avviar l'uomo sul cammino della vittoria, abbracciando in sè e
santificando tutto quanto il progresso ulteriore: - una Unità che rannodi le sette diverse in un solo
Popolo di Credenti e di tutte le chiese, chiesuole e cappelle, innalzi l'immenso Tempio, il Panteon
dell'Umanità a Dio: - una Unità che di tutte le rivelazioni date a tempo da Dio al genere umano
componga l'eterna progressiva Rivelazione del Creatore sulla sua creatura. Questo, a chi ben
guarda, è il problema vitale che agita, o giovani, il mondo d'oggi: tutte le questioni politiche, che
paiono esclusivamente sommovere le nazioni, non potranno acquetarsi che nella soluzione di quel
problema. E questa soluzione, o Italiani, questa invocata Unità, non può escire, checchè facciano, se
non dalla Patria vostra e da voi: non può scriversi che sull'insegna alla quale sarà dato di
fiammeggiare superiore alle due colonne migliari che segnano il corso di trenta e più secoli nella
vita dell'Umanità, il Campidoglio ed il Vaticano.
Dalla ROMA DEI CESARI escì l'unità d'incivilimento, comandata dalla Forza all'Europa. Dalla
ROMA DEI PAPI escì l'unità d'incivilimento, comandata dall'Autorità, a gran parte del genere
umano. Dalla ROMA DEL POPOLO escirà, quando voi sarete, o Italiani, migliori ch'oggi non siete,
Unità d'incivilimento, accettata dal libero consenso dei popoli, all'Umanità.
Per questa Fede, o giovani, morirono i Bandiera e i loro fratelli nel martirio: per questa Fede io
pure, nullo per intelletto e per core, ma a nessun altro inferiore in credenza, se il desiderio non
m'inganna, morrò.
E nondimeno, io non vi chiamo al Martirio - il Martirio si venera, ma non si predica - io vi chiamo a
combattere e vincere: vi chiamo a imparare il disprezzo della morte e a venerare chi coll'esempio ha
voluto insegnarvelo, perchè so che senza quello voi non potrete conquistar mai la vittoria: vi
chiamo all'opere continue ed al fremito, quand'altri vi chiama a fingere d'addormentarvi, perchè so
che i fatti continui ed il fremito possono soli dar sospetto, terrore, e frenesia di persecuzione
feconda di sdegni, ai vostri padroni, coscienza della tristissima condizione in che vegeta e della
vocazione italiana al popolo vostro, fede nei vostri diritti e nelle vostre intenzioni ai popoli
dell'Europa commossa. Confortatevi, o giovani, la nostra causa è destinata al trionfo. I malvagi che
anch'oggi dominano, lo sanno e ci maledicono; ma l'anatema ch'essi gittano contro noi si perde nel
vuoto, come rio seme portato dal vento. I germi che noi cacciamo rimangono: sul terreno santificato
dal sangue dei martiri, Iddio li feconderà; e s'anche gli alberi che devono escirne non distenderanno
l'ombra loro che sul nostro sepolcro, sia benedetto Iddio: noi godremo altrove. Perseguitate, noi
possiam dire ai malvagi, ma tremate. Un giorno, innanzi alla fiamma che consumava, per ordine del
Senato, le storie di Cremuzio Cordo, un Romano, balzando in piedi, gridava: cacciate me pure nel
rogo, perch'io so quelle storie a memoria. Pochi dì passeranno, e l'Europa risponderà con un grido
consimile alle vostre stolidamente feroci persecuzioni. Voi potete uccidere pochi uomini, ma non
l'Idea. L'Idea è immortale. L'Idea ingigantisce fra la tempesta e splende a ogni colpo, come il
diamante di nuova luce. L'Idea s'incarna più sempre nell'Umanità. E quando voi avrete esaurito l'ira
vostra e la vostra brutale potenza sugli individui che non sono se non precursori, l'Idea v'apparirà
irresistibile, nella maestà popolare, e sommergerà sotto l'onda oceanica del futuro i vostri nomi e fin
la memoria della vostra resistenza al moto delle generazioni che Iddio commove.
LIBERTÀ, EGUAGLIANZA, UMANITÀ.
INDIPENDENZA, UNITÀ.
ITALIANI!
Divisi in otto stati noi destinati da Dio ad abitare un paese unito; conculcati in Napoli da un re
villano e dispregevole, sottomessi in Piemonte ai voleri di un reprobo che ne tradì, in Modena a
quelli di un mostro che nel secolo XIX arrivò la trista fama di Caligola e di Nerone; in Roma
scherniti da un pontefice indegno di rappresentare un Dio di pace e di carità; in Toscana dalle arti
narcotiche di un governo traditore; in Parma governati da una femmina che, potendo elevarsi sopra
tutte le europee, alle più vili si mostrò inferiore; oppressi in Venezia ed in Lombardia dagli stranieri
che ne sfidano colle baionette e ne perseguitano colle spie, smungono i tesori del nostro suolo e
fanno servire la nostra gioventù a puntello del nostro servaggio; disgraziati in tutta Europa; vilipesi,
mantenuti divisi; pasciuti di glorie di teatro, di dispute di letterati, di controversie da fanciulli; ecco,
Italiani, in quali condizioni ci troviamo. - Fummo grandi e temuti! che monta, se non fosse più
acerba rampogna dell'esser caduti sì in basso? Se i nostri padri abbandonassero i loro riposi per
venir a contemplare come difendiamo ed abitiamo la terra che essi resero la prima del mondo, con
quali fronti ne sosterremmo noi gli aspetti? A lavare tanta infamia, a scuotere tanto giogo, a
conquistare la libertà, i Calabresi generosi insorsero; insorsero per tutti, con levata in alto la
bandiera di tutti: REDIMERE L'ITALIA O MORIRE! E noi balestrati da' comuni oppressori in
straniere contrade, abbiamo compreso quel grido, abbiamo benedetta quella bandiera, ripetuto quel
giuramento, e, pochi, ma vanguardia di molti lontani, dalla terra d'esilio ci siamo quivi ridotti.
Siciliani, Abruzzesi, Romagnoli, Toscani, Piemontesi, Lombardi, Genovesi, Italiani di tutte
contrade, preferireste la vita fra le spie, le baionette, gl'insulti de' vostri oppressori ai pericoli ed ai
cimenti che seguendo il nobile esempio v'aspettano? Gli Austriaci, che oltraggiosi vi conculcano da
sì lungo tempo, non vorreste alfine combattere e alla vostra volta perseguitare? Sono numerosi,
agguerriti? E voi non siete ventiquattro milioni di fratelli, non i più animosi guerrieri dell'antichità,
non i figli dei prodi che in Spagna, in Polonia, in Germania, in Russia, illustrarono di tanto
splendore l'aquila di Napoleone? Bonaparte ha detto che un popolo di dieci milioni fermamente
risoluto di esser libero, non può essere sottomesso, e la Spagna inferiore a voi della metà di
popolazione lo provò resistendo e mandando al basso ben altro invasore che l'inetto Ferdinando non
sarà. - Tutte le nazioni europee hanno raggiunto o marciano verso la conquista dei più sacrosanti
diritti dell'Uomo; voi soli, Italiani, siete ancora sottoposti a pravissime leggi, vivete ineguali, senza
diritto, oppressi da doveri d'ogni sorta; lavorate, e il frutto de' vostri sudori oltrepassa le Alpi o
serve ai bagordi delle tante reggie stabilite nella vostra bella Penisola. - All'armi! o fratelli; correte
come noi al conquisto della Libertà, dell'Unità, dell'Indipendenza, della prosperità della patria;
correte a fare che l'eguaglianza dei diritti e dei doveri, delle pene e delle ricompense avvivi l'Italia.
Non più re, o Italiani! Iddio ci ha creati tutti eguali; siamo tutti fatti ad immagine sua; nessun altro
che lui abbia dunque il diritto di dirci suoi. - Che hanno fatto i re di noi? Ci hanno venduti,
perseguitati, oppressi, hanno pieno il nostro paese di vergogna, e di obbrobio. Costituiamoci in
repubblica come i nostri padri, poichè ebbero scacciati i Tarquini; gridiamoci liberi, e padroni di noi
stessi e delle contrade in cui Dio ne ha collocati. Gli Austriaci ci combatteranno; il pontefice ci
scomunicherà; i re d'Europa ci avverseranno. Non importa, o Italiani, gettiamo il fodero e contro
l'Austriaco facciamo d'ogni uomo un soldato, d'ogni donna una suora di carità, d'ogni casale una
rocca; al papa protestiamo di conoscere Iddio meglio di lui attraverso i suoi sordidi interessi di
dominazione, di grandezza temporale; i re d'Europa rispettiamo ma non temiamo, invochiamo
contr'essi le simpatie de' loro popoli.
La nostra causa è santa, o Italiani, e vinceremo perchè Iddio non vorrà abbandonarla se in essa
persistiamo con costanza, fermezza, cuore e risoluzione. - Che se la vittoria intravvedete difficile,
gioitene; gli sforzi ed i sacrifici che opererete per guadagnarla varranno a scontare nell'opinione dei
popoli, tanto passato obbrobrio e così lungo servaggio. Essi solo potranno farci riguardare come
non degeneri nepoti dei più grandi che portarono lo splendore del nome italiano in ogni angolo del
mondo conosciuto; essi solo ci permetteranno lasciare ai nostri figli una patria libera, unita,
indipendente, e gloriosa.
In nome degli esuli italiani sbarcati:
Attilio BANDIERA,
Nicola RICCIOTTI
Emilio BANDIERA.
LIBERTÀ, EGUAGLIANZA, UMANITÀ.
INDIPENDENZA, UNITÀ.
CALABRESI!
Al grido de' vostri fatti, all'annunzio del giuramento che avete giurato, noi attraverso ostacoli e
pericoli, dalla prossima terra d'esilio siam venuti a schierarci fra le vostre file, a combattere le
vostre battaglie, ed ammirare la bandiera dell'Italia repubblicana, che avete coraggiosamente
sollevata. - Vinceremo o moriremo con voi, Calabresi; grideremo come voi avete gridato, che scopo
comune è di costituire l'Italia e le sue isole in nazionalità libera, una, indipendente; con voi
combatteremo quanti despoti ci combatteranno, quanti stranieri ci vorranno schiavi ed oppressi.
Calabresi, non è epoca remota quella, in cui avete distrutto SESSANTA MILA invasori condotti da
un Italiano, il più grande dei capitani di Napoleone; armatevi della energia di allora, e preparatevi
all'assalto degli Austriaci, che vi riguardano loro vassalli, vi sfidano, e vi chiamano BRIGANTI.
Continuate, o Calabresi, nella generosa via, che avete dimostrato voler unicamente percorrere, e
l'Italia resa grande ed indipendente, chiamerà la vostra la benedetta delle sue terre, il nido della sua
libertà, il primo campo delle sue vittorie.
In nome degli esuli italiani sbarcati
Attilio BANDIERA,
Nicola RICCIOTTI
Emilio BANDIERA.
APPENDICE A
LETTERE DI MAZZINI RELATIVE AI BANDIERA
A complemento del mirabile scritto di Mazzini "Ricordi dei fratelli Bandiera" vengono qui
riprodotti brani di lettere del grande Esule riguardanti i due fratelli veneziani e la loro gloriosa
quanto sfortunata impresa.
A GIUSEPPE LAMBERTI - PARIGI.
Londra, 8 aprile 1844
"Caro amico,
"Poi che scrivendo, il mal si disacerba - scriverò. - Non ho nuove: le poche righe dei giornali sulla
Calabria, ragguagli di Malta, e per quella via dell'interno, da metter ira per le illusioni di che
Zambeccari e i pochi uomini d'azione si vanno pascendo per rispetto alle promesse di fare in Napoli
e Roma! prima il 15, poi il 18, poi non so quando: promesse date da gente accettata in fusione cogli
uomini d'azione davvero, e che non tende se non ad impedire con promesse siffatte che altri faccia.
Ho poi lettere dei Bandiera tali da far piangere: se tu sapessi che materiali e che colpi si sono
sprecati per l'avarizia di uomini che non vollero dare in tempo 10 mila franchi! Quei due giovani
sono unici per intrepidezza, e candore d'anima e amor del paese; e sono stati trattati infamemente, e
tra due o tre mesi morranno di fame se non troveranno un impieguccio in qualche marina
straniera...".
A EMILIO BANDIERA - CORFÙ.
Londra, maggio 1844
"Fratello mio,
"Se la mia promessa d'esservi sempre fratello e compagno nella carriera che avete impreso a
percorrere può confortarvi nella guerra interna che vi tocca ora a sostenere, abbiatela calda dal
cuore. Io v'amo già più che se non ci fossimo conosciuti per anni sopra altra via.
"Parmi che avete ciò che manca ai più, la costanza nel sagrificio; la costanza ch'è il complemento di
tutte le umane virtù. Noi dunque soffriremo, e combatteremo uniti, e con noi i pochissimi, che
guardano alla nostra causa, non come a sfogo di reazione, ma come a causa di fede e che
v'ammirano e v'amano come io v'amo e v'ammiro.
"Siate forte contro il grido dell'affetto materno; un giorno io spero potrete riabbracciarla senza
arrossire; ed essa sentirà che avevate ragione nel vostro rifiuto di seguirla. Povere madri illuse!
Forse oltre il disonore essa dovrebbe un giorno piangere la vostra perdita in modo ben più doloroso.
Oggi, il governo Austriaco vi tiene esuli; ma una volta nelle sue mani, una parola, un cenno
imprudente darebbe argomento di processo per colpa anteriore al salvacondotto. Quanto agli altri,
non li curate. La nostra causa sta fra Dio e noi. Non abbiamo giudici che la coscienza. Dobbiamo
sentirci tanto più alti, quanto l'ideale che noi adoriamo è superiore allo stato attuale della Società e
della Patria".
A GIUSEPPE LAMBERTI - PARIGI.
Londra, 20 luglio 1844
"Caro amico,
"Dalla nuova della spedizione in poi, non m'hai più scritto: suppongo che le nuove del mal esito
t'abbiano dissestato come han dissestato me. Le cose dette dai giornali paiono nondimeno esagerate,
e l'arresto dei capi non certo ancora. Suppongo peraltro il peggio; e se tutto non è vero, sarà una
benedizione di Dio...
"Comunque, supponiamo tutto finito. Quid agendum? Abbandonare la partita, può essere il grido di
un momento di malumore giustissimo: ma non più. Siamo devoti alla lotta. Il paese è schiavo: noi
abbiamo detto; è bene che sia libero: abbiamo detto che tenteremo di farlo tale: abbiam dichiarato la
guerra fin dal 1831: non possiamo ritrarci ora senza viltà in faccia agli altri, senza rimorso in faccia
all'anima nostra. Abbiamo gridato la croce addosso a quei che hanno disertato dopo il '33: non
possiamo disertar noi. Noi siamo una bandiera: e questa bandiera deve stare eretta per noi, finchè
s'impianti sulla nostra sepoltura. Quanto a me, ho deciso.
"Noi siamo in tutta questa burrasca stati subalterni; abbiamo aiutato per dovere: ma l'ispirazione
non partiva da noi. La fusione ha rovinato ogni cosa: la fusione ha illuso gli uomini d'azione ad
aspettare la realizzazione di piani d'azione irrealizzabili; ha cacciato l'anarchia nel partito: ha
trattenuto il moto coll'idea delle capitali ecc. ecc. Io, da questi pasticci, vedo tutto il male che tu
vedi nei nostri; ma a sangue freddo. Vedo anche che gli elementi non mancano, e che dove
potessero ridursi a unità e aversi mezzi, si può fare e con esito buono. Che vuoi tu dedurre dall'affar
dei Bandiera? venti uomini, in una provincia alla quale essi sono perfettamente ignoti, dovrebbero
porre la provincia in insurrezione, anche dove sia preparata? Quando finisce l'impresa prima che
quasi sia nota? No: se venti uomini durano cinque giorni e necessitano invio d'un battaglione di
cacciatori per vapore ecc. ecc. cinquecento cosa non farebbero?...".
ALLA MADRE - GENOVA.
Londra, 16 agosto 1844.
"Mia cara madre,
"Rispondo alla vostra del 3 agosto. Sono pieno di dolore per la morte dei Bandiera e de' loro
compagni che, sebbene io non abbia finora notizie dirette, credo vera. Dolore non per la causa, che
la perdita di pochi individui non può far retrocedere; ma per gli individui stessi ch'erano delle
migliori anime ch'io abbia incontrato negli ultimi dieci anni. Quando dico incontrato, intendetemi
bene; sebbene qui le Ambasciate vadano dicendo che quei giovani non pensavano che alla loro
carriera finchè incontrarono me in Londra, io non li ho mai conosciuti, per la semplice ragione
ch'essi non furono mai in Inghilterra; l'unico legno da guerra Austriaco che venne fu la Bellona, e
Moro era il solo che vi fosse; i Bandiera erano allora in Siria, e poi a Smirne. In poche pagine ch'io
consacrerò alla loro memoria, dirò fin dove io li conosceva; ma certo è che erano giovani rari.
Bensì, l'ardore in essi era soverchio; e la spedizione in venti fu fatta da loro a dispetto, non
solamente di me, ma dei nostri amici in Malta e Corfù. Ve ne riparlerò più dopo. Qui, un foglio, il
"Morning Herald", ministeriale di Sir J. Graham, citava l'altro giorno un frammento di lettera di
Emilio Bandiera a me, mandata d'Italia, ei diceva, e intercettata da un governo italiano. In questo
frammento, Emilio mi consigliava ad accettare offerte di danaro dalla Russia a patto di mettere sul
trono il Duca di Lenchtenberg! Non ho bisogno di dirvi che tutto questo è falso. Emilio Bandiera
non mi scrisse, nè poteva scrivermi mai da quando sbarcò. Era repubblicano come sono io. E vi cito
queste cose per provarvi di che armi si servono l'Ambasciate: dico l'Ambasciate, perchè Lord
Brougham il quale durante queste ultime settimane, ha detto orrori di me dappertutto, trovandosi in
casa Baring, ed essendo acremente rimproverato dalla signora, dichiarò che quanto ei diceva gli era
stato affermato dall'Ambasciata Sarda. Or figuratevi che tra le cose dette, v'era quella "ch'io tengo
una casa da giuoco!!!".
"Ringrazio Dio che io repubblicano e rivoluzionario non mi sono mai servito dell'arme della
calunnia contro i nemici nostri. Del resto, tutte queste ciarle non mi hanno fatto alcun male: Lord
Brougham, è stato scornato dappertutto dove ha ciarlato: e la prova che anche i miei avversari mi
stimano sta in questo, che Baring dove sono stato invitato come vi dissi, è non solamente torj, ma
membro del Gabinetto... Il padre dice benissimo che se io fossi stato l'organizzatore della
spedizione Bandiera, sarei stato alla loro testa. E se un giorno mai credessi bene di organizzarne
una, certo vi sarò io pure".
ALLA MADRE - GENOVA.
Londra, 24 agosto 1844
"Mia cara madre,
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
"Dei Bandiera, ch'io non conosceva che per corrispondenza, e di Ricciotti ch'io conosceva di
persona, io non ho voglia di parlare: ma vi dirò solo, che più dei governi nemici io comincio a
guardare con ira e disprezzo i nostri giovani patrioti e gli uomini che potendo operare si contentano
di prendere il bruno, come hanno fatto in Romagna, per quei che operano. Quanto all'opinione
comune, che mi dice organizzatore della spedizione, non me ne importa nulla: divento ogni giorno
più, assolutamente indifferente all'opinione degli uomini: e l'unica persona di cui mi dispiace,
sapete chi è: è la madre dei Bandiera, povera ingannata, che a quest'ora mi maledirà, accusando me
della morte dei figli. Certo: io animerei ed aiuterei ogni uomo ad operare com'essi, ma solo quando
io con essi potessi agire...".
A GIUSEPPE LAMBERTI - PARIGI.
(Londra) 14 agosto 1844.
"... La catastrofe dei Bandiera e Ricciotti com'è data dal Giornale delle Due Sicilie, perchè altre
nuove non ho, m'ha empito l'anima di tale amarezza che non ho provato da un pezzo. Quei giovani
sono vittime della cospirazione dell'interno: maledizione su tutti loro! maledizione e disprezzo sui
pacifici cospiratori toscani, romagnoli e napoletani! Bensì, l'amarezza in me non veste le sembianze
dello sconforto, ma quelle del demonio della lotta. Darei, credo, l'anima per aver danaro: sento
prepotente il bisogno d'azione, d'azione personale, prima di morire..."..
AI REDATTORI DELL'"AQUILA BIANCA", A BRUXELLES(10).
(Londra) 29 agosto 1844
"Ho letto l'articolo del Tre Maggio che avete avuto la cortesia di tradurmi. Ho pensato un istante se
non era necessario rispondere, ma mi son detto che ciò sarebbe degradare insieme la causa, la
Giovine Italia e me stesso. Per le stesse ragioni non ho risposto al Morning Herald. Che questi
signori pensino, dunque, e dicano di me ciò che vorranno: è permesso, come diceva quel bel decreto
degli antichi, a quelli di Chio d'insultare grossolanamente. Ma c'è in quell'articolo una cosa che,
forse, per la maggioranza dei vostri compatrioti che io stimo, sarebbe bene di smentire. È una
calunnia contro dei morti. No, i Bandiera non erano miei agenti; essi non subivano ciecamente la
mia influenza; non furono spinti da me alla loro impresa. Gli uomini del vostro partito aristocratico
sono dunque così sprovvisti di convinzioni e di patriottismo da non poter concepire se non
l'entusiasmo per ordine? Due anni avanti il loro primo contatto con me, i Bandiera erano in piena
cospirazione. Tre giorni avanti la loro spedizione, l'ignoravano essi stessi. La loro attenzione era
altrove che in Calabria. Erano dei bravi giovani, puri, devoti, brucianti del sacro fuoco dell'azione,
penetrati anzitutto della necessità d'insegnare praticamente, con l'esempio, ai loro compatrioti ch'è
venuto il tempo per gli italiani di dar testimonianza della loro fede con la morte o con la vittoria
davanti ad amici e nemici. Rapporti che loro provennero dalla Calabria li decisero subitamente ed
essi marciarono. Marciarono da veri repubblicani, con proclamazioni repubblicane, le nostre parole
sacre: Libertà, Eguaglianza, Umanità, Indipendenza, Unità nel cuore e nella bandiera: marciarono
non valendosi del danaro del duca di Leuchtenberg, ma di quello sottratto da essi e da qualche loro
compagno d'esilio al superfluo, alle necessità della vita. Il preteso frammento di lettera citato dal
Morning Herald è una falsità elaborata negli uffici e che ogni uomo di senso e di onestà avrebbe
arrossito d'accogliere. Le ultime parole scritte da Emilio Bandiera e da suo fratello, che io
pubblicherò fra poco con altri documenti per onorare la loro memoria proveranno a tutti che quegli
uomini erano posti troppo in alto per abbassarsi a lavorare per un pretendente. Essi proveranno
anche che, conoscendo le loro intenzioni d'agire ad ogni costo, io ho fatto tutto ciò che ho potuto,
giungendo sino ad attirarmi i loro rimproveri, per distoglierli da ogni impresa immediata e per
impedirne la realizzazione. Disgraziatamente non ho potuto riuscirvi. Forse anche essi erano
migliori di noi!
"Dite questo ai vostri compatrioti, e dite anche loro che nel seno d'una emigrazione che assiste al
bello spettacolo della spontanea devozione di Zaliwski e dei suoi compagni, non dovrebbe essere
permesso ad uomini che attendono la salvezza della Polonia dalle combinazioni del signor di
Metternich di trattare da leuchtenbergisti o da agenti sottomessi alla volontà d'un altro uomo i
martiri della causa e della giovinezza italiana... Voi potete fare di questa lettera l'uso che vi piacerà.
Credetemi sempre vostro fratello devoto. - Giuseppe Mazzini".
A NICOLA FABRIZI, A MALTA.
(Londra) 2 settembre 1844
"Dalla catastrofe in poi io non ho mai più avuto una linea da te... è impossibile che tu non abbia
avuto d'allora in poi qualche minuto ragguaglio del caso funesto. Come furono presi tutti? e da
Moro in fuori non feriti? Quando? nel combattimento di San Giovanni in Fiore o più dopo? la taglia
era vera o no? Vorrei sapere i particolari come si desidera sapere ogni cosa d'un parente morto. E
inoltre, ho dovere di scrivere alcune pagine in memoria loro, e vorrei prima conoscere il fatto... La
perdita è grave, e dolorosissima. L'effetto scoraggiantissimo. Inoltre, non è da celarsi risulta da tutto
il fatto una smentita all'opinione nostra di grandi lavori e disposizioni in quelle parti. Non presto
fede al governo, ma i decreti di ricompensa alla popolazione di San Giovanni stringono il cuore.
L'inazione assoluta delle provincie finitime, e della Sicilia è un altro fatto. E di questi fatti si
valgono i nostri limiti e peggio dell'interno per dire che tutto questo trambusto non ha radici ma
parte unicamente da noi. L'uniche lettere che mi son giunte in questi giorni d'Italia, ed anche di
passabilmente buoni, mi scongiurano di por freno, potendo, a quei di Malta che non fanno se non
rovinare. Da tutte l'altre parti, l'affare dei Bandiera m'è messo in collo come s'io avessi organizzato
il fatto: fin nel giornale dell'aristocrazia polacca, il Tre Maggio, mi danno del vile per averli
mandati, dicono, ed essermene stato quieto a Londra. Questi infami a me non importano nè punto
nè poco, ma ne parlo per mostrare come ogni fatto di questo genere presta armi a sviare l'opinione e
minare l'influenza di pochi buoni. È inutile. Siamo addietro; i più senza principii e codardi... ".
ALLA MADRE - BAVARI.
Londra, 28 ottobre 1844.
"... Io m'occupo... di finire l'opuscolo sui Bandiera che parmi debba riescire importante, ma che mi
costa molti momenti di profonda tristezza scrivendo... Di quest'opuscolo Bandiera darei non so
quanto per potervene far giungere una copia intera, non perchè altri leggesse, chè a questo altri
provvederà, ma per voi, per soddisfazione mia, perchè voi aveste una cosa dettata dal cuore del
figliuol vostro... ".
ALL'EDITORE DEL "TIMES".
Londra, 22 gennaio 1845.
"La lettera qui unita è la traduzione di quella scritta ad un amico di Corfù da Anacarsi Nardi,
avvocato di Modena, uno degli esuli sbarcati in Calabria coi fratelli Bandiera, e morto a Cosenza il
25 luglio 1844. Il Nardi la scrisse nella sua cella, dodici ore prima della sua morte, e da ogni parola
traspare una tale calma, una tale nobiltà di sentimenti che - non ne dubito - Ella sarà lieto di
pubblicarla nel suo autorevole giornale. Mi pare che una causa, per la quale uomini come il Nardi
corrono alla morte come verso un bel sogno, debba essere una causa santa, e con più probabilità di
successo di quanto possa sembrare ora, giudicandola superficialmente. Ma qualunque siano le sue
opinioni in proposito, dinnanzi al martirio tace ogni sentimento di parte: un uomo onesto, puro, che
può vivere seriamente e morire serenamente per ciò che egli ritiene vero e giusto è in tutti i tempi, e
specialmente nel nostro, in cui la teoria e la pratica sembrano essere in eterno contrasto, uno
spettacolo che infonde nuova forza nei cuori di tutti coloro che lottano. La lettera passò per le mani
del Governo Napoletano e di quello Austriaco, e da quest'ultimo fu inviata al suo Console Generale
a Corfù, per consegnarla al Dott. Savelli che la ricevette la sera dell'11 Dicembre 1844, quattro mesi
e diciassette giorni dopo che era stata scritta. Exoria, (parola greca che significa esilio, bando) è il
nome della casa costruita dall'esule Dott. Savelli nel distretto di Covacchiana, e dove viveva anche
il Nardi. Dante è un ragazzo, il primogenito del Dott. Savelli, del quale il Nardi era padrino.
L'individuo che aveva l'abitudine di andare ad Exoria a cavallo è Pietro Boccheciampe, che sbarcò
con i venti esuli, con l'intenzione di tradirli e di darli in mano del Governo Napoletano. Egli è figlio
di madre greca e di padre corso.
"Sono, o Signore, col massimo ossequio
Giuseppe Mazzini".
Milano, al primo soffio di libertà, sentì il dovere di invocare il nome dei fratelli Bandiera per bocca
di Mazzini. Egli scrisse, poichè gli fu impedito di pronunciarle, queste parole:
"La fede dei fratelli Bandiera, ch'era ed è tuttora la nostra, poggiava su poche verità semplici e
oggimai incontrastabili, che nessuno quasi s'attenta a dichiarare false, ma che pur sono in oggi
tradite o dimenticate dai più.
"Dio e il popolo: Dio al vertice dell'edificio sociale; il popolo, l'università dei nostri fratelli, alla
base. Dio, padre e educatore; il popolo interprete progressivo della sua legge.
"Non esiste società vera senza credenza comune e comune intento. La Religione dichiara la
credenza e l'intento, la Politica ordina la Società come tradizione pratica di quella credenza e
prepara i mezzi a raggiungere quell'intento. La religione rappresenta il principio: la politica,
l'applicazione.
"Non v'è che un sole nel cielo per tutta la terra: non c'è che una sola legge per tutti quelli che la
popolano. È la legge dell'ente umano, la legge di vita dell'Umanità. Noi siamo quaggiù, non per
esercitare a capriccio le nostre facoltà individuali - facoltà e libertà sono mezzi e non fine - non per
lavorare alla nostra felicità sulla terra e la felicità non può raggiungersi che altrove e Dio vi lavora
per noi; ma per consacrarci a scoprire quanta più parte possiamo della legge divina e praticarla
quanto le facoltà individuali e i tempi concedono, e diffonderne la conoscenza e l'amore tra i nostri
fratelli.
"Noi siamo quaggiù per lavorare a fondare fraternamente l'unità dell'umana famiglia, così ch'essa
non presenti un giorno che un solo ovile e un solo pastore, lo spirito di Dio, la legge.
"A raggiungere il Vero, Dio ci ha dato la tradizione, la vita dell'Umanità anteriore e il grido della
nostra coscienza. Dovunque l'una e l'altra consentano, ivi è il Vero; dovunque stanno a contrasti, è
l'Errore. A conquistare il consenso, l'accordo tra la coscienza dell'individuo e la coscienza dell'uman
genere, nessun sacrificio è soverchio. La famiglia, la città, la Patria, l'Umanità non sono che sfere
diverse, nelle quali devono esercitarsi, nell'intento supremo, l'attività nostra e la nostra potenza di
sacrificio. Dio veglia dall'alto a sancire l'inevitabilità dell'umano progresso, e a suscitare sacerdoti
del suo Vero e guida dei più nel viaggio, i potenti di Genio e d'Amore, di Pensiero e di Azione.
"Da questi principii, accennati nelle loro lettere, nei loro proclami, nei loro colloqui, dalla coscienza
profondamente sentita d'una missione fidata da Dio all'individuo e all'Umanità, Attilio ed Emilio
Bandiera e i loro compagni di martirio in Cosenza, derivavano norma e conforti alla vita
travagliatissima e serena; religiosa lietezza in morte, sicurtà di speranze immortali anche quando li
tradirono uomini e cose, sull'avvenire d'Italia. L'immensa energia dell'anima loro sgorgava
dall'immenso intensissimo amore che informava la loro credenza. E parmi che, s'essi potessero
sorgere or di sotterra e parlarvi, vi parlerebbero, o giovani, con ben altra potenza che a me non è
dato, consigli non dissimili da questi che oggi vi parlo...
"Adorate l'entusiasmo".
(1) Frammenti, dico, poi che la necessità di non trarre a pericolo uomini buoni o di non tradire
segreti da' quali può, quando che sia, escir benefizio al paese, mi costringerà sovente a mutilar
quelle lettere, Ma dove non militano quelle cagioni, io non ho stimato diritto mio di cancellare una
sola sillaba, anche dove quel senso di pudore ch'è ingenito in ogni uomo mi suggeriva di farlo. Le
lodi che a me si profondono nelle lettere dei due fratelli sono troppo apertamente immeritate da una
vita composta d'una serie d'aspirazioni senza potenza di tradurle in atti, perch'io, esecutore
testamentario, potessi, senza peccato, crearmi, sopprimendole, un merito di modestia. Ma in essi la
riverenza a un esule e all'espressione costante di certe credenze, non menomata pur dall'idea che la
costanza in esilio non frutta pericoli gravi, era indizio d'indole, ch'io non potrei cancellare, per
motivi individuali, senza rimorso. (Nota dell'Autore).
(2) Era figlio di Côrso, ma nato in Cefalonia, da madre cefaléna. (Nota dell'Autore).
(3) Sento tutta la gravità dell'accusa ch'io pubblico; ma questa mi sgorga da relazioni d'uomini
informatissimi, non sospetti, e a' quali l'accusato, prima ch'essi raccogliessero dati positivi, era
ignoto persin di nome. E nondimeno, io m'assumo fin d'ora l'obbligo, se potesse mai un giorno
scolparsi, di fargli ammenda onorevole, ritrattandomi pubblicamente com'oggi accuso. (Nota
dell'Autore).
(4) Operaio. Era zoppo. (Nota dell'Autore).
(5) Avrei vivamente desiderato trasmettere ai giovani il ritratto dei due fratelli, e ne ho fatto ricerca,
ma invano. Attilio era di statura piuttosto alta; magro nella persona; calvo. Serio nell'aspetto, grave
nei modi, pieno d'entusiasmo nel discorso, aveva del sacerdote nell'insieme: del sacerdote intendo
come un giorno sarà. Emilio era piccolo e tendente al pingue: di modi semplici e volgenti a lietezza
noncurante in ogni cosa che non toccasse che lui: d'indole indipendente, ma non col fratello ch'ei
adorava. - Inserisco in calce allo scritto i loro proclami. (N. d. A.).
(6) Uomo innoltrato negli anni, avvocato, e figlio del Nardi che fu per pochi giorni dittatore in
Modena nei moti del 1831. (N. d. A.).
(7) Rocca e Venerucci erano, come Miller, uomini del popolo, operai: rari per acutezza naturale
d'ingegno: d'aspetto gradevole: di condotta esemplare. Rocca era stato cameriere del poeta greco
Solomos, che lo trattava come un amico. Venerucci era fabbro espertissimo. S'erano ambedue negli
ultimi tempi adoperati con zelo, in una corsa che fecero nel Levante, per disbrigarsi d'alcuni debiti
anteriormente contratti, onde potersi cacciar nell'azione senz'alcun peso sull'anima e senza che
alcuno potesse lagnarsi di loro. (N. d. A.).
(8) Uomo d'armi incanutito nelle battaglie di Napoleone. (N. d. A.).
(9) Forse da questa circostanza, dall'avere i martiri venerato più Cristo che non il prete, venne il
rifiuto dato dai preti cattolici di Parigi ai nostri esuli, quando andarono a richiederli di celebrare
un'esequie il 2 novembre ai nove sagrificati. (N. d. A.).
(10) Tradotta qui dall'originale francese.
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