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Pietro Verri
Discorsi del conte Pietro Verri
dell'Instituto delle Scienze di Bologna
sull'indole del piacere e del dolore;
sulla felicità;
e sulla economia politica
riveduti ed accresciuti dall'autore
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Discorsi del conte Pietro Verri dell'Instituto delle Scienze di Bologna
sull'indole del piacere e del dolore; sulla felicità; e sulla economia politica
riveduti ed accresciuti dall'autore
AUTORE: Verri, Pietro
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Discorsi del conte Pietro Verri dell'Instituto delle Scienze di
Bologna sull'indole del piacere e del dolore; sulla felicità; e sulla economia
politica riveduti ed accresciuti dall'autore"
In Milano : presso Giuseppe Marelli, 1781
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 29 agosto 2004
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it
REVISIONE:
Pietro Lamberti, lamberti8@yahoo.it
PUBBLICATO DA:
Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it
Alberto Barberi, collaborare@liberliber.it
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DISCORSI
DEL CONTE
PIETRO VERRI
DELL
'
INSTITUTO DELLE SCIENZE DI BOLOGNA
Sull'indole del Piacere e del Dolore;
Sulla Felicità;
e sulla Economia Politica
Riveduti ed accresciuti dall'Autore.
I
N
M
ILANO PRESSO
G
IUSEPPE
M
ARELLI
M.DCC.LXXXI.
4
PREFAZIONE
Questi discorsi trovarono una fortunata accoglienza quando comparvero staccati l'uno dall'altro; Ora
gli ho nuovamente esaminati affine dì pubblicare un lavoro meno imperfetto.
Il Discorso sull'indole del piacere e del dolore sviluppa un sistema di cui se ne trovano i
semi in Platone. Quest'autore ci ha tramandato il ragionamento che tenne Socrate poich'ebbe
inghiottita la Cicuta. Vennero tolti i ceppi a Socrate, e quel filosofo strofinando la gamba al luogo
sul quale i ceppi avevano compresso e trovandone voluttà riflettè sul piacere cagionato dalla
cessazione del Dolore. Eccone le parole Socrates autem sedens in Lectica contraxit ad se crus,
manuque perfricuit atque inter fricandum sic inquit: quam mira videtur, o viri, hæc res esse quam
nominant homines voluptatem, quamque miro naturaliter se habet modo ad dolorem ipsum, qui ejus
contrarius esse videtur, quippe cum simul homini adesse nolint, attamen si quis prosequitur
capitque alterum, semper ferme alterum quoque accipere cogitur, quasi ex eodem vertice sint ambo
connexa. Arbitror quidem Æsopum si hæc animadvertisset fabulam suisse facturum: videlicet Deum
ipsum cum ipsa inter se pugnantia vellet conciliare, neque id facere posset, in unum saltem eorum
apices conjunxisse, proptereaque cuicumque adest alterum, eidem mox alterum quoque adesse:
quod quidem mihi accidit in præsentia. Siquidem modo crus propter vincula afficiebatur dolore, sed
huic succedere voluptas jam videtur così Marsilio Figino ci ha tradotto quel passo di Platone nel
Phædo vel de anima.
Anche più da vicino diede un cenno il mio Compatriota Gerolamo Cardano, uomo strano,
uomo visionario, ma di somma perspicacia d'ingegno. Egli nel libro de vita propria al Capo VI.
scrisse Fuit mihi mos (de quo plures admirabantur) ut causas doloris si non haberem quærerem, ut
dixi de podagra: unde plerumque causis morbificis obviam ibam (ut solum devitarem quantum
possem vigilias) quod arbitrarer voluptatem consistere in dolore præcedenti sedato. Egli è vero che
Cardano non si fa punto carico della celerità, con cui cessi il dolore (il che a mio sentimento è una
condizione essenziale al piacere) ma pure convien confessare che un chiaro indizio ci ha dato quello
Scrittore di non credere egli, essere il piacere cosa positiva.
Questa.opinione era parimenti di Montagne il quale nel secondo Tomo de' Saggi al libro
secondo Capo XII. dice Notre bien être n'est que la privation d'être mal.... car ce même
chatouillement & aiguisement qui se rencontre en certains plaisirs, & semble nous enlever au
dessus de la Santé simple & de l'indolence, cette volupté active, mouvante, & je ne scay comment
cuisante & mordante, celle mesme ne vise qu' à l'indolence comme à son but. L'appétit qui nous
ravit a l'accointance des femmes, il ne cherche qu' à chasser la peine que nous apporte le désir
ardent & furieux, & ne demande qu' à l'assouvir, & se loger en repos, & en l'exemption, de cette
fievre. Ainsi des autres. Da che si conosce come quell'amabile e profondo pensatore travide pure
che il solo principio delle azioni era il dolore, e che il piacere consiste nella cessazione d'un male.
L'esatto analizatore dell'animo, il luminoso genealogista delle nostre idee Giovanni Locke ha
chiaramente annunziato, che il solo dolore è il principio delle azioni umane, e dopo maturo esame si
è ritrattato sulla asserzione che la volontà sia determinata dal bene, eccone lo squarcio tolto dalla
traduzione del Sig. Coste Essai Philosophique concernant l'entendement humain Libro secondo De
la Puissance ivi al §. 31. leggesi Voyons presentement ce que c'est qui determine la volonté par
rapport à nos actions. Pour moi après avoir examinè la chose une seconde fois, je suis portè à
croire que ce qui determine la volonté à agir n'est pas le plus grand bien comme on le suppose
ordinairement, mais plutôt quelque inquietude actuelle, & pour l'ordinaire celle qui est la plus
pressante. C'est dis-je ce qui determine successivement la volonté, & nous porte à faire des
actions que nous faisons. Nous pouvons donner à cette inquietude le nom de desir qui est
effectivement une inquietude d'esprit causée par la privation de quelque bien absent. Toute douleur
du corps quelle qu'elle soit & tout mecontentement de l'esprit est une inquietude qu'on ressent, &
dont il peut à peine être, distingué. Car le defir n'etant que l'inquietude que cause le manque
d'un
:
bien absent par rapport à quelque douleur qu' on ressent actuellement le soulagement de cette
inquietude est ce bien absent, & jusqu'à ce qu'on obtienne ce soulagement ou cette quietude on peut
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donner à cette inquietude le nom de desir parce que personne ne sent de la douleur qui ne souhaîte
d'en être delivrè avec un desir proportionné à l'impression de cette douleur, & qui en est
inseparable. Mais outre le desir d'etre delivrè de la douleur il y a un autre desir d'un bien positif
qui est absent, & encore à cet egard le desir & l'inquietude sont dans une egale proportion, car
autant que nous desirons un bien absent, autant est grande l'inquietude que nous cause ce desir.....
Quiconque reflechit sur soi même trouvera bientot que le desir est un etat d'inquietude. Ed al
paragrafo 34. nuovamente conferma essere il solo dolore la cagione d'ogni nostro movimento
Lorsque l'homme est parfaitement satisfait de l'etat ou il est, ce qui arrive lorsqu' il est absolument
libre de toute inquietude; quel soin, quelle volonté lui peut-il rester que de continuer dans cet etat?
Il n'a visiblement autre chose à faire comme chaqu' un peut s'en convaincre par sa propre
experience. Ainsi nous voyons que le sage Auteur de notre Etre ayant egard à notre constitution, &
sachant ce qui determine notre volonté a mis dans les hommes l'incommoditè de la faim, & de la
soif & des autres defirs naturels qui reviennent dans leur tems afìn d'exciter & de determiner les
volontés a leur propre conservation & a la continuation de leur espece. Così pensava il saggio
Locke il quale al paragrafo 35. si discolpò per avere diversamente opinato nella prima edizione e si
ritrattò colle seguenti parole. C'est une maxime si fort etablie par le consentement general de tous
les hommes que c'est le bien & le plus grand bien qui determine la volonté que je ne suis nullement
surpris d'avoir supposé cela comme indubitable la premiere fois que je publiai mes penseés sur
cette matiere & je pense que bien des gens m'excuseront plutôt d'avoìr d'abord adopté cette
maxime, que de ce que je me hazarde presentement a m'eloigner d'une opinion si generalement
reçuë: cependant après une plus exacte recherche je me sens forcè de conclure que le bien, & le
plus grand bien, quoique ju& connu tel, ne determine point la volonté; à moins que venant à le
desirer d'une maniere proportionnée a son excellence ce desir ne nous rende inquiets de ce que
nous en sommes privés.
Anche un delicato ed elegante Italiano il Conte Lorenzo Magolotti conobbe che il piacere non
era una cosa affatto positiva e nella prima parte delle sue lettere familiari alla lettera 29. così si
esprime Io osservo che infino a un sapor buono, questo si trova (lasciatemi dire una parola, che
non credo d'aver detta da venticinque anni in qua) a parte rei; ma quel che si chiama delizia,
regalo, questo a mio credere, è un Ente di ragione, che ha tutta la sua fede nello spirito, che non è
uscito da quel che si mangia o si bee; e quel che più è mirabile non è neanche passato per l'organo
corporale, io ho detto che quell'Ente di ragione non è uscito da quel che si mangia o si bee; ora
aggiungo ch'ei non ha più che fare con uno, o coll'altro di essi di quel che abbian che fare i misteri
degli Egizi co' Simboli sotto i quali gli espresse la loro sacra Scrittura,. E fate vostro conto che
zampe di tordo abbrustolite alla fiamma della candela di cera, teste di beccacce spaccate e bruciate
sulla gratella, ostriche crude,
corna novelle di Daino, peducci d'orso, nidi di rondine della
Cocincina, Thè, Caffè, Ketchup, Cacciunde, e tant'altre strane adozioni della svogliata moderna
schalcheria sono appresso di me un Alfabeto di Jeroglifici adattati dai ghiotti mistici a
rappresentare alle loro menti alcuni gradì di squisitezza spirituale che può trovarsi cibi
materiali, può trasfondersi per la via de' sensi esterni. Del resto tanto hanno che fare tutte
queste cose con quelle varie specie di beatitudini che si eccitano nello spirito di chi le mangia
quanto ha che fare Iside coll'anno, lo sparviere coll'anima, il Cielo colla donna che fa figliuoli, il
Cinocefalo co' Caratteri o colla Luna. Che poi non sieno passati pe' sensì vedetelo da questa
riprova, che non può fallire, che la prima volta che tai cose s'assaggiano, o che se ne sente
discorrere come non si sia prevenuto ch'elle abbiano a esser delizie così pellegrine non piacciono a
nessuno. Ma gli spiriti un po' delicati sono suscettibilissimi della curiosità e della prevenzione, le
quali fanno che non si attende più il sapor della cosa, ma l'anima innamoratane a credenza le si fa
incontro, e prima che la specie del sapore nel suo essere naturale arrivi a toccarla, ella di lontano
asperge lei di quella dolcezza immaginaria di cui ha in se la vena, e poi accostandosele la sente
qual ella l'ha fatta non qual ell'era, e fruendo di se medesima sotto la sua immagine pensa fruir di
lei.... Questo non succede solamente ne' sapori, segue negli oggetti di tutti gli altri sensi ec.
Tutti questi cenni dimostrano che Platone, Cardano, Montagne, Locke e Magalotti hanno
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conosciuto che il piacere non è un essere positivo, anzi i primi dippiù scoprirono che il piacere altro
non è che una cessazione d'un male, e che il solo principio motore dell'uomo è il dolore. Io mi
lusingo d'avere data qualche luce a questa Teoria pubblicata colle stampe dell'Enciclopedia di
Livorno l'anno 1773., almeno le spontanee posteriori edizioni mi persuadono che non saranno per
dispiacere a' miei lettori le cure che nuovamente ho impiegate per dare un maggior finimento a
questo discorso nella presente edizione. Il prodigioso avvenimento de' quattro illustri secoli
d'Alessandro, d'Augusto, dei Medici, e di Luigi XIV. che fu un mistero, cessa di esserlo tosto che si
conosca essere spuntati que' secoli dai dolori e da così turbolenti governi che gli uomini ricevettero
le massime spinte per agire.
Il secondo discorso sulla felicità ha per oggetto un argomento comunissimo sul quale tanti e
tanti hanno scritto. Ei comparve stampato in Livorno l'anno 1763. sotto una mole più piccola, e la
fortuna che ritrovò mi ha fatto animo a rifonderlo e dargli una forma più estesa. Forse il solo merito
che hanno i miei scritti è quello che rappresentano le vere opinioni del loro autore e i veri suoi
sentimenti. Io penso che la sola virtù può farci godere quel poco di felicidi cui siamo capaci, e
che la sola coltura della mente può farci conoscere in ogni caso la strada della virtù. Queste verità
utilissime non gioveranno che poco a richiamare sulla strada della felicità gli uomini incalliti dalla
abitudine, o traviati per una funesta passione; ma assai possono giovare ai giovani, singolarmente in
prevenzione, per non essere affascinati da errori funesti e preservare il loro animo dalla illusione
che per lo più ci conduce all'affannosa miseria. Un uomo solo che meditando su queste tracce
giunga a sottrarsi dalle insidie dell'errore ed evitare la infelicità mi ricompensa caramente del mio
lavoro.
L'Economia Polìtica è il soggetto del terzo discorso il quale comparve stampato in Livorno l'anno
1771. Debbo mostrarmi grato al Sig. Giovanni Gravier che immediatamente lo ristampò in Napoli
con espressioni che mi onorano; in Genova dalla stamperia dello Scionico ne comparve la terza
edizione pure nel 1771. Il Galeazzi in Milano volle ristamparlo la quarta volta. Vorrei potere
annoverare fralle edizioni anche quella fatta in Venezia da Giambattista Pasquali all'insegna della
Felicità delle lettere, ma il pubblico giudizio non ha applaudito a quelle note che con inusitato
metodo volle innestare al testo d'un autore vivente. In fatti nella bellissima versione Francese che
comparve a Losanna l'anno 1773. dalla officina del Sig. Giulio Enrico Pott l'elegante e dotto
traduttore, che mi ha fatto moltissimo onore anche nel suo discorso preliminare, non ha creduto
d'affaticarsi nella versione delle note. Lo stesso è accaduto nella versione Tedesca pubblicata in
Dresda nella stamperia Walter l'anno 1774. Quindi ho creduto che nella edizione che ora faccio
convenisse l'omettere quanto nella sesta edizione fatta in Livorno dalla stamperia dell'Enciclopedia
credetti di aggiugnere a schiarimento maggiore delle poco giudiziose note colle quali venni
corredato alla Felicità delle lettere. Ho ripassate le mie idee a nuovo esame e in parte dati alcuni
tocchi onde mi lusingo che possano essere soddisfatti i miei lettori.
L'Economia Politica è la materia più vasta de' delirj di chiunque, è una specie di medicina
Empirica che serve d'argomento ai discorsi ed agli scritti anche più inetti e potrebbe essere la facoltà
di chi volesse insegnare senza possedere facoltà alcuna. In questo campo io pure sono entrato, ma il
metodo tenuto da me non è simile a quello che comunemente è stato di norma a molti autori. Essi
dall'ozio tranquillo del loro gabinetto formandosi idee attratte sopra del commercio, della Finanza, e
d'ogni genere d'industria, mancando di ajuti per esaminare gli elementi delle cose, sopra ipotesi anzi
che sopra fatti conosciuti hanno innalzate le loro speculazioni. Il mio ingegno è stato più lento. Ho
impiegato varj anni a conoscere i fatti: Le commissioni colle quali la clemenza del Sovrano mi ha
onorato me ne hanno somministrato i mezzi. Quasi tutte le idee mie hanno cominciato coll'essere
idee semplici e particolari, poi coll'occasione di esaminare oggetti reali accozzate, disputate,
contraddette si sono andate componendo, e le generali idee sono emanate poi dopo una lunga
combinazione di elementi conosciuti. Questo metodo non ha il merito certamente di essere il più
breve il meno penoso, ma a lui solo credo di essere debitore della onorevole accoglienza che è
stata fatta a questa serie d'idee le quali le trovo vere e riducibili ad esecuzione anche oggidì come le
trovai dieci anni fa nel pubblicarle la prima volta. Vorrei essere collocato fra gli autori buoni; ma
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ambisco ancora di più l'essere conosciuto un buon Cittadino. Felice quel Popolo da cui
comunemente fi ragiona della Virtù, e le di cui dispute familiari hanno per oggetto i mezzi che
producono la felicità dello Stato.
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INTRODUZIONE.
La sensibilità dell'uomo, il grande arcano, al quale è stata ridotta come a generale principio
ogni azione della fisica sopra di noi, si divide, e scompone in due elementi, e sono amor del piacere
e fuga del dolore: tale almeno è la comune opinione degli uomini pensatori e maestri. Ognuno
conosce e sente quanta influenza abbiano il piacere e il dolore nel determinare le azioni umane; la
speranza, il desiderio, il bisogno del primo; il timore, lo spavento, l'orrore del secondo, danno il
moto a tutte le nostre passioni. Tutti gli amatori delle belle arti sanno, che il loro scopo parimente è
il piacere, col quale allettano altrui a ben accogliere e l'utile, e il vero. I tentativi adunque destinati a
conoscerne l'indole, a illuminare questi primordiali oggetti, sono meritevoli di qualche attenzione.
Se fra le tenebre, ove sta riposta la parte preziosa dell'uomo, che si cela all'uomo medesimo, ci fosse
possibile carpire una nozione esatta del piacere, e del dolore, una precisa definizione, che ce ne
palesasse la vera essenza, si sarebbe fatto un passo importantissimo, e sarebbesi acquistata una
generalissima e utilissima teoria applicabile alla liberale eloquenza, alla seduttrice poesia, alle
bell'arti tutte e all'uso comune della vita medesima, perchè ci darebbe la norma, e ci additerebbe i
mezzi, onde potere colle attrattive di lui rendere le azioni degli uomini cospiranti alla nostra felicità.
Fra i molti filosofi, che della natura del piacere hanno scritto dopo l'epoca della ristorazione
delle lettere, si distinguono singolarmente le opinioni di Des Cartes, del Wolf, e del signor Sulzer. Il
primo fa consistere il piacere nella coscienza di qualche nostra perfezione: il secondo nel
sentimento della perfezione: il terzo nell'avidità dell'anima per la produzione delle sue idee. Sia
però detto colla venerazione dovuta al merito di questi autori, queste definizioni mancano e di
chiarezza, e di precisione. Il piacere di spegnere la sete, il piacere di riposarsi dopo la stanchezza e
una infinita schiera di piaceri singolarmente fisici ci fanno sentire una perfezione qualunque,
meno poi hanno relazione veruna coll'avidità dell'anima per produrre le sue idee. Da ciò
chiaramente si vede non essersi in tal modo definito il piacere. Ma ne' tempi a noi più vicini sopra di
ogni altro ha acquistata fama il signor di Maupertuis. Ci propose egli una definizione del piacere.
L'organizzazione geometrica ch'egli diè alla sua tesi, sommamente preparò gli animi alla
persuasione; e sebbene alcuni gli abbiano fatto contrasto, nondimeno prevalse la fama di lui su
quella degli oppositori. Egli così definì il piacere: il piacere è una sensazione che l'uomo vuol
piuttosto avere, che non avere. Questa però non è altrimenti una definizione, se ben vi si rifletta;
sarebbe la stessa cosa il dire che il piacere è quel che piace: asserzione egualmente evidente quanto
superflua, essendo che da essa non ci viene veruna idea generale di proprietà stabilmente inerente a
ogni sensazione del piacere. La simmetria artificiosa delle parole ha sedotti molti Lettori, che di
essa contenti accettarono una parafrasi per una definizione.
Ogni uomo ha un'idea esatta del dolore, e del piacere, ed ogni uomo è giudice competente di
quello, che eccita in lui la sensazione, che gli è aggradevole, o disgustosa; ma non così ogni uomo
ha la ostinata curiosità di scomporre gli elementi, che formano le proprie sensazioni, e rintracciare
quale sia la proprietà comune a tante e sì variate sensazioni, che sono piacevoli, e a tante e sì variate
che sono dolorose. Questo è quello che penso io di fare; e se per ventura potritrovare questa
proprietà, che sempre ha seco il piacere, e senza di cui non si può questo sentire, dirò d'aver
mostrata la definizione di esso, e di averne spolpata l'idea, e ridotta alla nuda precisione.
Questa ricerca per medesima spinosa forse mi può condurre all'errore. Forse la
immaginazione mi farà traviare, lo temo io stesso; pure tentiamo. I varj tasti, sui quali debbo porre
le dita, forse desteranno qualche idea nuova ne' miei lettori; lampeggierà forse fra questo bujo
qualche utile vista, sebbene ancor io non riesca al mio fine. Sono ben augurati sempre gli scritti, che
fanno ripiegar l'uomo in medesimo, e l'obbligano a rendersi un esatto conto di ciò che sente.
L'esame attento dei fenomeni interni è lo specchio della filosofia e della morale umana. Quanto p
l'uomo s'abitua a scorrere nei labirinti della propria sensibilità, quanto più si rende amico di se
medesimo, tanto migliora, perchè tanto più teme le inconseguenze e i rimorsi. Quindi le ricerche
che si fanno fra queste tenebre, quand'anche non giungano alla verità, possono paragonarsi ai lavori
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degli alchimisti, i quali traviando dallo scopo, hanno però, strada facendo, ritrovati non solo gli utili
rimedj, ma altresì le preparazioni chimiche più fortunate.
§. II.
Dei piaceri, e dei dolori fisici, e morali.
Tutte le nostre sensazioni si dividono i due classi, e le chiamerò sensazioni fisiche e sensazioni
morali. Chiamo sensazione fisica quella, l'origine di cui si vede cagionata da una immediata azione
sulla nostra macchina. Chiamo sensazione morale ogni altra, in cui questa immediata azione non si
conosca.
Il dolore che nasce da una lacerazione o irritazione violenta del corpo nostro, si chiama un
dolor fisico; una forte percossa, un taglio, un abbruciamento cagionano un dolore fisico. Quando
per lo contrario si calma la irritazione, nascono i piaceri fisici; così, dopo un disastroso viaggio
d'inverno un letto tepido e molle, dopo una sobria ed affannosa caccia una mensa delicata, sono
piaceri fisici: dolori, e piaceri cagionati da un'immediata azione sulla nostra macchina.
L'annunzio della morte d'una persona, che ci è cara, l'annunzio della rovina della fortuna
nostra, e de' beni nostri ci tormentano dolorosissimamente. Qual è la cagione di questo dolore? Noi
non ne vediamo l'azione immediata sugli organi nostri, perciò si ripongono nella classe de' dolori
morali. Medesimamente la notizia d'una inaspettata eredità, d'una carica luminosa, d'una amicizia
acquistata e desiderata da noi, ci risveglia un piacere vivissimo, senza che compaia alcun oggetto
applicato agli organi della nostra sensibilità; quindi vengono chiamati piaceri morali.
Ai piaceri, e dolori fisici ogni uomo anche rozzo e selvaggio è sensibile; ai piaceri, e dolori
morali tanto più l'uomo è sensibile, quanto è più dirozzato dalla educazione, cioè quanto è maggiore
la folla delle idee, che ha aggiunte alla propria esistenza. Noi osserviamo anche nelle intere nazioni
della diversità su tal proposito; i popoli più inciviliti sono più sensibili alla gloria e al disprezzo; i
popoli ancora più rozzi lo sono alle percosse, e alla mercede. I piaceri, e dolori morali sono tanto
maggiori, quanto maggiore è il numero dei bisogni, e delle relazioni, che un uomo sente d'avere
cogli altri.
Per conoscere questa verità esamino attentamente me stesso. Se nel momento, in cui mi si
annunzia la morte di un mio dolcissimo amico, io potessi essere certo, che dopo brevi istanti la di
lui memoria non esisterà più nel mio animo, più mi risovverrò di averlo conosciuto; se avessi,
dico, questa certezza, il mio dolore sarebbe semplicemente la compassione del male altrui;
sentimento, il quale preso isolato fors'anco non consiste che nel fremito di alcune parti unisone della
nostra sensibilità. Quel che cagiona la desolazione, e lo squallore ov'io piombo, si è che in quel
momento prevedo quante volte avd'avanti agli occhi l'immagine della perdita fatta; sento in quel
momento la trista solitudine, che mi si apre davanti, e il paragone che ne farò col bene avuto, nelle
mie afflizioni non avrò più un fedele compagno, a cui senza timore manifestarmi, e riceverne
consiglio, e assistenza; negli avvenimenti felici non vedrò più quella gioja dell'amicizia che
moltiplica la felicità, comunicandola. Dove trovare chi s'interessi meco ne' delirj della mia
immaginazione, e che per uniformità di genio avendo meco comune la curiosità di scoprire il vero,
mi accompagni; dove troverò più un essere tanto grato, tanto sensibile, che mi consolava ad ogni
atto di amicizia che io usassi seco, dolce di carattere, robustissimo nella onestà, attivo, discreto,
nobile? Così mi vado col pensiero spignendo sulla serie delle dolorose sensazioni che mi aspettano,
e su quel primo momento contemporaneamente pesando tutt'i momenti del dolor preveduto, resto
immerso nella più crudele amarezza. Questo dolor morale nasce dalla riunione de' fantasmi, che
occupano la mia mente, onde la parte più nobile di me stesso, appoggiando sul passato, e
sull'avvenire, più che sul momento attuale, e paragonando i due modi di esistere, tutta inviluppata
nel timore dei mali preveduti s'immerge in un dolore morale.
Mi ripongo in una opposta situazione. Mi figuro che mi venga l'annunzio d'una luminosa
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carica ottenuta. Se io potessi dimenticarmi del passato, se io non mi slanciassi nell'avvenire, la
novella recatami riuscirebbe insipida, e il mio animo non sentirebbe niuna sensazione piacevole. Ma
si affacciano alla mia mente le ingiustizie, l'orgoglio, la fredda indifferenza, che hanno mostrato per
me alcuni uomini insolenti per la loro carica sin tanto che restai disarmato e senza potere; mi spingo
nell'avvenire, e li prevedo cambiati; mi trovava nell'impossibilità d’acquistarmi l'opinione pubblica,
eccomi il campo aperto per guadagnarmela; ho in faccia degli amici che potrò coi beneficj rendere
agiati, e sempre più ben affetti; gli emoli, o riconciliati o ridotti all'impotenza di nuocere; tutto
questo ridente spettacolo mi si spalanca allo sguardo: tutte le sensazioni, alle quali vado incontro,
già in parte mormorano nel mio interno; il giubilo, la consolazione invadono tutta la mia sensibilità;
sono immerso in un voluttuosissimo piacer morale, perchè, poco o nulla pesando sul momento
presente, tutto mi appoggio sul passato e sull'avvenire.
Questi due esempj generalmente convengono a tutt'i dolori morali, a tutt'i piaceri morali.
Essi non si risentono se non in quel momento, in cui l'animo dimentico quasi del presente si
risovviene e prevede; e a misura che o teme, o spera, sente o dolore, o piacere. Se questo è vero, ne
scaturisce un teorema generalissimo. Tutte le sensazioni nostre piacevoli, o dolorose, dipendono da
tre soli principj: azione immediata sugli organi, speranza e timore. Il primo principio cagiona tutte
le sensazioni fisiche; gli altri due le sensazioni morali.
Scelgasi un piacere morale ancora più nobile e puro; figuriamoci un geometra nel momento,
in cui per un fortunato accozzamento di idee ha carpito lo scioglimento d'un problema arduissimo e
importantissimo. Qual sarebbe la gioja di quel geometra, se egli vivesse in un'isola disabitata, sicuro
che nessun uomo potrà mai sapere la scoperta da lui fatta? A me pare che poca o nessuna
consolazione ne proverebbe; o se qualche ombra ne risentisse, ciò verrebbe perchè da quella verità
ne sperasse di cavarne o un uso pratico per viverne più agiatamente, ovvero maggiore attuazione a
svilupparne in seguito una catena di altre curiose verità, e guadagnare così una occupazione, che lo
sottragga alla inazione insipida della sua vita solitaria. Il piacere adunque del matematico, quello
che lo fa nudo balzare dal bagno, e scorrere pieno d'entusiasmo per la città, si è la speranza de'
piaceri che in avvenire aspetta e dalla stima degli uomini, e dai beneficj che dovrà riceverne. Per ciò
dico che tutt'i piaceri morali, come tutt'i dolori morali, altro non sono che un impulso del nostro
animo nell'avvenire: cioè timore e speranza.
Un dolore morale de' più sublimi nella sfera degli umani sarà quello che sente un cuor nobile
e generoso, qualora per disgrazia o acciecato da una violenta passione, ovvero per inavvertenza
abbia mancato di gratitudine a un virtuoso suo benefattore. Analizziamo i sentimenti dolorosi che lo
affliggono. Egli teme il disprezzo, o almeno la diminuzione di stima degli uomini, e confusamente
nell'avvenire scorrendo, se ne anticipa i mali; egli diffida di medesimo, e sente la probabilità
accresciuta di poter di nuovo in avvenire coprirsi di simili macchie, e sempre più veder diminuita
l'opinione dei buoni; ei prevede che per quanto sia generoso il suo benefattore, non potrà in
avvenire stare in sua presenza così tranquillo e sereno, come vi stava in prima. Tutta questa nebbia
gli offusca la serie delle sensazioni che si vede avanti, e quand'anche sul momento non le analizzi a
medesimo, ma confusamente col solo vocabolo di rimorso annunzi il dolor che soffre, quest'è
pure un semplice timore delle sensazioni avvenire.
Tutte le applicazioni, che ho fatte di questo principio, le quali se avessi a riferirle, darebbero
troppa uniformità, e tedio, ricadono costantemente al medesimo risultato, che tutt'i piaceri e dolori
morali nascono dalla speranza e dal timore.
Tutti i piaceri morali, che nascono dalla stessa umana virtù, altro non sono che uno
spignimento dell'animo nostro nell'avvenire, antivedendo le sensazioni piacevoli che aspettiamo.
Abbiamo un illustre cittadino in Italia, il quale essendo sovrano tranquillo della sua patria, preferì la
raffinata ambizione di vivere immortale nella gratitudine e memoria de' suoi, alla volgare di
comandare agli uomini nel corso della sua vita: rinunziò la sovranità, ristabilì la repubblica, si fece
suddito delle leggi, subordinato ai giudici. Quale azione più grande, più virtuosa, più disinteressata!
Silla l'aveva già fatta in prima ma Silla grondante di sangue romano, usurpatore violento d'un potere
arbitrario, Silla, di cui la tirannia fra gli sgherri e le stragi aveva immolate tante vittime, non poteva
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sperare che venisse mai guardato come un atto di virtù il momento, in cui per lassitudine terminava
la orribile serie de' suoi delitti. L'immortale autore, che lo fa parlare con Eucrate, innalza quel feroce
al livello della sua grand'anima; ma la storia di quegli orrori non lascia luogo a immaginarselo
somigliante al ritratto. Andrea Doria per grandezza d'animo, per vera elevazione di genio virtuoso,
pieno di gloria, nel punto in cui abdicando la sovranità diventò cittadino, e molto più ne' momenti,
in cui prevedendo quest'atto, vi si andava disponendo, ha provato certamente i piaceri morali più
sereni ed energici. Si slanciava egli nell'avvenire, e diceva a stesso: sulla faccia de' miei
concittadini leggerò scritta la riverenza e la gratitudine unita alla meraviglia; attraverso del timido
rispetto, che i sudditi presentano al sovrano, rare volte traspirano i veri sentimenti del cuore;
toglierò quest'ostacolo, e goderò di sentimenti spontanei. Non sarà certamente minore la mia
influenza negli affari pubblici dopo una generosa abdicazione, ed ogni adesione sarà per me così
dolce, come se ogni volta mi proclamassero sovrano; regnando anche felicemente, potrebbe essere
eclissata la mia gloria da altri più felici successori; ma osando render forti al par di me i cittadini, e
stabilendo una repubblica, rimarrà isolata la mia gloria, e s'innalzerà alla veduta ne' secoli più
remoti. L'affetto, la spontanea sommessione, l'ammirazione, la fama; tutt'i beni, che queste seco
portano, gli sperava, e li vedeva di fronte, quando si apparecchiava all'atto generoso, e così la
speranza era la sorgente di tutti quei piaceri morali.
L'uomo fedele alle sue promesse, grato ai beneficj, attivo nel consolare e aiutare gli uomini,
disinteressato, nobile, guardingo a non nuocere sia coi fatti, sia colle parole più trascorrevoli, e
talvolta più fatali, ogni volta che un nuovo atto rinfianca i suoi principj, prevede di rendere se stesso
sempre più forte coll'abitudine al bene, e di confermare e cimentare sempre più la opinione
pubblica, e singolarmente la stima degli uomini buoni; quindi in ogni atto virtuoso che fa, sente
diminuito un grado alla possibilità di perdere questi beni, e accresciuto un grado alla speranza delle
sensazioni piacevoli che se gli affacciano. Il piacer morale di lui sarà sempre più forte, quanto più
diffiderà della perseveranza, e quanto sarà più incerto e timoroso sulla opinione altrui.
O io m'inganno, oppure questa teoria è costante, siccome ho detto, che tutt'i piaceri
egualmente come tutt'i dolori morali nascono dal timore, e dalla speranza, in guisa tale che, se
potesse darsi un uomo incapace di temere o di sperare, questi non potrebbe avere che soli piaceri, e
dolori fisici; come vediamo appunto accader ne' bambini, i quali sprovveduti d'idee, e altro non
avendo che gli organi disposti a ricevere le impressioni, tanto meno corredati di memoria, quanto
più è vicino il momento, in cui cominciarono ad essere; incapaci di grandi paragoni, o numerose
combinazioni, non sentendo nè speranza, nè timore, unicamente in preda ai dolori e ai piaceri fisici,
non cominciano a gustare i morali se non a misura che gli anni, e l'esperienza insegnano loro l'arte
di sentire per antivedenza. Il senso morale che si acquista se non allor quando col seguito d'una
lunga serie di sensazioni accumulatasi una folla d'idee, giugne l'uomo a conoscere la successione di
diversi modi di esistere, onde si sviluppano nell'animo i due risultati speranza, e timore. Sinchè ciò
non si è fatto coll'opera del tempo, l'uomo altre sensazioni non potrà avere, come dissi, se non che le
fisiche, le quali sono modi di esistere isolati, prodotti dalla momentanea passività degli organi,
bastante ad eccitare il movimento dell'animo.
In fatti, se attentamente esamineremo lo sviluppamento, che per gradi fa l'animo d'un
fanciullo, vedremo che la vergogna, la compassione, il pentimento, come l'ambizione, l'invidia,
l'avidità, l'entusiasmo, i germi insomma delle virtù, e dei vizj, col lungo tratto di tempo soltanto, e
dopo aver fatto un grande ammasso d'idee, si vedono schiudere e sviluppare. Di che il profondo
Giovanni Locke trovò già una felice dimostrazione.
§. III.
Il piacere morale è sempre preceduto da un dolore.
Dunque il piacer morale nasce dalla speranza. Cos'è speranza? Ella è la probabilità di esistere
meglio di quello che ora esisto. Dunque speranza suppone mancanza sentita d'un bene. Dunque
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suppone un male attuale, un difetto alla nostra felicità. Dunque non posso avere un piacere morale
se non supponendomi previamente un male; che tale debb'essere un difetto, una mancanza sentita
alla mia felicità.
Analizziamo tranquillamente le sensazioni d'un sovrano; esso pare agli occhi d'ognuno il
centro de' piaceri, e conseguentemente a chi ricerca di scoprir l'indole de' piaceri è un oggetto
particolarmente degno di osservazione. Figuriamoci un monarca assoluto padrone d'un vastissimo
regno, temuto e rispettato dai vicini, glorioso presso le nazioni, amato, venerato da' suoi sudditi;
sarebbe nella infelicità tristissima di non poter gustare verun piacere morale, se potesse essere
persuaso che l'amore, il rispetto, l'entusiasmo del suo popolo non sono suscettibili d'un grado di più,
e se non temesse di perdere il godimento di questi beni. Un monarca, che fosse immortale,
impassibile, e sicuro possessore di questi beni, sarebbe il solo uomo sulla terra, al quale nessun
altr’uomo potrebbe mai portare verun fausto annunzio. La sola sorgente per lui dei piaceri morali,
benchè languidi e scoloriti, sarebbe la sua noja medesima. Gli oggetti, che gli facessero sperare di
sottrarsi da quella letargica uniformità, gli darebbero un momento di languidissimo piacere. Così il
romore d'una caccia, l'armonia, la pompa, le passioni, il ridicolo d'un teatro, facendogli sperare una
preda, e interessandolo nei sentimenti degli attori, e appropriandosi le loro speranze, possono trarlo
ad una esistenza meno noiosa. Egli otterrà che per qualche ora in seguito la sua mente sia occupata
d'idee meno uniformi; quindi ne nascerà un qualche piacer morale. Ma a questo stato non può
giunger mai un monarca. Egli non può mai esser sicuro dai mali fisici, dolori, malattie, morte;
nemmeno può aver egli l'evidenza degl'intimi sentimenti di ciascun del suo popolo; quindi ha
sempre nel suo animo de' principj dolorosi di timore, i quali possono dar luogo al nascimento della
consolatrice speranza. Altra sorgente di piacere ha un buon monarca, ed è quel ben augurato
principio di umana benevolenza, deliziosa occupazione d'un ottimo principe, che esercitando la più
invidiabile parte del suo potere, cioè adoperando i mezzi, onde si diminuisce la miseria d'un gran
numero d'uomini, con questa sublime facoltà moltiplica le benedizioni, e i voti del suo popolo,
dilatando la pubblica felicità, facendo regnare la giustizia, la fede, la virtù, l'abbondanza nel suo
popolo. Il bisogno, che sente d'avere dei voti pubblici, bisogno inquieto e doloroso per sè stesso, ma
sorgente delle più nobili azioni sconosciuta ai tiranni, il bisogno, dico, di questi voti gli rende
deliziose tutte le prove di fiducia, di benevolenza, di entusiasmo, che va ricevendo dai pubblici
applausi. Ogni giorno più vede egli assicurarsi in favor suo quella pubblica opinione, che dirige la
forza. Ei vede gradatamente rendersi sempre più cospiranti a lui le azioni di ciascun cittadino; vede
che s'ei dovrà adoperar l'impeto di fuori, concorreranno a gara i suoi popoli a rinforzarne gli
eserciti; si mira già alla testa di una armata invincibile di entusiasti. Pensa egli a un grandioso
monumento, a un'opera di pubblica utilità? Quanto egli è più amato, e più possede la opinione, tanto
si spianano davanti a lui le difficoltà tutte. Egli sicuro passeggerà in mezzo al suo popolo, qualora
voglia spogliarsi della importuna, ma forse a tempo necessaria pomposa maestà. Tutti questi
sublimi e consolanti oggetti scuotono la fantasia d'un saggio monarca a misura che egli vi si occupa
nel procurare la felicità pubblica; e la speranza di conseguire e di rassodare il possesso di questi
beni è un vivissimo piacere, che lo rende beato; piacere non invidiato perchè poco conosciuto,
mentre la turba, paga della corteccia degli oggetti, incautamente invidia quel pesantissimo corredo
della maestà, e quelle insipide prosternazioni, e quei titoli, ai quali per lunga età avvezzo un sovrano
non può essere sensibile; e quand'anche talvolta se ne avveda, non sarà per ciò che ne ritragga verun
piacere morale, perchè ciò non gli fa cessare alcun dolore, gli seda un timore, o gli desta alcuna
speranza.
Un sovrano al primo ascendere che fa sul trono, e singolarmente un elettivo, il quale colla
sua educazione non si poteva aspettare il regno, può essere lusingato dagli atti esterni di omaggio,
perchè ciascuno di essi gli annunzia, e gli ricorda ch'egli è veramente sovrano nel tempo, in cui non
ancora abituato per una lunga serie di sensazioni a persuadersi pienamente d'esser tale, ha sempre
nei ripostiglj del cuore un resto di dubbio sulla sua nuova condizione, ed ogni atto, che annienti
questo dubbio è sempre un grado, che si aggiunge alla speranza dei beni, ch'ei vede uniti alla
sovranità; ma tanto è lontano che questi invidiati omaggi possano piacere, acquistata che ne sia
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l'abitudine, che anzi io credo che ogni sovrano, quando potesse essere certo che il popolo fosse per
venerarlo e ubbidirlo senza l'esterno apparato, che percuota i sensi, volentieri se ne spoglierebbe.
Ogni illuminato sovrano, quando conosca che l'uomo, al quale parla, veramente lo onora e rispetta,
ed è pronto a ubbidire, sommamente si compiace, se altronde lo vede libero e ingenuo manifestargli
i suoi sentimenti; e talora si rallegra e gode, se essendo egli mal conosciuto, taluno lo tratti con
popolare dimestichezza, e con eguaglianza da uomo a uomo.
Per lo contrario gli uomini ambiziosi posti in dignità meno sicure, e delle quali il potere sia
più soggetto alle instabili vicende di fortuna, sono assai più animati nel difendere i contrassegni
esterni di onore convenienti alla lor carica, perchè la lor condizione è precaria e dipendente dal
beneplacito sovrano. Le cariche più luminose hanno sempre degli emoli, e ben di raro si può
tranquillamente riposare sulla costanza di tal destino. Questa inquietudine che sta più o meno
sempre riposta nel loro cuore, si diminuisce ogni volta che scorgono atti di stima, di subordinazione,
e di attaccamento; poichè o sono essi sinceri e provano il voto pubblico in favore, o sono esterne
apparenze soltanto, e queste almeno provano che siam temuti; conseguentemente che è forte il
nostro partito. Questi atti aggiungono un momento di speranza sulla durata del potere, anzi
sull'accrescimento. Per lo contrario quegli atti di famigliarità, e di cittadinesca ingenuità, che
rallegrano un monarca, con maggior difficoltà rallegreranno un ministro, perchè il primo non teme
di perdere la dignità, di diventare uomo comune; l'altro lo teme, può trovarsi bene in un
dialogo, che anche per breve spazio lo trasporta in uno stato temuto.
Questi pensieri in generale si verificano; nel fatto però vi sono delle eccezioni. Se un
sovrano temerà di perdere il trono, non sarà più in questo caso. Se un ministro, bastantemente
filosofo per saper viver bene anche senza impieghi pubblici, si presta per principio di virtù al bene
del sovrano, e dello stato; s'egli consapevole de' proprj servigj e della illuminata rettitudine del
sovrano placidamente eseguirà gli ufficj del suo ministero, potrà diventare insensibile ai fasci ed ai
littori, che lo precedono, e conservando quell'esterior decoro, che esige la scena ch'ei rappresenta su
questo teatro, essere esente nel fondo del cuore da quella inquietudine, che comunemente ne risente
l'umanità posta in simili circostanze.
O si esamini adunque l'uomo in privata condizione, ovvero si esamini ne' pubblici impieghi,
sempre si verifica che il piacere morale non va mai disgiunto dalla cessazione d'un dolor morale;
giacchè, come si è detto, piacer morale è sempre accompagnato dalla speranza di esistere meglio di
quello che ora esistiamo. Dunque prima che nasca il piacere morale, dobbiamo sentire un difetto;
una cosa, che manca al nostro ben essere, è sentire un difetto alla nostra felicità, è una sensazione
spiacevole e dolorosa; dunque il piacer morale è sempre accompagnato dalla cessazione di un male,
giacchè quand'anche sia tenue la speranza, ed ella non diminuisca se non di pochi gradi la
sensazione disgustosa, che portiam con noi, quella quantità diminuita è altrettanto male che cessa,
alla quale quantità è paragonabile il piacer morale.
§. IV.
Il piacere morale non è altro che una rapida cessazione di dolore.
perciò abbiamo ancora trovata la vera definizione del piacer morale; perchè sebbene il piacer
morale sia sempre accompagnato dalla cessazion del dolore, che presuppone, non pe ogni
cessazion di dolore produce un piacer morale. Sia per esempio: un cuore sensibile ama teneramente
la virtuosa sua sposa; la dolce abitudine di convivere, la uniformità di sentimenti, la bondel suo
carattere, tutto fa che in lei ritrovi la felicità de' suoi giorni: una feroce malattia sopravviene alla
sposa, e la precipita ai confini della morte. Facile è lo immaginarsi quale strazio crudelissimo soffre
il cuore dello sposo; ognuno accorderà che questo sia uno de' più violenti dolori morali. Giunto al
colmo il malore con gradi tardi ed insensibili, passa dall'imminente pericolo ad acquistare alcuna
speranza di ore, poi di giorni, poi non è affatto disperatissimo il caso; indi appare un piccol raggio
di speranza che gradatamente e lentamente si va rinforzando, sin tanto che si passa a una lunga
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convalescenza, indi alla sanità. Supponiamo che senza salto veruno, ma attraversando tutti gli stadi
intermedj, che non si possono esprimere gradatamente colle voci, le quali in ogni lingua
caratterizzano unicamente i modi principali e decisi, il dolor morale dello sposo sia cessato. In
questo caso il sommo dolore s'andò insensibilmente mitigando, si rese poi sopportabile, indi
leggiero, sin tanto che placidamente passò alla calma, senza che in un solo istante l'animo dello
sposo abbia provato un piacer morale. Figuriamoci ora lo sposo medesimo nel punto, in cui per una
falsa voce piange la perduta sua sposa, e nel momento della sua maggior desolazione si spalancano
le porte, entra la sposa inaspettatamente ilare e sana, che si scaglia fralle sue braccia; forse non avrà
robustezza bastante nella fibra per resistere alla violenza del piacere; pochi piaceri morali possono
essere paragonabili alla delizia di questo. L'istesso uomo nelle due supposizioni passa dal sommo
timore al non temere; l'istessa persona nei due casi da un dolore cocentissimo passa alla cessazion
del dolore. Perchè mai nel primo caso non provò egli nessun piacere, e vivissimo lo provò nel
secondo? Ne' due casi dall'istesso dolore passò il di lui animo alla cessazione del dolore; come
dunque nasce il piacere? Nel primo non ebbe piacere, perchè la cessazione fu lenta: nel secondo
caso ebbe un piacer sommo, perchè la cessazione del dolore fu rapida. Se ciò è, abbiamo la
definizione dei piaceri morali, e sono una rapida cessazione di dolore.
Dei dolori morali, che insensibilmente si annientano senza sentimento di piacere, ne
abbiamo una schiera assai grande, e sono tutti quelli che il tempo solo fa cessare. Lo stesso sposo
detto poc'anzi rimane vedovo. Uno squallido universo gli si apre davanti, non ha pace, non la spera,
non è più sensibile che al dolore, e a quel dolore solo, non prevede più alcun bene nella sua vita.
Dopo alcuni anni il dolore è diventato una memoria tenera, ma non tormentosa. Si è annientato il
tormento senza che nell'annientarsi sia nato verun piacere morale, perchè appunto lentamente e per
gradi si è estinto.
Il piacere nasce adunque dal dolore, e consiste nella rapida cessazione del dolore; ed è tanto
maggiore, quanto lo fu il dolore, e più rapido l'annientamento di esso. Quanto più si diminuisce la
rapidità, di tanto viene a scemarsi la sensazione piacevole nella energia. Sin tanto che la cessazione
si farà a salti sensibili, l'uomo proverà tanti piaceri, quante sono esse cessazioni; e interamente sarà
svanito ogni piacere, allorquando cesseranno i salti, e lentamente calmandosi il dolore, toccherà
l'uomo tutti gli stadi intermedj con pausa di tempo.
Pare che tutta la serie delle sensazioni morali adunque corrisponda ai modi possibili di
esistere concepiti da noi. Nella nostra fantasia dopo che la sperienza ci ha ammaestrati dei modi
diversi, ne' quali possiamo esistere, e delle diverse affezioni delle quali possiamo essere occupati, si
dipinge come una scala di questi diversi modi, e considerando sempre la nostra attual situazione
lontana dalle due estremidel sommo bene, e del mal sommo, ci resta che temere e che sperare;
quindi prevedendo una prossima discesa a un genere peggiore di vita, ci addoloriamo, e antivedendo
la probabilità di ascendere a una vita migliore, speriamo, e ne abbiamo piacere. Che se la nostra
attuale condizione potesse da noi considerarsi giunta o all'estremità del sommo bene, ovvero a
quella della somma miseria, allora non vi sarebbe alcuna sensazione morale possibile per noi,
perchè la somma infelicità esclude ogni speranza, il sommo bene esclude ogni timore, e così gli
uomini sono appunto sensibili alle affezioni morali, perchè si conoscono lontani dalle due estremità.
Le sensazioni nostre morali sono adunque relative allo stato in cui ci troviamo, a quello a cui
prevediamo di dover passare. Un determinato modo di esistere non è per se stesso nè un bene, nè un
male; sarà un bene per chi da una vita peggiore vi ascenderà, e all'incontro sarà un male per chi vi
decada da una vita migliore. Quanto maggiori sono i salti, e quanto più sono rapidi, tanto è più
energica la sensazione. Il voluttuoso, il molle Orazio sarebbe stato consolatissimo, se avesse potuto
diventar collega di Mecenate; ma l'ambizioso, l'accorto Ottavio se avesse dovuto discendere al
grado di Mecenate, avrebbe trovato quella situazione la più tormentosa a soffrirsi.
Se i piaceri morali nascono da una rapida cessazione di dolore, ne viene in conseguenza che
quanto meno un uomo è suscettibile dei dolori morali, tanto meno lo sia dei piaceri; ed all'opposto
quanto più l'uomo è in preda ai dolori morali, tanto più lo troviamo sensibile ai piaceri. Una nazione
colta e vivace, in cui i sentimenti dell'onore, della gloria, e della virtù sieno diffusi sopra un buon
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numero d'uomini sarà molto sensibile alla cortesia, alla officiosa urbanità, alla lode; ivi l'uomo
ragionevole, e bene educato potrà vincere l'amor proprio altrui, e cederanno l'ire e le ostilità al dolce
solletico della lode, e ai contrassegni esterni di onore, e di stima. Per lo contrario, presso un popolo
che sia meno colto, dove i bisogni fisici, e l'immediata azione de' sensi tengano tuttavia più
occupata la parte principale della sensibilità, dove mancando la folla delle idee combinate e astratte,
rimanga l'anima più oziosa ad accorrere alle più immediate sensazioni, ivi troveremo che o nessuno,
o tenuissimo sentimento faranno nascere i più raffinati ufficj, e nessuna, o scarsissima voluttà
produrranno le lodi, e i contrassegni del sentimento di stima. Il selvaggio non ha il dolor morale
d'essere trascurato e confuso nella folla degli uomini, perciò non ha piacere d'essere distinto; l'uomo
incivilito soffre gli stimoli dell'ambizione, ha dolore pensando di valer poco, di dover essere
nascosto tutto entro la tomba; perciò sente il piacer morale della lode, ed ogni volta che può
lusingarsi di valere, d'essere distinto, considerato, onorato, prova voluttuosissime sensazioni. Lo
stesso principio distingue la sensibilità dell'uomo virtuoso da quella del malvagio. Due sono le
sorgenti della umana virtù, e sono il bisogno della stima generale, e la compassione. L'uomo
virtuoso soffre continuamente per questi due principi, teme la volubilità delle opinioni, teme che o
l'artificio, o il caso possano involargli la buona fama, non è mai bastantemente contento del grado a
cui ella si trova, teme la umana dimenticanza; mosso da tutti questi dolori morali, è spinto a
continue azioni di virtù umana, cioè di quella, che ha per oggetto la gloria, la lode, il sentimento del
valor proprio, e della propria eccellenza. La compassione, altro principio meno imperioso, ma più
benefico, fa patire all'animo buono parte de' mali altrui, e il dolor morale, che nasce da questa
disposizione, porta l'uomo a liberare gli altri dai malori e dalle sventure che soffrono. Per lo
contrario l'uomo incallito nel mal costume, insensibile ai mali morali, indifferente alla buona o
cattiva riputazione, freddo e immobile spettatore delle altrui smanie, perchè minori dolori morali
soffre, anche minori piaceri morali può provare.
Se poi sgraziatamente troverassi impegnato nella strada del vizio un cuore originariamente
buono e sensibile, lo stato di lui sarà degno di somma compassione; e perciò tormentato da
cocentissimi dolori morali, sarà capace di voluttuosissimi piaceri morali. Egli soffre il crudelissimo
peso d'una coscienza, che ad ogni momento lo avvilisce; quai beni può mai godere in pace quel
miserabile che legge scritto in fronte agli uomini illuminati e buoni il disprezzo, e la diffidenza; che
in ogni sguardo teme un rimprovero, in ogni arcano la scoperta di qualche sua bassezza; che gode
precariamente la buona opinione di alcuni sedotti, e la conserva con una laboriosissima sagacità di
finzioni e con una intricata tessitura di artificj, e sa che al primo momento in cui gli cadesse la
maschera, farebbe orrore? Se quest'uomo, che di sua indole è straniero alla iniquità, con uno slancio
felice carpirà il momento per fare una generosa azione, o se mutando clima, e trasportato ove la
memoria de' suoi mali non giunga, si disporrà a cominciare una serie di azioni nobili e virtuose, egli
tanto maggiori piaceri morali proverà, quanto più furono austeri i tormenti, che il vizio gli pose
intorno al cuore; gli sembrerà di respirare un'aria più dolce e leggiera, il sole avrà per lui una più
ridente faccia, gli oggetti che gli si presenteranno, gli daranno nuove e grate sensazioni, tutta la
natura sarà abbellita per lui singolarmente al principio della sua onorata vita.
Non però i piaceri morali che produce la virtù, sono, o possono costantemente essere tali,
che disobblighino gli uomini dal ricompensare l'uomo, che la pratica. Sono lusinghiere le
apparenze, sotto le quali alcuni filosofi rappresentarono l'uomo virtuoso, quasi che nella coscienza
propria ei debba ritrovare la voluttà sempre pronta, qualunque sia lo stato di vita o di fortuna, sano o
infermo, propizia o avversa; e ravvisarono la virtù sotto l'idea platonica di premio a sè stessa. Felice
immaginazione, se fosse atta a riscuotere gli uomini e guidarli sulle tracce di lei! Ma l'abitudine a
ben operare diminuisce nel cuor dell'uomo il dolor morale del timore della fama, e a proporzione
vanno illanguidendo i piaceri morali, che vi corrispondono. Alcuni semiviziosi, vedendo l'uomo
virtuoso assediato dalla gelosia, e dall'invidia degli emuli, amareggiato, e contraddetto,
s'immaginano ch'ei trovi perfettamente ogni consolazione nel suo cuore, e soffocano in tal guisa il
desiderio spontaneo di recargli ajuto. L'uomo virtuoso sente l'ingiustizia, di cui è la vittima; sente la
debolezza propria contro il numero che l'opprime. Quindi il virtuoso, il forte Bruto, inzuppato della
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idea della virtù di Platone, dopo averla esattamente seguita nelle azioni, ritrovandosi il cuore
oppresso da affanni, proruppe chiamandola un sogno; non già pentendosi di averla seguita, non già
negando l'esistenza di lei, ma unicamente confessando la chimera di chi s'immaginò, che la
tranquilla serenità d'un'anima virtuosa, che la beatitudine di occupare medesima della coscienza
propria potessero preservare la mente, e il cuore dai dolori, dalle amarezze e da quel cumulo di
mali, che l'avversa fortuna precipita indistintamente sugli uomini. La giustizia perciò del
grand'Essere ha riservato a medesima la distribuzione del premio alla virtù, che non può essere
bastantemente ricompensata nè dal sentimento proprio, nè dalla mercede degli uomini.
§. V.
La maggior parte de' dolori morali nasce da un nostro errore.
Quantunque però io creda che la virtù stessa non basti a rendere perfettamente felice l'uomo in terra,
dico che l'uomo virtuoso a circostanze eguali sarà più felice dell'uomo malvagio. Dico di più che se
l'uomo potesse avere i sentimenti sempre subordinati alla ragione, sarebbe certamente meno
soggetto ai dolori morali di quello ch'egli è. Ogni dolor morale è semplice timore. Questo dolore è
una mera aspettazione d'un d'un dolore contingibile. Quando siam tormentati da un dolor morale,
altro male non soffriamo in quel momento fuorchè il timore di soffrirne; questo timore spesse volte
è chimerico, e sempre ha un grado di probabilità contro la sua ventura realizzazione; può dunque
colla ragione o togliersi, o almeno scemarsi, o almeno, vistane l'inutilità di soffrirlo, procurarsene la
distrazione. Quanto maggiori progressi facciamo nella vera filosofia, tanto più ci liberiamo da
questi mali. Sia per esempio: prendo un ambizioso nel momento in cui gli viene l'annunzio, che una
carica da lui ansiosamente desiderata, e quasi certamente aspettata, dal principe vien conferita a un
suo rivale. Ecco l'ambizioso nello squallore, nell'abbattimento, immerso in un profondo dolor
morale. Un freddo ragionatore s'accosta a lui: che fai, uomo desolato e oppresso (gli dice), perchè ti
abbandoni così a un vago, e forse chimerico timore? Che temi? Quasi nol sai, confusamente tu
prevedi di dover viver male. Ma quai mali prevedi? Gli uomini non avranno per te quei riguardi che
tu vorresti, ti stimeranno meno, sarai men ricco? Calmati, e per poco almeno esamina questo timore
a parte a parte, non prenderlo tutto in massa. Gli uomini ti mancheran di riguardi? Qualche inchino
meno profondo, qualche adulazione di meno non è una perdita da farti disperare; se ambisci i
riguardi degli uomini illuminati, essi non saran cambiati per te. Gli uomini ti stimeranno meno?
Non già gl'illuminati; per il restante hai perduta qualche curvità negli inchini, e qualche bassezza di
chi mendicava il tuo favore? Non è poi grande lo scapito. Sarai men ricco? Tutt'i mali che
vagamente temi, forse si riducono a salariare due o tre sfaccendati di meno, a nutrire due o tre
parassiti di meno alla tua tavola. La tua sanità, la robustezza de' tuoi anni, il concetto della tua
probità, delle tue cognizioni, tutto ciò rimane intatto presso gli uomini ragionevoli, i quali sanno
quanta parte abbia il caso nella distribuzione degli ufficj su di questo teatro del mondo; ti resta con
che nutrirti, alloggiare, vestirti decentemente. Se un chirurgo dovesse farti soffrire una dolorosa
operazione, compatirei il tuo affanno prevedendola; ma se non puoi esser pretore, o tribuno della
plebe, o console, sii cittadino, sii ragionevole, non ti turbare per una chimera. Il freddo ragionatore
ha una ragione così evidente, che quasi non resta più luogo a compatire l'ambizioso, se continua a
delirare fralle tenebre d'un avvenire chimerico. Pure lo compatirà quell'umano filosofo, che sa
quanta distanza vi sia dalla convinzione al vero sentimento.
Obblighiamo il ricco avaro ad analizzare egualmente il suo dolor morale per una porzione
del suo denaro, che gli venga tolta. Obblighiamo l'amante che scopre infedele e sconoscente la sua
amica, e così andiam dicendo della maggior parte degli uomini appassionati, e conseguentemente
più capaci di dolori morali, e troveremo che la maggior parte delle volte si addolorano per chimere
sognate, e si ingrandiscono le larve d'un avvenire, al quale giugnendo poi, non si trovan male,
come previdero. Se dunque i sentimenti nostri potessero essere sempre posti al prisma della ragione,
e analizzarsi, una gran folla di dolori morali verrebbe ad annientarsi per noi, e faremmo come quel
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Cinico, il quale scoprendo che comodamente potea ber l'acqua nella cavità della sua mano, gittò il
bicchiere come un peso inutile nel suo fardello. Ma la previsione dei mali è talmente nebbiosa e
tumultuaria nell'uomo appassionato, che non dà luogo sittosto a sminuzzarli uno ad uno; anzi
quantunque talvolta ci avvediamo, che il dolor nostro è una mera apprensione di dolori possibili, o
probabili, sendo questi tanto vagamente e scontornatamente dipinti alla fantasia, non possiamo
conoscerli, apprezzarli con distinzione; ma ci rattristano per le tenebre medesime, che in parte li
involgono, e questo sconoscimento accresce in noi la diffidenza di superarli.
Un'altra difficoltà incontra l'uomo per uniformare ai dettami della tranquilla ragione tutt'i
suoi sentimenti, ed è questa, che difficilmente possiamo noi stessi ritrovar l'origine e la genesi di
molti de' sentimenti nostri: è come un fiume di cui propriamente non sai indicare qual sia la prima
sorgente, poichè lo formano mille piccoli, divisi, e lontani ruscelletti, i quali si frammischiano col
discendere; così i sentimenti sono conseguenze di tante, e varie, e mischiate idee in tempi
diversi, e successivamente avute, si chè la mente umana si smarrisce e si perde rintracciando i capi
di tanti piccolissimi e intralciatissimi fili che ordiscono la massa d'una passione; e come d'un fiume
non puoi toccare con sicurezza il punto onde comincia, così nemmeno esattamente puoi toccare il
più delle volte l'idea primordiale, da cui nasce un sentimento.
Se però tutt'i dolori morali, la maggior parte di essi è sperabile di prevenirli coll'uso
della sola umana ragione, ella è però cosa certa che varj possono da quella essere scemati, come
dissi. L'uomo selvaggio ha pochissimi dolori morali; l'uomo incivilito ne acquista in gran copia;
l'uomo, che perfeziona l'incivilimento addestrando la sua ragione, e applicandola alle azioni della
vita costantemente quanto si può, torna, riguardo ai dolori morali, ad accostarsi al selvaggio. Così
quale nelle scienze dall'ignoranza si comincia, e all'ignoranza si ritorna, passata che siasi la
mediocrità; tale nella coltura si parte dalla tranquillità, si va al tumulto, e da quello progredendo si
avvicina di nuovo alla tranquillità.
§. VI.
Sviluppamento della teoria dei piaceri, e dei dolori morali.
Sinchè un uomo però è capace dei due sentimenti motori, timore, e speranza, è soggetto ai dolori, ed
ai piaceri morali. Questo modo di sentire, assente l'oggetto esterno, è un fenomeno, che dipende
interamente da quell'ignota parte di noi, che chiamasi memoria, parte di me, che agisce sopra di me,
che tien luogo di oggetto esterno, che da sè eccita moti e passioni, che essendo io paziente, opera in
me, mio malgrado talvolta, e forma essa sola quel me, quell'io, che consiste nella coscienza delle
mie idee; quest'enigma della mia propria essenza tanto umiliante, questa memoria è la produttrice di
ogni mio piacere, o dolor morale, poichè non si danno questi se non per la speranza, o pel timore; nè
speranza, o timore senza idee dei beni, e dei mali; nè queste senza averli provati e risovvenirsene.
Come mai, quando la fantasia ci rende presente l'aspetto de' mali futuri e ci agita il timore,
nasce in noi la sensazion del dolore? Questo è un mistero, che l'autore dell'universo non ha
conceduto all'uomo di penetrare. La cagione delle sensazioni nostre è talmente oscura che l'ingegno
dispera di rintracciarla giammai. Quando un ferro rovente a caso si accosti alle mie membra, risento
un dolor fisico: so che allora ivi si lacera, e si scompone la mia macchina, so che risento dolore; ma
qual relazione abbiano questa lacerazione, e questo scompaginamento colla mia sensazione del
dolore, non lo so. Se non intendo questa relazione, se non distinguo gli anelli di quella catena, che
unisce la fisica lacerazione colla sensazione dolorosa, quantunque una delle due estremità sia da me
conosciuta, come mai spererò di conoscere e distinguere gli anelli di quell'altra catena, che comincia
dall'immagine presentata dalla memoria, e termina alla sensazione? In questo secondo caso non
conosco l'una, l'altra delle due estremità. Forse la memoria quando è vivacissima, e chiamasi
fantasia, cagiona una irritazione nelle parti più interne della mia macchina. Il pallore, l'ansietà del
respiro, il precipitoso battere delle arterie, il tremore delle membra, la torbidezza dello sguardo, che
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accompagnano la sola viva apprensione del male senza alcuna fisica azione esterna attuale, possono
far credere probabilmente uno scompaginamento interno prodotto da quella stessa facoltà di
ricordarci, che è la sorgente della maggior parte de' beni, come de' mali della vita. Ma in questa
materia non si può cautamente ragionare se non col forse.
Dirà taluno, è vero che ogni piacer morale consiste nella rapida cessazion del dolore; ma
egualmente potrà dirsi che ogni dolor morale consiste nella rapida cessazion di un piacere. Ma a ciò
rispondo, che una simile generazione reciproca non si può dare; e per conoscere che ciò non si può,
basti il riflettere che se ciò fosse, non potrebbe l'uomo cominciar mai a sentire piacere, dolor
morale; altrimenti la prima delle due sensazioni di questo genere sarebbe e non sarebbe la prima in
questa ipotesi, il che è un assurdo. Eccone la prova. Dopo il momento in cui l'uomo ha ricevuto la
vita, vi deve essere un primo piacer morale, e un primo dolor morale. Supponiamo noi che la prima
di queste due sensazioni sia un piacere? Se questo consiste nella rapida cessazione di un dolore, è
stato preceduto dunque da un dolore; dunque al sensazion del piacere non è stata la prima.
Supponiamo noi in vece, che la prima sensazione sia stata un dolore? Se fosse vero che questo
consistesse nella rapida cessazion d'un piacere, il dolor pure non sarebbe stato la prima sensazione.
Dunque evidentemente si conclude non esser possibile quest'alternativa essenziale generazione; e se
il piacer morale consiste nella rapida cessazione d'un dolore, ne viene per conseguenza sicura che il
dolor morale non può consistere nella rapida cessazione del piacere, perchè il primo piacer morale
che ha sentito l'uomo, sarà nato dalla distruzione rapida di un dolore che non è stato preceduto da
verun piacere. Dunque o l'una, nè l'altra di queste generazioni è vera, oppure se una di esse è
vera, l'altra è impossibile. Se dunque concludentemente si prova che il piacer morale sia una
cessazione rapida di un dolore, ne verrà per conseguenza che il dolor morale non può consistere in
una cessazione rapida di un piacere.
Il signor di Maupertuis ha voluto calcolare i piaceri, e i dolori, e il risultato, che ne scaturisce
al paragone, si è che la somma totale dei secondi eccede; onde valutata l'intensione e la durata delle
affezioni dell'animo nostro, più pesano le disgustose che le amabili, e più soffriamo di quel che
godiamo, qualunque sia la condizione e fortuna nostra nel corso della vita. Questa conseguenza, che
ogni uomo trova pur troppo vera nella serie delle umane vicende, scaturisce, almeno per le
sensazioni morali, dalla stessa definizione, che abbiam ritrovata del piacere. Questo è una rapida
cessazion di dolore; questo non può mai essere una quantità maggiore di quella, che ha fatta
cessare; può essere assai più energico, perchè concentrato in pochi istanti; ma la somma totale
distesa per lo spazio di tempo in cui si è sofferto il dolore, che rapidamente è ceduto, non può esser
minore dell'effetto. Ogni piacer morale, che si gode, suppone una quantità uguale per lo meno di
dolore, che si è sofferto; sin qui potrebbero essere bilanciate le due quantità. Ma tutt'i dolori, che
non terminano rapidamente, sono una quantità di male, che nella sensibilità umana non trova
compenso, ed in ogni uomo si danno delle sensazioni dolorose, che cedono lentamente. Dunque se è
vera la definizione già data al piacer morale, di necessità deve l'uomo più soffrire che godere nella
serie delle sensazioni morali.
Un'altra conseguenza scaturisce da questo principio, ed è che non può l'uomo sentire due
piaceri morali contigui, se il primo almeno non è frammisto a qualche porzion di dolore; poiche il
secondo piacere consistendo nella cessazion rapida di un dolore, forzche questo coesistesse col
piacer primo. Quindi due piaceri perfetti di seguito nella serie delle sensazioni morali saranno
impossibili a darsi, ma necessariamente dovrà interporvisi un dolore, la di cui rapida cessazione
cagioni il secondo; ed ecco perchè la felicità vera e depurata da ogni male non possa fisicamente
essere uno stato durevole nell'uomo nemmen per poco, ma appena per brevissimi intervalli ne vegga
dei lampi per ripiombare ben tosto nel desiderio animatore di riaccostarsi a quella seducente
immagine, di cui sollecito e ansante va in cerca durante lo spazio della sua vita. È una verità
malinconica, ma egualmente costante, che l'uomo può essere occupato da un seguito non interrotto
di dolori, e discendere per lungo tratto di tempo verso la infelicità senz'altro limite che la stupidità,
o la morte; perchè uno scompaginamento, una lacerazione, una distensione ne' nostri organi non
esclude una successiva nuova lacerazione, scompaginamento, e distensione: laddove sebbene possa
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succedere a un piacer frammisto con molto dolore una nuova cessazione rapida di altra parte di
dolore, e così un piacere meno amareggiato, sin tanto che si giunga a un momento di felicità; questa
scala però nell'ascendere non può essere tanto lunga, quanto lo è quella della discesa. In fatti il
dolore o morale, o fisico può occupare miseramente un uomo per più giorni senza lasciargli
intervallo, o pace bastante per chiudere gli occhi al sonno; ma nessuna serie di piaceri vi sarà, che
basti a tenere occupato piacevolmente un uomo più giorni senza che il sonno, la lassitudine, la
sazietà l'abbiano interrotta. Non v'è piacere o morale, o fisico, il quale non s'annienti nell'animo
nostro alla sensazione d'un forte mal di capo, o di denti. Ecco perchè l'immaginazione d'ogni uomo
facilmente può figurarsi un cumulo di mali, e uno stato durevole di pene, e di assoluta miseria; e per
lo contrario non può nemmeno nel liberissimo regno della nostra immaginazione dipingersi uno
stato di vita sempre giocondo e felice, libero da ogni noja, e da ogni sazietà. Ecco perchè le
descrizioni del Tartaro riescono sempre più colorite, e verosimili di quelle dell'Eliso, le quali dopo
inutili sforzi compaiono stentate e fredde, quand'anche sien fatte da uomini dotati di somma
immaginazione. La religione può sola consolarci a vista di queste tristi verità; essa ci assicura di un
tempo, in cui modificatasi altrimenti la sensibilità nostra, saremo capaci d'una serie non interrotta di
purissimi piaceri, della quale frattanto portiamo inerente a noi stessi il desiderio.
§. VII.
Dei piaceri, e dei dolori fisici.
Ho ragionato sin ora dei piaceri, e dolori morali, e di questi credo d'aver ritrovata l'indole, e la
definizione, dicendo essere i primi una rapida cessazion di dolore, e i secondi un timore; resta ora
che entriamo nella medesima analisi su i piaceri, e dolori fisici, affine di conoscere se essi sieno
d'uguale, o d'indole diversa dei morali.
Ogni lacerazione, che si faccia di un corpo vivente o col ferro, o col fuoco, ovvero colla
compressione, cagiona quel sentimento, che esprimiamo colla parola dolore. I gradi poi di
intensione differente hanno fatto inventare le parole irritazione, incomodo, pena, smania, spasimo e
desolazione, colle quali s'indica il dolore a misura che dalla più debole azione passa ai modi più
forti e violenti, giunto ai quali distrugge la sensibilità medesima, e l'annienta colla vita. Tale è la
cagione di ogni dolore fisico, che sempre nasce da una lacerazione o sulle esterne, ovvero sulle parti
interne del nostro corpo; giacchè anche la semplice compressione, o stiramento delle parti sensibili,
sebbene non sempre lasci dopo di sè la cicatrice visibile della lacerazione, non può comprendersi se
non immaginando una separazione violenta di alcune parti della organizzazione. Sin qui mi pare di
appoggiarmi al vero, e di poter affermare, il dolor fisico esser sempre cagionato da una lacerazione,
e distacco delle parti sensibili; ma come questa lacerazione produca in me dolore, come questo porti
e noi, e gli animali tutti alla fuga, al moto, alle grida, questo è l'arcano, che io dispero di giammai
conoscere. Il Sig. di Maupertuis mi ha detto che il dolore è una sensazione, che dispiace di avere, e
lo saprei da me stesso, come ognuno lo sa; ma non per questo siamo noi avanzati punto nel labirinto
della sensibilità. Giunto che io sia a conoscere che la lacerazione, e separazione di una parte
sensibile produce il dolor fisico, e che questo non si dà senza di quella, io non ho più guida per fare
un passo sicuro avanti; allora rimango abbandonato alla immaginazione; essa mi fa parere che la
sensibilità nostra si raggruppi, per così dire, e si condensi tutta intorno alla parte del corpo nostro,
che soffre lacerazione: sembra che il dolore sia un rannicchiamento forzato del nostro animo, e che
la gioja che gli succede, qualora cessi rapidamente, sia una espansione dell'animo istesso che
ripiglia il suo elatere, e si dilata sugli oggetti più rimoti. Sembra ancora che una tale condensazione
della nostra sensibilità non si faccia al momento, ma con prevenzione, e apparecchio: soffriamo
assai più dolore per un piccol taglio fattoci da un chirurgo, di quello che ne proviamo se una spada
improvvisamente ci trapassi il corpo; nel primo caso la lacerazione sarà minima e per lo spazio, e
per la finezza dell'acciaio, e ci dogliamo, mentre appena ci accorgiamo nel secondo d'essere feriti.
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Ciò m'induce a credere che per ammassare me stesso in una data parte del mio corpo, e trasportarvi
la sede della mia sensibilità, e attentamente esaminare quanto ivi accaderà, conviene che in prima io
ne sia avvisato; altrimenti diramando l'animo nostro una sensibilità eguale su tutto il nostro corpo,
quella sola porzione di sensibilità è colpita nelle lacerazioni impensate, che trovavasi al luogo, in
cui seguì la distrazione; e questa, se però basta a renderci quasi indifferenti i colpi non antiveduti,
basta altresì ad avvisarci del danno accaduto, e condensarci poi d'intorno ad esso per una disgraziata
attrazione, che ci rende più cocente il dolore. Ma queste immagini non sono appoggiate a fatti, o a
sperienze tali da renderne contento un pensatore. Tale è la condizione nostra, che dei movimenti,
che succedono in noi medesimi quando ci troviamo ridotti all'ultima analisi, mancano i mezzi e gli
stromenti per separare gli elementi, e le fila originarie. Abbandoniamo perciò il pensiero di
conoscerne l'essenza, e accontentiamoci di sapere che il dolor fisico è un sentimento cagionato dalla
lacerazione delle parti sensibili.
L'istessa impenetrabile nebbia sta intorno al sentimento del piacere; non ne cerchiamo
l'intima essenza; ma per accostarci al mistero, che lo racchiude, io considero che una gran parte de'
piaceri fisici consiste in una rapida cessazione di dolore. Arso dalla sete dopo lungo cammino fatto
ai cocenti raggi del sole nella calda stagione, dopo averla sofferta per lungo tempo, e cercato
inutilmente ristoro, trovo finalmente una fresca soavissima bevanda; in quel momento provo un
piacer fisico assai sensibile, e questo facilmente si vede cagionato dalla rapida cessazion del dolore.
Affamato trovo una lauta cena; tanto ne è maggiore la delizia, quanto più forte la fame sofferta, e
questo piacer fisico è pure una rapida cessazion di dolore. Oppresso dalla stanchezza trovo un letto
agiato; intirizzito dal freddo, vengo trasportato a un tepido ambiente. Questi sono piaceri vivissimi,
piaceri fisici, cioè cagionati da una visibile azione sugli organi, e sono piaceri consistenti nella
rapida cessazion del dolore. Se ben si rifletta, si troverà che la maggior parte dei piaceri fisici è di
questo genere, e che evidentemente si conosce consister essi in una rapida cessazion di dolore.
Molti oggetti si osservano con tranquillità da un anatomico; molte idee si analizzano senza
tumulto di passione da un curioso investigatore de' principj; ma talvolta il risultato pericolosamente
si presenterebbe nell'estrema sua semplicità all'esame del pubblico. L'uomo curioso di meditare, che
leggerà queste mia ricerche, non mi vorrà rimproverare ogni omissione; e qualche applicazione
negligentata non farà presso di lui pregiudizio alla teoria.
Talvolta l'uomo anche senza avvedersene risveglia in medesimo delle sensazioni
inquietissime e penosissime unicamente per sentirle rapidamente cessare. Forse l'uso di quella polve
caustica, che sogliamo fiutare; forse l'uso che alcuni fanno masticando un'erba disgustosa e
sozzamente preparata; forse l'abituazione a riempirsi la bocca col fumo d'un vegetabile stimolante,
l'uso della senape nelle vivande, e simili, sono stati introdotti per questo principio. Molti uomini
protraggono il passeggio, o il ballo sino alla stanchezza per sentirla rapidamente cessare
adagiandosi. Questa classe di piaceri procuratisi da noi colla volontaria creazione d'un previo
dolore, non sono tanto circoscritti, quanto sembrerebbe al primo aspetto.
Se dunque tutt'i piaceri morali, e una gran parte dei piaceri fisici consistono nella rapida
cessazion di dolore, la probabilità, l'analogia ci portano a credere che generalmente tutte le
sensazioni piacevoli consistano in una rapida cessazion di dolore. Quello che più d'ogni altra cosa
mi persuade, si è il riflettere che molte volte l'uomo ha dei dolori; ma avendo essi la lor sede in
qualche parte dell'organizzazione meno esattamente sensibile, soffre bensì, ma non sempre sa
render conto a stesso del principio che lo fa soffrire, e dalla cessazione rapida di quel dolore
innominato ne nascon dei piaceri, dei quali la sorgente esattamente non si conosce. In prova di ciò
si rifletta ai diversi nostri modi di sentire. Le parti del nostro corpo più abituate al tatto quando
sieno offese da qualche corpo estrinseco, danno una sensazione decisa, per cui ci accorgiamo
precisamente della azione che si fa sopra di noi. Le parti per lo contrario meno abituate al tatto,
quando vengono esposte all'azione di un corpo estraneo, ci producono una sensazione più muta e
incerta; e sebben distinguiamo se sia dolorosa, o piacevole, non però finitamente conosciamo qual
precisa azione si faccia sopra di noi. Per esempio: se alla parte interna delle dita un corpo mi
cagionerà dolore, io distinguerò esattamente se sia per troppo freddo, o troppo caldo, se tagliente, se
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pungente; distinguerò se il dolore, che soffro, venga da pressione, da division di parti, da
lacerazione, ec. Ma se la medesima azione si farà sopra un piede, ovvero sopra un braccio, parti
meno esercitate al tatto, l'uomo sentirà un dolore, ma esattamente non saprà se vengagli fatta
pressione, o lacerazione ec. Progredendo in questo esame io trovo che le parti interne della nostra
organizzazione sono sensibili alle azioni dei corpi, che possono ferirle, lacerarle, o irritarle: ma
essendo esse più di rado toccate, ancora più muta e indecisa ne risulta la sensazione. Un dolor di
capo suppone certamente qualche irritazione interna sugli organi; ma qual è il punto preciso che
duole? Il dolore è egli una puntura? È egli una distensione? È egli una pressione? Nol so. Duole il
capo, l'uomo sta male, ma precisamente non può nominare il luogo, il punto, in cui succede lo
sconcerto. I dolori alle viscere sono dell'istessa natura: vagamente si può dire presso a poco in
questo spazio sento il dolore; ma non se ne può con precisione indicare il luogo, o la qualità
dell'azione che ci fa soffrire. Il dolor de' denti medesimo, per quanto sia crudele e violento, talvolta
è incerto a segno che indichiamo un dente sano come sede del dolore, il quale realmente risedeva
nel dente vicino cariato, e fattovi più attento esame, chi lo soffre se ne avvede. Caccade perchè,
come dissi, le parti di noi meno avvezze al tatto ci cagionano sempre delle sensazioni annebbiate ed
equivoche. In fatti che altro significano queste parole tedio, noja, inquietudine, malinconia, se non
un modo di esistere doloroso senza che ci accorgiamo di qual natura sia, o in qual parte di noi la
sede del dolore? Ciò posto io rifletto che ogni uomo ha quasi sempre seco qualche dolore di questa
natura, perchè ogni uomo ha qualche fisico difetto nella sua macchina; per esempio: qualche viscere
sproporzionatamente grande, o angusto; qualche corpo estraneo o nel fiele, o ne' reni, ec. Un
anatomico avrebbe di che troppo contristare un lettore con la serie de' mali, che può aver l'uomo
entro di senza avvedersene; mali, i quali ci cagionano dei vaghi e innominati dolori, cioè dolori,
che più o meno ogni uomo soffre senza esattamente distinguerne la cagione, e sono questi dolori
innominati, dolori non forti, non decisi, ma che ci rendono addolorati senza darci un'idea locale di
dolore, e formano vagamente , ma realmente il nostro mal essere, l'uneasiness, conosciuta dal
pensatore Giovanni Locke. Questi dolori innominati sono a parer mio la vera cagione di quei dolori
fisici, i quali a primo aspetto sembrano i più indipendenti dalla cessazion del dolore.
§. VIII.
I piaceri delle belle arti nascono dai dolori innominati.
La musica, la pittura, la poesia, tutte le belle arti hanno per base i dolori innominati in guisa
tale che, se io non erro, se gli uomini fossero perfettamente sani e allegri, non sarebbero nate mai le
belle arti. Questi mali sono la sorgente di tutti i piaceri più delicati della vita. Esaminiamo in fatti
l'uomo nel momento in cui è veramente allegro, contento, e vivace, e lo troveremo insensibile alla
musica, alla pittura, alla poesia, e ad ogni bell'arte, ammeno che la precedente abituazione
meccanicamente non lo porti a riflettervi, ovvero la vanità di mostrarsi sensibile non lo renda
ipocrita in quel momento. L'uomo vigoroso, che ha la contentezza nel cuore, è nel punto il più
rimoto dalla sensibilità: questa s'accresce col sentimento della nostra debolezza, dei nostri bisogni,
dei nostri timori. Un uomo, che abbia della tristezza, s'egli avrà l'orecchio sensibile all'armonia,
gusterà con delizia la melodia d'un bel concerto, s'intenerirà, si sentirà un dolce tumulto di affetti,
godrà un piacer fisico reale, cioè sarà rapidamente cessato in lui quel dolore innominato, da cui
nasceva la tristezza, coll'esser l'animo assorto nella musica, e sottratto dalle tristi e confuse
sensazioni di dolori vagamente sentiti, e non conosciuti. Anzi per uscire dalla tristezza che lo
perseguita, l'uomo da medesimo si aiuta e cerca di abbellire e d’animare coll'opra della fantasia
l'effetto delle belle arti, e per poco che abbia l'anima capace d'entusiasmo, come nella casual
posizione delle nubi ei ravviserà la espressione di figure in vario atteggiamento; così nelle
variazioni musicali s'immaginerà molti affetti, molti oggetti, e molte posizioni, alle quali il
compositor medesimo non avrà pensato giammai. La musica singolarmente è un'arte, nella quale il
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compositore occasione a chi l'ascolta di associarsi al suo travaglio per ottenere l'effetto della
illusione. Una bella pittura, una sublime poesia faranno qualche senso anche in chi non ne abbia
gusto, o passione; ma una bella musica resterà sempre un rumore insignificante per chi non abbia
orecchio a ciò fatto, e positivo entusiasmo, per la ragione già detta che la musica lascia fare la più
gran parte alla immaginazione di chi l'ascolta. Perciò la medesima musica piacerà a diverse persone
nel tempo medesimo, in cui le sensazioni di esse saranno diversissime; uno la troverà sommamente
semplice e innocente; l'altro tenera e appassionata; il terzo la troverà armoniosa e ripiena, e così
dicendo; le quali diversità non accaderanno sì facilmente nel giudicare della pittura, della poesia;
perchè, come dissi, in queste l'artista è attivo, e l'ascoltatore purchè abbia una squisita sensibilità, è
quasi puramente passivo; laddove nella musica l'ascoltatore deve coagire sopra stesso e dalle
diverse disposizioni del di lui animo accade che ora in un modo, ora nell'altro agisca, e sieno così
diverse le sensazioni prodotte dal medesimo oggetto occasionale.
La pittura parimente non occuperà l'animo ilare e giocondo di un uomo in un momento
felice; ma per poco ch'egli sia rattristato da qualche passione, o dolore innominato l'uomo si
presterà alla di lei azione, e da quella l'animo di lui resterà più o meno occupato. Le anime
appassionate saranno più sensibili ai quadri, i quali sveglino sentimenti. Gli altri meccanicamente
conoscitori potranno essere assorbiti dalla maraviglia per le difficoltà superate dall'artista, per la
destrezza e giudizio, col quale sono disposte le figure, le ombre, e i colori. Nell'animo assorbito da
quest'oggetto cessa rapidamente il dolore innominato, e ne nasce il piacere; ma per gustare un più
gran numero di piaceri nella pittura conviene ch'ella desti nel cuore de' sentimenti: la cessazione dei
dolori innominati allora è più frequente, perchè più l'anima viene con ciò distratta dallo stato di
prima, e interamente occupata di oggetti, che creano dolori, e gli estinguono, e li riproducono, e
rapidamente li annientano a vicenda. Io ho provato un piacere assai vivo nel mirare la prima volta
un quadro rappresentante la partenza d'Attilio Regolo da Roma: L'eroe campeggia nel mezzo,
vestito della toga, e del lato clavo: la fisonomia presa dall'antico esprime una placida e ferma virtù;
pareami però nel riflettervi ch'ei premesse a forza un profondo dolore. Egli è nell'atto
d'incamminarsi alle navi cartaginesi che sono sul Tevere, alle sponde del quale si passa l'azione.
Conobbi alla somiglianza il figlio dell'eroe; fanciullo ancora, sembra opporsi passionatamente al
passo di suo padre, mentre una figlia si copre il volto colla mano del padre in atto di baciarla, e
stringendola fra le due tenere sue mani cela le proprie lacrime, e la sua disperazione. Poco discosto
da Attilio sta il console romano; la tranquilla maestà, che gli signoreggia nel volto, non gli toglie
punto i tratti d'una sensibile e dolente amicizia. Una folla di romani stassene dalla parte del console,
e i più rimoti s'arrampicano sulle piante per veder l'eroe al grand'atto. Una romana, che si vede per il
dorso stendente il braccio verso l'eroe, e additandolo a un suo pargoletto, sembra ammaestrarlo con
quest'esempio, e dirgli: mira, quegli è un romano. Frattanto due cartaginesi abbronziti sul mare, e
che si distinguono al barbaro vestito, non meno che per i tratti odiosi della lor fisonomia,
compajono attoniti e confusi. Tutto il quadro è esattamente conforme al costume, e spira maestà,
grandezza, e sentimento. La voluttà, che ne provai non fu breve; mi sentii commovere come da una
tragedia; mi feci illusione, come se esistessero gli oggetti; m'immaginai i loro sentimenti, le loro
parole in quell'atto; tristezza, compassione, rispetto, ammirazione, stupore furono i diversi affetti,
che successivamente mi agitaron l'animo. L'idea di questo quadro pieno di calore e di grandezza è
nata da un gran ministro per cui fu fatto, il di cui genio ha operato una felice rivoluzione
negl'ingegni dei popoli alla sua cura confidati.
Parimenti al teatro uno spettatore veramente lieto e vegeto si troverà poco sensibile, e sa
continuamente distratto; laddove per lo contrario l'uomo, che trovisi un po' infelice, s'intenerirà,
singhiozzerà, proverà una voluttà squisitissima alla rappresentazione d'una buona tragedia. L'uomo
le poche volte, nelle quali veramente sta bene entro di stesso, non si piega mai, si lascia
assorbire da un solo oggetto; i nostri affetti, le nostre idee sarebbero di lor natura repubblicane, e
non consentono infatti a soffrire un dittatore se non quando i torbidi interni ci costringono. Ogni
uomo entusiasta, ogni uomo che appassionatamente ama o una scienza, o una bell'arte, o un
mestiero, o cosa qualunque, non l'ama per altro se non perchè egli è originariamente infelice con
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medesimo, e tanto più avidamente ama i mezzi per sottrarsi, quanto è maggiore la somma dei dolori
innominati, ch'ei soffre abbandonato a medesimo. L'uomo che esiste male, isolato, cerca di darsi
in preda ad un oggetto prepotente per essere da quello occupato; ma l'uomo robusto, lieto, e felice
sfiora sorridendo gli oggetti, e signore della natura domina le sensazioni proprie tranquillamente;
quindi poca, o nessuna compassione troverai presso di lui non già per durezza o malignità, ma per la
volubilità naturale del suo felice animo che leggermente si occupa, tutto vede, nulla esamina, e
sente un solletico bensì nelle idee, ma non urto, impeto giammai. Molti hanno detto che gli
sciocchi sono felici; io anzi dico che i felici sono sciocchi, perchè l'uomo, che non soffra il pungolo
del dolore, e che tranquillamente viva vegetando, non ha una ragion sufficiente per superare la
inerzia e attuarsi presso di verun oggetto; quindi nessuna parte dell'ingegno se gli può
sviluppare, e
nessuna idea viene da lui esaminata attentamente. Non v'è principio che lo obblighi a balzar fuori
dall'indolenza, ed affrontare la fatica. Non è dunque la sciocchezza cagione della felicità, ma al
rovescio l'uomo è sciocco perchè è felice. In fatti troveremo che tutti gli uomini, che coltivano le
scienze, e le arti con qualche buon successo, furono spinti dall'infelicità, e dalla folla dei mali sulla
laboriosa carriera che hanno battuta. Leggiamo le memorie degli uomini più illustri in qualsivoglia
parte dell'umano sapere, e troveremo costantemente che o la domestica inopia, o la persecuzione, o
il disprezzo altrui, ovvero i mali di una cagionevole organizzazione gli spinsero all'azione, al moto,
alla fatica; la qual fatica per sè stessa è dolorosa, e non si abbraccia dall'uomo naturalmente se non
quando inseguìto da un dolore ancora più grande spera in essa di ritrovare un salvamento; ella è un
dolore meno grande dell'altro che si soffrirebbe senza di lei; e l'uomo, fuggendo sempre il dolore, lo
abbraccia non per acquistare una quantità di esso, ma per rifiuto e fuga della porzione eccedente; ed
ecco come non solamente ogni piacere, che risvegliano le scienze, e le belle arti, nasca dai dolori
principalmente innominati, ma dai dolori nasca ogni spinta a conoscerle, a coltivarle, a ridurle a
perfezione. Così l'idea terribile del dolore è l'archetipo di quella serie di purissimi piaceri, che fanno
la delizia delle anime più delicate e sensibili.
Sebbene parlando dei dolori innominati, io principalmente gli abbia attribuiti all'azione
fisica immediata dei corpi sugli organi nostri, non intendo dire perciò che una parte di questi non
venga anche da sensazioni morali mal conosciute. Nella società di persone, le quali mostrino
indifferenza per noi, o poca stima, proviamo un dolore innominato, e lo chiamiamo noja; quando
quel sentimento è più deciso e conosciuto, lo chiamiamo umiliazione, dispetto, ec. L'amor proprio
riempie l'animo nostro di sentimenti innominati qualunque volta sia offeso mediocremente, e senza
grande impeto. I dolori innominati adunque possono essere o fisici, o morali; sono soltanto alcune
affezioni dolorose sordamente, le quali fanno un male essere in noi, senza che la riflessione nostra
ne abbia analizzata e riconosciuta esattamente la cagione.
§. IX.
Applicazione del principio alle belle arti.
Se il fine delle belle arti si è quello di cagionar piacere, e allettarci con esso a ben accoglier
l'utile, dalla teoria esatta del piacere ben conosciuta dovrebbero dedursi come corollarie
conseguenze i principj primordiali delle belle arti istesse. Non è tanto difficile all'artista di colpire e
sorprendere al bel principio, quanto assai più è difficile il conservarsi attento lo spettatore e con una
serie di piaceri sempre gradatamente crescenti, sebbene interrotti, impegnarne l'attenzione per
qualche tempo costante. Le prime arcate clamorose d'una grande orchestra; il primo periodo d'un
oratore che con enfasi declami; il primo affacciarsi d'un quadro grande e colorito vivacemente; la
prima scena di una rappresentazion teatrale ottengono facilmente il fine di aver lo spettatore attento
e occupato d'un primo piacere, quale si è la sorpresa, da cui nasce l'istantanea cessazione dei dolori
innominati e la distrazione da medesimo. La grand'arte consiste a sapere con tanta destrezza
distribuire allo spettatore delle piccole sensazioni dolorose a fargliele rapidamente cessare, e tenerlo
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sempre animato con una speranza di aggradevoli sensazioni, in guisa tale ch'egli prosegua ad essere
occupato degli oggetti proposti, e terminatane l'azione, richiamandosi poi la serie delle sensazioni
avute, ne veda una schiera di piacevoli, e sia contento di averle provate. A tal proposito io osservo
che sarebbe intollerabile una musica, se non vi fossero opportunamente collocate e sparse delle
dissonanze, le quali cagionano una sensazione disgradevole, e in qualche modo dolorosa; così nella
poesia dei versi aspri distribuiti sapientemente a tratto a tratto cagionano una sensazione disgustosa,
e rapidamente la fanno cessare armoniosi e sonori versi. Così nella pittura alcune ombre più crude,
alcuni tratti di pennello studiatamente strapazzati sono un oggetto spiacevole a vedersi, ma ci fanno
gustare la delicatezza, la luce, il colorito, e il finimento del restante. Le belle donne amano più di
comparire di notte, anzi che colla luce del giorno; di giorno il gran corpo della luce parte da un
canto solo, tutte le prominenze del volto, tutte le cavità ricevono un'ombra, la quale rende marcati i
tratti. Una sala di ballo signorilmente illuminata in vece, riceve la luce da tutte le parti in un colpo
stesso; tutta la figura è uniformemente rischiarata, e quasi sembra lucente. Forse l'arte dello scrivere
piacevolmente non consiste che in ciò che reciprocamente non tanto i suoni delle voci, ma le
immagini ancora si alternino disgustose, poi aggradevoli e gentili.
Un guito d'idee tutte geometricamente ordinate, e con simmetria disposte forma un libro
eccellente per insegnare una scienza; ma un'opera piacevole elegantemente scritta fa ritrovare le
grazie, e i vezzi frammezzo a un leggiadro disordine. L'abile artista in ogni genere debb'essere come
il voluttuoso giardiniero d'Aristippo. Un lunghissimo viale piano, uniforme, fra due siepi parallele
t'invita a un noiosissimo passeggio, che sempre ti presenta l'oggetto medesimo, e ti guida alla
stanchezza prima che ti sia avveduto d'aver cambiato luogo. A quel viale s'assomiglia ogni opera
laboriosa, esatta, regolare, ove non siavi verun lato negligentemente tocco. Quel viale è un placido
poema di versi tutti sonori, è una musica tutta di consonanze, è una pittura cinese tutta monda, e di
vivaci colori. Non v'erano viali nel giardino di quel filosofo. Il passeggio era preparato con una
varietà deliziosa. Un sentiero t'invitava al bosco: l'attraversavi calpestando l'erbe e i fiori, che i raggi
del sole non avean veduti mai: una fresca umidità, un sacro silenzio regnavano d'intorno, e quasi
provavi spiacere e timidezza, come se ivi ti ritrovassi separato dal soccorso degli uomini; appena
questo sentimento cominciava a molestarti, improvvisamente eccolo cessato; termina il bosco, e ti si
affacciava da un lato la vista d'una spaziosa campagna popolata di case; spigni l'occhio quanto puoi,
non troverai altri confini che l'orizzonte. Esaminavi deliziosamente quest'oggetto; ma t'inquietava la
curiosità di godere d'altre sorprese, che ben conoscevi esserti preparate ancora dopo un sì giudizioso
principio, e questa curiosità, molestamente scuotendoti, ti obbligava ad inoltrarti. Dopo pochi passi
inutilmente ti rivolgevi per rimirar nuovamente la bella vista, perchè una collinetta vicina rimaneva
frapposta all'oggetto, e come un bel sipario chiudeva la passata scena. Quì diventava più angusto il
teatro, che avevi davanti gli occhi; varj ruscelli parte cadenti, parte lambenti lo strato della collina
occupavano piacevolmente il tuo sguardo. Restava da ascendere. Il sentiero diventava rapido, e di
qualche incomodità; appena cominciavi a provarne dolore e stanchezza, eccoti una grotta non prima
veduta dove l'acqua zampilla da ogni parte, e dove agiatamente ti sedi a rimirarla. L'acqua
sapientemente diretta ivi dava moto a concerti musicali, che ti sorprendevano perchè inaspettati. La
dolce melodia pastorale ti lasciava in preda a soavissime immagini; l'ardita sinfonia della guerra e
della caccia ti urtava in seguito e ti rinvigoriva sin che destandoti nuovamente l'importuna curiosità,
ti alzavi e proseguivi il passeggio frattanto già punto da due dolori stanchezza, e curiosità. Il
cammino giudiziosamente ti riconduce d'onde partisti senza la noja di replicarti le stesse sensazioni.
Ora ti ricreano i soavissimi odori de' fiori, e delle piante più rare, in seguito un prospetto impensato
di antica architettura rovinata dal tempo; quì un tempietto, là un parco di fiere, poi un piccolo canale
navigabile ti sorprendono aggradevolmente, e fanno rapidamente cessare i sentimenti dolorosi, che
naturalmente s'intrudono fra l'uno e l'altro oggetto, e ritornavi all'albergo dopo un'ora beatamente
impiegata, pago del modo col quale eri frattanto vissuto.
Parmi con questa immagine che resti toccato l'essenziale principio delle belle arti. Una
galleria, un muséo veduti di volo difficilmente fanno passar bene una giornata. Bisogna che le cose
belle sieno a una certa distanza le une dalle altre, distanza o di luogo, o di tempo in guisa tale che
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abbia luogo fra una sensazione e l'altra d'intromettersi il dolore. Un libro in cui di seguito vi fosse
una serie contigua di idee tutte sublimi e fitte, non potrebbe essere mai un libro piacevole, se non
l'ajutasse l'oscurità. Questa oscurità obbliga il lettore a interporre uno spazio per meditare
attentamente, onde poter intendere il pensiero dell'autore; frattanto il lettore soffre e per la fatica che
è costretto di fare, e per l'impazienza d'intendere. Se questo dolore non è indiscreto, viene
rapidamente a cessare coll'intelligenza della proposizione; così le cose troppo fitte, se non ha lo
spettatore il tempo di diradarle, riescono sempre di poco pregio.
È un'arte sagacissima quella di lasciar fare qualche cosa allo spettatore, e di servire di
occasione puramente alle sensazioni, ch'egli eccita sopra medesimo. Alcune reticenze d'un
oratore fanno il medesimo effetto, come la figlia di Attilio Regolo, di cui ho parlato di sopra,
coprendosi il volto colla mano del padre in atto di baciarla. Quel volto celato lascia in libertà la
fantasia d'ogni uomo di figurarsi la fisonomia la più bella, la più addolorata che ciascuno può
immaginare; quindi ognuno risvegliando le idee più analoghe a sè medesimo, agisce sulla propria
sensibilità in un modo assai più energico di quel che farebbe, se l'oratore, il pittore, il poeta, ec.
volessero agire in dettaglio essi medesimi, e determinare l'impressione. La reticenza di alcune idee
intermedie consola altresì l'amor proprio del lettore, e gli fa cessare quel sentimento di paragone,
che ordinariamente è doloroso, quando leggendo un buon libro, si diffida di poterne fare altrettanto.
Ma troppo mi svierei dall'argomento che mi sono proposto, se volessi entrare più addentro
colla immaginazione fra questi ridenti oggetti; e ritornando al soggetto, del quale ora io tratto, parmi
che lo scopo d'ogni buon artista sia quello di spargere le bellezze consolatrici dell'arte in modo che
vi sia intervallo bastante fra l'una e l'altra per ritornare alla sensazione di qualche dolore
innominato, ovvero di tempo in tempo di far nascere delle sensazioni dolorose espressamente, e
immediatamente soggiugnervi un'idea ridente, che dolcemente sorprenda e rapidamente faccia
cessare il dolore. Quest'arte riesce anche nella civile società. L'uomo più amabile è quegli, il quale
sa in noi calmare i dolori morali, che portiamo con noi, e per dimenticare i quali ricerchiamo la
società. Se quest'uomo fosse sempre dolce e compiacente, riuscirebbe noioso per la stessa
uniformità; ogni dialogo con lui diverrebbe insipido e breve perchè senza contraddizione; la stessa
lode ci lascierebbe insensibili, e non sarebbe più l'uomo amabile. Esso stuzzica in noi, e risveglia
qualche leggiero dolore, move qualche contraddizione delicata, c'inquieta industriosamente, e
interpone a questi piccoli mali degli inaspettati contrassegni di stima, e di amicizia, che dolcemente
ci colpiscono. Un giovane ufficiale francese giugne all'armata, va al quartier generale per
presentarsi al maresciallo di Villars, francamente attraversa la folla, e ad alta voce chiama: dov'è
Villars? Il maresciallo offeso da questa famigliarità indecente, dite almeno il signor di Villars, gli
soggiugne: al che l'ufficiale: non ho mai inteso dire il signor Alessandro, il signor Cesare. Il
maresciallo a una lode così impensata, al paragone tanto consolante per la sua gloria fra i più gran
capitani dell'antichità, e lui, dovette sentire un piacere tanto più grande, quanto più rapida fu la
cessazion del dolore. In mezzo al senato di Roma convocato davanti a Tiberio, s'alza liberamente un
Romano, e apostrofando l'imperatore, così comincia a parlare: Cesare, tu sei l'uomo più ingiusto
che viva sulla terra: figuriamoci quai sentimenti si svegliarono ne' cuori a quest'esordio: que'
senatori tanto bassamente avviliti, che Tiberio stesso li chiamava un gregge di schiavi, quegli
uomini già al colmo della corruzione avranno paventato un supplizio in pena d'aver ascoltato;
Tiberio doveva fremere.…. ma proseguì il Romano: sì, il più ingiusto, perchè dipendendo la salute
pubblica dalla tua, dimentichi affatto la propria conservazione, e tutto consacrato alla felicità, alla
gloria di Roma, impieghi per lei quelle cure che pur dovresti riserbare in parte a te stesso per
rendere più diuturna la beatitudine del tuo impero, ed esauditi i nostri voti. Il modo più insinuante
per lusingar l'amor proprio degli uomini si è appunto soggiugnendo la lode a qualche puntura,
perchè la prima cagiona dolore, e ci fa credere d'esser poco curati in quel momento da chi ci parla;
sopravviene impensatamente l'encomio, e rapidamente cessa la sensazion dolorosa, e la sorpresa fa
che più intensamente ci occupiamo della dolce idea non preveduta. Un negoziante è impaziente
perchè tarda a giugnere la nave, che ha il carico delle sue merci; la dilazione lo ha reso inquieto, e
già dubita di qualche sciagura. Mentre egli sta in casa tristamente occupato delle conseguenze che
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teme, un suo amico vede entrare salva la nave in porto. Corre a casa del negoziante, simula d'aver la
tristezza in volto, entra a discorrergli della sua nave, finge una relazione avutasi d'una burrasca e
d'un naufragio, indica alcune circostanze sul luogo, sulla bandiera, sulla qualità della nave. Il
negoziante si agita, teme, gli pesa addosso in quel momento tutta la serie dei mali che prevede in
conseguenza. L'amico lo riduce a quel punto, e gli la novella che la nave è felicemente giunta;
così cagiona nell'animo del suo amico una gioja assai più vivace, quanto è stata maggiore la
quantità del dolore, che ha fatto rapidamente cessare.
§. X.
Come l'uomo giudichi nella scelta fra i dolori, e fra i piaceri.
Nel calcolo dei piaceri, e dei dolori l'uomo valuta più l'intensione che non la durata.
Esattamente calcolando un dolore, che si esprimesse della forza d'un grado durando dieci minuti,
dovrebbe considerarsi uguale a un dolore, che avesse dieci gradi di forza; ma durasse un sol minuto.
Eppure nella scelta l'uomo si determinerà piuttosto per la minor intensione di quello che per la
minore durata, e crederà men male il dolore d'un grado benchè duri dieci minuti. Osserviamo ciò
che accade sul Monsenis allorchè è coperto di neve, e che vi si discende rapidissimamente sopra di
un traino mosso dalla sola gravità per il gran pendio della montagna. Moltissimi viaggiatori finita la
discesa, e passato il monte vogliono nuovamente affrontare il tedio, il pericolo, lo stento di
rampicarvisi nuovamente a piedi sino alla sommità per provare un'altra volta il piacer di discendervi
con quella rapidità, che non la cede al volo degli uccelli. Questa è l'immagine fedele della maniera,
colla quale calcola l'uomo sul punto della propria sensibilità. Egli affronterà un dolore
spontaneamente, purchè la di lui intensione non sia grande, quand'anche ei debba nella total quantità
riuscir grande per la sua durata, e l'affronterà ogni qualvolta ei debba rapidamente cessare, dal che
ne ottiene un piacere.
La maggior parte delle debolezze, e delle apparenti inconseguenze dell'uomo nasce appunto
da questo principio, che più resta colpito dall'intensione dei piaceri, e dei dolori, di quel ch'ei non lo
sia dalla durata; sebbene la quantità assoluta, per essere ben calcolata dovrebbe desumersi dal
prodotto dell'una per l'altra. Ma quando di due sensazioni dolorose una è da soffrirsi tutta in un
colpo, e l'uomo nel momento immediato prevede tutto il grado d'infelicità in cui piomba, preferisce
l'altra sensazione, di cui la parte, che se gli presenta, è men dolorosa per il momento consecutivo, e
senza esattamente trascorrerla sino al fine col di lui sguardo la sceglie con ribrezzo minore. La vita
è una serie di momenti; la parte, che è nostra, è il momento attuale; tutto il restante avvenire è una
mera probabilità tanto più forte, quanto il tempo avvenire è più vicino al momento attuale. Un
dolore intenso e breve piomba sui momenti più vicini alla nostra esistenza, e ci promette la pace per
que' momenti che sono più discosti. Un dolore più durevole, e meno intenso ci presenta i momenti
più contigui, più nostri sotto un'apparenza meno ripugnante; e sebbene per que' momenti più rimoti
non ci lasci vedere la pace, la lusinga che nasca in questo intervallo qualche soccorso, che abbrevii i
mali, sempre più o meno sta nel cuore; e quindi nasce che comunemente gli uomini si determinino
più per l'intensione che per la durata, siccome dissi.
Quantunque io creda generalmente condotto l'uomo a scegliere più per l'intensione che per la
durata, non ne viene però
che con uguale misura uniformemente ci determiniamo: anzi quanto più
l'uomo è illuminato e placido nel suo giudizio, tanto si va egli accostando alla precisione nel
calcolo, e sempre più va considerando la durata, perchè quanto più l'animo umano si trova vicino
allo stato ch'io dissi, tanto più sa prevedere, e scostarsi dalla maniera di operare de' bruti, i quali
quasi unicamente si determinano sugli oggetti esistenti, e feritori de' loro organi. In tre classi quindi
io divido la maniera di sentire degli uomini, e sono le seguenti.
La parte più comune degli uomini rimira più d'un oggetto a un tempo stesso, ma li vede con
un colorito pallido, e contorni sfumati e incerti. Sono per lo più quindi dubbiosi ne' loro giudizj,
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timidi di equivocare nella scelta, ed essendo pure costretti a dare un corso alle loro azioni, son
forzati a prender di norma l'imitazione, anzi che il raziocinio. Incapaci di passioni grandi, incapaci
di vigor d'animo, languiscono nella imbecillità; si sottraggono al mordace sentimento del poco valor
proprio col sonno, co' liquori assopitivi, col giuoco, colla lettura, o colla compagnia, che
avidamente e senza scelta ricercano, e a ciò vengono spinti da quel tedio abituale, in cui restano
immersi, abbandonati a loro stessi. Questi vedon gli oggetti come a traverso la nebbia, e non
potendo spignere lo sguardo molto addentro, valutano nella loro scelta piuttosto la superficie di quel
lato che lor si presenta, anzi che la massa; quindi omettendo quasi del tutto la durata, giudicano
delle sensazioni quasi interamente sulla pura intensione momentanea.
Un minor numero d'uomini in vece ha l'immaginazione fatta per modo che un fantasma
vincitore s'impadronisce della loro sensibilità, e il restante delle loro idee resta inconsiderato, e in
disordine, mentre quel fantasma è rappresentato con vivissimo colorito, e con esatti contorni. Questi
hanno per loro carattere l'immaginazione, l'entusiasmo, l'elevazione; i voli più arditi non si vedono
che in questi uomini. Essi però si sottodividono in due specie. Gli uni sono costantemente occupati
da una idea prepotente, la quale ostinatamente tengono sempre di mira: uomini capaci di grandi
cose, perchè esercitano un'azione energica assiduamente prolungata per lungo spazio. Se il
fantasma, che gli occupa, è conforme al bene del genere umano, sono eroi: se contrario, sono illustri
scellerati: se è incoerente, sono pazzi. Gli altri sono della seconda specie, occupati da un dispotico
fantasma, ma dove un fantasma detronizza l'altro, e si succedono vicendevolmente. Sono questi i
migliori poeti, i migliori pittori, gli oratori i più eloquenti, uomini di grandi passioni al momento.
Non ti farà maraviglia, se dopo aver essi declamato in favore della civile libertà, li vedi diventati
all'occasione cortigiani; combatteranno essi talvolta contro quella libertà medesima, che avevan
sostenuta. Questi uomini d'immaginazione, i quali a foggia degl'istrioni risvegliano in lor medesimi
le passioni del momento, e con calda energia le sanno comunicare, mal si giudicherebbero, se si
credesse costante in essi quell'entusiasmo, che non parte dal cuore, ma da un'artificiosa e cercata
fermentazione di sentimenti. I primi, giudicando delle sensazioni, che hanno rapporto all'idea
signoreggiante, s'accostano alla esattezza del calcolo, e ne valutano non solamente l'intensione,
quant'anche in parte la durata; ma nel restante delle loro idee pochissima attenzione vi prestano, e si
determinano per la sola intensione. I secondi invece, quanto ai loro giudicj, interamente si
conformano al metodo volgare, e nella loro pratica restano perpetuamente plebei.
Finalmente una parte ben piccola del genere umano è quella di coloro, che sogliono ad un
tempo stesso avere davanti al loro sguardo più oggetti illuminati, coloriti, e distinti: sagacemente li
paragonano, li accozzano, li separano. Conosciuta che hanno la schiera de' mali, che seco strascina
il vizio, scelgono la virtù, e tranquillamente e con costanza ne batton l'orme. Essi non hanno quelle
clamorose estasi, colle quali cercano di accreditarsi gli empirici della virtù; il loro animo più in
calma pacatamente, e per una felice abitudine li porta a bene e virtuosamente vivere. Costoro
sebbene per costruzione loro abbiano il cuore meno appassionato di quello degli entusiasti; con tutto
ciò non sono esenti dalla febbre delle passioni. Non sempre la placida ragione lascia viva alla mente
loro questa verità, che gli uomini cattivi meritano più compassione che odio; la bassezza, la
ingiustizia fanno nascere nel loro cuore lo sdegno talvolta, come le belle azioni amore e
benevolenza. Questi ultimi sono gli uomini più simili a loro stessi nelle loro azioni. I loro discorsi
sono della tempra de' loro fatti; i loro scritti hanno la tinta istessa della lor vita, e de' loro sentimenti;
essi non cercano di ridurre gli uomini attoniti e sbigottiti con gigantesche idee, ma illuminati, e resi
migliori da un raggio puro e sereno di verità. Essi nella scelta delle sensazioni generalmente
s'accostano più di tutti all'esattezza del calcolo, portano i loro sguardi sulle maggiori relazioni
possibili, e lo inoltrano al tempo più rimoto.
Queste tre classi sono come i tre tuoni principali del diverso modo di sentire degli uomini;
ma ogni uomo, comunemente parlando, è un misto e partecipa di più d'una classe. I primi sono
meno di tutti capaci di piaceri, e di dolori morali, perchè, come si disse, dipendendo questi
interamente dall'appoggiarsi che fa la mente sul passato e sull'avvenire, e dal paragone che facciamo
fra il modo col quale esistiamo, e quello al quale prevediamo di dover giugnere, un tal modo di
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sentire suppone memoria, e previdenza; e dove gli oggetti si vedano abitualmente larvati e mal
definiti, non v'è luogo a questo scagliamento dell'animo. I secondi che hanno un fantasma costante
in tutte le sensazioni, che a quello si accostano, debbon essere sommamente capaci di piaceri, e di
dolori morali. Se Colombo ci avesse lasciata la storia dei suoi sentimenti per il lungo tratto di
tempo, in cui sollecitò i mezzi onde scoprire un nuovo mondo; se ogni giorno avesse scritta la storia
delle proprie sensazioni, e nel tempo in cui viaggiava alle corti per offrire il progetto, e nel lungo
spazio in cui languì nelle anticamere fra un piccol filo di speranza, e molti sorrisi de' cortigiani, che
lo rimiravano come un uomo da romanzi; se ci avesse fedelmente tramandate le sensazioni che
provò quando le speranze crebbero, poi quando ottenne le poche navi, poi di quanto nel cuore sentì
durante la lunga navigazione per un mare immenso e sconosciuto; finalmente se ci avesse descritti i
sentimenti che provò allo scoprire la terra, all'approdarvi, al conoscerne i tesori, avremmo un'idea
allora de' sommi dolori, e sommi piaceri, che occupano un entusiasta costante. Forse questa grande
scena terminò nel momento in cui ebbe scoperta l'America. La terza classe, come la più capace su
tutti gli oggetti di timore, e di speranza, così da ogni lato è accessibile ai dolori, ed ai piaceri morali;
minori forse nell'intensione di quei che sentono gli entusiasti, ma nella quantità e frequenza
considerabilissimi.
§. XI.
Il dolore precede ogni piacere, ed è il principio motore dell'uomo.
Osserviamo i bambini, essi meritano la compassione e l'assistenza nostra, e sono i migliori
maestri che possiamo scegliere per conoscere l'uomo, e lo sviluppo della sensibilità. Al momento in
cui il bambino nasce, ci tutti i contrassegni del dolore, e d'un violento dolore: i persiani, per
renderci maravigliosa l'origine del loro legislatore, asserirono che appena nato ridesse; ma la natura
dovunque ci fa vedere il bambino gemente e smanioso al suo nascere, e per due o tre mesi dopo
nato ancora o ce lo mostra stupido, ovvero addolorato. Le prime sensazioni adunque dell'uomo sono
di dolore: in fatti l'aria ferisce le loro membra molli e sensibilissime; la luce percuote violentemente
i loro occhi delicati; il latte aggrava il loro stomaco, e cagiona le irritazioni ne' loro visceri; le loro
lagrime, le grida, la inquietudine, tutto ci manifesta lo stato dolorosissimo del loro essere.
Trascorrono, non che i giorni e le settimane, anche i mesi dopo che gli occhi sono troppo avvezzi al
pianto, che la loro bocca comincia ad apprendere il sorriso. Questo fatto ci prova che il dolore lo
può sentire l'essere organizzato al primo momento di sua esistenza, e che il piacere non si sente se
non dopo d'aver sofferto il dolore. In fatti una sensazione suppone un cambiamento di stato
nell'organo che la riceve, cioè o una tensione accresciuta ovvero diminuita; se l'organo era nello
stato di perfezione, la prima sensazione lo toglie da quello, conseguentemente è un disordine, e un
dolore; se poi l'organo era viziato o per soverchia tensione, o per ammollimento soverchio, la prima
azione de' corpi esterni, può bensì rimediarvi, ma sarà preceduta dal dolore che produceva il vizio
della costruzione organica, e così ne deriva che la prima sensazione deve necessariamente essere
dolorosa.
I dolori, che soffrono i bambini ne' primi mesi della loro vita, potrebbero forse da taluno
attribuirsi alla gracilità e imperfezione de' loro organi ancora informi, anzi che alla primitiva legge
della sensibilità; e perciò figuriamoci che dal sommo Essere venga creato un uomo, il quale nel
primo istante della sua esistenza sia organizzato come lo sono comunemente i giovani a venti anni,
e immaginiamo se è possibile il presentargli una sensazione piacevole, la quale sia la prima, e non
preceduta da alcuna dolorosa. L'appetito del cibo o della bevanda non lo potrebbe movere, perchè
conviengli prima aver provato i dolori della fame, e della sete; indifferente riuscirà ogni sapore a chi
non ha potuto prima sentirne mai il bisogno. L'odore parimenti d'una rosa o d'un gelsomino farà la
più indifferente sensazione in quest'uomo, se pure fasensazione, di che ne dubito, perchè i sensi
nostri si vanno educando colla società, modificando coll'uso, e artificiosamente snaturando per
modo che moltissime volte l'uomo colto crede di provare o piacere, o dolore, e s'inganna sedotto
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dall'abituazione di vedere associate ad un oggetto le espressioni del piacere, ad altro quelle del
dolore; di che fra poco tornerò a trattare. Lo stesso dirò di ogni suono musicale, il quale se non
giugne alla scossa dolorosa, non darà sensazione all'uomo immaginato; e lo dico pure dell'amore
anche fisico, ch'ei non può sentire se non provò prima le dolorose inquietudini che lo fanno nascere
in noi; e così ogni oggetto si presenterà alla di lui vista indifferentemente, a meno che non lo
addolori; ed ogni giacitura o tatto del suo corpo sarà di nessun effetto, ammeno che non lo addolori,
ovvero non si trovi già lasso e addolorato dalla situazione in cui giaceva. L'essenza adunque della
sensibilità importa di cominciare col dolore, perchè o l'azione sopra i nostri organi è dolorosa,
ovvero è un rimedio alla dolorosa organizzazione, ovvero è azione inefficace, indifferente, e nulla:
il dolore è una azione, il piacere è una rapida cessazione di essa. Con ciò l'uomo è riposto a vivere
in mezzo ai dolori.
Io non dirò che il dolore per sia un bene, dirò bensì che il bene nasce dal male, la sterilità
produce l'abbondanza, la povertà fa nascere la ricchezza, i bisogni cocenti affinano l'ingegno, la
somma ingiustizia fa nascere il coraggio, in una parola il dolore è il principio motore di tutto l'uman
genere; egli è cagione di tutti i movimenti dell'uomo, che senza di lui sarebbe un animale inerte e
stupido, e perirebbe poco dopo di esser nato; egli ci spinge alla fatica del lavoro de' campi, ci guida
a creare e perfezionare i mestieri, c'insegna a pensare, crea le scienze, fa immaginare le arti e le
raffina; a lui siamo in una parola debitori di tutto, perchè dalla eterna sapienza ci è stato collocato
intorno, acciocchè fosse il principio che desse vita, anima, e azione all'uomo. Appena nati
trascorrono poche ore, e il dolore della sete sveglia l'assopito bambino, gli insegna a trangugiare il
latte, poi moto alla sua lingua, alle sue mascelle, e gl'insegna a succhiarlo; senza il dolore non si
ciberebbe, e la morte sarebbe assai vicina al nascimento. Poi cade nella passiva indifferenza e
dorme; non più sarebbe richiamato alla vita, se il dolore non lo scuotesse; noi stessi, adulti che
siamo non ci svegliamo mai spontaneamente dal sonno; comunemente il dolore, cagionato dalla
lunga pressione sulle parti sulle quali stiamo giacendo, è quello che ci desta; in fatti la prima azione,
che facciamo allo svegliarci, si è un moto che cambi la nostra giacitura, e distendiamo i muscoli,
che per quello spazio di tempo rimasero raggruppati; talvolta un affannoso sogno dolorosamente
agitando la nostra immaginazione, ci desta: il sonno condurrebbe naturalmente alla morte se non vi
s'intrapponesse il dolore. Se uno sconcerto accade nella nostra macchina, il dolore è quello che ci
avvisa, e ci scuote a ripararlo; senza del dolore, il ferro, il fuoco, gli altri esseri consumerebbero le
nostre membra prima che ce ne avvedessimo. L'uomo, se non soffrisse dolore, apparirebbe alla luce
per una brevissima vegetazione, che lasciandolo svenire privo d'alimento, lo piegherebbe poco dopo
alla morte. Se l'uomo non avesse sofferto il dolore del caldo, del freddo, della umidità, e delle
malattie, non avrebbe mai cominciato a formarsi delle capanne, poi delle case, nè a tessere per
riparare il suo corpo. Se il dolore della fame non l'avesse spinto, non mai si sarebbe dato alla caccia,
alla vita pastorale, indi alla coltivazione della terra. Fatti questi primi passi, sarebbesi l'uomo
limitato a queste arti, ed alle adjutrici; ma la naturale fecondità della specie moltiplicò i dolori, e la
ricerca de' mezzi per sedarli; e nacque l'industria, che dopo essersi esercitata in rapine, dovette
passare a stabilire le proprietà; e poscia i pochi, che poterono profittare del moto altrui,
risparmiarono il dolore della fatica, e si rifugiarono in quello stato di quiete e di torpore, che è lo
stato naturale dell'uomo mancante di dolori. I ricchi poi e viventi col moto della classe dei
coltivatori e degli artigiani, liberati dai dolori primigeni della fame, della sete e delle stagioni,
nell'ozio divennero sensibili più delicatamente; e quindi incominciando a provar dolore nella
ruvidezza del vestito, nell'ambiente dell'albergo, nella durezza del letto, cominciarono ad esigere
dagli artigiani esattezza maggiore, e così gradatamente i dolori, che nuovamente si andarono
creando colla mollezza della vita, portarono l'uman genere ai primi passi verso della coltura. Col
passare dei secoli, ai dolori fisici si aggiunsero i dolori morali, si sviluppò nell'uomo la gelosia di
primeggiare; il fasto, l'orgoglio di alcuni insultò molti; taluno si riscosse, e per liberarsi dalla
dolorosa umiliazione affrontò costantemente la fatica dell'ingegno e dell'eroismo; e per sottrarsi a
quei dolori pungentissimi altri divennero guerrieri, altri legislatori, altri scopritori di verità; così
nacquero le scienze e le arti dalle più facili sino alle più astratte e raffinate, così ogni bene del
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mondo ha la sua radice nel male, così il dolore è il principio dell'azione, e così l'uomo per
sottrarsene lo affronta e abbraccia, sempre fuggendo dal maggior dolore, e sopportando la fatica,
che pure è dolorosa perchè lo libera da dolori più forti.
In fatti le nazioni, che abitano un clima dolce, ove la terra facilmente somministra l'alimento,
sono la sede dell'indolenza; e ne' climi più aspri, e ne' terreni più avari veggiamo gli uomini spinti
ad un'attività abituale, che forma nell'uomo quasi un bisogno di agire. Il regno della immaginazione
sta nelle prime: questa s'alimenta co' vaghi deliri d'una vacua esistenza; ma il liceo delle scienze lo
troverai presso le seconde; esse sono il risultato di sforzi continuati e combinati da una energica
industria. Se nelle prime per la generale mancanza di azione la società degli uomini dorme
costantemente sotto il governo d'un despota, detronizzato talvolta in un momento di furiosa
impazienza, e ben tosto seguito da un altro despota; nelle seconde la società sempre è in moto, e
difficilmente persevera i secoli nel medesimo stato. I persiani oggigiorno s'assomigliano più ai loro
antenati del tempo d'Ezechiello, di quello che noi abbiamo di somiglianza co' nostri avi dello scorso
secolo nelle usanze e fogge di vestire, alloggiare, e cibarci, quanto nella serie istessa delle nostre
idee. La poesia, l'eloquenza, le favole, i romanzi, i racconti esageratamente prodigiosi, nascono per
lo più ne' climi caldi e molli, e ne' paesi spontaneamente fecondi, perchè sono questi i prodotti di
una vita priva di cure e sedentaria: le matematiche sublimi, la erudizione laboriosa, la esatta critica,
la giudiziosa e paziente osservazione delle cose fisiche e intellettuali, sono effetti d'un moto
contenzioso del nostro ingegno, il quale non affronta le difficoltà, nè regge a superarle, se non viene
incessantemente punto dal dolore, e perciò la loro sede trovasi ne' climi più ingrati; e se talvolta ne
spunta un raggio in più felice clima, ciò sarà come una banana o un annanas, colto in Europa per
artificiali e separate cagioni domestiche, non mai dipendenti dalla influenza generale e comune.
Due pensatori del primo ordine hanno stabiliti opposti sistemi sull'indole delle nazioni; l'uno
deriva tutto dal clima, l'altro deriva tutto dalla legislazione: il primo fa emanare tutto
immediatamente dalla fisica; il secondo tutto dalle istituzioni morali. Bramo che gli uomini, che
hanno parte al destino dei popoli, tengano la seconda opinione, poichè l'altra mi sembra tanto
perniciosa nella politica, quanto nella privata morale la fatalità. Io però credo che il dolore è il
principio motore dell'uomo; questo nasce e dal clima in cui l'uomo respira, e dalla forma con cui è
governato; bensì è vero che più ferma e durevole ed uniforme di ogni altra è l'azione meccanica del
clima, e i dolori da esso cagionati l'uomo li tollera e li ripara senza sdegno e ribellione, perchè
inevitabili e senza insulto; ma non perciò una parte sensibile può ricusarsi agl'istituti sociali, i quali
se del cavallo e del cane possono formare due esseri per la guerra, la caccia, e i tornei, quantunque
non giungano a formarli tutti di eguale coraggio e docilità (il che dovrebbesi fare se l'educazione
facesse il tutto), così degli uomini possono formarne o buoni, o malvagi, o industriosi, o scioperati a
misura della sapiente, o inconsiderata o capricciosa creazione delle leggi.
§. XII.
Di alcuni dolori, e piaceri di opinione.
Ho accennato poco fa che i sensi nostri vengono modificati dalle usanze, e che dall'esempio
e dalla educazione impariamo a dimostrar dolore, o piacere talvolta per convenzione; parlo io di
que' sociali ufficj, che per condiscendenza urbana ci portano a mostrarci sensibili ad oggetti, che
non agiscono sopra del nostro animo, il che facciamo conoscendolo, e volendolo; ma parlo di quelle
illusioni, che ingannano noi medesimi, e ci fanno esclamare, quasi che fossimo addolorati, o
piacevolmente mossi, allorchè veramente non lo siamo, e buonamente crediamo di esserlo, non già
perchè sentiamo, ma perchè siamo avvezzi a mostrarci sensibili in quella guisa. Una distonazione
clamorosa fa contorcere l'appassionato per la musica, e lo fa dolorosamente sentire, lo crede egli
stesso; un bel trillo granito e mordente lo tocca deliziosamente, così dice, e lo crede: io non ho
trascurato questa bell'arte; l'amo, ed ho un orecchio sensibile; mostro le stesse apparenze; ma dubito
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assai, analizzando me stesso lontano dall'armonia, se veramente io provi allora il dolore, e il piacere
che m'immagino. Questi due modi se potessero cagionare un dolore, ed un piacere, ne vedremmo
qualche traccia anche negli uomini incolti, o educati ad una coltura diversa dalla nostra. Un inglese,
un olandese deliziosamente sorbiscono il thè, giudicano delle minime differenze, gustano il giusto
grado di forza, di volatile, di odoroso di quella bevanda, che noi italiani beviamo soltanto per
consiglio del medico con somma svogliatezza; siamo noi insensibili, ovvero s'ingannano essi
credendo di sentire ciò che non sentono? L'avere sino dalla più tenera età osservato che le persone
da noi credute più intelligenti mostravano dispiacere per una corda che distoni, l'averne più volte
sentito il rimprovero noi stessi, colla lunga serie degli atti ripetuti non può forse associare con una
coesione durevole queste due idee distonazione, e dolore? Associate che siano, perchè non ne
mostreremmo noi gl'indizj anche ad animo pacato? Chi potrà mai decidere se allora provi l'uomo il
dolore che mostra? Lo decideranno i pochi, che preferiscono la verità alla opinione, che si occupano
de' movimenti del loro animo, e cercano di scacciare l'illusione che penetra sino entro i più profondi
ripostigli del cuore.
Quanto mai sono alcuni piaceri indigeni d'un regno, e affatto diverrebbero insulsi col
trasporto! Il cinese ti dipinge la sua venere con una immensa fronte, con due occhietti schiacciati,
un naso maccato e largo, un ventre enorme: eccoti la più voluttuosa donna per lui: s'inganna egli,
ovvero s'ingannò quel greco incomparabile che scolpì la venere medicea? Io non parlo sull'idea del
bello, ma su quella del piacere, che gli uomini in nazioni diverse collocano sopra diversi oggetti. Gli
antichi trovavano della delizia nell'odore della rosa; ora le persone più raffinate dicono di provare
disgustose quelle emanazioni. Un triclinio servito colla delicatezza di Attico ora moverebbe lo
stomaco a nausea; il falerno si raccoglie anche in questo secolo, lo troviamo insipida e grossa
bevanda, e le vivande impastate di mele sarebbero postposte al mero pane. Un voluttuoso
mussulmano s'annoja alla nostra musica, ai nostri spettacoli, e prova ribrezzo de' nostri cibi; noi
partiamo colla fame dalla mensa degli ottomani, che mischiano zucchero, ambra, e muschio nelle
vivande, e fuggiamo la melanconia de' loro concenti musicali, ai quali essi svengono per delizia. Fra
i soli francesi e noi che disparità di opinione non v'è per la musica vocale! L'uno trova una
sensazione grata dove l'altro la trova dolorosa. Alcuni turchi di maggiore distinzione fatti prigionieri
dai russi nell'ultima guerra furono onorevolmente scortati a Pietroburgo, ove quella sovrana voleva
che mirando da vicino la sua umanità, e lo splendore di sua corte, tornassero poi a darne un'idea
nella loro patria. Portò la sua cura l'imperatrice oltre lo alloggio ricco e agiato, sino a destinar loro
una loggia al teatro; ivi la musica, il ballo, il prestigio delle decorazioni e dell'inusitato
spettacolo poterono mai ottenere dal loro volto un cenno di piacere; tristi, svogliati, godevano nel
momento solo in cui finiva. L'ufficiale destinato a servir loro d'interprete, fece loro sentire quanto
ospitale fosse l'accoglienza che si faceva ai nemici, pensando a rendere ameno e profittevole il
tempo stesso della loro prigionia. Convien bene piegarci e obbedire quando siam presi, così rispose
il primo di essi, che credeva una pena e uno scorno l'essere così condotti in pubblico; e il sorriso
apparve su i loro volti quando udirono che era ad essi libero il non venire, e di questa libertà
profittarono, nè mai più vennero al teatro.
I veri dolori, e piaceri fisici non sono tanto variati, e sono quelli che sempre, e in ogni paese
cagionano dolore, o piacere all'uomo sanamente organizzato: non si dolor fisico, senza
lacerazione; e qual lacerazione cagionerà mai nell'orecchio uno stromento discorde, un errore di
lingua, un endecasillabo sgraziato? Il compositore di musica, il grammatico, il poeta credono di
soffrirne dolore, ed io credo che non lo soffrano, e che per imitazione altrui dapprima, poi per
abitudine ne mostrino i segni credendosi essi medesimi addolorati; e per convincermene ho
osservato che il canto gregoriano, nè alcuni inni composti ne' secoli meno colti cagionano dolore
alcuno al musico, al poeta, al grammatico che gli ascolta. De' piaceri fisici di opinione per lo
contrario io credo che siano sentiti veramente, perchè veramente producono delle rapide cessazioni
di dolore: non è poca consolazione il poter dire a noi medesimi: sono un buono e delicato
conoscitore: il continuo timore di valer poco, che sta nel fondo del cuore dell'uomo incivilito, è una
sorgente perenne di questi piaceri; un lampo che ce lo scuota, e che rapidamente ce ne storni la
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dolorosa vista, è un piacere. L'educazione ci forma, per dire così nuovi sensi: un fanciullo non sa
che gli odori possano cagionar dolore, piacere; indifferente prova i grati e disgustosi senza dar
segno di alcun sentimento, a meno che non diano una scossa capace di formare una lacerazione
negli organi dell'olfatto o della respirazione: il selvaggio egualmente, e il sibarita al primo fiuto
distingue l'ambra, la tuberosa, il muschio, l'essenza di rose di Persia; rifiuta un'essenza oleosa,
sviene accostandosi a una traspirazione volgare. L'occhio d'un fanciullo, e quello d'un uomo rozzo
rimirano colla tranquillità e disattenzione medesima una facciata del Palladio, e un edificio di
struttura capricciosa, che impropriamente chiamiamo gotica: il conoscitore delle belle arti crede di
provare ad una vista il dolore, e nell'altra sente un piacere, perchè cessa rapidamente qualche dolore
innominato in lui, e singolarmente il timore di non valer molto, perchè scopre qualche nuova
combinazione, che confusamente sentiva di non poter trovare, o per altri moltissimi e sottilissimi
dolori preparati sempre nello stato di società, ai quali quella vista ha dato un rapido ammorzamento.
L'uomo incivilito per l'istesso principio anche nella società trova il tuono della voce di uno dolce e
piacevole, e duro e ingrato quello d'un altro; la voce d'una donna talvolta seduce, e desta la
sensibilità del cuore per un non so che di velato e sensibile che ella annunzia; il caraibo non se n'è
avveduto mai. Alla cena un elegante europeo di questi tempi preferirà i vini del Reno, e della
Borgogna agli altri; il meno raffinato cercherà una bevanda meno acida, e che conservi di più il
sapore del frutto; dico un elegante europeo di questi tempi, perchè è verosimile assai che i nostri
posteri trattino con noi come facciamo noi co' nostri antenati, e che ci compiangano per le nostre
delizie nella musica, nella mensa, e in tutti i piaceri nostri di opinione, come facciamo noi della
verdea, della malvasia, del Corelli, del Bernini, e di quanto formò il raffinamento degli avi nostri.
Una dimostrazione cospicua di questa verità, che nell'uomo artificiale si creano moltissimi
dolori, e piaceri di opinione, ce la somministra l'antica Roma tanto avida dello spettacolo de'
gladiatori. Le vergini, le matrone, i fanciulli romani si affollavano all'anfiteatro, e avidamente
godevano nel mirare più uomini, che col pugnale in mano si battevano a morte; li volevano veder
nudi per meglio osservare il ferro acuto che doveva forarli; li volevano ben pasciuti perchè l'adipe
istesso rendendo più lento lo sgorgo del sangue, riusciva lo spettacolo della morte più prolungato; si
assaporava la grazia della positura in cui sapeva rendersi pittoresco il morire, e il gladiatore si
applaudiva dagli astanti perchè agonizzasse con leggiadria. Nelle mense medesime più festose
mentre coricati i romani epicurei ponevano pausa al cibo, venivano i gladiatori a ricolmare la
voluttà de' convitati; e le mense grondanti umano sangue, e coperte di murene e greci vini, e i
singhiozzi de' moribondi, frammischiati alle festevoli sinfonie, cagionavano le delizie e il dilicato
raffinamento de' piaceri. Troppo è noto il fatto, ed è pur noto che somma rusticità allora si reputava
dai romani se mai per annunziare che taluno era morto si fosse detto obiit, o simile espressione,
dovendosi usare la più mite, e dire vixit, quasi che il ricordare a voce la morte naturale d'un uomo
potesse essere dolorosa cosa ad un popolo, che con giubilo la mirava eseguita con violenza e
atrocità. Egli è certo che se ai tempi nostri nel colosseo si rappresentassero queste carneficine, non
che le tenere vergini, e le donne, e i giovani, ma gli uomini ancora meno sensibili ne proverebbero
un dolore, e il dolore e la lacerazione interna cagionata dalla compassione giugnerebbero al grado di
portare molti degli spettatori allo stato della malattia. Io credo che a misura che l'uomo è più rozzo
ha bisogno di oggetti più violenti per godere di uno spettacolo, e all'altra estremità pure
dell'artificioso raffinamento torna ad avere lo stesso bisogno, perchè conviene adoperare un colpo
più energico per conciliarci l'attenzione d'un essere difficilmente sensibile, quanto d'un essere molto
occupato delle proprie idee.
§. XIII.
Schiarimento sull'indole dei dolori, e dei piaceri.
Il tempo, che passiamo con piacere, ci sembra breve, e quello, in cui soffriamo dolore
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lunghissimo. Il tempo relativamente a noi altro non è che la successione delle nostre sensazioni. Se
un uomo potesse per degli anni di seguito restare assorbito nell'estasi di una sola idea, egli non si
accorgerebbe che sia trascorso tempo. Cposto, se le ore del dolore ci sembrano lunghe, convien
dire che molte e replicate e fitte sensazioni siansi provate durante quello spazio di tempo; onde
riflettendo noi alla serie, per la quale passammo, giudichiamo essere trascorso più tempo che il
pendolo non ci indica; e se le ore del piacere ci sembran brevi, convien pur dire che il tempo
trascorso non fosse variato da replicate scosse e sensazioni; quindi apparisce esser il tempo del
piacere una cessazione d'azione, uno stato uniforme dell'animo, e perciò giudicarsi breve perchè egli
è una quantità negativa, ed un accostamento al non essere; laddove il dolore è una quantità di azione
positiva, e nella rapida cessazione di lei consiste il piacere. Ecco perchè altresì il piacere per sua
indole debb'esser breve, può protraersi oltre un corto spazio; laddove il dolore può essere tanto
lungo e durevole, quanto la vita che ci può togliere; perchè una azione positiva sopra di noi non ha
altri confini di tempo che la nostra sensibilità; invece una mera cessazione rapida di dolore non può
allungarsi senza continuo discapito della rapidità sua, e annientata questa s'annienta il piacere, come
si è detto di sopra.
Quando è mai che l'uomo corra più avidamente in traccia dei piaceri? Ciò è nel punto in cui
egli è più infelice, e soffre i mali maggiori. Dopo di un tremuoto, di un grande incendio, nel tempo
della pestilenza l'uomo naturalmente punto da mille oggetti di miseria propria e altrui, si getta alla
più libertina sfrenatezza; quei riguardi, che tenevano nella moderazione il cittadino in tempi
migliori, nel disastro, nella folla de' mali sono troppo deboli fili; non è sopportabile lo stato
continuato e atroce dei dolori morali; si rompono i ritegni, e si corre clamorosamente dietro un
piacere qualunque, purchè s'ottenga una tregua ai mali con una rapida cessazion di dolore. Quanto è
più violento il dolore, e quanto ne è più rapida la cessazione, tanto più intenso ne sasempre il
piacere. I vecchj generali, induriti nella militare disciplina, e insensibili quasi alla gioja, si vedono
dopo d'una battaglia vinta inondati di lacrime di allegrezza; sono in quel momento i più sensibili, i
più cordiali uomini del mondo. I dolorosissimi sentimenti che assalgono il cuore d'ognuno al
combattere, la natura che internamente grida, l'onore che forzatamente compone il nostro aspetto, la
fortuna dello stato nostro, sentimenti violentissimi che ci stringono, scompaiono al momento che il
nemico fugge, e quella rapida cessazione fa palpitare anco le fibre più incallite. Da una pericolosa
burrasca un soffio celere di vento se ti salvi in un porto sicuro, vedrai i più insensibili uomini
marinareschi abbracciarsi l'un l'altro con trasporto di gioia, gridare, cantare, abbandonarsi alla
delizia cagionata dalla cessazione rapida dei mali. Non mi si troverà un solo dolor fisico o morale,
la di cui rapida cessazione, non sia un piacere. Non mi si troverà un solo piacer fisico ovvero
morale, del quale sicuramente si possa dire non essere questo cagionato da una rapida cessazion di
dolore o fisico, o morale, o innominato. Ecco ridotti con ciò i fenomeni della sensibilità a un solo
principio, cioè alla fuga del dolore, giacchè l'amor del piacere si risolve in una fuga rapida del
dolore, e così i due elementi della sensibilità nostra accennati all'introduzione di questo discorso, si
risolvono in un principio solo, la fuga, come si è detto, del dolore; e dipendendo il dolor fisico dalla
lacerazione, e il dolor morale dal timore, eccoci ai due ultimi termini, che immediatamente toccano
la nebbia sacra del nostro essere, e che ci additano però i due mezzi, che producono il nostro
movimento.
Fra i misterj della fisica deve riporsi la elasticità. Una molla di fino acciaio stassene
immobile sin tanto che non venga compressa: il mistero della sensibilità vi ha molta rassomiglianza;
l'uomo privo di sensazioni rimane parimenti immobile; comprimilo, addoloralo, ei si rannicchia in
stesso, e si move. Se la compressione è passeggera e tenue, la molla rimbalzando se ne libera e
nel primo slancio si dilata anche oltre il limite in cui prima trovavasi; così la sensibilità, se il dolore
sia moderato e passaggero, al cessare di esso la gioja sembra che la dilati e la estenda anche quasi
fuor di sè: il dolore è quasi un raggruppamento, una condensazione; ed è espansiva, e sembra
grandeggiare la gioja. Comprimi la molla con eccessivo peso, ella perderà l'elasticità, o sarà
infranta: opprimi l'uomo con eccessivo dolore, o lo renderai stupido, o lo ucciderai. Togli alla molla
la compressione per gradi insensibili, e ritorna allo stato primiero senza ribalzo; toglimi
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insensibilmente il dolore, e giungo alla tranquillisenza piacere. Assoggetta la molla a un peso
uniforme, e lasciala per molto tempo compressa immobilmente, la elasticità sarà diminuita, e non
sarà mai più quella di prima: aggrava l'uomo di un dolore diuturno e uniforme, non riacquista più la
squisita sensibilità di prima; col lungo tratto l'uomo s'indurisce ai mali, la sensibilità s'incallisce e
cade nella indolenza o nella disperazione.
§. XIV.
Se nella vita siano più i dolori, overo i piaceri.
Sono adunque più i mali, o i beni in questa vita? La somma totale de' dolori è ella eguale,
maggiore, ovvero minore della somma totale de' piaceri? Ogni uomo prova egli una porzione uguale
di bene, e male? Su di tali questioni trattate ingegnosamente da vari illustri italiani all'occasione del
libro del signor di Maupertuis io ardirò dire quello che ne sento, e quanto parmi scaturire dai
principj già indicati. Vchi osservò non essere due quantità paragonabili dolore e piacere, e non
potersi mai esattamente trovare una di queste due serie di sensazioni, che sia eguale, o doppia, o
tripla dell'altra. In fatti dammi un piacere, che esattamente valga un determinato dolore? La mente
umana non ha mezzi onde graduarli, nè abbiamo veruna macchina che serva di misura, come i
termometri, i pendoli, i palmi, le once ci fanno paragonare i gradi di calore, il tempo, l'estensione, i
pesi ec. Ciò non ostante nella pratica delle nostre azioni noi facciamo tacitamente paragoni continui
fra il male e il bene, fra il dolore e il piacere. L'ambizioso, l'innamorato, l'avaro, il vendicativo
quanti mali non affrontano, quante sensazioni dolorose spontaneamente non iscelgono, perchè
giudicano praticamente che il piacere, che se ne promettono, sarà maggiore del male, che son
disposti a soffrire per ottenerlo! Anche gli uomini più pacati, e non mossi da forte passione
scelgono sempre fra il dolore, e il piacere, e ne fanno continuo calcolo di paragone. L'uscir di casa
con un tempo cattivo, l'attraversare un lungo cammino a piedi, l'uscir di buon
'
ora da letto ove
mollemente ti giaceresti, il differire a cibarti ec., sono piccoli dolori, ma però lo sono, e ogni uomo
li giudica una quantità minore del piacere che avrà d'aver visitato un amico, d'avere esattamente
adempiuto agli obblighi dello stato, d'aver usata urbanità e compiacenza ec. Se adunque nella
pratica l'uomo paragona continuamente i dolori, e i piaceri, convien dire che sieno due quantità
prossimamente paragonabili. Ogni azione nostra si assomiglia a una compra: si il denaro per
avere una cosa; il privarsi del danaro per è un male; ma quando compriamo, giudichiamo che è
un bene maggiore di questo male la cosa che ricerchiamo. In ogni condizione, in cui sia l'uomo,
anche sotto al trono, è costretto a fare una quantità di azioni penose, incomode, dolorose per
acquistarsi i piaceri. Questo calcolo l'uomo lo fa abitualmente.
Ciò posto, siccome di sopra ho detto, il piacere non essendo che una rapida cessazione di
dolore, non può in conseguenza essere maggiore giammai della quantità del dolore, la di cui
cessazione non può essere maggior quantità che lui medesimo. Di più l'uomo soffre dei dolori, i
quali cessano lentamente, onde non hanno un piacere che ad essi corrisponda. Dunque la somma
totale delle sensazioni dolorose debb'essere in ogni uomo maggiore della somma totale delle
sensazioni piacevoli. Tal è la condizione dell'uomo; ma la seducente e consolatrice speranza ci sta
sempre al fianco sino all'ultimo respiro, sparge di rose la scoscesa e laboriosissima via; per lei
prendiamo vigore e fiato; e s'ella ci spigne al di del breve viver nostro, ci fa ridenti attraversare
fralle difficoltà più scabrose, e placidi soffrire anche i dolori più forti.
Se fosse vero che ogni uomo egualmente avesse che soffrire, e che godere, se fosse vero che
il sano, ricco, libero, rispettato avesse tanti mali e beni, quanti ne ha l'infermo, povero, carcerato, e
abbietto, questa odiosissima verità distruggitrice di ogni germe benefico di compassione sarebbe da
proscriversi da chiunque onora l'umanità. Ma la immortale verità non nuoce ai più cari e preziosi
sentimenti dell'uomo, e l'opinione di questa sognata uguaglianza è un patentissimo errore. Se ogni
piacere consiste nella rapida cessazione d'un dolore, e se ogni dolore può cessare anche lentamente,
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ne viene per conseguenza che può essere diversissima la proporzione fra l'uomo, e l'uomo; e mentre
uno nella serie della sua vita avrà un terzo delle sue sensazioni piacevoli, un altro appena ne avrà un
decimo, un centesimo.
E quì do fine al mio discorso, lontano egualmente dal gregge degli epicurei, come
dall'insensibilità della Stoa: se avrò fatte cessare rapidamente e con frequenza le sensazioni dolorose
di chi mi ha letto; se l'avrò invitato a pensare, ad analizzare l'inesauribile fondo della propria
sensibilità, avrò ottenuto il fine che mi era proposto.
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INDICE DE' PARAGRAFI.
§. I. Introduzione.
§ II. Dei piaceri, e dei dolori fisici, e morali.
§. III. Il piacer morale è sempre preceduto da un dolore.
§. IV. Il piacer morale non è altro che una rapida cessazion di dolore.
§. V. La maggior parte de' dolori morali nasce da un nostro errore.
§. VI. Sviluppamento della teoria dei piaceri, e dei dolori morali.
§. VII. Dei piaceri, e dei dolori fisici.
§. VIII. I piaceri delle belle arti nascono dai dolori innominati.
§. IX. Applicazione del principio alle belle arti.
§. X. Come l'uomo giudichi nella scelta fra i dolori, e fra i piaceri.
§. XI. Il dolore precede ogni piacere, ed è il principio motore dell'uomo.
§. XII. Di alcuni dolori, e piaceri di opinione.
§. XIII. Schiarimento sull'indole dei dolori, e dei piaceri.
§. XIV. Se nella vita siano più i dolori, overo i piaceri.
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DISCORSO
SULLA
FELICITÀ
§. I.
INTRODUZIONE
Se la condizione dell'uomo è tale, che qualunque sia lo stato suo o di propizia, o di avversa, fortuna,
sempre la fomma delle Sensazioni dolorose che avrà sofferte sarà maggiore della somma delle
Sensazioni piacevoli (siccome nel discorso precedente credo di avere provato) per necessità
converrà dire, che non può darsi nell'uomo la felicità pura e costante, ed all'incontro può darsi la
miseria e la infelicità. Questa verità sconsolante sarebbe da dissimularsi se col palesarla e
svilupparla non ne venisse del bene; e credo io che ne venga, e tale, e tanto, che in esso si racchiude
quel di meglio che il retto uso della ragione può farci conseguire; e che la più sublime e la più utile
verità a cui ci conduce la filosofia sia il conoscere che la felicità considerata come una quantità
positiva e segregata dal male è un sogno, e che tutto il saper nostro non può rivolgersi a un nostro
utile reale se non quando abbia di mira la diminuzione soltanto de' nostri mali. In fatti se fissataci
una volta in mente la idea d'una assoluta felicità paragoneremo a quella lo stato nostro, tanto lo
troveremo distante da quella sognata beatitudine, che renderemo sempre più amaro e misero a
sopportare lo stato della nostra condizione; che se più illuminati conosceremo essere i mali il nostro
retaggio ed una inseparabile conseguenza del composto di cui siamo formati; se conosceremo che
gli uomini, che in apparenza ci sembrano i più invidiabili e felici, sono il più delle volte meschini,
costretti a portare sul viso una maschera ridente ma realmente rosi da mille angustiose passioni, e
forse più miseri di quello che non lo siamo noi; se toccheremo con mano che quand'anche da noi
soli dispoticamente dipendesse l'organizzare tutto il genere umano a nostra foggia e collocarci
all'apice della dominazione, ciò non ostante saremmo infelici per sazietà, per la noja, pel vuoto di
non aver più desiderj; allora ritornando in noi medesimi troveremo conforto ai nostri mali,
ripiglieremo vigore per rintuzzarli o indurirci a quelli, e non disperando di nostra condizione,
cercheremo dì rendere più piccola la nostra infelicità coll'industrioso maneggio della ragione,
ripiegandoci in noi medesimi e contrapponendo cosa a cosa, e bilanciandoci cogli avvenimenti,
come appunto un abile architetto la stessa gravità distruggitrice sa servire alla solidità dell'edificio.
L'eccesso de' nostri desiderj sopra il potere è la misura della infelicità. Chi niente desidera è
in uno stato di letargo; chi sommamente desidera s'accosta al delirio: il primo non è infelice, il
secondo lo è di tanto quanto non può conseguire. Ma l'assenza de' desiderj è piuttosto vegetazione
che vita, e non si che per intervalli: laddove la violenza de' desiderj la prova ogni anima che
sente con energìa, e talvolta può essere uno stato durevole. Le operazioni adunque da farsi per
allontanarci dalla infelici sono o diminuire i desiderj, o accrescere il potere, o l'uno e l'altro
insieme.
Ma siamo noi
padroni di diminuire i desiderj nostri, siamo noi arbitri di accrescere il nostro
potere? In tutto no certamente; perchè ogni volta che soffriamo un dolor fisico è una conseguenza
fisica in noi il desiderarne la cessazione; perchè il preservarci totalmente anche dai soli errori di
opinione non è compatibile colla imperfezione del nostro essere; perchè il dilatare il poter nostro
oltre certi confini viene interdetto dalla fisica istessa e dal potere degli enti che lottano con noi: ma
il premunirci coll'uso della ragione e col placido esame contro l'insidioso assalto delle passioni
prima che esse ci abbiano scossi e trasportati nel chimerico mondo della immaginazione; ma lo
scemare e molto più l'impedire il nascimento dei desiderj nostri di tanto almeno quanto v'è di
sognato ne' beni che immaginiamo, è sicuramente entro i confini della nostra volontà, come è in
mano nostra l'accrescere il poter nostro con varj mezzi che andremo esaminando; e vedremo che
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certamente gli uomini assai meno sarebbero infelici se facessero singolarmente nella loro prima età
un uso continuato e intenso della loro ragione per esaminare i loro interni movimenti, e ridurre a
sistema e a principj le proprie azioni.
L'immaginazione di ogni uomo è sempre disposta ad ingrandire i mali che temiamo e i beni
egualmente che desideriamo, e ognuno riflettendo sopra di se medesimo e ricordandosi delle
sensazioni provate, sarà meco d'accordo nell'asserire, che realizzatisi i desiderj gli oggetti agiscono
sopra di noi con assai minore energìa di quanto ci aspettavamo. Se adunque si toglierà ai desiderj
nostri tutta la porzione che in essi si racchiude di chimerico, di molto se ne diminuirà la somma:
esaminiamo questi principj e cominciamo dai desiderj.
§. II.
Della Ricchezza.
Le ricchezze sono lo scopo d'uno de' più comuni desiderj, e certamente, essendo elleno come
un pegno del diritto che gli uomini hanno sulle cose, chi le possede sembra dilatare la propria
essenza ed interessare una più gran parte della natura ne' suoi piaceri. Il desiderio di esse non può
essere dalla ragione diminuito fin tanto che si circoscrive ai bisogni fisici e civili; ma pochi sono
coloro i quali sapendo far uso di loro ragione trovinsi in questo caso. Il destino, o per dir meglio la
spensieratezza dell'uomo fa che avidamente desideri la ricchezza, e poi quei pochi che l'ottengono
diventano realmente più infelici di prima; perchè l'arte di saper godere delle ricchezze è molto più
rara dell'arte di acquistarle, anzi l'avidità di ammassarle per lo più esclude quella generosa e nobile
distribuzione, dalla quale sola dipende il godimento. Chiunque conosca un uomo che dalla povertà
sia giunto ad ammassare una ricchezza importante dovrà dire che quello sarebbe stato più felice se
avesse porto più angusti limiti ai suoi acquisti. La cura incessante di placare la non mai sopita
invidia, la inquietudine di preservare i beni dall'invasione, la sollecitudine, il sospetto sugli attentati
altrui, la sete sempre rinascente di accrescere gli acquisti, la non mai saziata avidità, la pena d'essere
sempre come sul Teatro rappresentando un Personaggio in faccia del pubblico censore attento e
difficile delle azioni d'un uomo che da povera condizione sia giunto alla ricchezza, la vista di eredi
che hanno scritta in fronte la impazienza del nostro fine, i mali fisici che accompagnano la vita
molle e affannata da un fascio di sventuratissime sensazioni, tale è lo stato a cui cerca di giugnere
chi sconsigliatamenre desidera una grande ricchezza, Chiunque sei che possedi un moderato
patrimonio, se ti è odiosa la infelicità, se brami di passare la tua vita il meglio che si può, stabilisci i
confini ai tuoi desiderj, e sia quello il Dio Termine sacro e inviolabile posto dalla Sapienza. Un
accrescimento che tu faccia ai beni tuoi oltre la tua moderata condizione è il seme da cui
ripulluleranno innumerevoli nuovi desiderj che giammai non giugneresti a pareggiare col potere,
Misura le tue spese, limita gli eccessi capricciosi, soddisfa i tuoi bisogni in prima, poi la decenza, se
te ne rimane di più donalo alla beneficenza non mai al lusso, e sia certo che l'avaro egualmente che
il prodigo sacrificano i bisogni reali ai bisogni chimerici, perchè il primo pospone i bisogni presenti
ai venturi capricci, e il secondo preferisce i capricci presenti ai venturi bisogni; il primo sempre
s'apparecchia per viver bene, e mai non vive realmente bene, l'altro divora tutto nel momento
attuale, e si dimentica di viver bene nel tempo a venire.
Io non dirò il paradosso che un patrimonio cospicuo sia un male, nè che l'uomo saggio debba
spogliarsene, o gettar nel mare le ricchezze, come si raccontò d'un antico Filofoso; dico anzi che
questi potranno essere mezzi per acquistare assai beni e contribuire alla propria felicità; ma dico che
ciò accaderà allorquando questi mezzi ci sieno venuti indipendentemente da nostri sforzi continuati
per ottenerli, perchè allora chi se ne trova al possedimento può aver l'animo superiore alle ricchezze
medesime, e considerandole come mezzo d'aver i beni, e non beni per loro medesime, maneggiarle,
ripartirle, e servirsene con accorta e saggia distribuzione senza affanno; laddove l'uomo che
divorato dal desiderio di ricchezza l'ha ammassata gradatamente, colle proprie azioni deve aver già
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abituato il suo cuore all'affannoso desiderio che non mai si limita, anzi si moltiplica colla nuova
esca, e signoreggiato dal proprio denaro ne porta servilmente il peso e palpita e s'angustia per
accrescerlo, conservarlo, e ripartirlo. Lorenzo de' Medici trovò da' suoi maggiori ammassati i tesori,
nella sua prima età non si occupò col pensiero d'arricchirsi, ma portato da un felicissimo genio
verso il bello e il grande, dotato di fino sentimento per discernerlo si abbandonò in braccio alla
nobilissima passione di onorare e proteggere il merito; conosce in un fanciullo la nascente passione
per essere uno scultore, lo abbraccia, lo assiste, lo ricovera, lo anima, e presenta alle età venture un
Michelangelo. Ma nessuno di questi privilegiatissimi piaceri può gustare l'uomo diuturnamente
abituato ad ambire ed ammassare le ricchezze, perchè, siccome dissi, il desiderio non è mai sazio, e
l'ammasso non è compiuto giammai; quindi non può l'uomo che per uno sconsigliatissimo partito
abbandonarsi al desiderio delle ricchezze. Tutti adunque gl'infelici i quali soffrono l'angustia di
bramare i tesori e di accumularli, e ne sopportano le lunghissime cure, le umilianti mortificazioni, il
sacrificio frequente della loro probità, sono infelici appunto perchè non ragionano abbastanza,
perchè non vedono esattamente bene gli oggetti ai quai corrono dietro, e se la ragione venisse
esercitata nell'esame importantissimo di noi medesimi, sarebbero tolti dalla lunga lista degl'infelici
tutt'i molti che vi sono per avidità di ricchezze. Che cerchi tu mai di ottenere col tuo ammasso!
Forse i piaceri fisici! Questi sono destinati per l'uomo amabile; l'amore comprato è la cosa la più
insipida e umiliante di tutte. Forse la stima degli uomini comprandoti delle condecorazioni! Gli
uomini irritati per questo appunto saranno noti i tuoi piccoli principj, e il ridicolo si intreccerà co'
fasci de' tuoi Littori. L'uomo condecorato per nascita e per merito ti spreggerà se sarai cinto colla
stessa fascia d'onore da lui acquistata co' servigi renduti allo Stato e da te a contante. Il vero
interesse nostro ben conosciuto ci reca il disinganno sulla chimerica felicità delle grandi ricchezze,
ed ecco svelto un gran ramo de' nostri desiderj i più difficili a giammai pareggiare col potere, perchè
grandeggiano sempre più progredendo.
Ma per allontanarci dal pericolo di desiderare la ricchezza è ugualmente necessario il fare un
uso moderato e un prudente riparto de' beni nostri. La spensieratezza nella privata economia porta
con se la ingiustizia verso i nostri creditori, il cambiamento sempre in peggio della condizione
nostra, la diminuzione annua de'
comodi ai quali siamo abituati e alla fine ci conduce a un
cocentissimo desiderio di que' vantaggi che godevamo ed abbiamo scioperatamente perduti; la
memoria del passato fatto, la vista della inopia attuale, e durevole fanno un contrasto desolante a
segno che piombiamo talvolta nell'avvilimento, e da quello quasi lusingandoci d'un ritorno allo stato
primiero siamo disgraziatamente spinti talora fino al delitto. Se il prodigo avrà famiglia facilmente
ognuno comprenderà con qual piacere possa egli contemplare la sposa alla quale non può
somministrare il decente corredo, i teneri figli abbandonati nella educazione e degradati dalla
condizione a cui avevano dritto di aspirare. Sia anche solo e libero il dissipatore, a misura che va
egli invecchiando cioè a misura che crescono i bisogni de' comodi, i mezzi vanno diminuendosi,
scompajono colle ricchezze i falsi amici, trovasi isolato e in preda all'amarezza ed all'abbandono. I
pochi piaceri divorati frettolosamente nella gioventù non pesano bilanciano i lunghi rammarichi
che rimangono a soffrire negli ultimi anni. Se l'uomo vi riflettesse non accetterebbe certamente mai
di fare un tal cambio. Ma nei più la mente è priva delle nozioni più interessanti per la felicità, le
passioni nacquero, il momento presente, il capriccio attuale occupano soli la mente, e nemmeno di
volo si getta uno sguardo sull'avvenire. L'uomo che seppe essere uomo dapprincipio e che nella
prima età si abituò a dubitare prima di decidere ed esaminare prima di scegliere, non farà mai tale
abuso de' suoi beni da prepararsi col tempo gli smaniosi desiderj di riaverli. Ami tu il denaro?
custodiscilo con sapienza. Cerchi tu forse colla profusione, colla pompa, e col fasto di rendere
attoniti gli uomini, e farti credere più che non sei possente e magnanimo? L'illusione accecherà te
solo, alcuni pochi saggi e buoni ti compassioneranno, i più ti dileggeranno, le tue facoltà sono note,
non sperare che i creditori sieno pittagoricamente taciturni, la Città conosce che il tuo fasto non è
durevole, la tua grandezza ti guida ad usurpare l'altrui, a mancare di fede se ti abbandoni alla
profusione. Avrai alcuni scaltri parasiti, come edera tenace ti avviticchieranno, ficcheranno le radici
nel tronco e alimentandosi coll'umore di quello ti crederai fiancheggiato. Sgombreranno al primo
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bisogno; gli amici non si comprano, le anime capaci di profittare della rovina altrui non lo sono
d'amicizia: questo sacro e nobile sentimento del cuore è disinteressato, nasce dalla virtù, dalla
uniformità del genio, e dai beneficj fatti per iscelta e non per fasto, e nati da una espansione di cuore
anzi che dalla spensieratezza. Tale è il linguaggio della ragione la quale evidentemente ci dice se tu
spendi quest'oggi pche non ti fruttano i tuoi beni ogni giorno, o devi avere fatto risparmio ne'
giorni passati, ovvero risparmierai nell'avvenire. Se in quest'anno la tua ricchezza di mille non ti
basta e ne vuoi spendere mille e dugento, dunque nell'anno venturo tu spenderai solo ottocento, e
come questi basterebbero se in quest'anno i mille non bastano? Questo facilissimo, popolarissimo
ragionamento solo basta a tenere lontano ogni uomo dalla dissipazione e così dalla miseria d'essere
in preda a inutili desiderj di ricchezza. L'uomo adunque facendo buon uso della ragione, datagli
dall'Essere Eterno appunto per farne buon uso, può liberarsi e prevenire una folla di desiderj
tormentosi di ricchezza, e così guardarsi da una moltitudine di lacci che lo strascinano, se è
spensierato, alla infelicità.
§. III.
Della Ambizione
L'ambizione è forse la passione la più funesta insieme e la più benemerita; a lei dobbiamo la
massima parte de' politici disastri e delle più grandi e utili imprese; i desiderj che la costituiscono
hanno per oggetti la Gloria, la Stima, gli Onori.
Gli uomini energicamente organizzati e dotati d'una robusta maniera di pensare sentonsi
angustiati dai due limiti tanto vicini fra il nascere e il morire: la loro esistenza è come compressa in
un piccolo spazio, e quindi con un nobilissimo entusiasmo sentono il bisogno di estenderla a più
lontani limiti di tempo e di luogo. Questi sono ambiziosi di Gloria, e cercano di lasciare ai secoli
venturi e alle rimote nazioni vivo il loro nome o per conquiste o per regolamenti civili, ovvero
coll'accrescere il deposito de' lavori dell'ingegno. Sono questi o soldati, o ministri, o uomini di
scienze, di lettere e di belle arti. Un Monarca ambizioso di gloria trova già preparate le due prime
strade; ma per l'ultima gli conviene partire dal punto medesimo d'ogni altro uomo cioè dalla
ignoranza; perciò nell'indice delle Biblioteche gli Autori coronati vi sono in assai minore numero
che non trovansi nella serie cronologica i Sovrani Conquistatori e Legislatori; ma per un uomo
privato le due prime strade della gloria sono difficilissime, e per un Capitano di condizione privata
veramente illustre, per un Ministro degno di memoria l'antichità ci ha trasmessi venti privati
Scrittori, Architetti, Pittori che hanno reso celebre il loro nome. Chi cerca fra i privati di passare alla
posterità scegliendo il partito delle armi rifletta che più di due milioni d'uomini avran dato il nome
alla milizia in questo secolo fino alla metà di esso, e che appena sei generali fra gli uomini privati si
conteranno i quali veramente abbiano avuta occasione e sapere per vedere scritto il loro nome al
Tempio brillante della Gloria; e quand'anche il tempo non cancellasse alcuno di questi nomi,
sarebbe sempre la probabilità di acquistarsi la gloria per quella via come l'unità a trecento e più
mila, sorta di lotterìa di cui la disuguaglianza balza agli occhi troppo facilmente: quindi è che
realmente siano mossi piuttosto dall'ambizione degli onori che dall'ambizione della gloria coloro
che intraprendono quella carriera per ambizione. Se cercasi la gloria dai privati che ambiscono le
cariche del Ministero, sono anch'essi abbagliati da un seducente oggetto che è difficilissimo a
conseguirsi. Gli altari umani si movono quasi sempre per una diagonale composta da più forze
motrici, l'energia medesima dell'animo ambizioso di gloria per quanto sieno retti i di lui fini e
limpida la sua morale gli scosta gli elementi motori, gli uomini si collegano meno contro una
nascente ricchezza che contro una gloria nascente, e siccome in questa carriera non si possono
occultare i primi progressi, come si fa nelle lettere volendo, così si deve combattere mentre che ti
stai armando, e pochissima resta la probabilità della riuscita; quindi pochissimi ambiziosi di gloria
fra i privati s'ingolfano a cercarla negli affari pubblici, e quei che ne intraprendono la carriera per
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ambizione lo fanno per l'ambito degli onori. Se hai dunque desiderio di gloria e di passare ai posteri
ragionando, tu sceglierai la strada la più indipendente, la più tranquilla, e non meno lusinghiera,
cioè quella delle scienze, delle lettere, o delle belle arti; giacchè se il tuo animo ha tanto vigore di
non accontentarsi dell'ambizione degli onori, non ti mancherà l'ingegno e il calore per innalzarti
negli studj della mente al punto di meritarti e ottenere la gloria. Gli onori può darli un uomo, ma la
gloria la danno gli uomini, le età, le nazioni; chi s'innalza sopra di essi è in gran pericolo al primo
slanciarsi che fa a volo, quello è il tempo della oscurità e del silenzio pel saggio, ma spiegato che
sia il volo e decisa la superiorità, gli uomini cessano d'invidiare uno che ha cessato d'essere oggetto
di confronto, si rivolgono ad ammirare chi gli ammaestra, e in ricompensa dell'utile, e del piacere
che ne ritraggono e delle fatiche sostenute a tal fine, lo onorano, e insegnano ai figli loro di
onorarlo, nel che consiste la gloria. Io non dirò che il desiderio della gloria per gli altri oggetti sia da
spegnersi; dirò bensì che per un Alessandro, un Cesare, un Maometto vi sono migliaja d'uomini
infelicissimi, e che questi tre conquistatori, da quanto possiamo saperne, furono essi medesimi
divorati da amarissime passioni. Dirò che per un Sejano, per un Triboniano, e per un Richelieu si
può dire lo stesso dei disgraziati che hanno ambito la gloria negl'impieghi pubblici, e questi
fortunati nemmeno lo furono per la loro felicità. Dirò finalmente che i desiderj della gloria portando
un privato alla contemplazione della verità e alla perfezione delle arti liberali lo ripongono nello
stato il più invidiabile per un uomo ambizioso di gloria. Quindi in vece di combatterne il desiderio,
saggiamente pensando alla propria felicità, convien coltivarlo. Ma questa gloria conviene invitarla,
meritarsela ed aspettarla senza una indiscreta impazienza. Gli uomini di lettere nella prima loro
gioventù talvolta si slanciano nell'arena ancora mal esperti; questa giovanile impazienza è da
calmarsi e conviene appettare di aver cose da presentare al pubblico giudizio le quali s'innalzino
sulla mediocrità. La gloria cioè una generale, estesa, e durevole opinione non si può ottenere dagli
uomini in un momento; al primo comparire d'una opera interessante le opinioni sono divise, non
conviene maravigliarsi d'un avvenimento che è inevitabile, promettersi un accordo istantaneo
delle tante discordi menti umane in favor nostro, peggio poi discendere a confutare le censure che la
piccola invidia o la ignoranza fanno sempre nascere appunto a corredare un bel lavoro per morire un
momento dopo, come i vapori esalati da paludoso terreno schiudono un baleno che abbaglia e
sviene, lasciando gli astri adorni della immortal luce placidi e eterni nella loro rivoluzione. Se
desiderando la gloria delle belle arti conoscerai intimamente queste verità non avrai desiderio che
non sia compiuto, a meno che tu non offenda incautamente coll'annunziare le tue idee quegli uomini
e quei ceti che possono far soffrire bensì un uomo, ma non già togliergli la gloria, esposto ch'egli
abbia alla pubblica luce il suo lavoro.
L'ambizione della stima è un sentimento più circoscritto alle persone meno rimote da noi, e
ad un tempo limitato poco più del vivere, nostro. Questa ambizione è compagna della virtù, e se la
prima ambizione tende a sottometterci gli uomini, questa sembra accostarceli, e aver per oggetto di
rendergli amici. Se il desiderio della stima pubblica cade nell'animo di un uomo superiore al
comune livello per digni e potere, potrà egli vederlo adempiuto facilmente; la rettitudine, la
popolarità, la beneficenza, l'amorevolezza delle maniere bastano: ma se ti abbandoni al desiderio di
ottenere la stima de' tuoi eguali ti prepari l'amarezza, perchè nel tempo istesso in cui si sentiranno
costretti a stimarti, il dolore di contribuire a darti col loro suffragio una temuta superiorità, farà che
non te la mostrino: i nostri pari sono rivali nostri nati; mostreranno essi più distinzione ad un uomo
mediocre che li diverte e non gli imbarazza, che ad un Cittadino virtuoso che con una nobile
fermezza vuol sempre essere buono, e tacitamente loro rimprovera col paragone che non sian tali.
Gli uomini saggi quando hanno ambito la stima generale hanno sempre incominciato dal popolo più
facile ad acquistarsi, perchè non trovasi in concorrenza con noi, sente rivalità della superiorità
nostra già stabilita dalla fortuna; anzi ci fa buon grado che valutiamo la sua opinione, e che ci
spogliamo dell'orgoglio che circonda chi è superiore al popolo; ed è disposto ad esaltare la nostra
virtù per poco che ne lasciamo travedere. Allora fiancheggiati dalla stima dei popolari costringiamo
gli stessi ottimati a celare la loro rivalità e soccombere al numero. Che se immediatamente cerchi il
suffragio de' tuoi pari tu desideri una opinione instabilissima per natura, la quale quand'anche si
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ottenga porta sempre seco la maggiore probabilità pel cambiamento. Chiunque non avendo un
animo comune si propone di acquistare i suffragi de' suoi pari deve per lo più disporsi ad un intero e
lungo sacrifizio col modellare ogni parola, ed ogni atto esterno sulle opinioni, e su i pregiudizj di
essi per modo che rinunziando quasi alla esistenza propria deve addossarsene una fattizia, e ciò per
tentare l'acquisto di una chimera pronta a scomparirgli davanti al minimo soffio contrario.
L'assurdità di questo contratto è tanto evidente che io non so che alcun uomo non volgare lo abbia
mai fatto. Convien dunque cercare la stima generale non mai al nostro livello, ma o più alto, o più
basso; perchè coloro che son posti a sedere più alto di noi, egualmente che i molti che corrono nel
piano più basso, non sono in rivalità di virtù e di merito, e ci giudicano senza passione almeno, se
non senza errore. Quindi l'ambizioso della stima pubblica diminuirà o cancellerà dal suo cuore il
desiderio di quella de' suoi pari, ed ascoltando la ragione non mai bastantemente adoperata
sull'importantissimo affare della felicità nostra, coltiverà quella sola porzione di desiderj che sia
pareggiabile col potere. Io ho detto che l'ambizione della stima è compagna della virtù, non già
perchè sempre l'uomo virtuoso sia mosso da desiderio di acquistarsi la stima, ma perchè questo
desiderio sarebbe una contraddizione se si supponesse in un animo capace di commettere azioni
ingiuste, dure, o crudeli, azioni distruggitrici della stima pubblica, ed ho appoggiato anzi alla virtù
che alla superiorità dei lumi l'acquisto della stima, perchè questi ci sforzano ad ammirare ed a
confessarci inferiori, ma non ad avere quella rispettosa benevolenza e fiducia, che porta con se il
sentimento di stima.
Finalmente l'ambizione degli onori è la terza classe la quale esclude, nè suppone le virtù
del cuore, e l'energìa dell'animo. Questa classe di ambiziosi è più numerosa incomparabilmente
delle altre due. Alcune volte l'uomo di merito, e che vive lontano dalla ricerca degli onori, si trova
amareggiato dalla insolenza, e dal fasto d'uno, che è distinto nella società per una carica o per un
titolo; questi amari frizzi si moltiplicano, vede che il merito disarmato è oppresso dal vanaglorioso,
si determina e si scaglia impetuosamente sulla carriera per acquistarne e pareggiarsi agli altri, e
sottrarsi alla ingiustizia; e prova allo stolido che la distanza posta dalla fortuna fra un uomo e l'altro
non è sempre uno spazio insuperabile. Questi ambisce gli onori per sottrarsi all'insultante fasto
altrui non perchè in se stesso gli abbia in pregio. Altri cercano gli onori come un testimonio del
merito proprio: leggieri, fluttuanti, incerti fra il bene e il male la maggior parte degli uomini,
vorrebbero persuadersi di valere, provano frequenti occasioni di conoscere che valgon poco, questa
fatale incertezza li rattrista, sembra loro di uscirne acquistando degli onori: costoro sono uomini
vani e non uomini ambiziosi; Ambizioso è colui che li cerca come un mezzo per difendersi; Vano
colui che li cerca come un testimonio del proprio merito che non trova nella propria coscienza. La
vanità più facilmente conduce agli onori che l'ambizione, perchè l'animo dell'uomo vano, appunto
perchè più incerto di se medesimo è più versatile e pieghevole alle diverse circostanze de' tempi e
de' luoghi, laddove l'animo vigoroso di chi ha ambizione è più violento più rigido e meno docile per
conseguenza a prendere l'aspetto piacevole in faccia a chi è l'arbitro nella distribuzione degli onori.
Quando la distribuzione degli onori dipende o da uno o da pochi la incertezza dell'esito diminuisce a
misura del merito dei distributori: sotto di un capriccioso despota, sotto un Caligola chi può mai
prevedere se farà fatto console l'uomo di virtù o un Cavallo! sotto un saggio Monarca è meno
difficile il prevedere se sarà esaudita o no una supplica, perchè le vie della sapienza sono semplici e
chiare, quella della arbitraria opinione sono un labirinto. Le cariche poi e gl'impieghi non sempre si
danno a chi sappia meglio esercitarle, ma talvolta a chi sa meglio esser gradito al distributore: la
fiducia di dilatare il proprio potere riponendo in carica de' meri stromenti de' loro fini, può molto
presso i ministri primarj generalmente. Vi sono fortunatamente delle eccezioni, ne conosco, ma
tanto più sono pregevoli perchè sono rare. Pochissimi poi sono che non temano la superiorità de'
lumi e della forza d'animo. Queste qualità vedute producono maraviglia, sentite producono timore,
esercitate producono o l'esterminio di chi le possede o l'obbedienza degli uomini.
Conosciute che siansi queste verità l'uomo esaminerà se medesimo, esaminerà gli uomini co'
quali dovrebbe porsi ad agire per ottener il loro concorso, e scemerà coll'abbandonare una vana
lusinga la classe dei desiderj che erano nati prima che la ragione lo illuminasse e ne facesse
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conoscere la ineseguibilità, e per gli altri desiderj che rimarranno, molto si scemerà della loro
inquietudine qualora rifletta che la maggior parte de' beni che si sono avidamente desiderati,
ottenuti che siansi s'impiccoliscono e quali svengono; ognuno che abbia molto desiderato un onore
indi abbial'ottenuto mi farà sicuro testimonio quanto sia questo bene diminuito di pregio; l'occhio
vede più piccoli gli oggetti a misura che sono primoti, l'ambizione per lo contrario quanto più
sono da noi lontani gl'ingrandisce, e quanto più s'accostano gli smagra gli spolpa, e moltissimi
s'annientano al contatto. La ragione ci ha abituati a correggere la illusione ottica e giudicare della
estensione anche degli oggetti lontani senza sottraervi dalla vera grandezza; la stessa ragione ci può
abituare a correggere la illusione della ambizione e preservarci dall'ingannevole giganteggiare di
minimi oggetti quasi insensibili per loro stessi. È legge inviolabile che sempre i beni che si
possedono si pregiano meno de' beni che si ambiscono, ma la differenza in chi non ragiona è la
massima, e sempre va diminuendo a misura che sappiamo far uso della nostra mente per esaminare
questi oggetti importantissimi della nostra felicità.
La parte d'Europa ove siavi il maggior fomento per l'ambizione degli onori è sicuramente
Roma, perchè ivi trovasi la possibilità dei più grandi acquisti con minimo tempo e limitatissime
condizioni. Che un nobile sia fatto Doge della sua Patria, che sia creato Re elettivo con una
moderata autorità non è questo uno spazio corso pareggiabile a quello d'un poverossimo fraticello
senza nome, senza appoggi che in sette anni si trova Sovrano d'uno Stato, Padre dei Monarchi, e
Capo della Religione. La importanza di quella che noi chiamiamo Fortuna si deve conoscere non
tanto dal grado a cui uno è giunto, quanto dalla condizione da cui è partito, dal tempo che ha
impiegato per giugnere e dal luogo in cui si è collocato. Un Elettore che sia fatto Capo dell'Imperio,
un Principe del Sangue a cui passi una Corona hanno fatto un passo, un uomo di fortuna che giunga
ad essere il primo Ministro d'una vasta Monarchia come il Cardinale Alberoni ne ha fatti più; ma il
Padre Ganganelli fatto Cardinale e Sommo Pontefice in meno di sei anni ha camminato con una
rapidità somma un lunghissimo spazio e tale che in nessuna altra parte d'Europa può un privato fare
altrettanto. Chi ha potuto accostarsi a Clemente XIV. assicura che acquistare quel sommo grado e
perdere la sua pace fu un punto solo.
Francesca d'Aubigné, nata da un matrimonio contratto per fuggire dalle carceri colla figlia
del Bargello, collocatasi a servire il Poeta Scaron, considerava come un onore il diventare la moglie
di quell'uomo stimato pel suo sapere. Lo divenne e rimase vedova. Fu posta, come sappiamo, a
servire i figlj che Luigi XIV. aveva avuti dalla Marchesa di Montespan; da quella condizione pas
a far dimenticare gli amori al Re e guadagnarselo al punto di essere sposata da lui e dichiarata
Marchesa di Maintenon, la confidente del Re, l'arbitra della Francia, e la più desolata, triste, e
annojata donna che vivesse forse nel Regno. Chi avesse data speranza al Padre Ganganelli
solamente di un buon vescovado si sarebbe creduto di adularlo, ed esso avrebbe nel vescovado
ravvisato il colmo della felicità. Chi alla d'Aubignè serva del Poeta avesse fatto sperare un nobile
agiato marito sarebbe accaduto lo stesso. Se si fosse pronosticata la somma altezza a cui erano
destinati essi avrebbero creduto di morire di gioja al giugnervi, e in effetto dovettero morire di tedio
e di amarezza. Un grosso volume si potrebbe fare di simili racconti, ma ogni uomo per poco di
sperienza che abbia troverà degli esempj nelle persone da lui conosciute alle quali alcuni onori
ambiti hanno diminuita la pace e la felicità coll'ottenerli. Gli onori e i titoli sono come i deliziosi
profumi che gli abituati a inzupparsene più non li sentono o li sentono con indifferenza, mentre
l'uomo volgare che prova una voluttuosa sensazione accostandosi ad essi li crede circondati da una
perenne deliziosa atmosfera. Così i Ministri, i Cortigiani, i titolati, gl'insigniti di onori, ornati di
gemme, d'oro, di nastri, ossequiati, distinti per lo più meritano la compassione anzi che l'invidia. La
mancanza d'ambizione e l'eccesso allontanano ugualmente dal ricercare gli onori, nel primo caso
non si cercano per indolenza, nel secondo non si cercano perchè quello che gli uomini credono
grande è un piccolo oggetto per noi.
Chi era mai il primo favorito del Re di Spagna che viveva contemporaneo a Cervantes? Non
lo so. Mentre questo favorito grande di Spagna, Cavaliere del Toson d'oro, Generale degli eserciti
ec. ec. ec. circondato da una brillante caterva di Schiavi riceveva nel fasto e nel seno dell'opulenza
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le adorazioni de' Grandi e del Popolo, mentre credeva egli che tutto l'universo lo ammirasse, e le più
remote età dovessero venerarlo, lo sconosciuto Cervantes mal vestito, male alloggiato, al lume d'una
lucerna scriveva il suo romanzo il Don Chisciotte; probabilmente si sarebbe trovato ardito
Cervantes se avesse pensato di far conoscere al Reale favorito la sua piccola esistenza. La morte
troncò la illusione, si ignora il nome del grande coperto di onori e per tutta l'Europa è tanto famoso
il romanzo del Cervantes che pochi uomini viventi sono al d'oggi tanto conosciuti quanto lo è
egli. Le avventure che Cervantes immaginava nella sua povera oscurità sono il soggetto di quadri,
di arazzi, di stampe che adornano le sale dei Re e i gabinetti degli uomini di gusto, il bel romanzo
gira in più lingue, nelle mani di ognuno, da quello si cavano i soggetti per gli Spettacoli teatrali.
Uomo che sconsigliatamente sei abbandonato ai cruciosi e difficili desiderj di onore, conosci il loro
vacuo, e anticipa a vederne l'annientamento, e se hai un nobile sentimento di non cessare d'aver
tosto vita, volgiti alle belle arti e alle Scienze, un Galileo, un Cavalieri, un Tasso, un Ariosto, un
Palladio, un Tiziano, un Raffaello, perfino un Pergolese e un Corelli vivono e vivranno nomi cari e
venerati all'Italia, mentre l'obblivione ha per sempre cancellati i nomi de' contemporanei loro i quali
oppressi dalla copia delle condecorazioni e delle ricchezze altro non ebbero che gl'innalzasse dal
volgo fuor che onorificenze. Volgiti se cerchi la felicità alla vera gloria, a rendere te stesso
maggiore del comune degli uomini col numero, colla importanza, e col buon ordine delle tue idee;
dilata il tuo cuore alla Virtù pura, ferma, incorrotta che sta sulla base propria adamantina, e non
cambia per cambiamento di opinioni, fedele ai doveri di uomo, di cittadino, di figlio, di sposo, di
amico, sia la tua promessa infallibile, la tua asserzione la verità, cauto custode del tuo secreto e
dell'altrui, tollera con fermezza l'avversità e con moderazione il destino secondo, sensibile al merito
altrui l'onora sempre in chiunque anche in un inimico se sventuratamente ne hai senza essertelo
meritato, sia giusto, discreto, benefico, e ti riderai di chi corre ansioso agli onori, possederai tu
stesso un tesoro d'onore che nessun uomo può dare, che i malvagi istessi venerano e che a misura
che crescerai negli anni sempre più ti renderà generalmente l'oggetto della riverenza degli uomini.
Con questo esame adunque l'uomo usando della ragione può diminuire la schiera d'innumerevoli
desiderj e strappar di mano al reo destino tanti fili, co' quali viene incautamente strascinato alla
infelicità.
§. IV.
Dell'accrescimento del nostro potere.
Le due principali sorgenti de' nostri desiderj sono le già indicate, ci Ricchezza ed
Ambizione. Una terza ve n'è, ed è quella dei piaceri fisici propriamente così detta perchè gli ha
immediatamente per iscopo; anche di questa terza avrei potuto parlarne, ed avrei potuto provare che
anche le sensazioni voluttuose passando dalla immaginazione alla realità perdono costantemente,
che la maggior parte delle inquietudini nostre non derivano tanto dalla esigenza della
organizzazione, o dalla vera forza dell'oggetto, quanto dalla esagerazione che ne fa la nostra
fantasia; per lo che un attento esame può diminuire realmente questa magìa produttrice
d'inadempiuti desiderj figlj dell'errore, e farci preferire la vigorosa alacrità de' moderati alla
svogliata indolenza di chi logorando gli organi animatori della vita si priva del più esquisito stato
de' spontanei fisici bisogni. Io però non mi trattengo su di questo soggetto, perchè lo stato degli
avidi di denaro o d'ambizione permette a chi ne sente i desiderj l'esame di essi, anzi suppone un
esercizio continuato della ragione bene o male adoperata per il conseguimento di que' fini; ma
l'amore, la gola, e simili desiderj hanno più adesione alla organica struttura nostra e sono un ingordo
appetito, un delirio, piuttosto che uno stato capace di ragione, quindi poco gioverebbe lo scriverne.
Altronde l'uomo può per anni e lustrì soffrire i tormentosi e vani desiderj de' quali ho trattato, ma
assai più breve è il periodo de' desiderj fisici, i quali o si saziano o svengono naturalmente col
tempo, e per ciò meno interessano la felicità della vita intera. Finalmente l'argomento è troppo
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difficile a trattarsi colla severità della sola ragione, ed è più confacente alla penna d'Ovidio che lo
espose in facili e leggiadri versi, anzi che alla placidezza di un ragionamento; perciò trascorse le
due fonti de' più dannosi desiderj nostri, conosciuto di quanto la ragione possa liberarcene, passo a
divisare i mezzi onde accrescere il nostro potere.
Prima base del poter nostro è lo stato fisico della nostra organizzazione. A condizioni uguali
dammi due uomini, uno sia vegeto, l'altro soltanto abbia qualche difficoltà allo stomaco caricato di
troppo cibo; annunzia a ciascuno di quelli due uomini una piccola disavventura, vedrai il primo
rimanere quasi tranquillo e l'altro sensibilmente affliggersene. Noi medesimi possiamo farci
testimonio se dopo esserci addolorati e irritati talvolta con molta pena, liberati poi da taluno dei
dolori innominati, de' quali nell'altro discorso trattai, ci troviamo noi medesimi stupiti che per così
piccola cosa abbiamo perdute delle ore di pace e di calma. Ciò posto molto dipende da noi stessi e
dal buon uso che facciamo della ragione nostra il mantenere più vigorosa la condizione dello stato
nostro fisico. L'abuso de' piaceri fisici ci snerva e indebolisce, seco guida dappoi malattie;
l'intemperanza nel cibo, l'eccesso nelle bevande, la vita neghittosa e sedentaria, l'abituazione a
troppi comodi tendono tutti a indebolire il nostro poter fisico. Il potere ossia la robustezza del corpo
nostro può accrescersi con una ragionata cura di noi medesimi lontana ugualmente e dalla
superstiziosa cautela e dal cieco abbandono agli attuali capricci. Le cognizioni delle cose naturali
possono molto contribuirvi almeno per non affidare la nostra vita all'arbitrio d'un ignorante medico:
ma l'arte di conservare la sanità più sicura e più utile degl'incerti tentativi che fannosi per lo più per
ricuperare la perduta è in mano nostra se sappiamo essere moderati consultando la ragione e la
propria sperienza. Così l'uso attento della ragione può conservare ed accrescere la robustezza de'
nostri muscoli, e con essa la forza dell'animo, e quindi renderci più disposti ad agire e respingere i
mali non solo, ma resistere e pareggiare un numero di desiderj, giacchè anche alla gloria e ad altri
beni non vi si cammina se non con passo fermo e giocondo.
Oltre il sentimento delle proprie forze fisiche, coraggio macchinale che accresce il poter
nostro, un altro sentimento è necessario all'uomo per avere una esistenza ferma ed un coraggio
perfetto, e questo sentimento necessariissimo è la coscienza tranquilla. L'uomo reo che sa di aver
commesse azioni vili e indegne, sebbene nella oscurità abbia tessute le insidie, sempre è angustiato
dal timore che sieno svelate; un'occhiata, un gesto fortuitamente equivoci lo sgomentano, ei porta
nel cuore una malattia pdisgraziata di qualunque fisica imperfezione. Il disprezzo degli uomini
che sa di meritare, il loro allontanamento che può aspettarsi e mille tristi pensieri abituati nel cuore
d'un uomo che cammini per la strada del vizio, imprimono nel suo volto a solchi marcati la
tristezza; lo sguardo inquieto e torbido, il passo circospetto e sospettoso sono tanta diminuzione del
di lui potere a fronte dell'aspetto sereno, libero, e fermo dell'uomo che obbedisce alla virtù. Vero è
che alcuni cattivi uomini hanno talvolta l'arte mimica di contraffare l'uomo giusto; ma qual peso il
rappresentare ogni giorno tutt'altro che noi stessi! Questo sforzo non toglie l'interno avvilimento. Si
può disputare qual dei due renda più omaggio alla virtù, se quello che essendo vizioso lascia vedere
in fronte la tristezza del rimorso, ovvero chi si sforza a rappresentare l'uomo virtuoso: entrambi la
pregiano perchè l'uno è avvilito per non averla, l'altro fa sforzi per contraffarla: sono due debitori, il
primo si dichiara fallito, il secondo paga con moneta falsa; entrambi hanno l'avvilimento nel cuore.
Per accrescere adunque e conservare il poter nostro conviene che l'interno sentimento di noi
stessi, che è il più giusto e inesorabile de' nostri giudici, ci sia favorevole. Lo spirito umano ha i
suoi confini, l'errore ben sovente ci si presenta sotto il sembiante della verità: non pretendo io già
che un essere debole e imperfetto non possa mai, rivolgendoli al passato, trovare qualche fatto
proprio, che meriti pentimento, ognuno ne ha; ma facendo noi molto uso della riflessione in tutti gli
atti importanti della vita, non ci accaderà di commettere di quelle azioni che degradano ed
avviliscono l'uomo. La buona coscienza è il sentimento della conformità delle azioni nostre colla
giustizia; e la giustizia comprende la fedele obbedienza alle leggi. Le leggi fissate dall'Autore
dell'Universo sono semplici e invariabili; ma dove gli uomini ne hanno stabilite, le debolezze, gli
errori, le mire private vi hanno sì fattamente contribuito che talvolta s'incontrano dubbj, e fa
mestieri d'avere la ragione ben addentrata per districarsene. Il ministro del Santuario insegna
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all'uomo la strada della giustizia religiosa, il mero ragionatore che ricerca i mezzi della felicità
costanti in ogni luogo e tempo, e comuni anche agli uomini viventi sotto false religioni può guidare
gli uomini assai vicini al Santuario istesso partendo ancora dai più meccanici principj, perchè una
verità non può smentire un'altra verità e da più principj fisici o morali purchè sien veri
concatenando una verità all'altra si può giugnere alla stessa dimostrazione.
Mi si conceda che la fuga del dolore e l'amore del piacere sia una legge universale e sempre
obbedita dagli esseri sensibili, ne verrà da questo principio che l'uomo sceglier deve per essenza la
somma minore dei dolori e la maggiore somma dei piaceri. Una beatitudine eterna e infinita è
maggiore di qualunque bene finito: una infelicità eterna e infinita è maggiore di qualunque dolore
finito. Da ciò ne deriva che l'uomo non deve mai cercare i piaceri che sono vietati dalla Legge
Divina ricusare i dolori che la Legge Divina ci obbliga di sopportare. Come avviene dunque che
gli uomini facciano l'errore di calcolo di preferire il meno al più? Perchè le sensazioni degli oggetti
presenti agiscono quasi sole sull'animo, e la riflessione, alla quale pochi uomini si addestrano, non
pone di contro se non pallidi e scoloriti contrasti: quindi si compra sovente un piacer attuale a
prezzo d'un dispiacere molto maggiore a venire. Quanto adunque l'uomo sarà più illuminato, tanto
più saprà antivedere e contrapporre agli oggetti presenti i lontani, ed accostandosi alla esattezza del
calcolo, preferire la maggior somma de' piaceri e la minore de' dolori; quindi quanto più si accosta
l'uomo alla perfezione del ragionamento tanto più sarà nella strada della giustizia religiosa e si terrà
lontano dai rimorsi.
Quelle religioni che autorizzano azioni contrarie alla onestà sono false, la vera religione è
sempre offesa quando sia violata la onestà. Chi vivesse sotto un falso rito nondimeno, ascoltando
anche la sola ragione, dovrebbe esattamente ubbidire alle leggi della onestà, siccome tanti illustri
Greci e Romani hanno fatto; perchè qualunque piacere è minore della somma dei dispiaceri che si
ricevono dagli uomini qualora si ha il concetto di essere malonesto: il disprezzo, l'allontanamento,
gl'insulti, l'insensibilità ai nostri mali sono i sentimenti che legge scritti in faccia degli uomini colui
che si allontana dalla onestà, ed è più facile l'essere onesto che il portarne continuamente la
maschera. In oltre offendendo le leggi della onestà, col tradire un secreto, coll'insidiare il merito, col
calunniare, rapire, essere ingrati, mentitori ec. nasce in noi un sentimento di disprezzo di noi
medesimi che è il più crudele di tutti, ed una vile timidezza compagna del rimorso che scema il
poter nostro togliendoci la buona coscienza; quindi freddamente concludo, che la mera ragione può
contenere l'uomo nella strada della giustizia morale s'egli la eserciterà abitualmente. Felici quelle
anime nobili e sublimi, che per amare la virtù non hanno bisogno di ragionamento, che sentonsi
ingrandire e innalzarsi colle virtuose azioni, e rapite dalla vittoriosa potenza di questa fiamma
celeste, sono benefiche e generose per la vivissima voluttà che provano in quello stato!
Se lo stato disordinato della nostra organizzazione, o dell'animo nostro ci rende timidi e
avviliti in diminuzione del nostro potere, e se per conservarcene tutta la porzione possibile
dobbiamo colla saggia moderazione non meno che colla frequente riflessione mantenerci lo stato
fisico e morale libero dal mal essere, per accrescere questo potere e così poter pareggiare una più
vasta porzione de' nostri desiderj ci fa bisogno d'avere in favor nostro i suffragi degli uomini, o
almeno non averli contrarj. Questi o si comprano, o si conquistano, ovvero si rendono indifferenti
con una vita oscura ma conforme alle leggi. I Romani dacchè la virtù repubblicana era svanita si
vendevano, e a preferenza davano i loro suffragi a chi più lautamente sapeva comprarli con cene
pubbliche, largizioni, spettacoli, combattimenti di fiere, gladiatori, e simili piaceri gratuitamente
accordati. Così seppero coprire la loro tirannìa anche i primi Cesari e fiancheggiati dalla plebe sazia
e lieta, impunemente annientavano gli ottimati e li depredavano obbedendo così al timore, alla
vendetta, ed alla avidità propria col concedere alla fame popolare le spoglie in parte della preda.
Non vi sono oggi nell'Europa di grandiose compre e vendite, perchè non vi è nazione che possa
paragonarsi a Roma ne' tempi di sua grandezza; non è però abolito l'uso di comprare più in piccolo i
suffragi del popolo anche a denaro, e ciò non potendo accadere nelle Monarchie ove il popolo nulla
può dare se non la buona fama, forza è il cercarne le memorie negli Stati ove a' suffragi pubblici si
facciano le elezioni alle Magistrature. Le ricchezze servono a comprarci un suffragio di breve
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periodo ammeno che non sianvi i mezzi per rinnovare questi periodi istessi, siccome l'avevano i
primi Imperadori, e saranno impiegate opportunamente qualora con esse acquistiamo dei beni
superiori alla perdita che facciamo. Comunemente però i suffragi degli uomini si sogliono comprare
facendo che essi generalmente acquistino una ferma opinione favorevole di noi, della virtù, bontà, e
ragionevolezza nostra. I caratteri più opportuni per acquistare questa generale opinione sono gli
uomini che non operano a scosse e ad impeto, ma con movimenti placidi ed uniformi; nemmeno in
conseguenza possono essere gli uomini d'ingegno caldo o d'immaginazione violenta; la figura
nostra, che non ci siamo fatta noi, molta parte vi può avere; una maniera di agire e di mostrarci
nobile, dolce, e sensibile, popolare con dignità è la migliore di tutte. Tutti questi mezzi poco
dipendono da noi e dall'uso della nostra ragione; quindi la compra de' suffragi pubblici o per denari,
o per maniere è da considerarsi come un bene riservato a pochi. Chi è disposto dalla sua condizione
e stato a poterselo proccurare, opera sapientemente nel farlo, e chi non ha i mezzi per comprare i
suffragi positivi opera sapientemente almeno coll'evitare i suffragi contrarj come poi dirò.
Si conquistano i suffragi degli uomini prevalendoci accortamente della loro imbecillità, e
facendo in essi nascere un timido sentimento della debolezza loro in paragone nostro: così si legano
a noi gli uomini col vincolo il più forte di tutti che è il timore. Ciò si fa o interessando le
intelligenze Sovrane nella nostra azione, ovvero manifestando una decisa superiorità di coraggio,
virtù che sola in ogni secolo e presso ogni nazione ha saputo costantemente ottenere gli omaggi
degli uomini. Il pericolo di questa conquista cresce a misura della violenza con cui si tenta; ma
insieme col pericolo cresce la forza della impressione. Ma per conservarci i suffragi così conquistati
e per goderne, forza è persuadere almeno quella porzione d'uomini che ci fiancheggia e ci rende
preponderanti, essere loro interesse di stare uniti con noi. Più in piccolo si conquistano anche i
suffragi della moltitudine ottenendo una carica per cui gli uomini aspettino bene o male dalle nostre
azioni. Questi mezzi pure per accrescere il poter nostro sono riserbati a pochi, e il primo a
pochissimi; e sebbene accrescano il potere, anche assai dippiù moltiplicano i desiderj, onde non
sono i trascelti dai veri saggi che ricercano la propria felicità.
Si rendono indifferenti i suffragi degli uomini, e si toglie loro l'occasione di restringere il
nostro potere sottraendoci ai loro sguardi con una vita oscura e rigorosamente conforme alle leggi,
Questa rigorosa conformità è indispensabile per contrapporre al sentimento di superiorità, che gli
uomini rumoreggianti nel vortice sociale hanno pei solitarj, quello dell'aperta ingiustizia se ne fanno
uso. Questo è il partito meno pericoloso di ogni altro e meno soggetto ai capricci altrui, ed è quello
appunto che è stato ordinariamente prescelto dai saggi.
§. V.
Di alcuni contrasti fralle Leggi
La virtù è la base della felicità, siccome si è osservato; e nelle varie leggi alle quali siamo
soggetti, talvolta trovansi degl'inviluppi così intralciati che fa d'uopo di molto uso della ragione per
ritrovare il filo delle azioni nostre e preservarci dai rimorsi. Abbiamo le immortali leggi prescritteci
dalla Divinità: abbiamo le leggi Civili: abbiamo quelle dell'Onore. Gli uomini in alcuni casi sì
fattamente le hanno combinate che sembrano cozzare e distruggersi a vicenda. Ho ricevuto una
offesa; la Religione mi ordina di perdonarla; la Legge civile mi prescrive come debba far punire
l'avversario dal Giudice; l'Onore mi eccita a vendicarla col mio braccio. Sono fra 'l peccato, il
supplizio, e l'infamia. La vita del Principe Stuardo Pretendente alla Corona della Gran Brettagna era
posta a taglia, dichiarato reo di Stato chiunque gli desse asilo, il Pretendente sconfitto, dispersi
interamente i suoi partigiani, senza soccorso, solo, languente di fame, freddo, e lassitudine, dopo
aver passato un giorno appiattato in un cespuglio intorno cui giravano i nemici per prenderlo,
venuta la notte si presenta alla casa d'un Gentiluomo del contorno vi porto dice egli un felice
annuncio: dieci mila lire sterline sono vostre, solo che il vogliate potete aver la taglia promessa a
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chi congegnerà il Principe Stuardo, eccolo nelle vostre mani: Sono io, senza difesa, disponete
dell'ultimo infelice rampollo dei vostri Re
ì
ovvero se le mie disgrazie v'inteneriscono soccorrete la
mia fame, ricoveratemi, ed assistetemi per uscire dall'Isola! – che partito doveva prendere il
Gentiluomo? Egli ristorò l'infelice Principe, lo celò, lo imbarcò alla più sicura occasione, fu
processato, la legge era chiara come chiara la contravvenzione, per tutta difesa chiese a ciascuno de'
suoi Giudici che avrebbon'essi fatto nel suo caso, e fu liberato. Ma fece egli un'azione giusta e
virtuosa, ovvero debole e viziosa? Era egli permesso a un generoso e nobile uomo di soggiogare e
impadronirsi d'un nimico reso impotente e che volontario gli si affidava? Che ne avrebbero
giudicato gli uomini che ubbidiscono ad un valoroso onore? Era egli permesso il conservare e dare
libertà a un inimico del proprio Re, di cui la vita poteva cagionare nuovi torbidi e guerre civili?
Potevasi contravvenire a un legittimo Proclamma?. Hai data la tua parola d'Onore di conservare un
secreto: si pubblica una Legge che obbliga a manifestare gli autori dell'azione che tu sai sotto il
sacro vincolo. Altra pubblica Legge ti offre una ricompensa e con pubblico editto t'invita ad
uccidere un uomo; ma la Religione, e la Onestà gridano non tradire, non uccidere: come
condurommi in quello orribile labirinto!
In queste spinosissime situazioni trovandosi l'uomo anche buono e virtuoso talvolta è in
pericolo di fare una scelta di cui poi s'abbia a pentire ed averne rimorso. La riflessione però mi può
dare il filo per rettamente condurmi. La prima di tutte le leggi è la Divina, è mio dovere di sacrificar
tutto all'ubbidienza di un Essere maggiore di tutti. Il mio dovere è pure di non mancare mai alla
virtù. Se un ragionatore esatto mi ricercherà cosa significhi quella voce dovere io mi accontenterò
quand'anche si voglia reciderla una emanazione d'interesse; interesse sia quella general voce che
comprende le azioni che ci sono utili; e dovere sia quella porzione delle utili azioni che sono
conformi alle Leggi: il primo sia il genere, l'altro la specie. Non ogni interesse sarà un dovere,
perchè vi sono delle azioni che la legge ha lasciate in libertà: interesse poi contrario alla legge non è
possibile che si dia; poicsarebbe una contraddizione il dire che sia nostro interesse comprare un
piacere che porta in conseguenza un male più grande di lui. Si un apparente interesse
momentaneo contrario alla legge, perchè il bollore delle passioni per alcuni periodi distrae l'uomo
dal ragionare, e allora sta il pericolo di abbandonare il cammino della giustizia: ma ogni uomo che a
mente calma, e ragionando travia dal proprio dovere, dà, a mio credere, la più evidente di tutte le
dimostrazioni di avere un vizio nella facoltà ragionatrice. Mi si cercherà pure cosa io intenda di
significare colla parola Virtù. Io non intendo di comprendere sotto questo vocabolo gli atti del Culto
religioso, ma unicamente di significare quella classe di azioni che per consenso generale degli
uomini in ogni tempo in ogni luogo costantemente furono considerate virtuose, perdonare
generosamente all'inimico, essere fedeli, grati, liberali, umani, valorosi, giusti; e per comprendere il
tutto più brevemente l'esercitare gli atti utili in generale agli uomini.
Perciò l'animo virtuoso sarà quello che ha un costante desiderio di fare cose utili in generale
agli uomini. Ora siccome l'onestà ci porta a guardarci dalle azioni dannose ai nostri simili, ed è
nostro interesse, siccome dissopra ho detto, d'ubbidire alle leggi della onestà, così evidentemente se
ne deduce essere nostro dovere di non mancare alla Virtù.
Ciò posto per conoscere fralle contraddizioni angustiose delle leggi cosa esiga da noi la
virtù, conviene esaminare nella scelta quale dei partiti che ci si affacciano produca un effetto più
utile in generale agli uomini. Convien calcolare se sia più il bene che si fa agli uomini svelando un
secreto e liberandoli da uno che è giudicato pernicioso alla quiete pubblica, ovvero se sia maggiore
il male di autorizzare col proprio esempio un freddo tradimento ed un legale assassinio. Per fare
esattamente questo calcolo conviene esaminare altresì lo stato attuale della società in cui ci
troviamo.
Formiamoci una idea d'una società d'uomini tanto perfettamente organizzata quanto ce la
può somministrare la nostra immaginazione. Suppongasi un'isola nell'Oceano ove gettati due
fanciulli da una tempesta sieno divenuti col tempo i Patriarchi d'un nuovo popolo cresciuto co'
secoli al segno di poter formare una nazione. Questa moltitudine di uomini mossa dai bisogni,
mancante di idee complesse (frutto di una lunghissima tradizione e che non si accumulano se non
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dopo lo stato di civilizzamento) avrà ubbidito principalmente alle impressioni degli oggetti che
attualmente ferivano i suoi sensi. Quegli uomini erano allora independenti, vi sarà stato fra di
loro che la robustezza diversa o la diversa scaltrezza che potesse mettere limite alle azioni altrui; e
l'impero era tutto nella forza. Ma come la minor forza e la minore astuzia è propria del maggior
numero, così in quello Stato la parte massima della nazione avrà dovuto soffrire la prepotenza;
quindi la sicurezza nelle proprie capanne, la tranquillità nella custodia de' frutti raccolti per proprio
cibo, la pacifica convivenza colla propria donna essendo sempre in pericolo, gli abitanti furono
indotti a collegarsi per formare colla riunione di più forze un contrasto. Dopo varie parziali
associazioni ancora disuguali e forse rivali e guerreggianti, la durevolezza de' mali indusse un uomo
più accorto a proporre una associazione stabile, pacifica, universale. Così venne abolito il feroce
muscolare dispotismo, e così si venne a circoscrivere il numero delle azioni di ciascun uomo,
vietandogli quelle che si opponessero alla sicurezza e pace d'un altro uomo, reso con certe leggi
fattizie sicuro di conservare se stesso, i frutti della sua industria, la donna sua e i suoi figli. Così
ciaschedun uomo si spropriò di parte della sua indipendenza per acquistare la libertà, e passò la
nazione allo stato sociale. Così venne a stabilirsi un dritto di proprietà.
Ma le società degli uomini, gli Stati, le Repubbliche, e i Regni d'Europa hanno essi mai ne'
loro annali i documenti di simile associazione primitiva? Questa isola immaginata, altro non è che
una finzione la quale niente ha di comune colla realità de' nostri dritti. Così può chiedermisi ragione
della genealogìa degli Stati immaginata non meno a piacere da alcuni Filosofi, di quello che alcuni
Antiquarj lo facciano nelle famiglie. Io accordo che della remota infanzia delle società non ci
restano memorie, nè potevano lasciarcele gli uomini prima dello stato d'incivilimento e della
invenzione della scrittura; arte che sarà stata delle più tarde a trovarsi, e conseguentemente
inventata in que' tempi ne' quali la memoria della associazione primiera non poteva essere più
presso degli uomini. Accordo di più che forse indipendentemente da ogni convenzione un uomo
solo più ardito, più illuminato, o più scaltro può aver cominciato a dominare sopra i suoi figli, e con
essi forzare altre famiglie ad unirsi a lui, e così, creatasi una potenza, soggiogare un popolo colla
sola forza, e col fatto. Ma se la sola forza desse un diritto, ne verrebbe l'assurdo che la sola
resistenza lo potesse togliere; perciò quella origine dello stato sociale non sarebbe fondata sulla
giustizia, ma sulla mera usurpazione e violenza, potrebbe nascere un dritto che posteriormente,
quando cioè l'esercizio del potere venisse co saggiamente adoperato, che equivalesse alla
immaginata spontanea primitiva associazione.
Il fine adunque dell'immaginato patto sociale è il ben essere di ciascuno che concorre a
formare la società, il che si risolve nella felicità pubblica, ossia nella maggiore felicità possibile
ripartita colla maggiore uguaglianza possibile. Tale è lo scopo a cui deve tendere ogni legge umana.
Ovunque le leggi positive abbiano questo scopo, ivi la società è fedele ai patto sociale, ivi i doveri e
i dritti d'ogni uomo sono chiari e sicuri, ivi è interesse di ogni socio che si osservino le leggi per le
quali sussiste; giacchè violandole ecciterebbe gli altri a rimettere in vigore la forza, si annienterebbe
la libertà, risorgerebbe la selvaggia indipendenza: ivi le leggi non possono mai essere in
contraddizione colla virtù, perchè le leggi tendono alla felicità pubblica, e la virtù, siccome ho detto,
avendo per oggetto gli atti utili in generale agli uomini, non si può mai cercare la felicità pubblica
con atti dannosi generalmente al genere umano. Questa età dell'oro però è una immagine deliziosa,
ma tanto vana quanto la perfetta felicità nell'uomo. Non s'è data si darà nel mondo una società
così esattamente organizzata dove ogni atto della podestà pubblica sia una spinta verso la pubblica
felicità, e dove quella classe d'uomini presso i quali ne viene depositato l'esercizio non travii mai,
non declini, e non ne abusi; poichè, qualunque sia la forma del governo, sempre un numero di
uomini ha influenza nel maneggiare la forza pubblica, e questi uomini sono soggetti all'errore, alle
passioni, e alle debolezze e imperfezioni della nostra specie.
Una società traviata dai principj costituenti la giustizia sociale, e condotta alla corruzione,
lascia per l'opposto incerti i doveri e i dritti di ogni socio, e confuse sono le azioni d'ogni uomo: la
felicità condensata in pochi, il fasto, l'orgoglio di questi, sempre più amareggiano lo stato di
miseria, e di annientamento dei molti. Le leggi sono un atto di potere arbitrario, la diffidenza, la
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dissimulazione, la viltà serpeggiano in ogni ceto, si teme la verità, si fugge la vista d'una virtù
luminosa il di cui baleno è troppo forte scossa alle deboli pupille della moltitudine: in questa società
gli uomini restano tranquilli come l'acqua nelle pozzanghere, e di questa società perciò non ne vedi
lo scioglimento, perchè le membra isolate dal timore e concentrate, non osano accostarsi fra loro e
riunirsi a distruggerla: ivi la maggior parte di chi la compone non ha interesse a mantenerla, ma
soltanto a non essere autore della dissoluzione.
Fra questi due estremi trovansi comunemente le società, onde per risolvere ne' casi di
conflitto fra le leggi civili e quelle dell'onore sarà da calcolare se facciamo più male agli uomini
indebolendo col fatto nostro le leggi dell'onore, ovvero indebolendo le leggi civili. Le prime tanto
più diventano utili agli uomini in generale quanto meno lo diventano le seconde; anzi le prime
s'annienterebbero e diverrebbero superflue quanto più le seconde si accostassero allo scopo della
instituzione sociale, perchè l'onore essendo la legge della opinione universale degli uomini, ed
opinando in questa parte con liberi suffragi tutt'i membri della società per accordare stima o
disprezzo alle azioni a misura che sono o generose e nobili, ovvero abiette e codarde, non potrebbe
mai la opinione universale libera degli uomini difapprovare l'obbedienza alle leggi che tendono
anche alla maggior felicità di ciascun uomo, per quanto è possibile il combinare gl'interessi di tutti.
Quindi in una società traviata e condotta alla sua corruttela, sembra che sia una azione più utile in
generale agli uomini, il rinforzare le leggi dell'onore, acciocchè almeno non tutte le azioni vengano
depravate dalla cattiva legislazione, e in una nazione più bene condotta, a proporzione che s'andrà
accostando alla originaria giustizia sarà più utile azione il rinfrancare l'obbedienza a quelle leggi
civili che sono garanti della civile libertà e della felicità pubblica. Con tali principj sembra che
possano sciogliersi i difficili problemi delle legislazioni che si contraddicono, e così il saggio uso
della riflessione anche in queste inviluppate indagini può indicarci la strada della virtù onde ci
preserviamo da quell'avvilimento in cui ci precipita il rimorso, e conserviamo il vigore dell'animo,
la buona coscienza e il potere maggiore onde pareggiare un più gran numero di desiderj.
§. VI.
Della conoscenza di noi e degli uomini.
Affine di fviluppare e porre nella massima attività il poter nostro è necessario che ci
occupiamo profondamente per conoscerci e conoscere gli uomini. Conosci te stesso è un antico e
verissimo precetto della Sapienza, il quale in poco indica la perfezione della grand'opera a cui
debbon tendere le ben dirette nostre meditazioni. Poche sono le anime privilegiate che resistano ad
un tranquillo e continuato esame di loro medesime, e la maggior parte degli uomini sono come
deboli ammalati, che temono la vista delle proprie ulceri. Cerca la moltitudine di slanciarsi lontana
da se medesima; quindi l'abborrimento della solitudine e il bisogno perenne o d'una conversazione
qualunque ella siasi, o di un lavoro, o anche d'un libro che occupando le nostre idee ci faccia uscire
da noi medesimi e ci trasporti ne' palazzi incantati del regno della immaginazione. Così la vita dei
più si risolve in una costante obbedienza agli urti degli oggetti presenti, ai quali rarissime volte la
riflessione contrappone l'immagine degli oggetti lontani; onde mutandosi pel moto universale o la
distanza, o l'apparenza degli oggetti, galleggiano le menti umane sopra di una instabilissimo fondo
sempre fluttuanti dall'amore all'odio, dal disprezzo alla stima, con una apparente contraddizione, ma
che meglio esaminata si risolve in una costante adesione al medesimo principio. Il saggio, che cerca
la propria felicità, conosce che questa non può essere collocata altrove se non nel mezzo del suo
cuore; si ripiega in se stesso e attentamente considera quali sieno i movimenti, le cure, i desiderj che
lo agitano; d'onde traggono questi l'origine; ascende a questi primi germi delle inquietudini, e pone
sulla esatta bilancia la realità o la chimera della opinione produttrice; l'attento esame accompagnato
dalla dubitazione madre della sapienza gli stanno al fianco, separa le verità dalle opinioni; pone
nella prima classe quelle solamente che hanno subito il cimento; e ritornando spesse volte a rimirare
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se stesso nella tranquillità, ed ivi richiamandosi le vestigia de' passati tumulti, divisa i mezzi onde
scemare le turbolenze cagionate da' desiderj di beni chimerici, ovvero di beni non conseguibili, col
passare dalla dimostrazione alla persuasione, il che si fa con atti ripetuti. Rivolgendosi poscia
all'esame de' mezzi onde conseguire i beni che gli convengono, accresce il potere per rendere
minore quanto è fattibile l'eccesso de' desiderj sopra di quello. Da questa interna analisi di noi
medesimi nasce il gran bene che possiamo sentire con una sorta d'amicizia di noi stessi la
contentezza di esistere, di renderci conto de' principj che ci movono, il che ci una ragionata
compiacenza di noi medesimi, poichè sentiamo la distanza vera e reale che passa fra noi ed i
volgari, e la non fattizia superiorità nostra in ciò che noi possìamo essere con noi medesimi, laddove
quelli portano sempre il loro nemico nel cuore, se non altro il tedio della propria esistenza; e questo
sentimento accresce il vigore del nostro animo e il nostro potere.
Per conoscere me medesimo io non cercherò che gli altri uomini mi dicano cosa io mi sia
quanto io valga; il giudizio più esatto l'ho da fare io stesso, e lo potrò fare se mi esamino. La
imbecillità degli uomini m'innalza al dissopra del mio vero orizzonte per poco che mi sorrida la
fortuna; l'orgoglio e la invidia degli uomini vorrebbero persuadermi ch'io valgo meno di quello che
è in fatti. Se mi abbandono a giudicare di me stesso dalla apparente stima degli altri sarò un uomo
passivo e comune, gli onori mi ubbriacheranno e mi faranno cambiare portamento e morale, una
traversia mi annienterà e mi farà strascinare nel fango l'avvilita esistenza, passerò la vita ora
schiavo, ora tiranno, e non mai uomo, felice. Io esaminerò me stesso, e vedrò se una azione
generosa mi lascia l'animo in calma, se conservo la pace interna all'udire una azione infame dirò, il
mio cuore è disgraziatamente insensibile, il mio animo è fin ora incapace di elevazione, sono pur
troppo un uomo comune e gregario. Ma se la voce della virtù rimbomba sul mio cuore, se le azioni
nobili, eroiche, benefiche fanno stillare dalle mie palpebre un dolce pianto, se l'abbominazione e la
viltà mi eccitano un vivo sdegno e ribrezzo, dirò allora, sono capace di virtù, sono un uomo, e posso
innalzarmi alle belle azioni. L'amor proprio non può sedurmi, perchè si tratta di un fatto. Per
giudicare poi delle forze del mio ingegno io vedrò se le opere di que' primi Maestri che onorano la
nostra specie mi siano intelligibili, esaminerò se nel mio cuore vi sia una calda stima per gli uomini
di merito, e con ciò avrò la misura della elevazione della mia mente. Il contrassegno più sicuro di
ogni altro per conoscere se valghiamo è la sensibilità e l'entusiasmo per il merito altrui; nessun
grande uomo ha mai avuta gelosia o invidia del sapere altrui, questo pusillanime rannicchiamento
del cuore è figlio della incertezza del nostro merito e suppone un'anima volgare.
Nelle opere di eleganza e di gusto è necessario il ricorrere alla opinione altrui, perchè le
leggi e le regole sono poco precise, e il riuscire dipende dalle opinioni, dai tempi, e dai luoghi. Io
non cercherò ad un altro uomo se questo che io scrivo sia vero o falso, se sia dettato dalla virtù,
ovvero dal mal animo; cercherò bensì dalla opinione di uomini colti e onesti se la verità e la virtù
nel mio scritto sieno annunziate con chiarezza, con facilità, con ordine, con varietà, con ornamento,
perchè questo risguarda l'impressione che deve fare uno scritto sugli animi altrui di cui non posso
avere certezza anticipatamente entro di me medesimo. Così il Poeta, il Pittore, l'Architetto, lo
Scrittore di Musica, lo Scrittore qualunque non può nella solitudine giudicare esattamente del
proprio lavoro, ma forza è che ricerchi l'opinione di alcuni per decidere sul merito del suo talento, e
consigliarsi affine di perfezionarlo. Ma il merito del tronco maestro, dirò così, cioè della elevazione
del cuore e della forza del nostro ingegno noi soli possiamo giudicarlo. Se la certezza non comincia
in noi, su i fàtti che accadono nel nostro interno, non è possibile che siano mai fermi e sicuri di
veruna dimostrazione.
Conosciuto ch'io sia a me medesimo, definita ch'io abbia la vera e nuda altezza in cui mi
trovo riposto, spogliato ch'io mi sia dei titoli e di quant'altro di posticcio mi dia la sorte, abituato a
entrare ne' penetrali del mio essere, a conoscerli, ad esaminare le vicende del mio animo, io mi
trovo collocato sopra di una base profonda e immobile d'onde più fermamente rimiro il giuoco delle
umane vicende, e sebbene debole ed isolato io possa ricevere e mali e beni dal concorso delle cose
che si movono intorno di me, il favore d'una fortuna capricciosa farà ch'io mi pregi più di quello
che valgo, nè gl'insulti di lei faranno che io mi creda meno di questo che sono. Sarò ora lieto ed ora
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tristo, ma non mai insano; e questa fermezza d'un animo, che s'innalza sopra il destino e sta
immobile nelle vicende, è il più gran bene che ci possa dare la ragione, e allora l'uomo acquista il
massimo potere per resistere alla infelicità, il che sta rinchiuso nel precetto conosci te stesso.
L'uomo poi che sia desinato a convivere, un altro esame deve intraprendere sopra di se
medesimo per fare il miglior uso del proprio potere, e non adoperare sforzi inutili e stentati fuori
della propria carriera, e quell'esame è il riconoscere il proprio lato forte e il proprio lato debole. La
figura e l'indole di un uomo invitano alla piacevole giocondità, sarebbe un uomo di spirito amabile,
disgraziatamente si è trascelte maniere gravi, e sentenzioso discorso, è un Catone forzato, nojoso,
che nessuno può stimare. Per l'opposto niente è più sconcio di quella stentata occupazione che s
imposta un altro di voler rallegrare con frizzi e sali che la natura non gli ha concessi, se
rappresentasse il carattere d'un uomo sensato e placido godrebbe di migliore reputazione. Questi
sarebbe un elegante scrittore se non si ostinasse a comporre per il Teatro per cui manca di genio.
Quegli è un esattissimo ragionatore e non vuole scrivere che freddissimi e bassissimi versi. Sarebbe
immensa la schiera se dovessi accennare i varj casi ne' quali l'uomo si presenta svantaggiosamente
per non avere esaminato meglio se medesimo e trascelta la occupazione conveniente al proprio
talento. Il Saggio se ne occuperà, esaminerà se stesso, farà diversi tentativi, starà in attenzione qual
sentimento risveglino negli astanti, e senza avventurarsi incautamente, colla riflessione, e colla
sperienza troverà la strada per lui più naturale, sicuro che quello che costa sforzo ha sempre cattivo
contorno e riesce disgustoso, e che la imitazione è sempre stentata e spiacevole. In tal guisa
coll'esame di se medesimo il saggio acquista il massimo potere e la massima industria per farne
buon uso per la propria felicità.
Se alla nostra felicità molto possono contribuire gli uomini, conviene esaminarli, conoscere
con accurata osservazione i principj che li movono talvolta sconosciuti a loro stessi, e dedurne
quindi una notizia esatta di quanto possiamo da essi sperare o temere. Il luogo che occupa un uomo
poco o molto inganna comunemente; uno sciocco titolato e un uomo di sommo merito inerme e
povero sono rimirati con un vetro di mezzo, fra l'occhio e il primo il vetro è convesso, fra l'occhio e
il secondo è concavo il vetro, e così si pregia il primo più, e il secondo meno del vero. Se l'ordine
della società e la nostra pace richiedono da noi dei riguardi e degli ossequj, facciasi, ma non passi il
cerimoniale all'anima la quale libera e sciolta deve esaminare e pesare esattamente il merito
dell'uomo. Il saggio sta attento contro di questa seduzione tanto più forte quanto sempre attiva, e si
fida de' giudizj proprj solamente allora che mutandosi la fortuna altrui non sente cambiarsi
internamente la opinione.
Se da un canto esamini di quanto sia stato capace l'uomo, ti si presenta un pomposo
ammasso di gloria che ti sforza a venerarne l'ingegno e la sublimità. Vedi questo vivente
sprovveduto di armi, vinto dalla maggior parte degli animali nella vista, nell'udito, nell'odorato, e
nel corso, vedilo viaggiare sicuramente sulla instabile superficie dell'immenso Oceano, attraversare
gli antipodi, e cingere col suo viaggio il globo. Osserva con quanta sagacità ha inventate le voci
varie col mezzo delle quali comunica ai suoi simili i suoi pensieri. Poco era questo ancora: cerca di
parlare ai lontani, cerca di conversare co' suoi posteri e inventa la Scrittura e la perfeziona al punto
non solo di palesare esattamente i movimenti del suo animo ma di palesarli piacevolmente con
grazia e con venustà. Vedi quest'industriosissimo essere creare a se stesso nuovi organi per supplire
alla debole sua vista, e con essi è giunto a contemplare distintamente molti oggetti che la piccolezza
o distanza rendevano insensibili. Conosce allora i corpi celesti, ne calcola la posizione, la
grandezza, il moto, e anticipatamente ne annunzia l'ecclisse e l'apparenza. Cava dal mezzo ai monti
i metalli e ne forma stromenti per la difesa, e mezzi per formarsi nuove mani ai più sottili e difficili
mestieri. Un piccolo orologio solo da tasca basta a provare quanto possa la mano grossolana
dell'uomo diretta dall'ingegno. Gira per le botteghe, passa dallo stampatore, dal fabbricatore di calze
a telajo, dal tintore ec. Esamina le biblioteche, que' vastissimi emporj de' molti sogni e di alcune
verità, e ammirerai l'altezza a cui l'uomo può giugnere. Ma dall'altra parte qual contrasto non fa a sì
nobile prospettiva il riflettere come gli Stati d'Europa miseramente sacrifichino ogni anno molte
miliaja di vittime umane per possedere e coltivare nell'America, mentre nel centro dell'Europa vi
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sono vasti deserti, e ciò per rendere nell'Europa più abbondante l'oro e l'argento, conseguentemente
meno pregevole, e conseguentemente più voluminoso il trasporto di quella merce che è l'universale
permuta delle altre! La milizia d'Europa, quel terribile stromento della potenza e della sicurezza,
ancora non è vestita in modo d'aver libero e facile il moto, ed essere difesa dal nemico o dalla
stagione. I Pubblicisti disputano se un uomo appartenga alla nazione, ovvero la nazione ad un
uomo. I Giurisperiti hanno posta l'incertezza nelle proprietà. I Medici poco conoscendo e molto
affermando, più ammazzano che non risanino. Il mondo è quasi tutto diviso in due classi, la piccola
è di quelli che ne impone, la grande è di quelli che ciecamente si sottomettono; stanno
confusamente amalgamati nella mente dei più il bene e il male, e il commercio di uomo a uomo
comunemente si riduce alla creazione di qualche infelicità che si divide in eguali porzioni. Nel
conoscere queste tristi verità l'uomo che abbia nel cuore una feroce virtù diventa Misantropo,
disprezza e abbomina la propria specie; ma il vero saggio al penoso sentimento dell'odio ne
sostituisce un più giusto e più umano, cioè la compassione degli errori della moltitudine.
Come mai l'uomo che ha trovate le leggi della gravità, quelle della luce, quelle de'
movimenti celesti ancora non ha trovato un codice che limiti e decida pacificamente la proprietà
d'un cittadino? Io credo che la ragione stia nella natura istessa dell'uomo. Nella nostra specie vi
sono alcuni pochissimi, i quali sono dotati di una forza d'ingegno e d'una costante passione per
cercare la verità e la gloria, talchè essenzialmente trovansi in una classe moltissimo innalzata sul
livello degli altri. Bastano cinque o sei di tali uomini che nascano uno dopo l'altro per condurre alla
somma perfezione una scienza, e questo edificio lo innalza ciascuno nel silenzio della solitudine
non attraversato dalle opinioni o dalle rivalità di alcun uomo, fatto che sia poi il risultato si mostra a
più uomini, e molti anche di coloro i quali non avrebbero avuto forza e ardire per portare nuovi
materiali ad innalzare l'edificio, ne hanno per esaminarlo e salirvi. Ma negli oggetti che risguardano
gl'interessi pubblici, l'uomo che sarebbe capace d'innalzarsi, viene o escluso o contrastato, ammeno
che quest'uomo non sia nato sul trono; perciò i regolamenti politici essendo l'opera di più uomini
sono come le strade delle grandi città fatte in origine più a caso che a disegno, e i sistemi sono tanto
capricciosi e irregolari quanto la pianta d'una città, perchè questi, che quelle nascono dal risultato
dei comodi che ciascun privato ha cercato di ottenere, e non dal disegno d'un Architetto che avesse
in mira un tutt'insieme, il comodo, la facilità, e l'eleganza. Le opere d'un uomo che agisca da se
possono essere un tutt'insieme, e talvolta prodigiose e sublimi le opere concertate da molti uomini
insieme, che a forze eguali si uniscono sempre, saranno difettose e incongruenti. Di tante
Accademie di Scienze che ha l'Europa nessuna ha formato col suo concorso un Galileo o un
Newton. Nessuna accademia di Pittura ha formato un Rafaello, un Coreggio, un Tiziano. Nessuna
accademia di Poesia ha formato un Tasso, o un Ariosto. Un ceto d'uomini non farà mai cosa che
oltrepassi la mediocrità.
L'uomo comunemente è debole, anche sotto di un aspetto libero e sereno sta covandosi nel
cuore il timore. Questo timore è il padre della gelosìa, della invidia, e del sospetto. La debolezza
permette a pochi il ragionare, pochi resistono alla fatica d'un lungo esame. La moltitudine ha
ribrezzo per ogni azione vibrata, sia nel bene, sia nel male, loda le virtù facili e sociali, ammira le
virtù un po' elevate, ma le azioni veramente sublimi o non le sente, ovvero le sente con ribrezzo,
perchè danno troppo forte scossa alla debole sua esistenza. Cessa adunque, o Saggio, che cerchi la
tua felicità di esigere dagli uomini quella generale ragionevolezza che ripugna alla loro costituzione,
e in vece di affliggertene allorchè non la trovi, rimira ciò come un regolare fenomeno della nostra
specie; se ami d'essere superiore colle forze della tua mente e del tuo cuore, non isdegnarti adunque
se negli altri ritrovi mente e cuore più deboli; hai con ciò la dimostrazione della fuperiorità tua
sopra dei volgari, essi camminano ad occhi bendati brancolando, e tu li vedi. Svanisce con ciò una
classe d'impossibili desiderj, e si accresce il sentimento del tuo potere.
§. VII.
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Dei movimenti del cuore
Le verità fin ora sviluppate ci staccherebbero affatto dagli uomini, e ci concentrerebbero a
vivere con noi medesimi se non avesse provvidamente riposti l'Autore eterno della Natura due
principj nel nostro cuore, la compassione, e il bisogno d'amicizia. La vista d'un animale morto
eccita una emozione violenta nell'animale vivo della specie istessa, e soffrendone con dolore la vista
se ne allontana con ribrezzo. Le grida del dolore d'un animale svegliano la sensibilità di altri animali
della specie medesima, e si vedono penosi accorrere e inquieti attrupparsegli d'intorno. Questa legge
non è comune a tutti i viventi, ma soltanto a molte specie, e quella dell'uomo vi si comprende.
Indipendentemente dalla ragione sembra quasi per istinto che l'uomo alla vista d'un altro uomo che
sia addolorato patisca, e da questo patire come per simpatia ne deriva la voce compassione. I
bambini fanno ridendo delle azioni crudeli, e sono insensibili talvolta ai mali altrui, perchè non
hanno idea di quello che soffre l'oggetto che hanno presente, ma l'uomo comune ancora soffre nel
vedere soffrire un suo simile, e a meno che non si sia con replicati atti costantemente incallito alla
vista dei mali, le fibbre con un intimo fremito lo portano anche macchinalmente a desiderare il fine
del male altrui. Pochi uomini reggeranno a starsene la prima volta col Giudice criminale, che fa dai
sgherri slogare le ossa a un infelice colla tortura, ovvero col Litotomo, che taglia l'uomo vivo per
estrarre la pietra, e ascoltando l'agitazione interna l'uomo non incallito farà cessare lo spasimo altrui
se lo può, o almeno si allontanerà colla fuga dall'atroce spettacolo. Se questa macchinale irritabilità
si risguarda dalla ragione, potrà un austero e duro Stoico consiliarci di indebolirne la forza coll'uso
di assistere agli spasimi altrui: ma se un più umano e più illuminato Filosofo considera questa
fensìbilità del nostro animo come la benefica sorgente delle umane virtù, se a questa conosce
appartenere la bontà del cuore, la fratellanza, la dolcezza, la sociabilità nostra, consigliera in vece di
ben custodirla, e di tenercela ben cara, e preservata da qualunque azione che ne diminuisca la più
squisita palpitazione. Questa è l'organo morale, questa è quel sesto immaginato senso che ci porta a
soccorrere gli afflitti, i bisognosi, gli addolorati anche prima che la ragione ce lo suggerisca; e le
nostre azioni verso il bene sono sempre più energiche quando partono da una spinta di sentimento,
di quello che riescono quando ne ha anticipatamente compassato il cammino la tranquilla ragione.
Se la strada della felicità fosse quella del vizio, io suggerirei di soffocare questo senso di
compassione nel nostro animo, e ridurci a potere indifferentemente essere spettatori de' mali altrui;
ma siccome il potere del nostro animo, e l'energìa del coraggio nostro non reggono se non abbiamo
un nobile sentimento dalla coscienza nostra che ci risponda della elevazione di noi medesimi, il che
non può aversi se non a misura che siamo virtuosi; così quella disposizione macchinale alla virtù è
nostro interesse il conservarla, il raffinarla, l'accrescerla affinchè siamo felici. La virtù nata dalla
sola ragione ci fa essere giusti, fedeli, discreti, e circospetti; ma quella che parte dal sentimento ci fa
essere generosi, affettuosi, benefici: la prima tende più a sottrarre dalle nostre azioni il male, la
seconda ci spinge con azioni positive al bene.
Un limite però sarà da porsi a quella benefica sensibilidel nostro animo, e questo la virtù
istessa ve lo pone, cioè quando per essere utili e benefici convenga reprimere il ribrezzo per il
patimento altrui; molti sono i casi della vita ne' quali per soccorrere e liberare altri dal male,
conviene reprimere quella macchinale sensibilità che ci renderebbe attoniti e inoperosi, o ci farebbe
volgere alla fuga; e allora la buona direzione di noi stessi ci farà rivolgere ai mezzi del soccorso per
i modi meno turbolenti e più sicuri e brevi; ed occupato in quella ricerca industriosamente il Saggio
distraendosi da una troppo viva eompassione moltiplicherà le azioni virtuose, e si renderà sempre
più robusto per allontanare se medesimo dalla infelicità.
Questa compassione de' mali altrui non si trova che languidissima, in coloro che hanno
avuto poche occasioni di soffrire, come in quelli che fortissime e frequentissime ne ebbero. Le
fibbre perdono la loro sensìbilità egualmente o nel letargo, o nell'abuso delle ripetute sensazioni. Se
un uomo giovane, ricco, amabile, educato fra gli agi, vivente fralle ridenti dissipazioni vedrà un
pallido padre di numerosa famiglia, lacero, abbattuto dal dolore, mancante di mezzi per dar pane
agli affamati e languenti figli, leggermente lo scaccerà come importuno, non già per orgoglio nè per
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avarizia, ma perchè non ha idea del dolore che soffre quel misero. Lo stesso compassionevole
oggetto presentato a uno schiavo che da più anni vive a un remo, nessuna emozione cagionerà,
perchè la sensibilità dello schiavo è stata incallita dai mali proprj. La squisita sensibiliche rende
le anime delicate e raffinate nel sentimento, sarà massima in coloro, che avendo idea dei mali e
provatili per qualche tempo, innamorati delle attrattive della virtù, avvezzi a rendersi conto de'
sentimenti non abbiano l'animo intorpidito da assoluta mancanza di passioni, assorbito da una
passìone violenta che annienti ogni altro movimento.
Le infermità, la tristezza, le paffioni, le debolezze inerenti alla nostra costituzione
diversificano per modo i varj momenti della vita, che se non abbiamo chi ci consoli, chi ci consigli,
e chi perfino talvolta pensi in vece nostra, siamo abbandonati alla desolazione, e come isolati, e
smarriti in uno squallido deserto esposti non di rado a farci dei mali talvolta irreparabili: ecco la
fonte dell'amicizia, nome sacro, e venerabile, troppo profanamente adoperato da ogni classe di
persone. Il bisogno d'avere un amico è piccolo negli uomini d'un carattere duro e poco sensibile, è
grande negli animi delicati e afflitti o dalla fortuna, ovvero dai mali fisici, è quasi nullo negli
uomini posti in superiore fortuna, sani e lieti, negli ambiziosi degli onori, negli avari, ne' maligni, e
in tutti coloro, i quali debbon temere di lasciarsi conoscere quali internamente sono. Se
tranquillamente esamineremo i beni e i mali, che in noi produce il bisogno dell'amicizia, dubito che
ne sarà per comparire una verità poco consolante; sono tanto rari i caratteri meritevoli d'essere
amici, sono tante e tanto volubili le passioni dell'uomo, che cercandoti un amico, il rischio è
fortissimo d'essere finalmente deluso. In conseguenza di ciò gli antichi lasciaronci quel ferreo
precetto di trattar sempre coll'amico, come se un giorno dovesse diventare inimico; precetto, il quale
consiglia realmente a non avere amicizia per alcuno. Conosco che questa sarebbe la strada per
vivere più sicuri e indipendenti: ma qual vita sarebbe mai la mia se mi considerassi vivendo fra gli
uomini d'essere attorniato da velenosi serpenti, e se dovessi sempre in aguato, sempre in guardia
avere la diffidenza in ogni lato! Comprerò io la felicità sacrificando il pnobile sentimento che mi
rende sopportabile la vita! Io stimo che sia men male l'avventurasi talvolta anzi che l'esistere così
solitario. Tristo colui che non può mai essere ingannato; egli ha un cuore di ghiaccio, ed è incapace
del sublime entusìasmo della beneficenza! Il non diffidar mai degli uomini è imbecillità; il
diffidarne sempre è un error feroce e tristo. Chi conosce gli uomini vede che essi non sono nè buoni,
malvagi totalmente per lo più; che essi non fanno il male, se non per errore, credendo di far del
bene a loro medesimi; perciò l'uomo che cerca la felicità non soffocherà nel suo animo il dolce
bisogno dell'amicizia, ma nella scelta ascolterà lungamente la sola ragione; fatta poi che l'abbia si
abbandonerà al suo cuore.
Prima di sceglierti un amico esaminalo attentamente, ed osservalo in varie circostanze felici
e meste, pacate e turbolente. Sia egli uomo illuminato e docile alla ragione; la maggior parte dei
mali si fanno per ignoranza. La probità d'un uomo che ragioni è fondata su de' principi; la probità
d'un uomo che non ragioni è appoggiata ad una parola. Sia egli libero dalla avididelle ricchezze,
dalla briga, e dalla affannosa fame degli onori. Le anime ulcerate da tai passioni sacrificano tutto a
quelle. Sia d'un carattere aperto, dolce, discreto. Osserva se il racconto d'una azione generosa faccia
comparire nel suo volto il senso della virtù, se il racconto d'una infamia dipinga sulla di lui
fisonomia il ribrezzo. Guai alle fronti di bronzo che conservano inalterabilmente i loro tratti!
Esamina se in fatti sia compassionevole a soccorrere l'infelice e a consolarlo; se non mai si avvilisca
a incensare il vizio armato di potere; se sia fedele alle promesse; se abbia il sublime coraggio di
dare il torto a se medesimo quando la verità lo esiga; se sia buon vicino, buon padrone, buon marito,
buon padre, buon figlio; e se regge a questo esame l'uomo che cerca la tua amicizia, donagliela,
amalo, travaglia per la di lui felicità, che probabilmente egli farà per te altrettanto.
L'amicizia poi non può nascere, durare senza una scambievole uniformità di genio; due
onesti uomini saranno talvolta non solamente incapaci di amarsi, ma difficili perfino a tollerarsi
come due stromenti musicali accordati sopra diversi tuoni. Suppone l'amicizia una capacità di
sentire vivamente le passioni istesse che prova il nostro amico, tanti uomini illustri e fra gli antichi,
e fra i nostri contemporanei hanno scritto sull'amicizia, che io non oserei di trattarne, questo
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discorso mi porterebbe a dilatarmi più a lungo su questo delizioso argomento. Osserverò solamente
che vi vuole moderazione per conservarci gli amici anche ne' beneficj medesimi. Un cumulo di
beneficenze umilia chi lo riceve, e fa risguardare l'uomo che le ha versate come un creditore che
non potremo soddisfare giammai: Bisogna temere che nasca un tal sentimento in uno che sia nostro
pari: L'uomo di cuore vuol sempre che siavi la spontaneità ne' proprj sentimenti, e che la
riconoscenza istessa non sia tanto un dovere quanto un affetto. Quanto è più perfetta la legislazione
d'uno Stato, tanto meno vi è bisogno dell'amicizia; questa è più costante e intenta ne' paesi dispotici,
che non lo sia laddove le leggi conservino al cittadino la sicurezza d'ogni proprietà: perchè sotto un
governo violento e capriccioso ogni uomo si sente vacillante e in pericolo, e s'avvicina al suo simile
per rinforzo e ajuto; e per lo contrario sotto un governo giusto e costante l'uomo ha una esistenza
propria all'ombra delle leggi, e nulla temendo la forza altrui, per la strada della virtù franco
cammina senza bisogno di soccorso. Sotto la sferza alla scuola d'un pedagogo, fra i pericoli delle
armi, fra le inquietudini d'una lunga navigazione si contraggono amicizie forti e durevoli; ma nelle
società che chiamansi di bel mondo, gli uomini passano la vita senza accostarsi alla amicizia. I
caratteri che ne sono capaci non sono ordinariamente facili a trovar piacere nelle comuni società,
quel cicalío che basta a parecchi, li lascia annojati e scontenti, perchè poca parte vi ha l'ingegno, e
meno il sentimento.
Se poi dopo avere trascelto un amico colla prudente disposizione che la ragione c'insegna
troverà il saggio d'essersi ingannato, soffrirà un male; sentirà il dolore nel mezzo del suo cuore;
ma sarà questa una sventura come una febbre da risguardarsi come un appanaggio della nostra
sensibilità. Gl'incauti per lo contrario che senza esame attento si gettano fralle braccia di chi si
chiama amico, quando si lagnano della ingratitudine degli uomini, soffrono il castigo del loro
errore. L'uomo opera in conseguenza dei principj che ha, e non in conseguenza dei principj che gli
attribuiamo noi a capriccio. Esamina l'uomo, osservalo, adopera intensamente la tua ragione, e
quella ti porrà sulla strada onde la compassione istessa, e il bisogno della amicizia in vece di
indebolire il tuo potere lo accrescano, cosicchè per questi due sentimenti tu diverrai ancora più
lontano dalla infelicità col pareggiare un più gran numero di desiderj.
§. VIII.
Se i mezzi per vivere felici crescano ovvero sceminsi in questo Secolo
Io non entrerò a divisare i principj e i mezzi co' quali si promove e dilata felicità di uno
Stato; sarebbe questo un argomento, che da se meriterebbe un volume, ardirei cimentare le mie
forze con un vasto oggetto. Unicamente cerco di conoscere se gli uomini che attualmente vivono
abbiano maggiori mezzi per accostarsi alla felicità di quelli che le circostanze passate offirono ai
nostri maggiori. Questo paragone può essere consolante. Se dapprincipio si è osservato dovere ogni
uomo nel corso della vita più soffrire che godere, e la miseria essere più vicina all'uomo che non la
felicità; almeno contro di questa dura verità riporremo l'altra più ridente, ed è, che i mezzi per
sottrarci alla infelicità si vanno moltiplicando, e che gli antenati nostri vissero a peggiori condizioni
che non viviamo noi. Se la prima verità ci disinganna d'uno stato chimerico, e ci fa volgere a
conoscere la reale condizione nostra, e porre ordine e sistema al nostro ben essere; la seconda ci
rincora a meglio sopportare una vita coll'esempio nostri simili che seppero sopportarne una più
penosa. Gli uomini occupati della erudizione storica sanno questa verità; il Muratori in cento luoghi
si consolava della felicità de' costumi e de' governi in paragone de' trasandati, io ne presenterò un
compendiosissimo prospetto.
Tutto è in moto nell'universo. Volgo il pensiero ai tempi più rimoti ai quali giunge la storia,
e vedo in prima i Greci animati da un violento amore della gloria nazionale uscire dagli stretti
confini del loro paese, e rotolarsi come un torrente devastatore sull'Asia e sull'Africa, soggiogando
le genti attonite che stupidamente presentavano il collo al giogo del vincitore. S'invecchia la Grecia,
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sorge Roma, e il vigoroso genio conquistatore innalbera le Aquile Latine, e si strascinano al
Campidoglio i Re incatenati dell'ammollita Grecia, dell'Asia, e di molta parte di Europa. Passa la
robusta virilità dall'Italia al Settentrione, ed escono dalle nere foreste dell'Orsa le generazioni di
uomini, che dall'Eusino e dalla Germania invadendo il Romano Impero, tutto distruggono, niente
sostituiscono; lottano con altri barbari; poi indeboliti a poco a poco per la sicurezza i loro imperj
vengono anch'essi dagli Arabi e dai Franchi soggiogati e distrutti. L'urto possente e ripetuto delle
nazioni finalmente le infranse, e si spaccarono in molte piccole suddivisioni bilanciate dal reciproco
potere, e gli Europei, ne' quali il cambiamento non aveva del tutto cancellato il bisogno di occuparsi
di oggetti grandi e turbolenti, corsero a migliaja a cercarli perfino nell'Asia minore. Questa furiosa
tempesta andò per gradi calmandosi, e meno spumanti ed elevati ne divennero i flutti, quindi per
molte generazioni indebolendosi e la memoria delle cose passate, e la educazione, comparve agli
occhi degli Europei inciviliti barbaro lo stato de' loro padri. Le forti passioni della gloria, e della
sicurezza della nazione si ecclissarono; il lusso e la mollezza riposero sul trono i tiranni, e sulla
faccia della terra gli schiavi. Le nazioni cessarono allora d'esistere per loro stesse, e divennero un
mero patrimonio de' Principi, i quali col Gius Feudale ne regalavano porzione agli amici. Le guerre
allora si mossero per motivi personali de' Principi, i quali condussero al campo una mandra di
pecore coperte di ferro e macchinalmente guidate; spettacolo ben diverso da questo che formavano
in prima gli uomini a guisa di generosi leoni usciti dai loro covili, sebbene entrambi avessero il
nome di Guerra. Le ricchezze dovettero decidere della vittoria fra armate di schiavi mercenarj
limitati a non mancare ai doveri imposti, privi dell'emulazione di sorpassarli; piccole perciò erano in
que' tempi le armate, e mantenute colle rapine che il tiranno faceva ai sudditi. Si venne al punto di
trovare esausti i mezzi per radunar denari, e in conseguenza per difendersi. La Spagna li ritrovò
nelle miniere del Potosi; tutte le Potenze si riscossero, si pensò a participare di questi nuovi mezzi,
si rianimò l'agricoltura, si rianimarono le arti, si pensò alla popolazione, alla marina, al commercio,
si conobbe che la pubblica sicurezza è l'unica madre dell'industria, e il potere capriccioso e
arbitrario ne è l'esterminatore; quindi alcune nazioni per non deperire nella forza relativa adottarono
una forma di governo stabile e legittima, sotto cui la libertà civile fomentasse l'industria, altre vi si
avvicinarono, e da quel momento o fu abolito, ovvero diminuissi il dispotismo e la tirannìa. Da quel
punto fino al d'oggi i vantaggi delle nazioni più giustamente governate sono andati sempre più
crescendo in Europa, e i Sovrani trovansi nella fortunata alternativa o di rendersi come tributarj
delle nazioni ben governate, o di ben governare e promovere la sicurezza, la libertà civile, e la
felicità del popolo.
La repubblica delle lettere sparsa per tutta Europa, se per lo passato era considerata come
una società di curiosi che si occupavano di oggetti indifferenti per il ben essere della società, ora ha
cambiato aspetto. L'Astronomo t'insegna ad attraversare con sicurezza il vasto mare. L'Ottico ti
prepara uno stromento con cui tu vedi oggetti lontani perfettamente. Il Fisico ti perfeziona il
magnetismo, e ti addita anche fralle tenebre la strada. Il Macchinista ti suggerisce la miglior forma
delle navi e gli stromenti i più maneggevoli e sicuri. Il Chimico ti ammaestra a cavar profitto dalle
miniere, a preparare le manifatture co' più raffinati colori. L'Agricoltura, le finanze, il commercio,
l'arte di governare i popoli, questi sono gli oggetti che occupano gli uomini di studio. La stampa e le
poste comunicando da una all'altra estremità dell'Europa le scoperte, danno una vera esistenza a
questo corpo di pensatori dispersi. Questi oggetti non furono giammai, dacchè la storia ci ha
trasmesso i racconti, conosciuti a tal segno; le cognizioni e gli studj così in alto portati, mai
tanta connessione vi fu tra gli studj e la felicità delle nazioni quanta al d'oggi; e se al ceto dei
pensatori fa torto la ciarlataneria di alcuni, che abusano d'un misterioso linguaggio per arrogarsi una
considerazione non meritata; i Principi attenti ai veri loro interessi, e i popoli illuminati non perciò
lasciano di promovere e incoraggire la luce universale, al lampeggiare di cui sarà forza, che anche i
paesi più torpidi di Europa si scuotano, ammeno che la estrema loro decadenza non tolga in prima
loro la vita. Tale è il moto adunque che in questo secolo ha l'Europa, onde con fondamento prevede
il saggio, che la libertà civile delle nazioni dovrà dilatarsi. Quando ciò sia fatto rìnascerà l'antico
vigore degli animi, l'antica guerra di nazioni, e non di Principi; e per questo circolo passeranno in
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giro le nazioni europee, come le stagioni dell'anno sulla terra. Vediamo in fatti i Sovrani, che
sedono sul trono occupati a sciogliere la schiavitù del popolo, accessibili, umani, cittadini; li
vediamo rappresentare la maestà della nazione, e vegliare sulla felicità di essa, in guardia contro
l'abuso del potere de' Grandi, accostarsi con bontà ai poveri e deboli, e sostenerli colla giustizia e la
beneficenza; i tributi ripartiti con proporzione, riscuotersi con umanità, imporsi per bisogno dello
Stato, e servire allo stipendio di quella parte di sudditi, i quali per consecrarsi alla difesa della
nazione, forza è che sieno alimentati dal possessore, di cui conservano la proprietà o combattendo, o
dirigendo le cose pubbliche, o rischiarando i dritti di ciascuno, e frenando i malvagi. Se ascendesse
sopra un trono in Europa un malvagio simile a quelli, che servirono di modello al Secretario
Fiorentino; se i fogli pubblici raccontassero le tirannie, che nel secolo XV accadevano, quando nella
Lombardia il Duca Giammaria Visconti passeggiava per le città scortato da feroci mastini, ai quali
ordinava di sbranare quei cittadini, che sospettava sensibili al pessimo suo governo; se ci
informassero i fogli pubblici dei veneficj, assassinj, torture, rapine commesse abitualmente per
comando d'un Sovrano, affine di alimentare i suoi vizj, di corrompere colla violenza le donne altrui,
di assoldare sgherri per rinforzare l'oppressione; un tal mostro sarebbe tanto abbominevole, vile, e
stravagante, che non si presterebbe credenza a un tal racconto, e gli Stati suoi si spopolerebbero,
correndo gl'infelici abitanti a ricoverarsi sotto il governo degli Stati vicini. Ma tre secoli sono un tal
governo non era mostruoso, perchè tale era quella che allora chiamavasi ragione di Stato. Io non
dirò che tutti gli Stati di Europa abbiano interamente deposta la barbarie antica; ognuno però
conosce, che si è di molto scemata, e con essa la infelicità; giacchè si può bensì disputare, se l'uomo
fra gli Uroni e gli Iroquesi sia più felice che a Roma, a Londra, o a Parigi, ossia se lo stato selvaggio
sia più fortunato dello stato d'iincivilimento; ma nessuno disputerà se lo stato di barbara e corrotta
società sia più misero dello stato di società colta e legittima. Nella vita selvaggia può dirsi, che
l'eccesso dei desiderj oltre il potere sia poco, perchè questi sono limitati quasi ai soli bisogni fisici, e
questo è grande colla agilità e robustezza del corpo non ammollito dalla educazione; nello stato di
società i desiderj sono infiniti, perchè nascono dalla fecondissima opinione sovrana degli uomini
sociali, e il potere si accresce dal canto dell'industria, e si scema da questo delle forze fisiche; ma se
in questa società spira la barbara diffidenza, se l'esistenza e la proprietà diventano precarie, se dalla
fonte della equità e della giustizia sgorga il terrore e la devastazione, il potere di ogni uomo è
vacillante, e l'eccesso de' desiderj diventa sommo. Si è forse trovata un ingegnoso paradosso,
piuttosto che una verità, la proposizione che siano più felici i selvaggi, che gli uomini sociali,
perchè si è creduto, che con ciò si facesse il progetto di richiamare gli uomini alle selve, e perchè
l'uomo incivilito ha supposto, che il selvaggio abbia tutt'i bisogni ch'ei sente, e mancando di mezzi
per soddisfarli, conseguentemente rimanga disperato come ei lo sarebbe; ma la questione è un
oggetto di semplice speculazione, mai da questa potrà dedursene, che dopo una comoda e molle
educazione possa l'uomo passare allo stato selvaggio senza rendersi infelicissimo. Anzi nessun altro
partito resta da prendersi per le società già formate se non se quello di portarsi alla perfezione ed al
massimo incivilimento con ottime leggi, ottimi costumi, e con ogni genere di coltura, addestrando la
ragione e l'industria, ed affrettando i progressi della verità fugando le opinioni a lei contrarie, e
rendendo comune l'uso di essa ai cittadini in quante azioni della vita si può.
Ho accennato, che tutte le società sono in moto, e lo furono; ho dato una rapida corsa sul
fato delle società europee; non per ciò ho inteso di fissare il limite delle vicende generalmente delle
umane società; al mio intento basta soltanto d'indicare quello che interessa noi medesimi. Se poi
nell'Asia, che forse in origine fu la patria antica anche di noi, l'indole del clima rende gli uomini p
spossati, e capaci soltanto di conservare uno stato forzoso e violento per periodi più brevi; se ivi i
governi dispotici antichissimamente instituiti, e fino al dì d'oggi mantenuti, altre vicende non
soffersero, se non il cambiamento del Despota; se i costumi, le opinioni, i vestiti che da noi
cambiano, ivi immobilmente durano per lunga serie di generazioni, ciò non contraddice alla storia
d'Europa, e unicamente confermerà la opinione della influenza massima del clima sul genere
umano: ma da noi, sia effetto della maggiore robustezza, sia quello della irritabilità e inquietudine
maggiore, credo che non sarebbe possibile il contenere lungamente una nazione in uno stato
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somigliante a questi della Persia, della Cina, o del Giappone.
Dal fin quì detto raccogliesi, che l'uomo ha più mezzi oggigiorno per essere felice, che non
ve ne furono giammai; che questi dipendono dai lumi e dalle cognizioni che ci hanno somministrate
le scienze; esse dominano la opinione, e questa il Mondo; il saggio le onora, e sopra di ogni altra
coltiva la scienza di se medesimo, e perfeziona la ragione per migliorare se stesso, per formarsi idee
chiare e precise degli oggetti, e accostumarsi a un metodo di giudicare più lontano dall'errore che
sia possibile, e incamminarsi alla felicità, rischiarando il sentiero che vi conduce.
Conclusione.
La felicità non è fatta, che per l'uomo illuminato e virtuoso. Se gli uomini, che pure tutti
avidamente si uniformano nel correre dove credono di trovare la felicità, adoperassero le loro forze
della mente per esaminare se la strada per cui smaniano di correre vi conduca, non cadrebbero così
miseramente in braccio al tardo pentimento, come la maggior parte fanno. Gli Stoici s'insegnarono a
spogliarci di ogni desiderio per togliere ogni presa ai destino sopra di noi; chimera rispettabile, ma
pure chimera, perchè l'uomo senza alcun desiderio sarebbe immerso in un profondo sonno. Zenone
voleva, che il saggio fosse come una robusta quercia, che all'accostarsi dei venti dell'inverno lascia
cadere le foglie, e meno presa, e immobilmente ne soffre il soffio: ma la ragione c'insegna a
liberarci dai desiderj contrarj a lei, e proccurarci il potere massimo per uguagliare quanto si può i
nostri desiderj. La ragione ci fa conoscere, che è nostro interesse l'essere virtuosi; che la virtù sola
può condurci a vivere men male i nostri giorni. Molti anche uomini colti, e naturalmente disposti al
bene, si sono gettati in braccio alla bassezza, al rimorso, alle contraddizioni per non aver creduto
abbastanza alla virtù. Il saggio non si sgomenta, cambia di parere, sebbene veda preferiti agli
onori i caratteri talvolta meno virtuosi, dimenticate le azioni nobili, e ricompensate le servili; non
cambierebbe perciò lo stato proprio coll'apparente fortunato, la sicurezza interna che gode colla
turbulenta condizione ch'ei penetra a conoscere nell'interno altrui. La felicità del saggio comincia da
lui, e si stende poi agli oggetti: Il volgare incautamente ne cerca il germe fuori di se medesimo:
mentre la prima si estende al di fuori di se lentamente, e per gradi si accresce come i cedri superbi,
che insensibilmente vegetano, ma reggono alle stagioni, l'altra come gli arbusti acquosi e gracili
rapidamente cresce, e muore
al primo gelo. Un antico Poeta desiderava, che l'uomo malvagio
vedesse per un momento la virtù, e si annienterebbe di confusione; io vorrei che gli uomini la
vedessero, la conoscessero, e ne sentirebbero il bisogno anche per loro immediato interesse di
conformarvi le loro azioni. Dammi un uomo virtuoso e illuminato, ed io ti proverò, che se fosse
stato maligno e stordito, sarebbe in peggiore condizione di quella che gode. Dammi un uomo senza
virtù e senza principj, posto dalla fortuna per oggetto d'invidia, e ti proverò, che se fosse stato
illuminato e virtuoso, sarebbe più felice che non è. Chiunque sei che aspiri ad allontanarti dalla
miseria, esamina questi principj, combina questi elementi, e con un intimo e costante esame de'
movimenti del tuo animo gli applicherai a migliorare la tua condizione, diminuendo l'eccesso dei
desiderj sul potere. A misura che avrai più lumi, a misura che ti avvezzerai a combinare le idee con
migliore metodo, sarai più sicuro di te medesimo, de' tuoi principj, della tua virtù.
Gli uomini più eruditi sono quelli che hanno letto di più, e corredata di più la memoria di
cose e pensieri altrui; gli uomini più saggi sono coloro che hanno riflettuto e pensato di più essi
medesimi, e che hanno prima di ogni altra cognizione esaminata la loro interna costituzione, e posto
in ordine il sistema di loro stessi. La lettura continuata ed estesa ci porta nelle scienze tanto lontani
da noi medesimi, quanto gli spettacoli, e le rumoreggianti società: molti hanno bisogno di un libro
per allontanare la noja di essere con loro medesimi, e il pregio maestro dell'uomo è appunto la
capacità di ripiegarsi in se stesso, conoscersi, e farsi spettacolo interessante delle proprie
osservazioni. Il Saggio coltiva le scienze, le lettere, e le arti per gloria, o per diletto, o per vivere;
ma coltiva le interessantissime cognizioni del suo animo, l'esame de' suoi desiderj, lo sviluppamento
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del proprio potere per allontanarsi quanto è possibile nelle sue circostanze dalla infelicità.
Qual è il carattere d'un uomo più disposto di ogni altro a godere della felicità? Non v'è uomo
per insensato che sia, che in qualche ceto non possa ottenere la stima, come non vi è all'opposto
merito, per luminoso che sia, che in qualche ceto non possa essere disprezzato: è pero vero, che
quell'uomo che avrà nel tempo stesso forza e dolcezza d'animo, cosìcchè nè l'una degeneri in
asprezza, l'altra renda lo spirito debole e molle, sarà comunemente stimato presso ogni nazione
ed in ogni secolo. L'uomo saggio resta ugualmente distante e dalla inurbanità, e da quella servile
passività, che lo dispone ad essere mero stromento di chi ardisce di adoperarlo. Un uomo debole
non è mai sicuro della propria virtù.
La virtù suppone una esistenza ferma e fondata sopra principj costantemente seguiti e difesi.
Fralle nazioni corrotte tu vedi il sorriso sulla faccia dei cittadini. Fralle nazioni illuminate leggerai
in fronte agli uomini la onorata sicurezza, e l'amore dell'ordine. In ogni nazione il saggio esamìna
prima di determinarsi; si determina prima di agire; ha un carattere suo; conforma talvolta alla
comune opinione le sue maniere esterne, non però mai i suoi sentimenti; ricerca in tutto di
sviluppare i primi elementi delle proprie idee, affine di preservarsi dall'errore; e fralle verità
possibili sente che la più importante, e dimostrata di tutte è, che deve cercare la propria FELICITÀ.
INDICE DE' PARAGRAFI.
§. I. Introduzione.
§ II. Della Ricchezza.
§. III. Della Ambizione.
§. IV. Dell'accrescimento del nostro potere.
§. V. Di alcuni contrasti fralle Leggi.
§. VI. Della conoscenza di noi e degli uomini.
§. VII. Dei movimenti del cuore.
§. VIII. Se i mezzi per vivere felici crescano ovvero sceminsi in questo Secolo.
§. IX. Conclusione.
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DELLA ECONOMIA POLITICA
§. I.
Quale sia il Commercio delle Nazioni che non conoscono il denaro.
Quelle società di uomini che non conoscono altri bisogni che i fisici, hanno e debbono avere
poco o nessuno commercio reciprocamente. Contento l'uomo, allevato in quella società di avere
assicurata la vita dalle insidie degli animali, dalla fame, dalla sete, e dalle stagioni, non può
nemmeno sospettare, che lontano dal proprio suolo nativo vegeti qualche cosa, da cui possa trame
utilità. Perciò le nazioni che noi chiamiamo selvagge non hanno commercio fra di esse, se non nella
necessità di qualche carestia, o disastro qualunque, che le obblighi a ricorrere ai vicini, dai quali, o
con qualche difficile concambio, o per mera umanità, o colla aperta forza trasportano il necessario
mancante. Non si nell'uomo moto alcuno senza un bisogno (di che nel primo discorso si è
trattato) nè un bisogno senza una idea, e queste sono ne' popoli isolati e selvaggi limitatissime.
Quanto più le nazioni diventano colte, ossia quanto più s'accresce il numero delle idee e dei
bisogni presso gli uomini, tanto maggiormente si vede introdurre il commercio fra nazione e
nazione. Il bisogno, cioè la sensazione del dolore, è il pungolo col quale la natura scuote l'uomo, e
lo desta da quell'indolente stato di vegetazione, in cui senza questo giacerebbe. Paradosso poco
consolante si è questo che sempre il dolore preceda il piacere, e che per necessità ogni nazione
debba essere prima infelice per diventare colta dappoi: per noi Europei è già stato bastantemente
pagato questo fatal tributo dai nostri antenati, e possiam consolarci coi progressi che andiam
facendo nella coltura, e goderne i beni, e moltiplicarli, quanto lo possono essere; il che sarà sempre
l'opera d'un illuminato Legislatore. L'eccesso dei bisogni sopra il potere è la misura della infelicità
dell'uomo (come esposi nel secondo discorso) e lo è non meno della infelicità d'uno Stato. I selvaggi
sono poco infelici perchè hanno pochissimi bisogni; ma le nazioni che ne hanno acquistati in gran
numero coll'incivilirsi, debbono di necessità cercare l'accrescimento della potenza per accostarsi
alla felicità. Non è ora mio scopo l'indicare i mezzi de' quali può un legislatore utilmente far uso per
rendere i desiderj degli uomini più conspiranti ad un solo fine, nel che consiste la massima azione
d'un popolo verso la felicità; dirò soltanto per quali mezzi l'Economia Politica ben diretta accrescerà
la potenza d'uno Stato.
Il bisogno spinge l'uomo talvolta alla rapina, talvolta al Commercio. Perchè vi sia
Commercio vi debbon'essere bisogno, e abbondanza: bisogno della merce che si cerca, abbondanza
della merce che si cede in contraccambio. A misura che i bisogni crescono, cresce lo stimolo di
aumentare le merci atte a cedersi in contraccambio. Siccome nelle nazioni selvagge i bisogni sono
minimi; così anche l'abbondanza, ossia il superfluo sarà il minimo: essendo che la nazione selvaggia
si procurerà dal proprio fondo le derrate necessarie alla vita, e sia essa pastorale; o cacciatrice, o
agricola, non estenderà la sua industria al di là dell'annua consumazione.
Quando una nazione dallo stato della vita selvaggia comincerà a scostarsi, conoscendo nuovi
bisogni e nuovi comodi, allora sarà forzata ad accrescere proporzionatamente la sua industria, e
moltiplicare l'annua massa de' suoi prodotti; cosicchè oltre il consumo ella ne abbia tanto di
superfluo, quanto corrisponde alla straniera derrata che dovrà ricercare dai vicini. Ed ecco come a
misura che si moltiplicano i bisogni d'una nazione, naturalmente tendano a crescersi l'annuo
prodotto del suolo e l'industria nazionale.
Ma come fra queste società che cominciano a conoscere i bisogni artefatti potrà farsi il
conguaglio fra il valore della merce che ricevono con quella che cedono in cambio? Il valore è una
parola che indica la stima che fanno gli uomini d'una cosa; ma ogni uomo avendo le sue opinioni e
i suoi bisogni isolati in una società ancor rozza, sarà variabilissima la idea del valore, la quale non si
rende universale se non introdotta che sia la corrispondenza fra società e società, ed
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incessantemente mantenuta. Questa fluttuante misura debb'essere stata il primo ostacolo che
naturalmente si frappose alla dilatazione del Commercio.
Come sperare che una nazione finitima voglia cedere parte de' suoi prodotti, se ventura non
porta che ivi reciprocamente vi sia bisogno del nostro superfluo? Si priverà ella di porzione del suo,
per ricevere l'eccedente nostro, col pericolo di vederlo perire, e corrompersi prima che sia venuta
l'occasione di usarne? Questo è il secondo ostacolo che naturalmente pur deve aver impedito che si
dilatasse la reciproca corrispondenza fra nazione e nazione al primo uscire dallo stato selvaggio.
§. II.
Del denaro e come accresca il Commercio
Acciocchè s'introducesse una stabile e reciproca comunicazione di Commercio fra uomo e
uomo, e molto più fra Stato e Stato era necessario adunque che primieramente si ritrovasse il mezzo
per avere una idea universale del valore, e si ritrovasse una merce incorruttibile, divisibile, accettata
sempre da ognuno, facile a custodirsi e a trasportarsi, atta in somrna a potersi cedere in
contraccambio di ogni altra merce. Prima dell'invenzione del denaro non era perciò fisicamente
fattibile che s'introducesse una reciproca e stabile comunicazione fra uomo e uomo, fra popolo e
popolo. Fralle molte definizioni che mi è accaduto di leggere date al denaro, non ne ho trovata
alcuna la quale mi sembri corrispondere esattamente all'indole di esso. Alcuni ravvisano nel denaro
la rappresentazione del valor delle cose: ma il denaro è cosa, è un metallo, di cui il valore è
ugualmente rappresentato da quanto si in contraccambio di esso, e questa proprietà di
rappresentare il valore è comune a tutte le altre merci generalmente contratte. Altri ravvisano il
denaro come un pegno, e mezzo per ottenere le merci: ma sotto di questo aspetto egualmente pure le
merci sono un pegno e mezzo per ottenere il denaro, e ogni merce è pegno e mezzo per ottenere
un'altra merce. Altri definiscono il denaro la comune misura delle cose, e con ciò dimenticano che il
denaro ha un valore, ed è materia prima di molte manifatture, e qualunque cosa che abbia valore
misura parimente, ed è misurata da ogni altra cosa di valore.
Queste definizioni dunque non competono privatamente al denaro, o non ne comprendono
tutte le qualità. L'errore si è comunemente adottato perchè si è voluto considerare il denaro per
qualche cosa di più che semplice metallo. Il denaro ha un impronto, ma non riceve valore
dall'impronto.
Il denaro è la merce universale: cioè a dire è quella merce la quale per la universale sua
accettazione, per il poco volume che ne rende facile il trasporto, per la comoda divisibilità, e per la
incorruttibilità sua è universalmente ricevuta in iscambio di ogni merce particolare. Mi pare che
riguardando il denaro sotto di questo aspetto venga definito in modo che se ne ha una idea propria a
lui solo, che esattamente ce ne dimostra tutti gli officj.
I contratti di compra e vendita ritornano al semplice stato di permutazione ed a più facile
intelligenza. La teoria del denaro diventa semplicissima, poichè per essere merce universale forza è
che sia accettata e dentro e fuori allo stesso valore; e quindi è viziosa ogni arbitraria taffazione oltre
il metallo; e quindi la spesa del conio emana dal fondo istesso da cui i pubblici pesi della Sovranità;
quindi finalmente ne deriva la preferenza che merita l'argento sul rame, e l'oro sull'argento essendo
più universale e più facile a trasportare e custodirsi quel denaro che sotto minor volume comprende
valore uguale.
Introdotta che sia l'idea del denaro in una nazione, l'idea del valore comincia a diventare più
uniforme, perchè ciascuno la misura colla merce universale. I trasporti da nazione a nazione
diventano assai più facili: poichè la nazione dalla quale si riceve la merce particolare non ricusa in
compensa altrettante merci universali, e così in vece di due condotte difficili e incomode, una
diventa di somma facilità; basta che vi sia abbondanza in una nazione, perchè la nazione bisognosa
possa soddisfarsi, quand'anche la nazione abbondante non abbia attualmente un bisogno reciproco
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da soddisfare. Colla introduzione della merce universale si ascoltano le società, si conoscono, si
comunicano vicendevolmente, dal che chiaramente si vede essere il genere umano debitore
all'invenzione dei denaro più assai che forse non si è creduto, della cultura, e di quella artificiosa
organizzazione di bisogni, e d'industria, per cui tanto distano le società incivilite dalle rozze ed
isolate dei selvaggi. Tutte le invenzioni le più benemerite del genere umano, e che hanno sviluppato
l'ingegno, e la facoltà dell'animo nostro, sono quelle che accostano l'uomo all'uomo, e facilitano la
comunicazione delle idee, dei bisogni, dei sentimenti, e riducono il genere umano a massa. Tali
sono la perfezione della nautica, le poste, la stampa, e prima di queste il denaro.
Quanto più si va rendendo facile il trasporto, tanto più si estende la comunicazione, tanto più
si moltiplicano le idee, tanto più si accrescono i bisogni, tanto cresce il Commercio, e parallela
cresce l'Agricoltura in un Paese agricolo; essendo che l'effetto è sempre proporzionato alla cagione;
l'uomo coltiva quanto domandano i suoi bisogni, e più coltiva quanto più sono estesi i bisogni, ai
quali deve corrispondere coi prodotti della sua terra. Da ciò si conosce quanto a torto da taluni stati
creduto che l'accrescimento del Commercio fosse nocivo ai progressi dall'Agricoltura, la quale anzi
riceve nuova vita quanto più l'industria e i bisogni vanno crescendo in una nazione.
§. III.
Accrescimento, e diminuzione della ricchezza d'uno Stato
Due oggetti principalmente bisogna osservare, e sono annua riproduzione, e consumazione
annua. In ogni Stato si riproduce per mezzo della vegetazione e delle manifatture, e in ogni Stato si
consuma. Quando il valor totale della riproduzione equivale al valore dell'annua consumazione
quella nazione persevera nello Stato in cui si ritrova, qualora tutte le circostanze sieno uguali.
Deperisce quella nazione in cui l'annua consumazione eccede la riproduzione annua. Migliora
questo stato in cui l'annua riproduzione sopravanza il consumo.
Alcuni benemeriti Scrittori rattristati dai gravi disordini che soffrono i Popoli per le Gabelle
sono passati all'estremo di considerare ingiusto e mal collocato il tributo, se non ripartito su i fondi
di terra, e colla creazione d'un linguaggio Ascetico hanno eretta la Setta degli Economisti, presso la
quale ogni uomo che non adoperi l'aratro è un essere sterile, e i manofattori si chiamano una classe
sterile. Rispettando il molto di vero e di utile che da essi è stato scritto, io non saprei associarmi alla
loro opinione sul tributo, di che in seguito tratterò, su di questa pretesa classe sterile. La
riproduzione è attribuibile alla manofattura ugualmente, quanto al lavoro de' campi. Tutti i
fenomeni dell'universo sieno essi prodotti dalla mano dell'uomo, ovvero dalle universali leggi della
Fisica non ci danno idea di attuale creazione, ma unicamente di una modificazione della materia.
Accostare e separare sono gli unici elementi che l'ingegno umano ritrova analizzando l'idea della
riproduzione; e tanto è riproduzione di valore e di ricchezza, se la terra, l'aria, e l'acqua ne' campi si
trasmutino in grano, come se colla mano dell'uomo il glutine di un insetto si trasmuti in velluto,
ovvero alcuni pezzetti di metallo si organizzino a formare una ripetizione. Delle intere Città, e degli
Stati interi campano non d'altro che sul prodotto di questa fecondissima classe sterile, la di cui
riproduzione comprende il valore della materia prima, la consumazione proporzionata delle mani
impiegatevi, e di più quella porzione che fa arricchire chi ha intrappresa la fabbrica, e chi vi si
impiega con felice talento.
Ho detto che la nazione in cui l'annua riproduzione pareggia l'annuo consumo è in uno stato
di perseveranza, e vi ho aggiunto quando tutte le circostanze sieno eguali; poichè mutate le
circostanze essa potrebbe deperire c non ostante; e ciò accaderebbe qualora qualche nazione
vicina diventasse più ricca e potente di lei; essendo che la forza, e la potenza, come tutte le altre
qualità dell'uomo, che degli stati, altro non sono che mere relazioni, e paragoni d'un oggetto
coll'altro. Potrebbe un simile fenomeno accadere altresì qualora diminunendosi la popolazione,
scemassero in egual porzione gli uomini riproduttori, ed i consumatori, sottraendosi due quantità
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eguali nel valore d'ambe le parti.
Quando l'annua consumazione ecceda la riproduzione annua, necessariamente la nazione
deve deperire, poichè ogni anno diminuisce e consuma del suo capitale oltre i frutti. Ma questo
stato, come ognun vede, non può essere permanente al di d'un certo limite, può una nazione
continuare per una lunghissima serie d'anni a scapitare colle altre, essendo che o saran forzati a
partirsene tanti consumatori, quanti corrispondono al debito nazionale, ovvero saran costretti a
diventar riproduttori, e così pareggiare le partite. La nazione dunque in questo caso dal male
medesimo riceve la spinta al rimedio, e non secondandola dovrà diminuire il popolo, e indebolirsi lo
stato, finchè si restituisca l'equilibrio. Se partono i consumatori si metterà la nazione in equilibrio
scemandosi la popolazione e accostandosi alla distruzione propria: se in vece si accrescono i
riproduttori si stabilirà l'equilibrio col rendersi lo stato più florido, e robusto. Come nella macchina
del corpo umano allorchè il moto prepotente del sangue minaccia di sfiancare le vene e le arterie, si
può rimediare al disordine imminente, o diminuendo la massa del fluido, o accrescendo la elasticità
de' condotti solidi; così nel corpo politico, allorchè si consuma più che non si riproduce si metterà
un sistema o consumando meno, o riproducendo di più. L'uomo vive, ma indebolito quando risanò
per sottrazione, così lo stato. Il disordine medesimo di consumare più che non si riproduce è uno
sprone a maggiormente riprodurre; perchè l'industria del riproduttore acquista uno stimolo sempre
più forte quanto è più sicuro lo smercio, e questo tanto lo è più, quanto più s'accrescono i
consumatori. La nazione adunque in questo caso dal male medesimo riceve la spinta al bene,
siccome dissi; e quando gli ostacoli della legislazione o della fisica elidano questa direzione
naturale al bene, si dovrà diminuire il popolo e indebolirsi lo Stato, finchè si restituisca l'equilibrio.
Nella nazione poi, ove l'annua riproduzione ecceda la consumazione, ivi dovrà accrescersi la
merce universale, la quale resa più famigliare e comune ivi, che nei finitimi, andrebbe gradatamente
incarendo i prezzi delle riproduzioni, per modo che non avrebbero più esito presso gli esteri, i quali
altrove si rivolgerebbero per ottenerle, ciò che sarebbe se la merce universale giacesse ivi con poco
moto, di che si parlerà in seguito: ma la merce universale acquistata coll'industria accrescerà ivi i
bisogni, perché tanto ogni uomo ha più bisogni quanto ha più desiderj, e tanto più desiderj quanto
maggiore probabilità di soddisfarli, e questa s'accresce a misura che se ne accrescono i mezzi,
quindi ogni uomo acquistando maggior quantità di denaro accrescerà la propria consumazione;
quindi proporzionatamente se ne accrescerà la riproduzione, perchè vedesi accresciuto lo smercio;
quindi le merci particolari si moltiplicheranno a proporzione che universalmente si spanderà
l'accrescimento della merce universale, e si aumenterà il numero de' contratti a misura che se ne
aumenteranno i mezzi per farli, il che in seguito si vedrà, onde la merce universale acquietata
coll'industria e diradata sopra un gran numero d'uomini colla celerità maggiore rimedierà e
compenserà i cattivi effetti che la sola massa dovrebbe fare; ed ecco come la natura medesima
quando da se sola operasse prenderebbe a trattare gli uomini tutti da madre benefica, correggendo
gli eccessi e i difetti in ogni parte, distribuendo i beni e i mali a misura della attività e sapienza de'
popoli, e lasciando fra di essi quella sola disuguaglianza di livello che basti a tenere in moto i
desiderj e l'industria, siccome nell'oceano per l'azione dei corpi celesti variandosi l'orizzonte, le
acque alternativamente trascorrono, sicchè ne resta impedito l'infradiciamento. Ma gli ostacoli
politici cagionati da quel funesto amore, benchè rispettabile, dell'ottimo e del perfetto, che fece
talvolta traviare i legislatori, possono, ove più, ove meno, abbastanza però dovunque, per
attraversare e ritardare quell'equilibrio, a cui incessantemente tendono le cose morali, non che le
fisiche.
§. IV.
Principj motori del Commercio, e analisi del prezzo
Come ogni contratto consiste nella traslazione della proprietà, così il Commercio
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fisicamente considerato ha inerente il trasporto delle mercanzie da un luogo all'altro. Questo
trasporto si fa a misura dell'utile che v'è nel farlo. Quest'utile si misura dalla diversità del prezzo che
ha la merce, per modo che non si trasporterà mai a una nazione finitima la nostra merce, se da essa
non venga pagata più di quello che si paga dov'ella è, poichè le spese del trasporto, la cura di
regolarlo, il ritardo di riceverne il prezzo, e il pericolo che si corre con questo ritardo non si
soffrono senza compenso. Conosciuti che sian bene gli elementi che formano il prezzo delle cose, si
sarà conosciuto il principio motore del Commercio, e si sarà preso il tronco di questo grand'albero,
del quale per avventura si sono fissati gli occhi troppo su i rami.
Il prezzo, esattamente parlando, significa la quantità d'una cosa che si da per averne un'altra.
Se in una nazione, a cui sia ignoto il denaro, un moggio di grano si cambierà in estate con tre
pecore, e in autunno vi vorranno quattro pecore per l'istesso moggio di grano, in quella nazione,
dico, sa contrattato il grano a maggior prezzo in autunno, e le pecore faranno contrattate a
maggior prezzo nell'estate. Prima dell'invenzione del denaro non potevano aversi le idee di
compratore, e di venditore, ma soltanto di proponente, e di aderente al cambio. Dopo l'introduzione
del denaro ebbe il nome di compratore colui che cerca di cambiare la merce universale con un'altra
merce, e colui che cerca di cambiare una cosa qualunque colla merce universale si chiamò
venditore. Presso di noi che abbiam l'uso della merce universale, la parola prezzo significa la
quantità della merce universale che si dà per un'altra, merce. Ciò accade perchè gli uomini
generalmente non s'accorgono che il prezzo della merce universale medesima è variabile, e le
universali esclamazioni de' popoli si restringono a lagnarsì del prezzo generalmente incarito di tutt'i
generi, senza travedere che querele fatte rese universali come sono, provano appunto la
diminuzione del prezzo della merce universale.
Il prezzo comune è quello in cui il compratore può diventar venditore, e il venditore
compratore, senza discapito o guadagno sensibile. Sia per esempio il prezzo comune della seta un
gigliato per libbra, dico essere egualmente ricco colui che possede cento libbre di seta, quanto colui
che possede cento gigliati, poichè il primo facilmente può, cedendo la seta, avere 100. gigliati, e
parimente il secondo cedendo 100. gigliati aver 100. libbre di seta: che se maggior difficoltà vi
fosse in uno di questi due a fare il cambio, allora direi che il prezzo comune non sarebbe più, di un
gigliato per libbra. Il prezzo comune è quello in cui nessuna delle parti contraenti s'impoverisce.
Merita riflessione come il prezzo comune dipendendo dalla comune opinione degli uomini
non può trovarsi se non in quelle merci le quali siano comunemente in contrattazione. Le altre merci
rare e di minor uso necessariamente debbono avere un prezzo più arbitrario, e variabile, dipendente
dall'opinione di pochi, senza il contrasto d'un libero mercato, in cui cozzino in gran numero i
reciprochi interessi degli uomini per livellarsi.
Quali sono dunque gli elementi che formano il prezzo? Non è certamente la sola utilità che
lo costituisca. Per convincerci di questo, basta il riflettere che l'acqua, l'aria, e la luce del sole non
hanno prezzo alcuno, eppure niun'altra cosa ci è più utile, anzi necessaria quanto lo sono queste. Le
cose tutte le quali comunemente si possono avere non hanno prezzo alcuno, onde la sola utilità
d'una cosa non basta a darle prezzo.
Nemmeno la sola rarità d'una merce basta a darle prezzo. Una medaglia, un cammeo antico,
una curiosità d'istoria naturale, e simili oggetti, benchè fossero rarissimi e di sommo valore presso
alcuni, o curiosi, o amatori, pure nel mercato troverebbero comunemente poco, o nessun prezzo.
L'abbondanza d'una merce influisce sul di lei prezzo; ma per nome d'abbondanza non
intendo la assoluta quantità di essa esistente, ma bensì la quantità delle offerte che se ne fanno nella
vendita. Ogni quantità di merce occultata alla contrattazione non entra a influire nel prezzo, ed è
come non esistente. Le offerte possibili non produrranno che una abbondanza possibile. Dirò
adunque che l'abbondanza assoluta non è un elemento del prezzo, ma lo è l'abbondanza apparente. Il
prezzo precisamente cresce (tutto il resto uguale), colla rarità della cosa che si ricerca.
Il prezzo delle cose vien formato da due principi riuniti, bisogno, e rarità; ossia, quanta più
sono forti questi due principj riuniti, tanto più s'innalza il prezzo delle cose; e vicendevolmente
quanto più s'accresce l'abbondanza d'una merce, o se ne scema il bisogno, sempre anderà
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diminuendosi il di lei prezzo, e riuscendo a miglior mercato.
Riflettasi che quando si parla di mercato, ossia di permutazione di una cosa coll'altra col
nome di bisogno, non s'intende già un sinonimo del desiderio, ma s'intende unicamente la
preferenza che si alla merce che si ricerca, in paragone della merce che si vuol cedere. Dunque
bisogno significherà l'eccesso della stima che si fa della merce che si desidera, in paragone di
quella che si vuol cedere. Mi spiegherò. Qual idea ci questa parola bisogno esaminata come un
elemento dei prezzo? Io possedo del denaro e ho desiderio d'acquistare una merce: se io ho poco
desiderio dì conservare il denaro che possedo, allora dico che ho molto bisogno di quella merce che
desidero di acquistare: per lo contrario se avrò tanto desiderio di possedere quella merce quanto di
conservare il denaro, allora dico che i due opposti desiderj si elidono e il bisogno influente nel
prezzo sarà nullo, perché realmente io non farò offerta alcuna. Saranno mille i desiderj d'un avaro
per mille oggetti di lusso, ma egli ha un preponderante desiderio per conservare il denaro e non
offrirà mai alcun prezzo per quegli oggetti. Non influisce adunque nel prezzo se non l'eccesso della
stima della merce desiderata in paragone di quella merce che si vuol cedere, e quest'eccesso,
questà quantità, chiamasi bisogno. Da ciò ne deriva che in quel paese, in cui la merce universale si
accresca in grande abbondanza, se il bisogno delle merci particolari non si accresca
proporzionatamente, essa verrà a riuscire per conseguenza di minor pregio nella estimazione
comune, e converrà cederne quantità maggiore per ogni merce particolare, Suppongansi due paesi
isolati e che non abbiano alcuna relazione estema: sieno questi abitati da pari numero d'uomini in
pari circostanze di estensione, clima, leggi, governo, e costumi: In uno di questi la somma totale
della merce universale circolante sia il doppio dell'altro; dico che i prezzi delle cose vendibili
faranno il doppio presso il paese che ha doppia quantità di denaro circolante. Acciocchè i prezzi
diventino eguali in que' due Stati conviene che i bisogni e le consumazioni si raddoppino nel paese
che ha doppia merce universale, poichè accrescendosi le compre in uno Stato tendono
proporzionatamente ad accrescersi i venditori e i riproduttori come ora dirò, onde sarebbero allora
nella medesima proporzione le ricerche e le offerte ne' due immaginati paesi. L'effetto appunto della
merce universale, che entri in uno Stato per effetto d'industria, gradatamente e ripartita su molti, si è
di accrescere sempre più le voglie per le merci particolari; ne verrà quindi, che quanto la merce
universale sarà meno ammassata, e più suddivisa in molti, tanto più conserverà di valore, e meno
alzerà il prezzo delle merci particolari. In fatti siccome già accennai al paragrafo terzo, a misura che
presso una nazione si accresce generalmente la quantità del denaro ogni cittadino dilata la sfera dei
suoi bisogni: comincia egli a pensare a nuovi comodi a misura che si accresce la possibilità di
soddisfarli. Quanto più cresce nelle mani di ognuno la quantità della merce universale, tanto più
naturalmente crescono le compre che ha voglia di fare, onde per ogni compra conviene che si divida
la merce universale e a tutte basti. Ecco per qual modo accade che accrescendosi la total quantità
del denaro, qualora ciò si faccia gradatamente, e ripartitamente fu molti, ciò non ostante i prezzi
delle cose non s'accrescano, o proporzionatamente non s'accrescano, il pregio del denaro
diminuisca, poichè crescendo lo stimolo di far uso di più merci particolari a proporzione che la
merce universale s'accresce, proporzionatamente si accresceranno le offerte di ciascuna merce
particolare.
Ho detto che accrescendosi le compre tendono proporzionatamente ad accrescersi i
venditori e i riproduttori in uno Stato, perchè quanto più compratori vi sono, tanto cresce l'utile
d'essere venditore, e tanto più si moltiplicano i riproduttori quanto s'accrescono i venditori. Ma non
potrebbe questa Teoria prendersi al rovescio, e chi dicesse quando in uno Stato s'accrescono i
venditori debbonsi in questo accrescere i compratori direbbe delle parole che non contengono una
idea esaminata. Accrescendosi i compratori s'accresce l'interesse di fare il venditore; ma
accrescendosi i venditori non s'accresce del pari l'interesse di fare il compratore. Si coltiva e si
traffica una merce perchè è ricercata da molti, e tanto più si coltiva e si traffica quanto più vien
ricercata; ma non viene ricercata di più una merce, perchè s'accresca il numero di chi l'offre e la
produce; in un paese ove s'accresca la coltura dell'ingegno e si dilati il piacere di leggere, ivi si
moltiplicano, i libraj; ma non basta che in un paese incolto si moltiplichino i libraj perchè ivi si-
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accrescano i compratori di libri. Cosa poi io intenda di significare col nome di compratori,
venditori, e riproduttori si vedrà al paragrafo quinto, cioè non essere, nè poter essere le classi divise
per modo che l'uomo in diversi momenti della giornata non sia ora dell'una, ed ora dell'altra,
siccome vedrassi. L'abbondanza apparente, cioè quella che contribuisce alla formazione del prezzo,
cresce col numero delle offerte, e scema col numero delle medesime; e il numero delle offerte
prossimamente si misura col numero de' venditori. Per conoscere questa verità si consideri che se in
una Città vi fosse alimento bastante per nutrire il popolo per un anno, ma questo alimento fosse in
potere di un uomo solo, quel solo venditore condurrebbe al mercato giornaliero la sola quantità
proporzionata alla vendita di quel giorno, e così le offerte sarebbero ridotte al minimo grado,
l'abbondanza apparente sarebbe la minima possibile, conseguentemente il prezzo sarebbe il
massiino possibile, dipendendo dalla mera discrezione di quel solo dispotico venditore.
Questa medesima vittovaglia suppongasi divisa in due venditori; s'essi faranno un accordo
fra di lor due, siamo nel caso di prima; ma se non lo fanno, qualche principio di emulazione nascerà
fra di loro, perchè quantunque siavi un profitto assai grande nel vendere l'alimento a mezza città,
pure l'uomo sempre desidera di più, e da ciò comincerà a nascere una speculazione fra di essi per
calcolare qual utile vi sarebbe nel ribassare il prezzo; se la porzione che si togliesse al concorrente
fosse per sorpassare di utilità la diminuzione generale del prezzo. Se un terzo, un quarto, un quinto
venditore, e così dicendo, si presentino al mercato offrendo la stessa merce particolare, sempre più
diventerà piccola la porzione che ripartitamente ciascuno potrebbe vendere e sempre più diventerà
minore la perdita del ribassato prezzo e riparata più facilmente con una dilatazione di maggior
vendita, e così nascendo la gara di accumulare più sollecitamente la merce universale si andranno
moltiplicando le offerte, l'abbondanza apparente sarà accresciuta, e il prezzo s'andrà diminuendo.
Accrescasi con questa norma il numero de' venditori, ella è cosa naturale che quanto più
questo numero cresce, tanto più l'accordo fra di essi si rende difficile, tanto più il numero delle
maggiori vendite compenserà la diminuzione del prezzo, e quindi si animerà l'emulazione e la
concorenza; tanto più dunque crescerà l'abbondanza apparente, e tanto psi diminuirà il prezzo
della merce. Io perciò prossimamente, dico che l'abbondanza apparente si misura col numero de'
venditori.
Si è detto che il bisogno si misura sull'eccesso della stima che si fa della merce che si
desidera in paragone di quella che si vuol cedere. Questo è vero; ma considerando la massa totale
della società, con qual norma misureremo noi la quantità del bisogno? Dico che il numero de'
compratori sarà una norma, se non esattissima per un Geometra, certamente in pratica la sola e
sufficiente per servire di misura del bisogno. Per conoscerlo ritorniamo a un consimile esempio.
Siavi un solo monipolista d'una merce; si è veduto che allora l'abbondanza apparente sarà minima:
ma se di essa merce vi sarà un solo compratore, anche il bisogno sarà minimo, poichè il prezzo
dipenderà dal conflitto eguale di due sole opinioni. Che se in vece d'un solo compratore il
monipolista abbia due compratori, allora potrà accrescere le sue domande, e così a misura che, tutto
il resto eguale, il numero de' compratori crescerà, crescerà pure il bisogno constitutivo del prezzo. Il
numero dunque de' compratori è quello dal quale deve desumersi la quantità del bisogno, che
influisce nel prezzo.
Crescasi il numero de' venditori, tutto il resto eguale, l'abbondanza crescerà, e il prezzo
anderà ribassando; crescasi il numero de' compratori, tutto il resto pure eguale, e il bisogno
crescerà, e il prezzo anderà accrescendo. Il prezzo adunque delle cose si desume dal numero de'
venditori paragonato col numero de' compratori; quanto più crescono i primi, o si diminuiscono i
secondi, tanto il prezzo si anderà ribassando, e quanto più si vanno diminuendo i primi e
moltiplicando i secondi, tanto più si alzerà il prezzo. Un Geometra direbbe: Essendo uguale il
numero de' venditori i prezzi saranno proporzionali al numero de' compratori: essendo uguale il
numero de' compratori crescono i prezzi in proporzione che scema il numero de' venditori:
componendo le due ragioni e supponendo diseguale il numero de' venditori e de' compratori; sarà il
numero de' venditori in ragion diretta del numero de' compratori e inversa del prezzo; sarà il
numero de' compratori in ragion composta del numero de' venditori e del prezzo; sarà il prezzo delle
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cose in ragione diretta del numero de' compratori, e inversa del numero de' venditori.
Ma queste proporzioni sono prossimamente vere; poichè rigorosamente dovrebbero i
compratori esserlo di quantità eguale affine che l'esattezza geometrica se ne accontentasse. La
quantità che si esibisce e si cerca da ciascun venditore e compratore non è sempre la stessa, ha
l'istesso momento di forza a mutare il prezzo un compratore che cerca uno, che un compratore che
cerca dieci. Ciò nondimeno dieci compratori contemporanei accresceranno più il prezzo che un
compratore solo che si affacci ad acquistare tutta la merce che cercherebbero i dieci; e ciò per le
ragioni già dette. Sono adunque così prossimamente vere queste proporzioni che praticamente si
troveranno sempre conformi al fatto.
Se il Commercio adunque da nazione a nazione ha in se inerente il trasporto delle merci; se
questo trasporto è cagionato dall'utile; se questo dipende dalla sola diversità del prezzo; se questo.
prezzo è constituito dal paragone fra il numero de' compratori e il numero de' venditori, ne verrà per
conseguenza che una nazione
tanto più troverà sfogo all'eccedente delle sue merci presso gli esteri,
quanto più sarà grande il numero de' venditori di essa merce presso di lei, e piccolo il numero de'
venditori presso la nazione a cui deve trasmetterla, e vicendevolmente piccolo il numero de'
compratori interni, e grande il numero de' compratori esteri. Così una nazione tanto meno riceverà
di merci dagli esteri quanto più venditori ne avrà, e meno compratori internamente, e quanto meno
venditori e più compratori ve ne saranno ne' paesi stranieri.
La concatenazione di queste conseguenze è semplice e facile, per quanto mi pare. Non si
trasporterebbe alcuna merce costantemente da luogo a luogo se dove ella si vende il prezzo non
fosse tanto più caro che ricompensasse le spese del trasporto, i tributi delle dogane, i rischi del
deperimento; l'interesse del capitale, e di più un guadagno al mercante. La diversità adunque fra il
prezzo interno, e l'estero, e lo stimolo al trasporto, e quanto maggiore sarà la diversità del prezzo,
ossia quanto il prezzo d'ogni nostra merce sapiù alto presso gli esteri, tanto maggiore sail
trasporto che ne potremo fare. Dunque per ottenere lo sfogo dell'eccedente nostro, per accrescere la
partita del nostro Commercio utile, bisogna che siano i prezzi delle merci che dobbiam vendere agli
esteri più alti che si può presso gli esteri, e più bassi che si può presso di noi. Sono bassi i prezzi
presso di noi quando di quella merce ne abbiamo internamente molti venditori e pochi compratori;
sono alti i prezzi presso il forestiere quando ivi siano pochi venditori, e molti compratori. Collo
stesso principio si diminuirà la partita del debito nazionale quanto meno consumeremo di merci
estere, e ciò accaderà quando il prezzo di esse non sarà più alto da noi, o di poco più alto di quello
che lo sia presso la nazione che ce le trasmette, e ciò accaderà quando di quella merce ne avremo
molti venditori e pochi compratori nel nostro Stato, e all'incontro saranno presso la nazione che ce
la vende, pochi venditori, e molti compratori. Tutto ciò non è altro se non l'applicazione dello stesso
principio. Sento quanta sia la naturale aridità di fatte ricerche; ma spolpate che sieno queste idee,
e conosciute nella loro semplicità spero che il lettore non si pentirà della fatica a cui l'ho invitato;
conosciuti che siansi questi elementi agilmente si accozzano, e si combinano, e servono di norma in
moltissimi casi, ne' quali la mente senza di ciò rimarrebbe annebbiata e incerta.
§. V.
Principj generali dell'Economia
Questi principj che sono i primordiali, e che a me sembrano provati, servono di base a molte
operazioni che si vogliano tentare per promuovere l'industria d'un popolo, e accrescere la
popolazione, le facoltà, la forza, e la riproduzione d'uno stato. Accrescere quanto più si può il
numero de' venditori di ogni merce, diminuire quanto più si può il numero de' compratori, questi
sono i cardini, su i quali si raggirano tutte le operazioni di Economia Politica; e sebbene talvolta non
si distinguessero esattamente i contorni di queste due idee nel proporre e dirigere le
operazionipubbliche, il fatto è però che tutte si vedono spinte verso l'uno di questi due principi.
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L'accrescimento dell'annua riproduzione debb'essere lo scopo della Economia Politica:
questo non può ottenersi se non col facile e pronto sfogo di tutta la porzione eccedente i bisogni
interni dello Stato: ciò non può aversi che a misura che il prezzo interno è minore del prezzo estero:
a conseguire ciò bisogna, per le cose già dette, che i venditori ai compratori abbiano la maggior
proporzione possibile. Alcune volte le operazioni tendono a scemare il numero de' compratori, altre
volte ad accrescere il numero de' venditori. Pare che e l'uno e l'altro di questi due mezzi conducano
allo stesso fine; ma dirò in seguito quali effetti diversi cagionino questi due mezzi, e come ogni
equilibrio fatto per addizione accresca la vita dello Stato, fatto per sottrazione in vece accosti al non
essere.
Quando io dico che conviene che i venditori ai compratori abbiano la maggiore proporzione
possibile, non distinguo la classe degli uomini, per modo che un uomo medesimo non possa agire e
nell'una e nell'altra. Ogni nazione è naturalmente composta di venditori, e compratori. Ogni
venditore d'una merce è, e debb' essere compratore delle merci che consuma; anzi perciò ogni uomo
è venditore perchè debb'essere compratore, essendo che senza un bisogno l'uomo non si scuote
dall'indolenza, nè si pone al lavoro o al traffico se non per cercare i mezzi di procurarsi le
consumazioni proprie. Una riproduzione che si consuma nello Stato ìmpedisce le perdite; una
consumazione che ivi non si riproduce fa perdere; una riproduzione che non si consuma, e si
trasmette fa guadagnare.
Ho detto poc'anzi che tutte le operazioni di Economia Politica cadono sopra uno di questi
due principj accrescere i venditori, ovvero diminuire i compratori. Con quai mezzi tenteremo noi di
ridurre i venditori ai compratori alla maggior possibile ragione? Forse con leggi vincolanti, e
coercitive? Saranno forse le leggi indirette? Questi oggetti meritano di essere esaminati.
§. VI.
Viziosa distribuzione delle ricchezze
Il numero de' venditori sarà sempre maggiore in una nazione a misura che le fortune saranno
distribuite con maggiore uguaglianza, e sopra un maggior numero. Vediamo in fatti che ne' paesi
ove la sproporzjone delle ricchezze ci presenta il compassionevole contrasto della nuda affamata
plebe, che dalle strade rimira l'orgoglioso fasto di alcuni pochi rigurgitanti di comodi e ricchezze,
ivi scarsissimi sono i venditori di ogni merce tanto indigena che straniera, molti sono al paragone i
compratori, e i prezzi talmente alti che pochissima esportazione posson fare agli esteri; l'annua
riproduzione è ridotta stentatamente al necessario, la terra, su cui passeggiano uomini o avviliti o
oppressori, mostra la sua faccia sterile e infeconda, tutto languisce e dorme aspettando o un
Legislatore che voglia e possa, e sappia (combinazione fortunatissima!), o l'estremità dei mali, i
quali sono i più funesti, ma forse gli unici precettori che persuadono con intima convinzione quale
sia la strada della verità.
Quando le ricchezze della nazione sono costipate nelle mani di pochi, da quei pochi debbe il
popolo ricevere l'alimento, e que' pochi venditori dispotici del prezzo obbligheranno la plebe a una
stentata dipendenza. I pochi magnati, arbitri d'ingojare colle loro ricchezze ogni classe di merce
cagioneranno in questo Stato frequenti monipolj e frequenti carestie artificiali. Nessuna
abbondanza, nessuna libertà civile troverassi presso di quella nazione; il Commercio vi sarà
sconosciuto e l'agricoltura vi sarà negletta. Che se la sproporzione delle ricchezze sarà nella
divisione delle terre, dico che l'agricoltura non potrà prosperarvi generalmente giammai; poichè se il
gran terriere farà coltivare a conto proprio tutta l'estensione de' suoi fondi v'è gran pericolo che anzi
che tollerare l'affanno di assistere da vicino ad ogni punto della vasta sua proprietà con una
inquietudine incessante, abbandonerà la direzione alla cura de' mercenarj, e nel seno della opulenza
dormendo egli, tutto si farà languidamente. Che se il gran terriere confiderà a un fittuario il suo
fondo, il fittuario proccurerà di ritrarre dal fondo quanto più siagli fattibile per lo spazio in cui dura
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l'affitto, nulla curandosi poi quand'anche diventi sterile e deserto il fondo pel tempo a venire.
Laddove il mediocre possessore punto dal proprio bisogno, capace di vegliare sopra di una
estensione limitata, cauto nella conservazione non meno che per la fecondidella sua terra, vi
proccura la riproduzione massima, e i prodotti del suolo originalmente ripartiti in più proprietarj
vengono al mercato offerti da un maggior numero di venditori, e così al prezzo più mite; v'è
opera grande destinata a preservare o arricchire un distretto, la quale se da un ricco terriere può
intraprendersi, non si possa del pari eseguire dalla associazione di molti possessori. Quindi è, che
laddove la proprietà delle terre sia ammassata in grandi porzioni, ivi l'agricoltura sicuramente sarà
negletta; e per lo contrario in ogni paese che trovisi suddiviso in molti possessori, ivi l'agricoltura
sarà attiva e industriosa, quand'anche fosse il terreno difficile e di poca fecondità.
La legge Agraria de' Romani, l'anno giubilaico degi'Isdraeliti, varie Leggi di Licurgo, e
d'altri antichi legislatori, avevano lo scopo d'impedire i grandi amassi e conservare la suddivisione
de' fondi. Erano leggi dirette, utili al fine preservare la Repubblica dalla tirannia di un solo, ma
funeste al fine d'industria. La perpetua uniformità esattamente osservata toglierebbe l'emulazione, e
farebbe in guisa che nessuno avendo lo stimolo del bisogno, tutto languirebbe, e si accosterebbe la
società allo stato isolato, e selvaggio; la consumazione avrebbe per oggetto le sole produzioni
interne, e quest'annua riproduzione non eccederebbe il minimo limite degl'interni bisogni. Le leggi
dirette possono allontanare i delitti, ma non mai animare l'industria.
Nella troppa disuguaglianza delle fortune, egualmente che nella perfetta eguaglianza, l'annua
riproduzione si restringe al puro necessario, e l'industria s'annienta, poichè il popolo cade nel
letargo; sia ch'ei disperi una vita migliore, sia che non tema una vita peggiore.
Una nazione che sia di mezzo a questi due estremi, cioè, dove la plebe sia fra gli stenti
d'una squallida povertà, sia tolta la speranza d'ingrandire e migliorar di fortuna, quella è in istato
di ricevere le più felici impressioni che la spingano al bene, e se a questo stato non è una nazione,
converrà preliminarmente ridurvela.
I mezzi per isminuzzare e dividere i patrimonj troppo ammassati, e far circolare i beni di
fortuna sopra un maggior numero di uomini, non possono mai essere mezzi diretti, poichè sarebbe
questo un attentato contro la proprietà, che è la base della giustizia in ogni società incivilita.
Indirettamente ciò si potrà ottenere quando nell'ordine delle successioni alle eredità vengano dal
legislatore uniformati tutt'i figli senza riguardo al sesso, e al tempo della loro nascita; quando
nessuna porzione di terra, e nessun bene resti immutabilmente segregato dalla circolazione de'
contratti; quando alcune privative pompe che si arrogano i magnati vengano, o ad essi tolte, se
hanno un principio di usurpazione, o rese comuni a un più gran numero; quando alcuni articoli di
lusso puramente di ostentazione, e che si esercitano su merci straniere vengano più dall'esempio del
legislatore, che da' suoi editti proscritti; quando in somma s'interpongano questi mezzi indiretti, i
quali benchè da principio riescano lenti, mantenuti però in vigore, non mancano di ottenere l'effetto,
e di spandere sopra un più gran numero i beni ammucchiati su pochi.
Queste operazioni però sono da scegliersi e combinarsi con maggiore o minore energia a
misura della civile costituzione di un popolo; essendo, come ognun vede, più conforme allo Stato
popolare e Dispotico la possibile uguaglianza, ed allo Stato Monarchico e Aristocraticò la
distinzione dei ceti e la perpetuità di essi.
§. VII.
De Corpi de' Mercanti e Artigiani
In una nazione adunque, in cui restino salutarmente distribuite le fortune per modo che il
popolo largamente trovi il necessario fisico, e speri coll'industria ciascuno di poter godere anche dei
comodi; in quella nazione dico, basterebbe che le leggi non vi avessero posto ostacolo, perchè il
numero de' venditori di ogni merce sarebbe il massimo possibile nelle sue circostanze. Poichè dove
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la industria sia svincolata, ed abbia tutta la naturale sua attività, concorre ad ogni professione tanto
numero per esercitarla, quanti è capace di mantenerne l'utile che se ne cava.
Ma in ogni paese, dove più, dove meno, i legislatori sono stati sedotti da uno spirito mal
pensato di ordine e simmetria, ed han cercato di compassare e modellare quel moto spontaneo della
società, di cui le leggi possono bensì conoscersi con un attento esame su i fenomeni politici, non
mai anticipatamente prescriversi, siccome nelle lingue è accaduto, che non mai i grammatici hanno
potuto organizzarle a loro talento, ma sibbene esaminarle, formate che furono da una massa
d'uomini con una libera scelta, ed i filosofi posteriormente le analizzarono, e ne confrontarono le
analogie.
L'idea di radunare ogni arte, ed ogni mercatura in un corpo, e di dare a questo corpo i suoi
statuti, prescrivere il tirocinio, l'esame, e la qualità requisita per esservi annoverato, prevalse in ogni
nazione, e tuttavia sussiste nella maggior parte. Essa porta con se un'apparenza di saviezza, e di
prudente circospezione. Sembra che si assicuri in tal guisa il buon servizio del pubblico, la
perfezione de' mestieri, la fedeltà nella contrattazione, e che s'impedisca che gli uomini senza
costume, e senza pratica possano defraudare i Cittadini, e screditare le produzioni interne presso gli
stranieri.
Chiunque però si volgerà a esaminar da vicino queste instituzioni, troverà che gli effetti
ordinarj di esse sono di rendere difficile l'industria de' Cittadini; di costipare nelle mani di pochi le
arti, e i diversi rami del Commercio; di soggettare i manofattori e i mercanti ai pesi di diverse tasse,
e di tenere sempre al livello della mediocrità, e talora anche al di sotto ogni manifattura. Liti
incessanti fra corpo e corpo, e fra corpo e membri; spese voluttuarie, e vane fatte dalla cassa
comune, le quali ricadono a peso di ciascun individuo; perdite di tempo per inutili formalità, e
capricciosi officj, espilazione talvolta dei piccoli magistrati di quelle ridicole Repubbliche, rivalità,
odj, guerre contro chiunque ardisca di essere più esperto, o più industrioso: Tale è la scena che
rappresentano ordinariamente questi corpi, esaminati che siano da vicino. Uno spirito di lega e
monipolio gli anima, per cui tendono a stringere nel minor ceto che possono l'utile del loro
commercio, ed ecco come anche dagli effetti si trovi quanto vane fossero le speranze, che si ebbero
nella loro instituzione.
L'esame ch'essi fanno degli alunni si riduce a un tributo ordinariamente, dal che un abile e
povero Cittadino viene ridotto o ad abbandonare la patria, o a rivolgersi ad altro partito; nè
quest'esame garantisce il pubblico dall'aver pessimi operaj approvati da queste maestranze, di che
l'esperienza può conoscersi in ogni paese; e quello che dico dell'abilità, si può estendere anche alla
buona fede che è dagli uomini trattata nella stessa guisa, siano essi arruolati in corpi, siano essi
scapoli, tosto che l'invito al guadagno sia in essi più forte de' lor principi morali.
L'effetto solo adunque che questi corpi producono si è questo di diminuire il numero de'
venditori interni, conseguentemente accrescere il prezzo delle merci, diminuire il numero de'
contratti, frenare l'attività dell'industria, e scemare l'annua riproduzione.
Un'arte vi è la quale per necessità non debbesi lasciare interamente libera, ed è quella degli
Speziali; troppo si avventurerebbe altrimenti la sanità del popolo. Il porre limiti al lor numero non
spetta all'Economia Politica, ma ai progressi della saggia medicina dubitatrice. Gli argentieri, i
drappieri, i cuojai prospereranno meglio sotto un'intera libertà colla condizione soltanto che il bollo
autentico della nazione non sia apposto se non all'oro, e argento del vero titolo, ai panni, ai cuoi
preparati, con determinate leggi e costituzioni.
I privilegj antichi dei corpi delle arti, i debiti che molte volte trovansi ad essi addossati sono
oggetti piccoli, e facilmente rimediabili con una saggia politica. Se questi corpi portano il peso d'un
parziale tributo sarà sempre facile il trovare un fondo su di cui più innocuamente collocarlo. Aprasi
la strada ampia e libera a chiunque, di esercitar la sua industria dove più vuole; lasci il legislatore
che si moltiplichino i venditori in ogni classe, e vedrà in breve l'emulazione, e il desiderio di una
vita migliore risvegliar gl'ingegni, rendere più agili le mani del suo popolo, perfezionarsi le arti
tutte, ribassarsi il livello de' prezzi; l'abbondanza scorrere dovunque guidata dalla concorrenza,
inseparabile compagna di lei; e siccome l'albero annodato artificiosamente, e forzato nelle sterili
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piazze che noi chiamiamo giardini, languisce e malamente vegeta fin che da quei vincoli resti
frenato l'umore che gli vita, e sciolto da essi l'anima gli scorre ne' tronchi, rinverdiscon le foglie,
il succo nutritivo spandesi liberamente, e s'alza vegeto al cielo per ricompensare co' suoi frutti la
saggia mano che scatenò la natura; così nelle società accader deve che tutto prenda lena e vigore, e
si riscaldi, quando il desiderio di migliorare la sorte non incontri ostacolo, e possa per ogni dove
spignersi, e largamente e sicuramente signoreggiare.
Il giudizio del compratore è sempre il più disappassionato, e il più equo; e l'inesperto come
l'indiscreto venditore resteranno sempre solitarj, e per mancanza di profitto verranno costretti o a
diventar buoni, o a uscire dalla professione. I corpi dunque delle arti, e de' mestieri non producono il
bene per cui furono instituiti; tendono a diminuire l'annua riproduzione, e ad accostar la nazione alla
sterilità: abolendoli adunque si farà un'ottima operazione, e si moltiplicheranno salutarmente i
venditori. Dovrà adunque il legislatore dimenticare interamente l'oggetto delle arti, e de' mestieri?
No. Egli le proteggerà con buone e sante leggi. Egli stabilirà un metodo facile, e breve, e non
dispendioso, col quale ciascuno possa avere la forza pubblica in soccorso qualora gli venga mancato
di fede. Egli organizzerà le leggi per modo che un fallito doloso sia esemplarmente punito; un
fallito innocente, soccorso; un creditore oppresso dai dilungamenti, assistito. Farà osservare
religiosamente la fede de' contratti. Stabilirà le condizioni colle quali i libri de' negozianti debbono
avere autenticità. Veglierà acciocchè le manifatture nazionali non sieno decorate del pubblico
impronto se non travagliate secondo le opportune leggi. Proteggerà le manifatture interne approvate,
liberandole dal tributo e respingendo le estere in emulazione con un tributo saggiamente collocato.
Preserverà il fabbricatore, il mercante, e l'artigiano da ogni indebita inquietudine de' Finanzieri.
Darà pronto castigo a chi ingannerà o nel peso, o nella qualità, o nella misura. Tali sono le mire, tai
sono gli ufficj, co' quali il Legislatore proteggerà il corpo de' Commercianti.
§. VIII.
Delle leggi che vincolano l'uscita dallo Stato delle merci
Un altro ostacolo frappongono le leggi all'accrescimento del numero de' venditori, ed è la
proibizione all'uscita di qualche natural prodotto del paese. Si è creduto che poteffe uscire da una
nazione col moto naturale del Commercio anche parte del necessario al di lei consumo; nei viveri
singolarmente questo timore prevalse, e con paterno e rispettabile principio in quasi tutti i paesi si
pubblicarono delle leggi proibitive del trasporto delle interne produzioni più preziose. Si proibì pure
di trasportare agli esteri le materie prime delle manifatture colla plausubile idea di spingere a
prosperità le fabbriche interne, e impedire agli esteri l'entrare in concorrenza.
O queste leggi vincolanti sono universalmente da ogni Cittadino osservate, ovvero non lo
sono. Se la legge è osservata generalmente e che sia fisicamente impedita ogni esportazione; dico
che la coltivazione di quel genere infallibilmente dovrà limitarsi alla sola consumazione interna,
poichè ogni porzione eccedente quella consumazione sarebbe di nessun valore. Anzi tutt'i minuti
possessori, e venditori di questa merce temendo questo non valore cederanno all'astuzia di alcuni
pochi ricchi e attivi che ne faranno ammasso, e così ristrettosi a pochi il numero de' venditori
l'abbondanza interna diminuirà.
Se poi la legge potper taluni essere derogata, ovvero fraudata, egli è evidente che presso
questi tali si ammasserà la merce vincolata, e questi potranno trovare utile lo svotarne lo stato in
grosse partite, e condurvi quella carestia, che appunto si cercava di prevenire coi vincoli. La politica
è piena di paradossi, perchè sono sottilissimi i fili che tengono unite le cagioni agli effetti, e perchè
l'attenzione degli uomini rimira gli oggetti riuniti in masse grandi confusamente e non distinti ne'
loro elementi.
La terra che abitiamo riproduce ogni anno una quantità corrispondente alla universale
consumazione; il Commercio supplisce col superfluo d'una terra al bisogno d'un'altra, e colla legge
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di continuità si equilibrano dopo alcune oscillazioni periodicamente bisogno e abbondanza. Egli è
un malinconico errore lo riguardare gli uomini ridotti a gettare il dado a chi debba morire di fame;
riguardiamoli con occhio tranquillo, e riceveremo idee più vere, e consolanti. Fratelli d'una vasta
famiglia sparsa sul globo, spinti a darci vicendevolmente soccorso, vedremo il gran Motore della
vegetazione averci largamente provveduti di quanto fa d'uopo per sostenere i bisogni della vita. I
soli vincoli artificiali hanno potuto ridurre gli stati ai timori della fame, i quali cresciuti a un dato
segno sicuramente la producono, quand'anche si trovi provvisione bastante a saziarla. La maggior
parte delle carestie non sono fisiche, ma di opinione; di quella opinione regina del mondo, che
distribuisce la felicità, e la miseria e sugli uomini, e su i regni, con maggiore impero e sicurezza di
quello che non facciano tutti gli altri esseri fisici collegati.
Dico che le leggi proibitive sono o insterilitrici o inutili. Ho provato che sono insterilitrici,
perchè diminuiscono il numero de' venditori, resta a provare quando sieno inutili. Tali sono quando
uno Stato non produca del superfluo nel genere che si proibisce. Dico adunque che il necessario alla
interna consumazione non può mai uscire da uno Stato dove la natura sola diriga il Commercio,
poichè nessun venditore ricuserà di cedere la sua merce al compratore nazionale, che senza ritardo o
pericolo gliela paga, per fare la spesa di trasportarla all'estero, correre il rischio del deperimento
nella condotta, e differire in oltre a riceverne il prezzo. Il comprator nazionale avrà poi sempre la
preferenza anche nel prezzo, poichè l'estero dovrà pagare tanto di più quanto costano le spese e il
pericolo del trasporto, le gabelle imposte sull'uscita, e il ritardo al pagamento, ed ecco l'argine che
conterrà sempre nello Stato la quantità proporzionata all'interno bisogno, e ve la conterrà a un
prezzo sempre minore di quello a cui dovranno pagarla i forestieri.
Le proibizioni all'uscita sono adunque ostacoli alla libera espansione dell'industria: sono di
più una facile sorgente di corruzione, che tale si è sempre una legge arbitraria, per cui sia interesse
di molti Cittadini il vederla o derogata parzialmente, o delusa.
§. IX.
Della libertà del Commercio de' Grani
Siami permesso il trattenermi sopra una parte di quest'oggetto, cioè sulla libertà del
Commercio de' Grani, sulla quale la comune opinione degli autori non ha per anco potuto superare
la timidezza di molti. L'argomento è interessante, e le ragioni che son per dire, credo che abbiano
della forza. Due mali si temono dalla libertà del Commercio de' Grani. Il primo male si è ch'ei
venga a mancare nello Stato. Il secondo male si è che ascenda a un prezzo così alto che opprima il
popolo. Esaminiamo questi due pericoli.
Perchè un Commercio si faccia, non basta che sia libero; bisogna che sia utile. L'utilità d'un
trasporto nasce dalla differenza del prezzo. Non si perda mai di vista questo principio, posto il
quale; dico così. Dovunque sia libera la contrattazione d'una merce tosto che appaja differenza
sensibile fra il prezzo che si fa nell'interno e il prezzo esterno, differenza che ecceda le spese del
trasporto, e del tributo, vi sarà guadagno a trasportar la merce dove il prezzo è maggiore; e tosto che
vi è guadagno i possessori della merce vi concorrono a gara per partecipare di quel guadagno, e con
tanto maggior impeto quanto il guadagno è maggiore; e fintanto che cessi il guadagno. Questo fa
vedere che dove la contrattazione è libera non vi può essere differenza sensibile e durevole di
prezzo, ma questo debbesi livellare naturalmente fra le diverse Provincie confinanti. Da qui ne
viene che quando una merce di uso comune il vede a salti improvvisi calare, e crescere di prezzo, ed
essere sensibilmente e costantemente diverso il di lei prezzo da un distretto all'altro, si deve dire che
questo è un moto artificiale, effetto di vincoli, e degli ostacoli impeditivi del Commercio. Ne' paesi
ne' quali è libero questo commercio il prezzo de' grani si sostiene a un livello uniforme. Quelle
impensate, e saltuarie variazioni nel prezzo de' grani che si vedono negli Stati vincolati, fanno
tremare alcuni al solo nome di libertà, perchè si figurano che data questa fluttuazione di prezzo si
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potrebbe con somma rapidità rendere esausto lo Stato. Pecca quest'argomento perchè suppone
l'effetto, tolta che ne fosse la cagione.
Se il trasporto d'una merce si fa a misura dell'utile che v'è nel farlo; se questo utile è
proporzionato all'eccesso del prezzo estero sopra l'interno; se quest'eccesso, posta la libertà, è il
minimo possibile, ne viene in conseguenza che data la libertà del Commercio uscirà del Grano la
minima quantità possibile; nè si potrà mai averne nello Stato in maggiore abbondanza, ammeno che
non ne venga assolutamente proibita non solo, ma impedita espressamente ogni esportazione, nel
qual caso di tanto se ne diminui l'annua riproduzione quanto è il grano superfluo eccedente
l'interna consumazione, siccome si è detto, e la nazione si accosterà al pericolo venturo della
carestia.
Ma questa fisica custodia troppo difficilmente si otterrà. Gl'interessi privati conspirano colla
loro pluralità a deluder la legge. I custodi moltiplici son sempre soggetti a inganno o a corruzione.
Difendere i confini esattamente colla forza non si può in un sistema stabile. Perciò ne' paesi
vincolati ordinariamente accade, che se il raccolto eccede l'interna consumazione, al tempo della
messe il prezzo de' Grani è avvilito, essendo che più sono i venditori che i compratori. Alcuni
monipolisti profittando del vincolo comune, e con una fatale industria, avendo mezzi di sottraersi al
rigor della legge, se ne renderanno padroni, il che fatto, il prezzo s'alzerà, perchè sono ridotti a
pochi i venditori; dalle loro mani passerà in grosse partite ad un monipolista estero, e così
costantemente sussisterà l'utile a trasmetterne, perchè i venditori esteri non sono accresciuti; quindi
quella stessa quantità che mercanteggiata liberamente avrebbe livellati i prezzi, uscirà senza
livellarli, e il prezzo interno, minore dapprincipio del vero prezzo comune, allungherà il raggio di
quella sfera di relazioni che ha il commercio coll'estero, onde ridotta a dar alimento a popoli più
rimoti sarà la nazione vincolata in pericolo di penuria. Tale è la serie delle cose che sono prodotte
dalle leggi dirette e vincolanti.
Se poi vi fossero persone incaricate a conceder le tratte de' Grani, acciocchè assicurato il
necessario allo Stato abbia sfogo il superfluo, questa idea prudentissima al primo aspetto, riuscirà
ineseguibile nella pratica. Non è possibile il fare ogni anno un calcolo nemmeno di approssimazione
sulla quantità de' Grani raccolti; in conseguenza posto che anche si sappia la vera annua
consumazione, non si potdefinire a quale quantità ascenda ogni anno il superfluo. Di più questo
calcolo inesattissimo non sarà fatto se non più mesi dopo il raccolto. Dovrà dunque sospendersi
ogni tratta di grano per tutto il tempo anteriore a questo calcolo; cioè per tutto il tempo nel quale i
possessori delle terre saranno stati costretti dall'inesorabile bisogno a venderlo, e sarà questa derrata
già tutta ammassata presso i monipolisti prima che se ne possa fare Commercio. Ecco la ragione,
per cui i paesi che non permettono esportazione de' Grani se non per tratte, si espongono bene
spesso a pericoli o di vuotare il paese, o di fare che manchi il compratore, e si diminuisca questo
importantissimo ramo di agricoltura.
Di tutte le merci anche le più necessarie alla vita comune, olio, vino, panni, tele ec. non ne
manca mai il necessario allo Stato quantunque; ne sia libera la contrattazione e il trasporto. Perchè
temesi adunque che la merce Grano esca dallo Stato, e ne manchi il necessario, se la legge non
accorre ad impedirne l'uscita? Si dirà forse che il Grano è una merce più preziosa di ogni altra. Si
osservi però ch'ella lo è tanto per noi quanto per gli esteri, onde aggiugnendo eguali quantità da una
parte e dall'altra, le relazioni fra noi e gli esteri rimarranno precisamente quali sono in ogni altra
merce meno preziosa.
Il necessario fisico non può uscir mai da uno Stato, che abbia la libertà del Commercio,
perchè dovunque vi è concorrenza non vi possono essere monipolisti. L'interesse di ogni Cittadino
veglia sopra le usurpazioni di ogni Cittadino, e tanti a gara si affollano a partecipare dell'utile, che
resta sempre diviso questo sul numero maggiore possibile; da che ne viene, che quei grandiosi
ammassi, i quali si vedono nei paesi vincolati, sono fisicamente impossibili a farsi ne' paesi liberi.
Se dunque uscirà la merce dal paese libero, uscirà in molte e replicate partite, uscirà per gradi; e a
misura che le ricerche si accresceranno gradatamente si alzerà il prezzo, perchè niente di
clandestino può ivi succedere dove l'attività di ogni uomo abbia lo stimolo dell'utile a invigilare
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sulle usurpazioni altrui. Ne' mercati apertamente si faranno i contratti, e così s'alzerà di tanto il
prezzo interno della merce, che all'estero non converrà più di comprarla, e la natura delle cose da se
medesima avrà interdetta l'uscita al primo accostarsi del pericolo che uscisse pdel superfluo. In
fatti l'estero dovrà sempre pagare la nostra merce quello che la paghiam noi, più il trasporto e il
tributo all'uscita; più il pericolo e il ritardo del pagamento. La sfera delle relazioni d'ogni stato co'
finitimi è circoscritta, e ciascuno Stato adjacente a noi diventa centro d'un'altra sfera, e così da
vicino a vicino, per la qual connessione ne accade che cresciuto il prezzo da noi a un dato segno, il
finitimo si volgerà a cercare il restante del suo bisogno da qualche altra parte.
Taluni sostengono un'opinione, la quale può dettar meraviglia, ma non persuasione; cioè che
la libertà convenga ai paesi sterili, e sia pericolosa ai fecondi. Si rifletta che i paesi sterili in grano,
pure ne possedono, poichè ne ricevono dal forestiere; e la porzione necessaria alla loro
consumazione che hanno ricevuta dagli esteri non potrebbe uscire da quello Stato senza pericolo
della fame. O dunque il necessario non può uscire, o veramente lo può: se no; perchè lodare i
vincoli ne' paesi fecondi? Se poi si sostiene che il necessario possa uscire colla libertà, dove mai
sarà più da proscriversi quella libertà se non ne' paesi, ne' quali il primo moggio che ne uscisse
potrebbe essere un decreto di morte d'un Cittadino!
Fa meraviglia come in mezzo a tutta la rete dei vincoli tessuta ne' secoli passati non sia mai
caduto in mente di vincolare anche la custodia del grano destinato per sementare. In fatti seguendo i
principj coattivi, che non suppongono inerente alla natura delle cose medesime il moto al bene, ma
vogliono imprimervi questo moto; che non poteva dirsi per intimorire gli animi volgari e far
risguardare salutarissimo e providissimo il vincolo sul grano da seminare! Questi è una parte
sensibilissima del raccolto, e sarà almeno la quarta parte: E che diverrà lo stato (potevasi dire) se la
spensieratezza, o l'ingordigia caverà da' granaj questo germe della ventura raccolta, e lo
macinerà? L'incentivo dell'utile è sempre urgente; l'uomo sacrifica i bisogni dell'anno venturo agli
attuali. Dunque si obblighi ogni possessore a depositare una proporzionata quantità di grano sotto
la tutela pubblica per seminare il suo campo. Eppure questo non si è fatto mai; è mancato mai per
questo il grano bastante a seminare? Non mai. Perchè l'interesse privato di ognuno quando coincide
col pubblico interesse è sempre il più sicuro garante della felicità pubblica.
Che se si teme non la mancanza del Grano, ma l'esorbitanza del prezzo in seguito alla
libertà, nemmeno questo timore è fondato. In uno stato vincolato, al tempo della messe ne è vile il
prezzo, poichè come già si è detto, il possessore non trova che pochi compratori del suo superfluo.
Ammassato poi il Grano in poche mani di monipolisti il prezzo s'accresce anche nell'interno, poichè
gli artigiani, e la maggior parte degli abitanti nelle Città, formano una giornaliera squadra di
compratori. Così la maggior parte dell'anno non resta il Grano al livello del prezzo che sarebbe
utile, anzi necessario per sostenere la man d'opera nell'interno dello Stato. L'effetto dei vincoli si è
di alzare il livello del prezzo interno, e assai più l'esterno delle nazioni che prendono la merce da
noi; perchè l'effetto dei vincoli si è di radunare la merce in poche mani, cercando ognuno di
sbrigarsi d'un frutto del quale non può liberamente disporre, e profittando alcuni pochi privilegiati
della comune servitù per fare essi soli un privativo commercio tanto più seducente, quanto
maggiore, e più rapida si è la fortuna che promette. Inutilmente la legge fulminerà i monipolisti;
potrà rovinarne alcuni, ma saranno immediatamente succeduti da altri; troppo grande è l'utile in
questa frode, e troppi mezzi vi saranno sempre, perchè il ricco addormenti i subalterni custodi della
legge. Sempre che vi saranno vincoli, vi saranno monipolisti, e fin ch'essi vi sono, piccolo sarà il
numero de' venditori nel corso ordinario dell'anno a fronte de' compratori; perciò dovrà sempre il
prezzo esserne alto.
Suppongasi quello che non è, e concedasi che il prezzo del Grano sarebbe più alto colla
libertà, di quello che sia coi vincoli; prima di decidere se convenga avere i Grani a prezzo alto,
ovvero a prezzo vile, converrà esaminare da qual de' due partiti sia l'interesse della maggior parte
de' nazionali, giacchè l'interesse pubblico altro non è se non l'aggregato degl'interessi de' particolari.
Per decidere adunque se l'interesse pubblico esiga d'avere il prezzo alto, ovvero basso bisogna
osservare se sia nello Stato maggiore il numero de' venditori di grano, ovvero quello de' compratori.
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Le nazioni mancanti di grano non hanno leggi proibitive di questo Commercio. Si parla adunque
d'una nazione coltivatrice, e che abbia del superfluo di grani. In questa nazione, dico, sarà assai
maggiore il numero dei venditori di grano di quel che non lo siano i compratori. Tutt'i contadini
saranno venditori, e il numero di essi eccederà di assai il numero degli abitanti nella città, e da
questi ultimi si detraggano tutt'i facoltosi, e si vedrà che per sollevare un povero cittadino si
porterebbe la desolazione a sei o otto poveri agricoltori. Che i contadini sieno venditori di grano, e
non compratori in un paese fertile di grani è facil cosa a capire. Bada riflettere che essi non
comprano il grano il pane, ma confumano il pane fatto dal grano che essi medesimi coltivano;
essi poi pagano il proprietario della terra o immediatamente col grano, ovvero col denaro che hanno
ricavato vendendolo; essi per comprarsi il vestito e le consumazioni, necessariamente adoprano il
prezzo del grano venduto; tanto è ciò vero che in uno Stato abbondante di grano il contadino sarà
più miserabile quando i prezzi de' grani saranno più vili. Ciò posto qual è l'aspetto in cui ci si
presenta dappertutta quasi l'Italia, l'uomo il più necessario, e il più benemerito della società.
Vediamo il miserabile contadino, nudo le gambe, e scalzo; egli ha sul suo corpo il valore di tre, o
quattro lire e non più; egli mangia un pane di segale e di miglio; non mai beve vino; rarissime volte
si pasce di carni; la paglia è il suo letto, prima d'avere una moglie; un meschino tugurio è la sua
casa; stentatissima è la sua vita, e faticosissimi i suoi lavori. Egli si consuma e si logora fino
all'ultima vecchiaja senza speranza d'arricchire, e contrastando colla miseria per tutto il corso de'
suoi giorni; null'altro bene raccoglie se non quello che accompagna una vita semplice, e che
producono l'innocenza, e la virtù. Egli non trasmette a' suoi figli altra eredità che l'abituazione al
travaglio. Generazione d'uomini frugalissimi, laboriosissimi che danno un valore alle terre, ed
alimentano la spensieratezza, l'ozio, e i capricci delle Città! Questi sono gli oggetti rimoti dallo
sguardo del Cittadino; oggetti degni di eccitare tanta commiserazione per lo meno, quanta ne muove
la mendicità per lo più meritata dalla plebe civica.
La libertà adunque nel Commercio de' grani non può giammai in nessuno stato, in nessuna
circostanza portar nocumento alla sussistenza, all'abbondanza della nazione. possono mai
essere di giovamento gli ordini costringenti delle leggi. Se si dubiti della verità di questi principj se
ne appelli la decisione alla sperienza, e si ritroverà che gli stati che non hanno corpi d'arti, e
mestieri, leggi vincolanti all'uscita de' loro prodotti sono più floridi e opulenti degli altri, ne'
quali tai organizzazioni coercitive sussistono, e tanto più s'accostano gli Stati all'ubertà, e
all'abbondanza, quanto meno sì fatte leggi si tengono in vigore.
§. X
De' Privilegj esclusivi
Un'altra conseguenza emana da questi principj, ed è che tutte le privative, e tutt'i privilegj
esclusivi, sono diametralmente contrarj al bene d'uno Stato. Pare veramente a primo aspetto, che un
introduttore d'una nuova arte possa meritare questo favore di vedere interdetto ad ogni altro l'entrare
in concorrenza con lui, e dividerne l'utilità. Questo principio d'equità prevalse, e tuttavia prevale in
molti Stati senza eccettuarne anche alcuni de' più avveduti e sapienti; ma difficilmente mi si troverà
una coltura, una fabbrica, un artifizio che siasi costantemente sostenuto, ed abbia ridotto il suo
oggetto a perfezione ottenuto ch'ebbe il privilegio esclusivo. Tolta all'artefice l'emulazione,
assicurato ch'egli sia d'essere il solo venditore, gli manca lo stimolo per far bene; e come alcune
famiglie per essere state troppo facoltose spensieratamente vanno in rovina; così il monipolista
facilmente si conduce a deperire. O l'introduttore della nuova arte la possiede a un grado da non
temere che alcun Cittadino lo sorpassi, ovvero non è giunto a questo segno; nel primo caso il
privilegio esclusivo gli è quasi inutile, poichè l'artefice porta già seco il migliore di tutt'i privilegi,
l'eccellenza; nel secondo caso poi sarebbe ingiustizia l'interdire l'esercizio dell'industria in quella
parte ad ogni Cittadino in favore d'un mediocre manofattore, il quale altronde può essere con eguale
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attrattiva, e col mezzo più innocuo d'una gratificazione invitato a piantare la nuova introduzione.
Così lasciasi; aperta sempre la strada, sicchè in ogni genere possa apparire il maggior numero de'
venditori che si può.
Da ciò ne viene pure in conseguenza che certe manifatture, e fabbriche prepotenti, e che più
signorilmente colpiscono, e stimolano l'attenzione del forestiere, sono per lo più o di pochissima
utilità ad uno Stato, o di danno talora. Una fabbrica che ci presenti gran pompa, porta seco il
monipolio naturalmente, perchè non vi sarà chi ardisca entrare in concorrenza con lei. Cento telaj
distribuiti sopra dieci fabbricatori, saranno più utili di quello che forse non lo sieno dugento
dipendenti da un fabbricatore solo, perchè i venditori si moltiplicano, la gara fa che si perfezionino,
e riducasi il prezzo al grado più utile per la nazione, e il guadagno distribuito su più fabbricatori
stimola sempre l'industria di ciascuno.
Dico dunque che il numero de' venditori in ogni classe possibile bisogna lasciarlo
moltiplicare naturalmente senza porvi alcun limite, acciocchè s'ottenga in ogni classe il minor
prezzo possibile, il quale solo può accrescere l'annua riproduzione procurando lo sfogo della
porzione eccedente, e questa teoria deve estendersi, come dissi, ad ogni classe possibile di venditori
anche di quelle derrate che servono al puro interno consumo giornaliero; perché il prezzo d'ogni
mercanzia, e d'ogni derrata deve necessariamente comprendere il prezzo di quanto ha consumato
l'agricoltore, o il manofattore; conseguentemente l'abbondanza di ogni più minuto genere
contribuisce come elemento nell'abbondanza di ogni merce, a misura che ne è più popolare la
consumazione.
§. XI.
Alcune sorgenti di errori nell'Economia Politica
Acciocchè i compratori ai venditori abbiano la maggiore proporzione possibile nell'interno
della nazione, oggetto unico e primitivo a cui tendono tutte le operazioni dell'Economia Politica, e
dal quale solo possono emanare la ricchezza, e la prosperità dello Stato coll'accrescimento
dell'annua riproduzione, due mezzi naturalmente si presentano alla mente di ogni uomo, e sono
accrescere il numero de' venditori, ovvero diminuire il numero de compratori. Se nella prima idea
si può francamente progredire togliendo gl'inciampi, e lasciando vegetare spontaneamente l'attività
degli uomini, nella seconda per lo contrario conviene adoperare somma cautela, e timidamente
stendervi la mano più con tentativi per osservarne l'effetto che con colpi maestri e arditi.
In alcuni Stati si volle accrescere la proporzione fra i venditori e i compratori diminuendo
questi ultimi, e si promulgarono leggi sontuarie. La sperienza ha provato com'elle sieno per lo meno
pericolose, e il più delle volte funeste. Esse diminuiscono il numero de' compratori; ma fanno
scemare anche in maggior ragione il numero de' venditori. Esse possono convenire ai paesi che
ricavano la loro sussistenza da un precario Commercio di Economia, e a quei popoli, presso de'
quali la riproduzione annua essendo tenuissima, sono costretti ad essere gli agenti, e i
commissionieri degli Stati riproduttori. Possono a quei convenire, perchè la maggior parte de' loro
venditori trae il suo utile dai compratori esteri, e poco perde togliendole i consumatori nazionali; ma
dove nella nazione si crei ogni anno un nuovo valore che corrisponda alla total consumazione,
quanto diminuirassi la consumazione interna, tanto si vedrà diminuire l'annua riproduzione,
ammeno, che non si sostituisca una maggior consumazione d'un prodotto interno, il che sarà sempre
l'opera del costume a cui debbono rivolgersi le leggi, e della opinione che convien cercare di far
nascere, senza che l'oracolo del legislatore l'intimi direttamente.
In questo Stato di cui il principio conservatore sia l'uguaglianza; dove il Cittadino che si
distingua per pompa o ricchezza fa temere un tiranno; dove l'universale diffidenza della usurpazione
impedisce che s'alzi l'usurpatore; in quello Stato, dico, saggiamente potrà sacrificarsi una porzione
di vita della società alla di lei sicurezza, e providamente verrà il lusso proscritto. L'ottimo governo,
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quello cioè in cui si ritrovino ad un tempo stesso somma sicurezza e stabilità interna per le leggi e
per la civile libertà de' cittadini; somma rapidità e impeto per rispingere ogni esterna aggressione;
somma riproduzione, industria, e ricchezza, sarà sempre difficilissimo a immaginarsi, ammeno che
colla locale posizione la natura non abbia già fatto il più. Si tratta adunque di scegliere i mali minori
reggendo un popolo. Ma io scrivendo della Economia Politica debbo indicare l'ultimo confine a cui
debb'ella spingersi per se medesima.
Ogni operazione, che tenda direttamente a diminuire il numero de' compratori, produce una
diminuzione di prezzo efimera, di cui gli effetti ricadono per lo più in danno della società; essendo
che la diminuzione de' compratori porta seco ben presto la diminuzione de' venditori, e così in vece
di accrescere il moto interno della società si ripone una parte di esse segregata, ed in quiete, e
altrettanto si diminuisce dell'annua riproduzione. Io non citerò esempj; il lettore gli troverà da se; e
tanto mi fido della costanza di questi principj che mi lusingo ch'ei difficilmente troverà un caso, in
cui una legge diretta a scemare il numero de' compratori interni abbia stabilmente portata
l'abbondanza in un paese.
Si è veduto al paragrafo terzo per qual modo gli Stati proporzionino la loro consumazione
alla riproduzione annua, e come de' due modi co' quali ciò può farsi, l'uno sia malaugurato, e fausto
l'altro: lo stesso dico in questo luogo del modo di accrescere la proporzione fra i venditori e i
compratori. Quando ciò facciasi per addizione si spinge lo Stato alla prosperità, e da quella in vece
si allontana qualora si tenti farlo per sottrazione. Non si debbe estinguere il principio vitale della
società, si può utilmente diminuire la quantità totale del moto giammai. Quella sola porzione di
moto utilmente si spegnerà che sia un ostacolo allo sviluppamento d'una quantità di moto maggiore.
Le provide leggi limitano le azioni degli uomini quando esse si oppongono alla espansione e
stabilità delle azioni prese nella loro totalità. Se il legislatore lasciasse libera e impunita la frode ne'
contratti, sicuri e tranquilli i falliti dolosi, placida e serena la mala fede, queste azioni rese libere
diminuirebbero una quantità assai maggiore di azioni; poichè tutt'i commercj, tutt'i contratti che si
fanno sull'appoggio della buona fede verrebbero annientati. Non consente la natura di questo libro
ch'io dirami questo principio il quale potrebbe stendersi su tutta la Teoria delle Leggi, e servire di
esatto confine alla civile libertà; un cenno basta perchè i pensatori ne ravvisino l'ampiezza e la
trascorrano; dico adunque soltanto che ogni diminuzione che vorrà farsi sulla quantità totale del
moto, e nelle stabili azioni della società, sarà un passo verso la distruzione della medesima.
Dall'accrescimento di proporzione fra i compratori e i venditori dipende adunque
l'abbondanza interna d'uno Stato, da cui il trasporto dell'eccedente riproduzione agli esteri, da cui
l'accrescime'nto dell'annua riproduzione, da cui la ricchezza e la popolazione, la coltura, e la forza
nazionale derivano. Accrescere i venditori, diminuire i compratori sono i due mezzi che si offrono
alla mente; il primo di questi è sempre innocuo, ed è facilissimo ad usarsi, l'altro è sommamente
peficoloso, e porta effetti di breve durata, in seguito ai quali si ricade in uno stato peggiore. Donde è
avvenuto adunque che nella maggior parte de' paesi gli uomini d'affari propendessero sempre a
trascegliere il secondo mezzo a preferenza del primo? Perchè gettarsi per la strada più spinosa e
difficile, quando vi è la spaziosa e sicura in faccia? Entriamo ne' secreti penetrali del cuore umano e
ne ritroveremo la cagione; fors'ella vi sta riposta in un canto così oscuro che talvolta gli uomini
stessi che la ubbidiscono non se ne avvedono. Le leggi vincolanti, e prescrittive sono un grado di
autorità, e il comune amor proprio è sempre più lusingato quando s'immagina d'imprimere un moto
e di creare una azione entro una massa d'uomini, che non lo è quando si limita unicamente a
spianarvi le strade, ed a rimovere gli ostacoli. Sembra più breve e lusinghiero il partito di proibire
immediatamente l'effetto, e più laborioso è certamente quello di conoscere le rimote cagioni. Così
cominciarono gli uomini che sedevano al governo delle Città ad agire per sottrazioni. Col passare
de' secoli questo mezzo si consacrò come ogni antica pratica, e gli usi venerati dalla pubblica
opinione, e assistiti dalle leggi non si affrontano senza energia d'animo non volgare, e vi si richiede
una contenzione superiore di mente per assicurar se medesimo di non errare, solo contro il torrente
delle autorità opposte. Tali sono le difficoltà che si frapposero a scegliere il primo mezzo; laddove
seguendo il secondo partito ognuno si assicurò di non vedersi rimproverare giammai dell'esito
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cattivo, anzi acquistò il titolo per avere gli encomj che si danno alla prudenza, la quale per lo più in
politica è un sinonimo d'imitazione. La naturale inerzia fa piegar l'uomo agli esempj, e lo allontana
dallo sforzo dell'esame. Queste cagioni o separatamente, o riunite hanno fatto sì che generalmente le
Leggi, le Costituzioni, e le pratiche della società siansi rivolte piuttosto a frenare il numero de'
compratori anzi che scegliere e illimitare quello de' venditori.
§. XII.
Se convenga tassar per legge i prezzi di alcuna merce
Si è creduto di poter per legge livellare i prezzi interni, massimamente di alcune derrate che
servono all'uso più comune del popolo. Questo espediente forse è nato dappoichè videro i magistrati
che dalle loro leggi vincolanti non ne nasceva la pubblica abbondanza, che anzi i prezzi si
rialzavano diminuendosi il numero de' venditori. Per rimediare al male d'una legge vincolante si
ricorse ad altra legge vincolante ancor più, e si stabilì per autorità pubblica il prezzo a cui dovevano
vendersi alcune merci. Questi usi sussistono in varj Stati. La maggior parte degli uomini viene
sedotta coll'aspetto d'una politica speculativa, la quale come la scuola sofistica fa abbellire questi
ordigni constringenti, e rappresentarli come salutari allo stato, e con una virtuosa ma sorpresa
decisione, e anticipato giudizio le fa abbracciare.
Esaminiamo gli effetti di simili prescrizioni. Supponiamo che il prezzo comune della merce
realmente sia 12. lire, cosicchè se la contrattazione fosse libera, nel mercato comunemente si
venderebbe la merce a lire 12. La legge comanda che il prezzo sia 11. Ecco sconvolto tutto l'ordine
delle cose; il prezzo non è più in ragione diretta de' compratori, e inversa de' venditori. Il prezzo non
è più il grado d'opinione che danno gli uomini alla merce. Il prezzo è divenuto un atto arbitrario
della legge, il quale fa torto al venditore, e conseguentemente tende a diminuire il numero di essi.
Quali effetti ne accaderanno? I venditori scemeranno; i venditori si conformeranno il meno che si
può alla legge, quindi, di quella merce se ne trasmetterà agli esteri anche di più del superfluo; si
cercherà di falsificare la merce, e frammischiarvi materie di minor valore; si cercherà di frodare il
peso, e la misura; e gli esecutori della legge potranno bensì ansanti, in moto, e guerra continua
sacrificare alcune vittime ree di un delitto arbitrariamente creato, senza che cessi perciò il disordine,
o l'abbondanza pubblica regni mai; poichè una legge che abbia contro di se la natura, e l'interesse di
molti non può mai essere costantemente, e placidamente osservata, portare fauste conseguenze
alla Città.
Le leggi tassattive del prezzo sono ingiuste col compratore se fissano un limite al di sopra
del prezzo comune; sono ingiuste col venditore, se lo fissano al disotto, e sono inutili se si
attengono al vero livello del prezzo comune.
Molti popoli hanno dovuto sentire i mali della tassazione del prezzo nel modo il più funesto,
cioè colla carestia. Anche nell'anno 1771 una Provincia di Germania ha sofferti i mali della fame, e
ne sono periti degli abitanti nel tempo in cui colle ricerche fattesi dipoi si trovò grano bastante, e
abbondantemente bastante per la consumazione; ma quel grano i proprietarj l'avevano segregato,
perchè era stato tassato un prezzo di cui non si contentavano. La Teoria mi pare evidente, e tosto
che vi è un confronto, tosto che vi è un compratore e un venditore ella si verificherà.
In fronte della maggior parte delle leggi, che le nazioni ereditarono dai loro padri si trovano
scritte quelle ferree parole forzare e prescrivere. I progressi che la ragione ha fatto in questo secolo
cominciano a farne vedere di quelle che hanno la benefica divisa invitare e guidare. Qualunque sia
la forma di governo sotto la quale vive una società di uomini, a me pare che sia interesse del
Sovrano di lasciare ai Cittadini la maggiore possibile libertà, e toglier loro quella sola porzione di
naturale independenza che è necessaria a conservare, o migliorare l'attual forma di governo. A me
pare che ogni porzione di libertà che ultroneamente si tolga agli uomini sia un errore in politica,
essendochè quell'ultronea azione del legislatore sente in faccia del popolo il solo potere:
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l'imitazione, gradatamente si diffonde; s'indeboliscono l'idee morali nel popolo; e a misura che si
diffida della sicurezza, si ricorre all'astuzia; laonde moltiplicati che sieno questi errori in politica
fatalmente la nazione diverrà timida, poi simulata, finalmente inerte, e spopolata se il potere troppo
familiarmente esercitato giunga all'oppressione. Ma nella felicità dei tempi presenti dopo i progressi
che la filosofia ha fatto in ogni parte del sapere, colla dolcezza e umanidegli attuali governi,
questi oggetti fortunatamente non trovansi, fuori che nella speculazione. È però cosa degna da
osservarsi che ogni passo superfluo che dal legislatore si faccia in limitazione delle azioni degli
uomini è una reale diminuzione di attività nel corpo politico tendente direttamente a scemare
l'annua riproduzione.
§. XIII.
Del valore del denaro, e influenza, che ha sull'industria.
Abbiamo osservato come il prezzo delle merci è in ragione diretta de' compratori e inversa.
de' venditori. Osserviamo presentemente come debba misurarsi il prezzo del denaro. Se il
Commercio altro non e che la permutazione d'una cosa coll'altra, e se l'abbondanza delle ricerche,
e la scarsezza delle offerte formano il prezzo, ne verrà in conseguenza che il prezzo della merce
universale sarà in ragione inversa de' compratori, e diretta de' venditori, conseguenza che
scaturisce immediatamente da' principj e dalle definizioni che si son date, poichè i venditori sono al
denaro quello che i compratori sono alle merci, onde quanto più compratori vi saranno di ogni
merce particolare, tutto il resto uguale, tanto meno avrà prezzo il denaro; e quanto più venditori si
troveranno di merci particolari, in parità pure di circostanze, tanto più il denaro sarà apprezzato.
L'abbondanza adunque della merce universale esclude direttamente l'abbondanza di tutte le merci
particolari, e quanto è da temersi la penuria delle merci particolari in uno stato, altrettanto lo è la
troppa abbondanza, della merce universale.
La troppa abbondanza della merce universale non si misurerà dalla quantità assoluta,
circolante di essa; ma bensì allora soltanto che il numero de' compratori avrà a fare con uno scarso
numero di venditori, cioè quanto saranno in minor ragione i compratori ai venditori potrà dirsi che
siavi questa nociva abbondanza. La natura fa che i venditori si moltiplicano a misura che i
compratori crescono ha numero; se il numero de' compratori crescerà gradatamente, naturalmente i
venditori si moltiplicheranno parimente dentro lo Stato: che se non gradatamente ma per scosse
crescano i compratori interni, ovvero se la fisica o la politica vi pongano ostacoli allora crescendosi
i compratori interni potranno accrescersi altrettanti venditori esteri. Da ciò ne segue che questa
esuberanza di merce universale diverrà sensibile allora quando entri tutta in grossi sfoghi nello
Stato, e non dia tempo gradatamente all'industria di accorrere e moltiplicare i venditori. Il denaro
che insensibilmente si va accrescendo in uno Stato è come la rugiada che rinvigorisce e rianima
tutta la vegetazione; egli è un torrente impetuoso che schianta, intorbida, insterilisce se entra nello
Stato ammassato in tesori.
Si è osservato fin dal principio che non potrebbe darsi un commercio vivo, e esteso se non si
fosse inventata la merce universale, e che il commercio avesse dovuto consistere in permutazione di
cose consumabili. Uno Stato adunque in cui scarseggi talmente la moneta, che ne manchi per
l'interna circolazione dovrà accostarsi alla vita selvaggia, e restringendo i contratti al puro bisogno a
misura che la merce universale è poco diffusa ne accaderà, che fra uomo e uomo la contrattazione si
riduca e limiti al minor grado, e proporzionatamente si diminuirà la riproduzione annua, e la
nazione povera, isolata, e languente ripiegherà verso gli antichi suoi principj, allontanandosi dallo
stato della coltura.
Per la ragione medesima quella nazione in cui l'instancabile industria, e un florido
Commercio gradatamente fanno accrescere la quantità della merce universale, questa sarà un nuovo
sprone all'industria, accrescerà il numero de' contratti, diventerà sempre più rapida la interna
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circolazione, farà conoscer nuovi comodi e nuovi agi, raffinerà le arti, e le manifatture, inventerà i
metodi per renderle più perfette, e fabbricarle con celerità maggiore, tutto spirerà coltura, vita, e
prosperità.
Perciò conviene distinguere due casi assai diversi. L'accrescimento della massa del denaro
farà questi benefici effetti, se una nazione lo acquisterà per il moto della industria; che se
l'acquisterà tranquillamente, o per miniere abbondanti, o per opinione che sforzi le altre nazioni a
tributarle la merce universale, questa, in vece di animare l'industria, addormenterà gli uomini in un
profondo letargo. La ricchezza entrando nello Stato per quella strada, caderà nelle mani di pochi, e
questi pochi, rigurgitanti di denaro si abbandoneranno a un eccessivo lusso, e disdegnando le
produzioni nazionali imperfette e grossolane, attesa l'universale povertà, si getteranno a consumare
e dissipare in manifatture e prodotti esteri la loro ricchezza. Questa fatale ricchezza sarà per quel
popolo un lampo che dall'alto balenerà sul capo della moltitudine, e la renderà sempre più
rannicchiata ed avvilita; la merce universale passerà alle nazioni estere attive, senza che le mani del
popolo la tocchino, e l'unica picciolissima parte che potrà averne la nazione sarà ne' salarj, che
riceveranno alcuni Cittadini inerti. La pompa d'alcuni pochi contrastando colla universale miseria
sarà lo spettacolo che offrirà dovunque il denaro accresciuto senza una nazionale industria.
Considerando le due quantità merce universale circolante, e merci particolari offerte è vero
che tutta l'una vale tutta l'altra; onde se una di queste due quantità s'accresca, e l'altra resti quale era
prima, la quantità accresciuta varrà meno. Se la merce universale circolante s'accresca, e le merci
particolari offerte non s'accrescano del pari, dovrà cedersi maggior quantità di merce universale per
ogni merce particolare. Pare adunque che il prezzo d'ogni cosa debba essere più alto a misura che
circola più denaro nello Stato, e taluno Scrittore, altronde pensatore esatto, asserì essere
indistintamente un male l'accrescimento del denaro circolante, ed essere questo un principio
distruttivo della esportazione. Ma in questo ragionamento si è omesso un dato, ed è questo, che
l'accrescimento del denaro circolante quando s'acquisti per industria e gradatamente e
universalmente si diradi sul popolo, produce un proporzionato accrescimento di consumazione, e
come si è già accennato ogni uomo più compra quanto più gli è dato di spendere, più acquista
bisogni quanto ha più mezzi per soddisfarli, e quanto più spaccio trova ogni merce tanto più se ne
accrescono i venditori, tanto più se ne anima la riproduzione. Se adunque in uno Stato si accrescerà
il denaro e le merci vendibili proporzionatamente non si moltiplicheranno, i prezzi cresceranno: se
si accresceranno del pari e il denaro e le merci vendibili, i prezzi resteranno come erano. Se
accrescendosi il denaro si moltiplicheranno in maggior proporzione le merci vendibili si vedrà che i
prezzi diminuiranno. Da ciò ne deriva adunque che il denaro stesso acquistato per l'industria
animata dall'annua riproduzione, se le cagioni politiche o fisiche non lo impediscano, di tanto
accrescerà e aggiungerà moto all'industria, che moltiplicando al di più le merci particolari ne
ribasserà il prezzo. Quanto più vendite fa il venditore tanto può accontentarsi di guadagnar meno
per ogni vendita. Regola generale: dovunque è in fiore il commercio, ivi son minimi i vantaggi del
commerciante, presa ogni merce separatamente; e dovunque torpisce l'industria grandiosi sono i
guadagni del commerciante.
La perfezione delle macchine e degli istrumenti è ridotta presso una nazione arricchita
coll'industria a un segno tale, che l'operajo travaglierà in un giorno quella manifattura, che in uno
Stato meno industrioso si farebbe, in più giorni; e queste sono le risorse che ha un paese arricchito
coll'industria; risorse delle quali manca uno Stato spontaneamente arricchito dalla terra, non
coll'accrescimento dell'annua riproduziane, frutto dell'industria, ma col fatal dono della merce
universale; perchè il primo avrà cresciuto il numero de' venditori col crescere la ricchezza: il,
secondo avrà cresciuto il numero de' compratori, i quali avranno avuto ricorso ai venditori esteri,
come si è detto, incautamente trascurando i nazionali le ricchezze fisiche a fronte di quelle che sono
ricchezze di convenzione.
Il conoscimento di queste verità ci porta a dedurne per conseguenza che il valore del denaro
non dipende dalla assoluta quantiche ne possede uno Stato, ma bensì dalla proporzione, che vi è
fra i venditori ai compratori interni nello Stato. Altra conseguenza sarà che quanto sarà maggior il
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moto della circolazione entro uno stato, ossia quanto sarà maggiore il numero e la quantità delle
merci vendibili, e maggiore il numero de' contratti, tanto, tutto il resto uguale, i prezzi si ridurranno
al minimo grado possibile. Finalmente sarà una conseguenza di ciò il dire che in questo Stato in cui
i prezzi sono minori, la proporzione fra i venditori e i compratori è maggiore di quello ch'ella sia,
tutto il resto uguale, nello Stato che abbia più cari i prezzi.
Si osservi che la ricchezza d'una nazione non si misura tanto per l'assoluta quantità de' beni
che possede, quanto per la proporzione che passa fra di essa e le nazioni che l'attorniano, e
commerciano con lei. La ricchezza acquistata adunque colle miniere farà la metà meno effetto nella
ricchezza nazionale di quello che sarebbe una egual somma venuta per il Commercio, essendo che
quest'ultima sarebbe una quantità accresciuta alla nazione, e diminuita ad un altro stato, lo che
importa doppia quantità nella proporzione fra li due stati.
§. XIV.
Degl'Interessi del Denaro
Il denaro dunque essendo abbondante e univerfalmente diffuso in uno Stato arricchito per il
fermento dell'industria, ne accaderà che molti cercheranno o di accomodarlo, ovvero di convertirlo
in un fondo stabilmente fruttifero; poichè la custodia del denaro è sempre un peso che pochissimi
soffrono tranquillamente per il timore di perderlo; e in un paese industrioso sentendosi tutto il
pregio del denaro, e tutta la utilità di renderlo fruttifero, non si soffrirà di lasciare per dappocaggine
ozioso quel fondo come si fa ne' paesi più torpidi e che hanno troppa sproporzione nella divisione
delle fortune. Si bonificherà adunque l'agricoltura, si accresceranno le manifatture, le offerte del
denaro si moltiplicheranno, e le ricerche diminuiranno a misura che un paese più ne avrà in
circolazione. L'interesse dunque del denaro ivi si ribasserà; poichè l'interesse è sempre in ragion
diretta delle ricerche, e inversa delle offerte, essendo le ricerche al denaro quello che i compratori
alle altre merci come le offerte quello che i venditori, e l'interesse essendo quello che nelle merci è
il prezzo. L'abbondanza adunque universale del denaro porta con se per necessaria conseguenza il
ribasso degl'interessi, e i molti possessori del denaro non trovando più la stessa rendita col darlo a
mutuo si rivolgeranno a fare acquisto di fondi stabili, ovvero lo impiegheranno nelle manifatture.
Prima conseguenza adunque che nasce dal ribassarsi gl'interessi del denaro si è di veder accresciuto
il prezzo de' fondi di terra, e di veder data una nuova spinta alle manifatture. Dico cresciuto il
prezzo dei fondi di terra, perchè saranno accresciuti i compratori, e non sarà accresciuto il numero
de' venditori. La spinta data alle manifatture tenderà ad accrescere il numero de' venditori, e a
favorire così l'abbondanza pubblica.
Sembra che il maggior prezzo a cui si comperano le terre dovrebbe far accrescere il prezzo
de' prodotti delle terre medesime, perchè il prodotto di esse è il frutto del capitale impiegato
nell'acquisto. Ma comunemente si vedrà accadere all'opposto, cioè che diminuendosi gl'interessi del
denaro s'accrescerà bensì il prezzo delle terre, ma non s'accrescerà il prezzo delle derrate, perchè il
prezzo delle terre accresciuto non fa diminuire i venditori, accrescere i compratori delle derrate
medesime, anzi accrescendosi il numero de' compratori delle terre, esse verranno divise sopra un
maggior numero di proprietarj, ed ecco accresciuto il numero de' venditori delle derrate. Il frutto del
denaro sono gl'interessi, il frutto delle terre sono le derrate, ribassandosi un frutto l'altro debbe
livellarvisi, poichè tanti concorreranno all'impiego dei due più utile, finchè sieno di utilità uguale.
Possono adunque valere di più le terre, e non accrescersi perciò il prezzo delle derrate.
Seconda conseguenza di aver abbassati gl'interessi del denaro si è la bonificazione che fassi
alle terre della nazione, stendendosi la coltura sopra delle pianure che prima erano trascurate,
accrescendosi le piantazioni utili, ricevendone nuova vita tutte le arti, colle quali s'ottiene dal suolo
la maggiore annua riproduzione, al che conduce il non trovare nei mutui l'interesse più alto; ed ecco
come l'abbondanza medesima della merce universale, posta che sia in circolazione, e scarsamente,
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ricompensata negli oziosi depositi dei banchi, produca un effetto opposto a quello che a primo
aspetto sembra dover produrre, cioè, in vece di alzare i prezzi delle cose, tende a ribassarli, e a
condurre all'abbondanza pubblica, e alla massima riproduzione annua. Tali sono gli effetti ch'ella
produce quando sia entrata in una nazione in conseguenza dell'industria universale.
La terza conseguenza che nasce dai piccoli interessi del denaro si è la facilità di fare delle
più grandi intraprese sia nel Commercio, sia nella agricoltura, essendo che con maggiore facili
ritroverassi o dal terriere, o dal manofattore il denaro ad imprestito per azioni più ardite, per modo
che dall'utile di esse comodamente potrà scontare l'annuo frutto corrispondente al debito, donde ne
deriva sempre maggiore aumento, e sfogo all'eccedente annua riproduzione. Paludi asciugate, e
ridotte ad essere campagne ridenti; fiumi contenuti negli alvei; torrenti inviati per mezzi innocui
all'agricoltura; canali navigabili scavati per accrescere la facilità de' trasporti; audaci navigazioni, e
tentativi d'ogni sorta si vedranno in quelle nazioni, fralle quali è abbondante il denaro circolante; e
ne sono piccoli gl'interessi. In questo Stato, in cui cresce la merce, universale per industria, e attività
generalmente sparsa, debbe proporzionatamente crescervi l'interna circolazione, ossia moltiplicarsi
il numero degl'interni contratti. Ivi crescono, come già dissi, bisogni; la sfera di essi
proporzionatamente si estende dal necessario fisico ai comodi, indi ai piaceri; il pregio della merce
universale ivi non si diminuisce quantunque ne sia accresciuta la quantità, poichè del pari son
cresciuti i bisogni ai quali debbe supplire. Giovi ripeterlo: il prezzo delle merci particolari cresce
quando i venditori ai compratori acquistino una maggior proporzione: il prezzo della merce
universale cresce per lo contrario quando i compratori acquistino una maggior proporzione ai
venditori.
Si è veduto disopra come per procurare l'abbondanza pubblica; e la maggiore annua
riproduzione conviene dei due partiti che vi sono accrescere i venditori e scemare i compratori,
scegliere il primo, e dimenticare il secondo; e tale esser la teoria per bene e costantemente dar
norma alle merci particolari. Ma nella merce universale bisogna fare precisamente il contrario, e le
leggi vi porteranno un ordine salutare, piombando su chi deve ricevere il denaro, piuttosto che su
chi deve darlo ad imprestito. Non pretendo io con ciò di dire che convenga giammai di fare alcuna
legge vincolante o tassativa, per cui l'interesse del denaro venga fissato ad un livello.
Quest'interesse, come si è detto, è in ragione diretta de' ricercanti, e inversa degli offerenti, siccome
il prezzo lo è del numero de' compratori diviso per questo de' venditori. Sì l'uno che l'altro sono un
effetto fisico, il quale non può mai esser discorde, sproporzionato alle cagioni che lo producono.
Per le ragioni adunque dette disopra, per le quali non possono innocuamente i magistrati comandare
il prezzo delle merci particolari, nemmeno potrebbero comandare il limite dell'interesse del denaro
senza esporre la legge ad essere delusa, come sempre lo sarà qualunque legge che abbia luttuanti
contro di se gl'nteressi di molta parte di Cittadini, l'azione de' quali benchè minima, presa ne' suoi
elementi, produce però sempre sicuramente l'effetto quando molti e molti piccoli elementi
conspirano a un dato fine. Essendo che, per poco che c'interniamo nell'esame, si scuopre questa
verità, che la costanza e solidità d'ogni civile instituto presso di ogni nazione sempre in fatti si
decide dalla pluralidei suffragj, qualunque sia la costituzione sotto di cui vive; con questa sola
diversità che nella Democrazia sono palesi, e negli altri governi sono più lenti, taciti, e occulti, ma
non perciò sono meno attivi in effetto per decidere di ogni stabile sistema.
§. XV.
Mezzi per fare che gl'Interessi del denaro si ribassino
Come adunque potrà un governo ribassare gl'interessi del denaro operando su chi deve
riceverlo? In ogni nazione vigono dei debiti pubblici, vi sono dei banchi, dai quali coloro che
presteranno il denaro allo Stato ricevono l'annuo frutto. L'esperienza ha fatto vedere quanto provida
sia l'operazione di ribassare gl'interessi di questi banchi, non solo per alleggerire i pesi del pubblico
erario, ma altresì per livellare a un più basso prezzo indirettamente tutti gl'imprestiti della nazione.
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È inutile ch'o qui soggiunga questo che la giustizia la più evidente suggerisce alla mente di
ciascuno, cioè, dovere lo Stato avere in pronto una somma per offerire contemporaneamente ai
creditori il rimborso del loro capitale, quando non si contentino del più basso interesse, il quale
giustamente devesi ottenere da una spontanea adesione del creditore. Guai se una momentanea
utilità prevalga sopra i veri interessi dello Stato! Guai se la fede pubblica s'oscuri! L'interesse dello
Stato diventerà divergente dall'interesse di ogni privato. La sola simulazione coprirà l'indifferenza
con cui ogni uomo rimirerà l'unione, di cui è parte; i principj morali si annienteranno, la nazione
cadrà nella corruzione, stato peggiore assai dell'originaria vita selvaggia, tutto andrà deperendo, e
alla prima urgenza, in cui la pubblica sicurezza esigerà il soccorso, si cercherà inutilmente. Ne'
secoli passati se ne videro gli esempj in molti luoghi d'Europa, ed alle miserie d'allora siam debitori
d'essersi illuminata generalmente la politica degli Stati, ed essersi universalmente riconosciuto che
la fiducia, e la sicurezza nel pubblico erario sono il Patrimonio più ricco ed inesausto di ogni
Sovrano.
Ridotto che siasi dai banchi pubblici l'interesse del denaro a un più basso livello, se i
creditori di questi banchi formano una parte sensibile degl'imprestanti che ritrovansi nella nazione,
ne accaderà che quei che ricercano a mutuo la merce universale, coll'esempio de' banchi pubblici
non offriranno più l'interesse di prima, e quei che cercano di accomodarla non avendo più da
sperare dai banchi il passato interesse, si contenteranno di ribassare. Se poi i creditori dei banchi
pubblici avranno ricevuto il lor capitale, piuttosto che assoggettarsi al ribasso degl'interessi sarà
cresciuto il numero degli offerenti, e in conseguenza tanto più ne sarà ribassato l'interesse.
Un altro mezzo hanno i governi per diminuire gl'interessi del denaro. Per conoscerlo basta il
riflettere che due sono i principj per i quali l'offerente esige l'interesse. Il primo è per essere risarcito
dell'utile, che ne ricaverebbe impiegandolo nell'agricoltura, o nel commercio; il secondo per
ricompensarsi di quel grado di rischio, che può correre di perdere il suo capitale. Si è già veduto al
paragrafo XIII. come i frutti del commercio e dell'agricoltura debbon esser ridotti a un basso livello
in una nazione ove l'industria liberamente si muova in ogni sua parte; conseguenza di ciò ne viene,
che quanto più si promoverà, e si lascerà agire nel cuore degli uomini la speranza di migliorare la
sorte; quanto più s'interporranno quei mezzi che scatenano il principio vitale e attivo dell'industria
ad accrescer l'annua riproduzione, tanto diverrà minore naturalmente quella porzione d'interesse che
viene dai trattatisti chiamata lucro cessante. Sta poi in mano del legislatore il diminuire il rischio
che i forensi chiamano danno emergente; s'otterrà questo fine con ottime leggi, con brevi e semplici
forme giudiciarie, colla giudiziosa scelta d'incorrotti magistrati, cosicchè ognun possa facilmente, e
sollecitamente far valere il proprio diritto; e la forza pubblica sempre pronta ad avventarsi contro
l'usurpatore e il mancator di fede, renda stabile e soda la sicurezza de' contratti.
Tanto è ciò vero che io ardisco dire che nessun paese, dove l'industria sia animata, e dove la
buona fede sia rispettata, avrà interessi alti del denaro; ed all'incontro dovunque sia alto interesse
del denaro sarà languida l'annua riproduzione, e assai dubbia la fede dei contratti. Dall'interesse del
denaro si può calcolare la reciproca felicità degli Stati.
Gl'interessi del denaro si possono paragonare fra nazione e nazione, e fra secolo e secolo,
per calcolare la felicità d'una società che pretenda allo stato di coltura; ma il valore di nessuna
merce universale particolare potrà mai paragonarsi fra nazione e nazione, se fra di esse non
abbiano una comunicazione immediata, ovvero con una terza nazione; essendo che il valore può
esser basso tanto per mancanza di compratori, quanto per abbondanza di venditori, tanto per
scarsezza del denaro, quanto per la rapidità colla quale i contratti si succedono, vi può essere
misura fra due quantità distanti, e isolate. Lo stesso dico di chi voglia paragonare i valori d'un
secolo all'altro: calcolo nel quale si potrà bensì rinvenire quante once di metallo si cedessero in
cambio d'una data merce, non mai il vero valore di essa, se per nome di valore s'intenda il grado di
stima ch'ella aveva nella comune opinione, essendosi variata coll'andar dei tempi la stima dei
metalli preziosi a misura che lo divennero meno colle inesauste miniere, che vanno moltiplicando in
Europa la merce universale. Per fare esattamente il calcolo del valore fra due società incomunicanti
per distanza di luogo, o di tempo, converrebbe avere una terza quantità inalterabile a cui paragonarli
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come la inalterabile estensione del braccio e la gravità costante dell'oncia trasportate e paragonate
daranno il mezzo per calcolare i veri rapporti fra due altezze o due pesi distanti; ma questa quantità
inalterabile per paragonare i valori non vi è, è possibile che vi sia; perchè il denaro istesso
sebbene sia merce universale è ora di maggiore ed ora di valor minore, e perciò è incapace di servir
di misura. I pramatici stabilirono il principio che il valore del denaro dipendesse dall'impronto
Sovrano ch'ei porta, e che il Principe fosse arbitro nell'assegnare il valore; e dato un tal principio chi
debba redimire un capitale ricevuto ne' secoli passati non è tenuto se non a sborsare un numero di
lire eguale a quello che fu allora pagato; la conseguenza è ben derivata, ma da un falso principio. Si
dimostrò che il valore del denaro dipende dal valore del metallo e che l'impronto è un semplice
attestato del peso e della purità di esso, e da questo principio vero se ne derivò la conseguenza che
per restituire un capitale ricevuto ne' secoli trasandati si debbano pagare tante once d'argento quante
ne furono allora consegnate; conseguenza che suppone una costanza nel valore del metallo che non
si trova realmente. Finalmente vi fu chi tentò d'accostarsi a un calcolo più esatto e ciò paragonando
il prezzo delle merci più comuni al vitto degli uomini ne' due tempi distanti, e fissando una somma
media in ciascuna epoca; indi calcolossi quante once d'argento debbansi oggi portare al mercato per
acquistare le derrate che nell'epoca dell'imprestito si compravano colla somma ricevuta; e questo è
il metodo che più s'approssima alla esattezza. Nelle restituzioni però i Tribunali si attengono al
primo metodo del numerario che ha per se la lunga pratica, la semplicità, e forse ha cessato d'essere
ingiusto dappoichè la costumanza essendo generalmente stabilita da' secoli, quando si fece il
prestito si assoggettò il capitalista alla eventuale diminuzione compensandosi sugl'interessi che
correvano in que' tempi e in meno di dieci anni facevano rimborsare il capitale.
§. XVI.
Dei Banchi pubblici
Si è veduto quai buoni effetti possono produrre i Banchi pubblici per abbassare gl'interessi
del denaro. L'invenzione dei banchi come quella delle lettere di cambio appartengono a questi
ultimi secoli. Colle cedole si è introdotta una rappresentazione della merce universale sommamente
comoda al trasporto, la quale per tutta la sfera, a cui si estende il credito deve accrescere
sommamente la circolazione, e il rapido giro dei contratti. Sintanto che gli uomini si credono
egualmente ricchi con una cedola di banco, o con una lettera di cambio di quel che si credono ricchi
possedendo la merce universale, nella contrattazione si riceveranno più volentieri questi pezzi di
carta, e queste promesse del denaro, che il denaro medesimo; perchè sommamente ne sono facili la
custodia, e il trasporto. Simili invenzioni saranno di utilità a quegli Stati, ne' quali la custodia della
fede pubblica è confidata a un gran numero di uomini che hanno interesse a sostenerla, e che muniti
della opinione pubblica si trovano talmente forti da non aver mai di che temere: poichè quanto più
sono gli uomini che hanno interesse a sostenere la fede, e quanto più interesse vi hanno, e quanto
più è sicura l'azione di essi, tanto è minore, come ognun vede, la probabilità che la fede pubblica sia
tradita. Ma dovunque si possa col mutare di qualche circostanza cambiare il grado della fiducia
pubblica verso di quelle rappresentazioni della merce universale, ivi saranno in pericolo di
rivoluzione le opinioni, e le fortune private, nè mai queste instituzioni potranno ampliarsi al di di
un certo limite senza pericolo.
I Banchi fanno l'effetto di raddoppiare quella massa di merce universale che ricevono,
poichè resta nello Stato e la merce universale e la di lei rappresentazione. Pare adunque che
dovrebbero far accrescere i prezzi delle merci particolari; ma la rapida circolazione che introducono
distribuendo il guadagno sopra un maggior numero di contratti può non solamente impedire
l'innalzamento del prezzo, ma anche ribassarlo colla moltiplicazione sempre maggiore de' venditori,
e così accrescendosi le compre, e le vendite, e le consumazioni interne, si può accrescere in maggior
proporzione l'annua riproduzione.
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Se gl'interessi de' Banchi pubblici fossero alti, questi farebbero il sommo male d'invitare i
Cittadini a depositare su i banchi il loro capitale, e abbandonare ogni industria. Il pericolo della
mala fede produrrebbe un buon effetto in quel caso, e a questo timor solo sarebbero debitrici
l'agricoltura e le arti di non essere affatto derelitte. Gli Stati talvolta, allorchè sono giunti alla
corruzione, ricevono un bene da quei principj medesimi che gli hanno corrotti, e la moltiplicità dei
cattivi principj produce per avventura l'effetto che due principj distruttori e opposti si elidono
scambievolmente. Tale sarebbe appunto questo, quando la dilapidazione usatasi del pubblico Erario
avesse alienata la fiducia del popolo; si dovrebbero offrire interessi altissimi per avere gl'imprestiti,
il che rovinerebbe l'industria se avesse effetto; ma la mala fede medesima dell'amministrazione,
altro vizio pubblico, vi si opporrebbe, e l'effetto sarebbe o nullo o debolissimo.
Gli Stati più vasti, che hanno un esteso commercio colle più rimote nazioni ricevono più
bene che male dai debiti pubblici fintanto che l'opinione del popolo non giunga a diffidare; ma gli
stati più ristretti e subalterni poco bene risentono dai Banchi pubblici, e quel poco comodo viene
largamente contrappesato dall'annua perdita che fa l'erario per il peso degl'interessi; laonde nel
primo caso conviene rivolger le mire a perpetuare il debito nazionale, e nel secondo a saldarlo con
mezzi più innocui che si può.
§. XVII.
Della Circolazione
Le riflessioni che abbiamo fatto finora c'inducono a questa conseguenza, che l'accrescimento
della merce universale, e della rappresentazione di lei è sempre un bene per lo Stato, quando
proporzionatamente s'accresca la circolazione; poichè s'accrescono i venditori a misura che si
accrescono i compratori, il che ricade a moltiplicare l'annua riproduzione. Per avere un'idea ancora
più precisa di questa vericonvien riflettere che ogni venditore dovendo ritrarre una determinata
somma dalle sue vendite giornaliere, quanto maggior numero di vendite farà, tanto sopra ciascuna
vendita particolare pot limitarsi a una minor porzione di guadagno, perlochè accrescendosi
generalmente la circolazione anche sulle merci che ogni venditore deve consumare, si pot
compensare minor utile a chi le vende, e così di mano in mano i salarj degli artigiani, il prezzo delle
manifatture, gli utili del Commercio anderanno sempre abbassandosi, si moltiplicheranno sempre i
venditori, quanto più la circolazione crescerà, ed ecco come l'accrescimento del denaro che per se
medesimo dovrebbe far incarire tutte le merci, quando entri in una nazione in conseguenza della
universale attività, produca un effetto contrario, cioè di ribassare i prezzi, e la rappresentazione del
denaro istessamente; e ciò per le già dette ragioni, perchè tanto si moltiplicano le voglie quanto più
vanno crescendo i mezzi per soddisfarle, e di tanto cresce il moto interno, e il numero de' contratti
incessanti, che si dirada e scorre la merce universale, senza che il livello si rialzi; in quella guisa che
un fiume incidendo in un altro fiume, di tanto accelera il moto delle acque inferiori col premere, e
coll'impeto concepito, che si vede ribassarsi il livello delle acque in quel momento appunto, in cui
sembrava più dovessero rigurgitare.
Quando il contratto si fa da un nazionale, a un estero, si chiama commercio esterno, se il
nazionale è venditore è commercio utile, se è compratore è commercio dannoso. Quando il
contratto si fa da due nazionali questo chiamasi commercio interno ossia circolazione. La
circolazione è la somma totale de' contratti interni. Conosciuta che siasi chiaramente l'indole della
circolazione, come ella s'accresca per l'accresciuta massa del denaro acquistato per industria, come
ella tenda a ribassare i prezzi delle cose: conosciuta che sia intimamente la natura della circolazione,
effetto dell'accresciuta massa del denaro acquistato per l'industria, si conoscerà che il vedersi
accresciuti i prezzi de' viveri in una nazione, non è prova che ivi s'aumenti la ricchezza; anzi può
questo accadere, o perchè scemandosi il denaro, in maggior proporzione siasi rallentata la
circolazione, e dividendosi l'utile del venditore sopra un minor numero di contratti ciascuno di essi
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debba aver prezzo maggiore, ovvero perchè diminuiscasi il numero de' venditori, o perchè si vada
scemando l'industria, e l'annua riproduzione si restringa. In fatti noi vediamo ai nostri tempi che non
solamente per tutta l'Italia si ascoltano le querele sul prezzo eccessivo del vitto, ma per la Francia,
per l'Inghilterra, e generalmente per tutta l'Europa; dal che si vede, che se una provincia d'Europa
prova questo eccessivo prezzo non può da ciò desumersi, ch'ella vinca sulle altre, nel che consiste la
ricchezza considerata come un elemento della prosperità e forza dello Stato. Può adunque crescere
il prezzo per una abbondanza universale del denaro accresciuto in Europa, senza che in pari
proporzione siasi accresciuta la abbondanza delle merci particolari, e questo accrescimento di
prezzo non proverà che alcuna parte d'Europa siasi effettivamente arricchita, poichè la ricchezza
dipende dal paragone cogli altri Stati.
Tutte le merci che si vendono in un giorno vagliono tutto il denaro che s'è speso in quel
giorno per acquistarle; ma il denaro non si consuma, e le merci si comprano per consumarle. Questa
sola riflessione basta a far conoscere due verità; una che il denaro non finisce mai a rappresentare
una consumazione se non quando sia fuso per farne manifattura, ma anzi fin che è denaro
giornalmente rappresenta nuove consumazioni senza soffrire alcun cambiamento; l'altra che tutto il
denaro circolante in uno stato è eguale bensì alla giornaliera consumazione, ma non è eguale
all'annua consumazione, all'annua riproduzione: poichè la stessa moneta passando
successivamente per le mani di molti Cittadini in un anno, tante volte rappresenta il proprio valore
quanti sono i contratti e i passaggi che fece da una mano all'altra. Quanto dunque più rapidi, e
frequenti sono i passaggi della moneta in più mani, di tanto deve dirsi, che le merci contrattabili
eccedono la merce universale circolante; e siccome dove scarseggia la merce universale, ivi gli
uomini sono necessariamente più parchi, prudenti, e cauti generalmente per non privarsene,
rinunziando a molti comodi, e piaceri, così per avere una rapida circolazione è necessario che vi sia
abbondanza del denaro, il che, torno a ripeterlo, dimostra che crescendo la quantità del denaro
quando essa venga in una nazione per industria, l'annua riproduzione delle merci particolari dovrà
crescere sempre in maggior ragione, ammeno che una forza estrinseca, o fisica, o morale non vi
s'opponga.
Per convincersi di questa verità, cioè che la quantità del denaro circolante nello Stato è di
gran lunga minore del prezzo totale, a cui si vendono le consumazioni annue; basta riflettere quanti
saranno gli uomini che al primo giorno dell'anno possedano il denaro effettivo bastante alle spese
che dovranno fare nel corso di 12. mesi. Pochissimi certamente; forse uno appena ogni mille
abitanti, e quest'uno sarebbe un cattivo economo. Quanti nella nazione al primo dell'anno
possederanno il denaro appena bastante per il lor vitto d'una settimana? Tutti i coltivatori della
Terra, tutt'i salariati, tutt'i piccoli artigiani, quasi tutto il popolo minuto e della città, e della
campagna. Non vi è adunque che il moto e il giro che fa il denaro per cui possa supplire alla
contrattazione annua. Accrescendosi la massa del denaro distribuita su molti, cresceranno, come si è
detto le voglie, i bisogni, i contratti, e sempre più s'andrà moltiplicando l'annua riproduzione, e la
quantità delle merci particolari, quanto maggiore moto prenderà la circolazione della merce
universale. Se si potrà conoscere la quantità della riproduzione annua, e la quantità della merce
universale in circolo, si saprà la quantità del moto della circolazione, e a vicenda se due di questi
elementi saranno conosciuti, se ne conoscerà ii terzo.
L'uso delle manifatture d'argento, e d'oro; il denaro ammassato ne' scrigni, e sottratto alla
circolazione son dunque un bene, o un male per lo Stato? Rispondo che sotto a un provido governo
questo debb'esser sempre un male, essendo che nelle urgenze pressanti dello Stato non è permesso
costringere un Cittadino più che l'altro a concorrervi se non sull'estimo censibile apparente di
ciascuno generalmente, e così svanisce tutta l'utilità che potea sperarsi da questi tesori, i quali se in
vece circolassero nella nazione, spingerebbero la riproduzione annua a maggiore ampiezza e
dilaterebbero il vero e real fondo della ricchezza e della forza nazionale. Quanto poi alle manifatture
d'oro e d'argento, si provvederà, anzi che con pericolose leggi sontuarie e vincolanti, meglio
coll'esempio, e l'effetto sarà indubitato, che nessun nobile spenderà in questo lusso quando saranno
più semplici i magnati, e questi lo saranno sicuramente quanto più il legislatore preferi
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praticamente il lusso di comodo a quello di ostentazione.
Mi si perdoni se troppo spesso ritorno ai principi. Quanto più denaro è sparso generalmente
per le mani del popolo tanto più crescono le voglie e i bisogni del popolo, perchè si desidera il
comodo a misura che v'è probabilità di procurarselo; quanto più crescono i bisogni nel popolo, tanto
più compre, e consumazioni egli fa; quanto più crescono le compre, e le consumazioni, tanto più
s'accresce l'utile d'essere venditore, e tanto più i venditori s'accrescono, e quanto più si accrescono i
venditori sempre del pari tende ad accrescersi la riproduzione annua. L'accrescimento del denaro
solo e isolato tende a rendere i prezzi più cari. La circolazione quanto è più rapida tende a diminuire
i prezzi. Queste due quantità possono secondo che si combinano o accrescere o diminuire o lasciare
immobili i prezzi delle cose.
§. XVIII.
Dei Metalli monetati
Conviene adunque procurare, non mai però con leggi dirette, ma di riverbero, di fare in
modo che il denaro vi stagni meno che si può, e sia nel più rapido moto per accrescere il numero de'
contratti; ma per nome di denaro, ossia di merce universale, ognuno intenderà ch'io parlo dei soli
metalli nobili, oro e argento, essendo che la moneta di rame, o l'argento reso voluminoso con molta
lega non possono meritar il nome di merce universale. Sarà questa una merce indigena e particolare
di uno Stato, la quale non si trasmetterà mai al di fuori, per le spese del trasporto che porterebbe.
Perciò se un paese facesse le sue contrattazioni a moneta di rame si accosterebbe allo stato anteriore
all'invenzione della merce universale; pochissimi sarebbero i contratti, limitati quasi al puro
necessario, e sarebbero più cambi di cosa con cosa, che di cosa con denaro per l'incomodo della
custodia, e del voluminoso e pedante trasporto. La riproduzione annua sarebbe limitatissima,
languidissima la circolazione, la popolazione sarebbe poca, e l'industria sconosciuta. Potrebbero
uscire delle armate conquistatrici da quegli uomini disprezzatori della vita, perchè poco ne
conoscono i piaceri, ma non potrebbe esser una nazione florida finchè durasse in quello stato, e le
converrebbe, o ritornare alla vita selvaggia, isolandosi, e perdendo l'idea dei bisogni delle nazioni
colte, ovvero converrebbe togliere industriosamente gl'inciampi, e lasciare schiudere negli uomini
quel fermento di speranza, e di bisogno, da cui nasce l'industria animatrice della società.
Per questo principio appunto l'oro sarà una moneta che accrescerà la circolazione più che
l'argento, e le cedole di banco accompagnate dalla opinione l'accresceranno ancora più che l'oro. Fra
i metalli adunque è da desiderarsi per uno Stato più la moneta d'oro che quella d'argento, e quella
d'argento più che quella di rame, preferendo sempre il minor volume, e il valor maggiore.
Non credo che dal principio dell'Era volgare fino al secolo XVI. siasi mai considerato
l'argento come moneta destinata ai grandi pagamenti, almeno i Musei non ci mostrano se non se
piccole monete d'argento che rare volte eccedono il peso di due Paoli le quali sembrano destinate a
supplire ai rotti dell'oro e a fare i pagamenti minori della moneta d'oro. Non si vedono talvolta se
non delle medaglie grandi d'argento e per lo più posteriori alla scoperta d'America. Al tempo
dell'Imperatore Carlo V. e più ancora dopo di lui si introdusse l'uso delle grandi monete d'argento.
Molte nazioni europee usano di avere qualche parte di moneta in rame, la quale serve per il
più minuto Commercio de' Cittadini. Se la legge monetaria dichiarerà il valor delle monete con
giusto calcolo in quella proporzione medesima con cui ogni pezzo independentemente dall'impronto
verrebbe stimato nella pubblica contrattazione, non avrà da temere il trasporto del denaro fuori
dello Stato, l'introduzione del denaro estero, perchè nessun negoziante si addosserà mai le spese
del trasporto senza necessità, e senza utile. Se per necessità di saldo di un debito; la legge che lo
proibisce comanderebbe una mancanza di fede in discredito della nazione: se per utilità; ciò non
potrebbe essere che un accrescimento di denaro nello Stato a spese d'una nazione meno accorta che
avesse arbitrariamente voluto tassare i metalli.
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Per ischiarire sempre più questi principj bisogna riflettere che, siccome più volte si è detto,
in ogni Stato si deve considerare l'annua consumazione, e la riproduzione annua. Se l'eccedente
delle annue nostre produzioni non sia eguale al valore delle merci, e generi che riceviamo dal di
fuori, converrà necessariamente che esca della merce universale per saldar le partite colle altre
nazioni, e la proibizione all'uscita del denaro sarebbe un voler togliere l'effetto lasciando sussistere
la cagione.
In uno Stato poi dove un'oncia d'argento puro abbia sempre il medesimo valore che
un'altr'oncia d'argento puro qualunque sia l'impronto, e la denominazione dei pezzi che la
compongono, e qualunque sia il volume di essi cagionato dalla vile materia a cui sta frammischiata;
dove lo stesso possa dirsi e nell'argento, e nell'oro, e nel rame monetati; dove la proporzione fra un
metallo e l'altro sia la medesima dei prezzi comuni de' metalli; dove indirettamente in somma il
legislatore siasi limitato a dichiarare il prezzo pubblico de' metalli non mai direttamente a regolarli,
in quella nazione dico, non uscirà mai un'oncia d'oro, o d'argento se non per rientrarvi un valore
eguale o in merce universale, o in particolare; e potrà entrarvi anche valor maggiore trasmettendo
agli esteri quella moneta ch'essi han voluto arbitrariamente valutare più del giusto, e ritraendone
altre monete, che gli esteri arbitrariamente pure abbiano valutato meno del giusto; essendo che non
è più fattibile che il legislatore fissi a suo arbitrio il prezzo della merce universale di quel che sia il
prezzo di qualunque altra merce particolare, dipendendo, come si è di già veduto, questa quantità
dal numero de' compratori paragonato a quello de' venditori. Dovunque gli editti di monete
diventino una mera dichiarazione del prezzo comune de' metalli, ivi non sarà possibile che siavi
disordine di monete, che il Commercio della moneta sia mai di danno. Conviene però ricordarsi
della definizione data al prezzo comune. La variabilidel prezzo della merce universale porta di
sua natura che una tariffa di monete non possa mai esser buona legge per lungo tempo, perch'essa
diventa col variare delle circostanze una falsa dichiarazione, sebbene la origine sia stata vera.
È molto indifferente per il comodo e ricchezza di uno Stato che la moneta porti un impronto,
più che un altro; anzi gli Stati piccoli pagano la vanità di aver le loro armi su i metalli monetati a
troppo caro prezzo, essendo che le spese, e il calo della monetazione o cadono sul pubblico erario,
ovvero cadono in altrettanta diminuzione dell'intrinseco, la qual diminuzione non sarà mai valutata
dai forastieri, e in conseguenza vedranno la lor moneta rifiutata dagli esteri nella contrattazione,
ammeno che non la cedano a un minor prezzo. Quindi io credo che negli Stati minori altra
operazione da farsi non sia nelle monete, fuori che un esatto calcolo di tariffa, ammettendo nella
contrattazione qualunque moneta, purchè sia valutata come un mero metallo. Ma ne' vasti regni è
indispensabile l'avere una zecca in attività e soccombere al peso di essa per mantenere in
circolazione la maggior quantità possibile di metallo, e così moltiplicare al possibile i contratti, dal
che ne nasce, come giova ripetere, la moltiplicazione del numero de' venditori, e da quella
l'abbondanza interna, da cui la facile esportazione che sola può spingere al massimo confine la
riproduzione annua: base ch'è unica, vera, e stabile della forza, e ricchezza d'uno Stato.
In fatti un vasto regno o avrà miniere, ovvero avrà un vasto commercio il quale porterà
l'introduzione de' metali nobili non monetati; così ha la materia prima della Zecca; e la necessità di
risarcire la diminuzione che fassi coll'uso, logorandosi la moneta, non potrà lasciare oziosa
quell'officina la quale, come dissi, accrescerà la somma del denaro circolante; ma uno Stato minore
che non abbia miniere dovrà per battere moneta o fondere i metalli comprati, o fondere l'estera
moneta; se compra, altrettanta moneta esce; se fonde, altrettanta moneta scompare; se il conio e la
spesa della monetazione si risarciscono sulla stessa moneta, tanto ella avrà d'immaginario che gli
esteri non valuteranno; se vorrassene risarcire con altrettanta diminuzione sulla moneta erosa
destinata ai rotti ed ai piccoli contratti, questa rifiutata dagli esteri in uno Stato piccolo porterà un
accrescimento del numerario nella moneta nobile. Dico perciò che i piccoli Stati poichè abbiano
valutato nella tariffa ogni moneta circolante al prezzo comune del metallo avranno l'ottimo sistema.
Se il Gigliato sarà dieci lire, la lira sarà la decima parte del Gigliato. Il Gigliato sia 70. grani d'oro
puro, la lira farà sette grani d'oro puro, ovvero cento cinque grani d'argento puro posta la
proporzione di 1. a 15. e ognuno intenderà cosa sia lira senza bisogno d'una moneta che abbia
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questo nome.
La officina di una Zecca è la sola di cui non si vuol pagare la manofattura, eppure questa
manofattura è di somma necessità, poichè senza di essa converrebbe pesare non solo, ma saggiare i
pezzi di metallo che si volessero dare in pagamento e non vi sarebbe la merce universale. Se gli
Stati d'Europa si accordassero a valutare reciprocamente un tanto per cento di manofattura nelle
monete, allora le nazioni ricche di miniere vendendo l'oro e l'argento non monetato come merce
particolare potrebbero somministrare la materia prima a queste officine; ma fintanto che questo non
si faccia non potranno le Zecche risarcirsi delle spese de' loro lavori, se non quando da altre nazioni
venga pregiata qualche loro moneta oltre l'intrinseco.
§. XIX.
Del Bilancio del Commercio
Varj sono gii autori che hanno scritto sul bilancio del Commercio e sul modo di calcolare se
la ricchezza nazionale s'accresca ovvero diminuisca. Comunemente chiamasi Bilancio del
Commercio, l'eccesso della esportazione paragonato colla importazione, e viceversa; modo
d'esprimersi, il quale siccome alcuno ha giudiziosamente osservato, realmente non è ne preciso
esatto. Le importazioni e le esportazioni debbono sempre pareggiarsi presso di ogni nazione, e il
valore di tutte le merci entrate necessariamente debbe uguagliare il valore di tutte le merci uscite
dopo un certo periodo. L'intelligenza di questa verità sarà facile ricordandosi che il denaro è una
merce e che i debiti si pagano. Adunque fra queste merci importate, o estratte si annovera anche la
merce universale; e siccome abbiam veduto che l'accrescimento della massa circolante del denaro
moltiplica i contratti, ed in conseguenza l'annua riproduzione, così la diminuzione del denaro
medesimo debbe portare un deperimento alla riproduzione annua. In seguito a ciò ne viene che
quella nazione, la quale pareggia le importazioni delle merci particolari colla merce universale
anderà scapitando, ed in vece se pareggerà l'esportazione delle merci particolari coll'importazione
della merce universale anderà acquistando. Col nome di Bilancio s'intende il paragone fra due
quantità, cioè fra il total valore delle importazioni, e il total valore delle esportazioni, operazione
che sarebbe sempre incerta e arbitraria qualora si scostasse dai semplici principj aritmetici. può
sperarsi giammai di bilanciare uno Stato colla esattezza medesima e col metodo che convengono ad
una privata famiglia. Il bilancio d'una famiglia si fa paragonando quello ch'ella possedeva,
scomputati i debiti, con quello che possede, scomputati pure i debiti; ma in uno Stato tutte le merci
universali e particolari esistenti, e i debiti da pagarsi agli esteri ognun vede che non sono una
quantità che l'arte umana possa calcolare. Precisamente parlando il bilancio del Commercio in
questo senso non può farsi; ma col nome improprio di Bilancio del Commercio si cerca di scoprire
questo fatto: se la nazione s'incammini al bene, ovvero al male; e si è creduto industriosamente di
ritrovare la risposta a un tal quesito, confrontando le merci particolari introdotte colle merci
particolari trasmesse, sicchè ridotta, una partita che l'altra al suo verisimile valore, la differenza
che in fine risulta fra quelle due quantità si considera come la quantità del denaro che debbe essersi
accresciuto, e diminuito nello Stato.
Dal paragone fralle merci particolari uscite in confronto delle merci particolari entrate può
uno Stato sapere se il valore delle merci che ha vendute agli esteri sia maggiore, minore, o eguale al
valore delle merci che da essi ha comprate. Questa notizia palesa se uno Stato cammini alla
prosperità, ovvero alla decadenza. Quello Stato in cui l'annua consumazione è stata maggiore della
riproduzione annua è nel caso d'aver diminuito realmente la propria ricchezza, e può dirsi di lui
quello che dicesi di una famiglia quando oltre l'annua rendita spende parte del capitale.
Se ai registri delle dogane si scrivessero esattamente tutte le merci d'importazione, ed
esportazione, dallo spoglio di questi si potrebbe conoscere qual relazione abbia il valore dell'annua
importazione in confronto dell'annua esportazione: ma in molti Stati ciò non accade, e varj capi di
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commercio, o di frutti immediati delle terre, o di manifatture non si scrivono in questi registri,
perchè esenti dal tributo. Quantunque poi tutte le merci particolari venissero descritte, la merce
universale non può esservi registrata, ed essa può uscire o entrare in uno Stato, o per impiegarsi
dalla nazione su i banchi esteri, o dagli esteri su i banchi nazionali, e covicendevolmente per
comprare fondi, il che quantunque non sia una porzione dell'annua riproduzione, dell'annuo
consumo, può influire ad accelerare, o render più lenta la interna circolazione per i principj che si
sono veduti; conseguentemente sarebbe una nozione necessaria ad aversi per calcolare con
giustezza l'incremento o la diminuzione della riproduzione annua nazionale. Lo spoglio dei libri
delle dogane adunque non basta per certificare questa importante cognizione.
Se però questo spoglio non ci somministra tanto, è non ostante sempre utilissimo il farlo. Vi
vuole della chiarezza d'idee per immaginare un metodo per cui procedere giustificatamente in un
conteggio formato da sì gran numero di elementi, e dividere ogni merce in classi, e tassarne
ciascuna al suo verisimile prezzo. Ho detto che vi vuole chiarezza d'idee per immaginare un metodo
giustificato con cui procedere, e abbracciare coll'aritmetica tanti oggetti; poichè ogni conteggio che
mancasse di giustificazione, ed in cui le somme asserite non fossero l'apice emanato per anelli
collegati che partono dai primi elementi; un conteggio che esiga credenza sulla mera asserzione, e
mancante di prove, sarebbe una operazione sulla quale non vi sarebbe da appoggiare verun
ragionamento, come ognun vede. Sarebbe questo spoglio certamente più interessante, se potesse da
ciò conoscersi non solo le somme delle merci particolari trasmesse e ricevute, ma altresì gli Stati ai
quali, e dai quali si sono inviate e introdotte; ma per fare questa operazione aritmetica in modo
provante, vi vuole troppo tempo e dispendio, e il fine e l'utile che se ne può ottenere da questa
divisione, è assai minore, e più incerto di questo che appare. Tutte le merci non si ricevono
immediatamente dalla loro originaria patria, e si annunziano ai libri delle dogane come provenienti
dalla città donde si sono staccate, dal che ne viene un infallibile errore nel registro. Tutte le merci
che si trasportano nate e cresciute entro dello Stato non s'indrizzano sempre immediatamente al
termine a cui debbon giungere, e dove si consumeranno; altra sorgente d'errore, perchè dai registri
delle dogane si troveranno poste a debito d'un paese per dove non fanno che transitare. La terza
sorgente d'errori nasce dalla imperizia de' vetturali, e condottieri, dai quali poca esattezza si può
sperare, e la loro sola notificazione è quella che si scrive ai libri delle dogane. Queste tre inevitabili
e vaste sorgenti d'errori debbono scorrere sopra una simile operazione; e poichè si avrà il prospetto
imperfettissimo dei rapporti che una nazione ha con ciascuna delle nazioni comunicanti con lei, di
quale utilità sarà una simile divisione? Di nessuna precisamente; perchè laddove ci crediamo
d'essere creditori, una tratta d'un banchiere ci può aver fatti debitori, e viceversa. Che se per ottenere
una apparente organica distinzione si sia ommesso l'essenziale, cioè la vera organizzazione
aritmetica che assicuri la verità delle somme col richiamare agli elementi si farà fatto un cattivo
cambio, perchè si sarà abbondonata la realità per l'apparenza. Uno Stato è una vasta famiglia;
preme il sapere esattamente in fin d'anno s'ella migliori o scapiti; quai sieno gli articoli su i quali
s'impoverisce; quali sieno quelli su i quali si rinforza; il nome de' creditori, e de' debitori suoi è assai
indifferente, e la patria originaria delle merci presso a poco si sa. Io credo adunque che lo spoglio
de' libri delle dogane debba farsi colla distinzione di ogni merce, col prezzo di ciascuna, e coll'unica
divisione mercantile dare ed avere, ma che si faccia, lo ripeto, con un conteggio non arbitrario, ma
giustificabile in ogni asserzione. Una carta fatta fu questi principj, rende avvertito un abile politico
dello stato verisimile in cui trovasi l'industria della nazione, e questo solo prospetto può indicargli
qual sia il ramo che meriti più pronto soccorso, quale prenda incremento e vigore, a qual classe di
uomini debba preferibilmente portare ajuto o nella agricoltura, o nella man d'opera, acciocchè si
mantengano nella nazione vigorosi più che si può tutt'i rami dell'annua riproduzione. Mancando di
un simile prospetto non si saprebbe dove più rivolgersi se a una o all'altra classe del popolo, e
potrebbe essere diminuita sensibilmente una parte d'industria nazionale prima che se ne avvedessero
i magistrati.
Senza di questo annuo prospetto non si potrebbe nemmeno prevedere con qualche
fondamento di quanta importanza sia per l'erario pubblico la diminuzione del tributo su qualche
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merce particolare, e in conseguenza o si dovrebbe azzardar sempre, tutte le volte che si ponesse
mano a questo tributo, o non si dovrebbero mai secondare gl'interessi dell'annua riproduzione, i
quali col mutarsi delle circostanze possono esigere delle parziali variazioni nel tributo sulle merci.
Sebben dunque lo spoglio de' libri delle dogane sia un'operazione che convien fare, da questa
operazione però non si può esattamente dedurre se aumenti, o scemi l'annua riproduzione in
quell'anno; poichè quand'anche le merci particolari trasmesse sieno d'un valor minore delle merci
particolari ricevute, potrebbe essersi introdotta nella nazione maggior merce universale di quella
che uscì, e così riceverebbe un nuovo stimolo ad accrescere la circolazione e la riproduzione annua
l'industria nazionale.
§. XX.
Del Cambio
Il corso de' Cambi è un altro mezzo a cui da taluni si ricorre per conoscere lo Stato
dell'annua riproduzione. A formare una idea in una materia resa oscura e dal linguaggio particolare
dell'arte, e dal minuto dettaglio col quale taluni ne han trattato, basti riflettere che i debiti che i
negozianti nazionali hanno co' negozianti esteri, facilmente si bilanciano fino a tanto che il debito di
altrettanti negozianti esteri verso dei nazionali giunga a pareggiarne il valore; poichè il negoziante
nazionale cede il suo debitore al suo creditore senz'alcun trasporto di denaro fra la nazione, e gli
esteri. Ma se computati i crediti e debiti verso i forastieri la nazione resterà tuttora debitrice, sarà
pur forza che si pareggino le due partite d'importazione, ed esportazione, e la nazione dovrà
trasmettere il denaro al di fuori, e questo trasporto porta pericolo e spesa. In questo caso adunque un
nazionale che voglia far pagare una somma agli esteri dovrà portare il peso della spesa del trasporto;
e se vordarsi commissione ad un negoziante perchè faccia questo pagamento converrà pagare al
negoziante medesimo la spesa del trasporto, che dovrà successivamente fare; così chi vorrà una
lettera di Cambio per un paese estero, allora dovrà pagare più della somma che sarà sborsata nel
paese estero. In questo caso il Cambio perde.
Facciasi una supposizione, all'opposto che scontati tutt'i debiti resti tuttavia creditrice la
nazione cogli esteri: allora essendo a carico degli esteri le spese per il trasporto del denaro, ne
avverrà che per risparmiare questa spesa e pericolo, che sono sempre a peso del debitore, l'estero si
contenterà di pagare sul luogo qualche cosa al più di quello che deve; e così per avere una lettera di
cambio da pagarsi dagli esteri si spenderà qualche cosa meno di quello che dagli esteri sarà
effettivamente pagato, e allora si dice che il cambio guadagna.
Se in una nazione potesse uniformemente trovarsi il cambio o in guadagno o in perdita, cioè,
per servirmi del linguaggio dell'arte, se il cambio fosse costantemente e universalmente in un anno
sotto della pari, ovvero sopra la pari, allora se ne potrebbe cavare argomento fondato sull'annua
riproduzione. Ma questo è un caso immaginario, e in realtà i cambj con una nazione guadagnano, e
perdono coll'altra, ed ogni giorno sono mutabili; dal che ne siegue che incertissimo sia l'argomento
che si potrebbe cavare da esso. Si rifletta che qualora i negozianti cercano di trasmettere in un paese
estero de' capitali, o per fare a tempo le provvisioni, o per altre loro speculazioni, il cambio della
nazione con quella piazza guadagnerà, e l'annua riproduzione perciò non sarà accresciuta, anzi
potrebbe essere diminuita. Sempre dunque è equivoco l'argomento tratto dal corso dei Cambj.
§. XXI.
Della Popolazione
Il mezzo più sicuro per conoscere l'aumento dell'annua riproduzione in uno Stato si è
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l'accrescimento della popolazione. La specie umana come tutte le altre per organizzazione
medesima tende a perpetuarsi, ed a moltiplicare. Talvolta i distruttori fenomeni della fisica, le
inondazioni, i terremoti, i vulcani annientano le popolazioni. La corrispondenza dello stato sociale
tra nazione e nazione comunica le malattie contagiose, e le guerre; l'attività medesima dell'industria
cagiona la perdita dei naufragati, o periti per malattie, nelle lunghe navigazioni, e nelle viscere della
terra, respirando l'aria nociva delle miniere. Ma nel corso ordinario delle cose, la natura umana
tende a moltiplicare prodigiosamente; il che è stato posto in chiara luce da chi ha trattata
profondamente questa materia. In ogni Stato adunque dove la popolazione o non s'aumenti, o
lentamente s'aumenti, e non colla proporzione della naturale fecondità, convien dire che siavi tanto
difetto di politica, quanta è la distanza da quello che è, a quello che dovrebb'essere: ammeno che,
come dissi, non siavi qualche manifesta cagione straordinaria a cui attribuire quella porzione di
sterilità. L'abitudine tiene talmente attaccato l'uomo e affezionato al suolo su cui nacque, che vi
vogliono dei mali pesanti prima ch'ei sia spinto ad abbandonarlo, e la condizione delle nozze è tanto
seducente, che ammeno che non siavi l'impossibilità di supplirne ai bisogni, ogni Cittadino vi viene
guidato dalla medesima natura.
Ognuno facilmente comprende che la forza d'uno Stato deve misurarsi dal numero degli
uomini che vi campano ben nodriti, e che quanto più uno Stato è popolato, tanto maggiori debbono
essere le interne consumazioni; quanto maggiori son queste, tanto debb'essere animata l'annua
riproduzione; conseguentemente dall'accrescimento, o diminuzione del popolo si conoscerà
l'accrescimento, o la diminuzione della riproduzione annua; anzi essendo questa moltiplicazione una
prova degli agi, e della sicurezza che trovano gli uomini nello Stato, essendo gli uni, e l'altra sempre
inseparabili nelle società incivilite dall'industria animata, e dalla rapida circolazione, ne verrà, dico,
in conseguenza che dall'accrescimento del popolo si conosca l'accrescimento dell'annua
riproduzione, la quale più che la semplice esportazione annua è la misura della forza e prosperità
dello Stato.
La misura della forza d'uno Stato o della prosperità di esso non è sempre l'accrescimento del
travaglio, come è sembrato ad alcuni, poichè la riproduzione non è sempre proporzionata al
travaglio; anzi in una nazione dove gli stromenti dell'agricoltura, e delle arti fossero meno perfetti e
più grossolani, ivi il travaglio sarebbe maggiore, ma non perciò sarebbe accresciuta la riproduzione,
o la ricchezza. Il problema dell'Economia politica si è accrescere al possibile l'annua riproduzione
col minor possibile travaglio, ossia data la quantità di riproduzione ottenerla col minimo travaglio,
data la quantità del travaglio ottenere la massima riproduzione; accrescere quanto più si può il
travaglio e cavarne il massimo effetto di riproduzione. Dico poi che l'esportazione annua è una
misura equivoca della forza e felicità di uno Stato; perchè si potrebbe acquistare nuovo popolo che
dapprincipio colle sue consumazioni diminuisse l'esportazione annua; per lo che sarebbe possibile
che si accrescesse il numero di nazionali, e si scemasse per qualche anno appunto perciò
l'esportazione. È bensì vero che non sarebbe questo un acquisto di soda ricchezza nello Stato, se i
nuovi consumatori non contribuissero ben presto alla riproduzione annua, ed in seguito
cooperassero ad accrescere l'esportazione. Potrebb'anco accadere l'opposto, cioè che per qualche
accidente scematosi il popolo, per alcun tempo si accrescesse l'annua esportazione. La sola
esportazione adunque non è una norma sempre sicura dello Stato dell'annua riproduzione.
§. XXII.
Della locale distribuzione degli uomini
Ma questa popolazione è egli meglio che sia diradata sopra un vasto paese, ovvero fitta e
ristretta a uno spazio più angusto? Rispondo che se una popolazione sarà troppo diffusa e diradata
sopra una gran superficie, il commercio interno sarà il minimo possibile, perchè quanto maggiore
sarà la distanza da villaggio a villaggio, e da città a città, tanto più sarà difficile la comunicazione
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dei contratti; conseguentemente non vi sarà circolazione, e non si farà commercio se non ne' casi
passaggieri, ne' quali vi sia differenza di prezzo da luogo a luogo assai sensibile; e ridotti così gli
uomini distanti e isolati, l'industria non potanimarsi, e l'annua riproduzione si limiterà poco più
che a soddisfare ai bisogni di prima necessità. Se per lo contrario la popolazione farà ristretta sopra
uno spazio di terra troppo angusto, la circolazione sarà rapidissima, e la riproduzione annua sarà
somma; ma non bastando la terra a somministrare una riproduzione annua di derrate corrispondente
all'annuo consumo, dovrà questo popolo rivolgere la sua industria principalmente sulle manifatture,
il valor delle quali dipendendo dalla opinione degli uomini, arbitraria, e variabile colle circostanze,
sarà sempre più incerto, e precario del valore delle derrate del suolo, che servono d'alimento alla
vita. Questa popolazione adunque condensata, avrà una somma riproduzione annua, ma di ricchezze
meno sicure a fronte di bisogni fisici e naturali. Spinta da sommi bisogni a somma attività una
popolazione, posta in tali circostanze, può abbracciare e condurre a fine le intraprese le più ardite;
ma se un momento si rallenta la sua industria e la rapida circolazione; se le leggi, e i costumi
cessano di governarla, muterà aspetto velocemente ogni cosa, e resteranno quei soli abitanti, la
consumazione de' quali corrisponda alla produzione annua del suolo.
Tra questi due estremi deve trovarsi uno Stato per essere in prosperità, cioè non occupare
tanta terra che allontani gli uomini dai comunicarsi facilmente e non restringersi in guisa di dover
cercar l'alimento al di fuori.
Le Città sono in una provincia quel che le piazze di mercato sono in una Città. Sono il punto
di riunione, ove i venditori, e i compratori s'incontrano. La capitale poi è alle Città quello che esse
sono alla Provincia.
Si può domandare se l'utile della nazione esiga che nella Città, e singolarmente nella capitale
si ammucchi in gran massa la popolazione, ovvero se convenga anzi procurare che ciò non succeda,
e cresca a preferenza la popolazione della campagna.
La mortalità è maggiore nelle Città che nelle campagne, perchè nelle Città più popolate v'è
più intemperanza e l'aria è meno salubre. A ciò si aggiugne la riflessione assai naturale ed è che il
contadino evidentemente contribuisce all'annua riproduzione assai più di quel che non faccia una
parte degli abitanti della Città. Pare adunque che sia più utile l'accrescimento de' Coltivatori a
preferenza dei Cittadini.
Ma riflettasi al principio detto poc'anzi, cioè, che quanto più gli uomini son condensati, tanto
maggior fermento riceve l'industria da una rapidissima circolazione. Le Città, e singolarmente le
grandi, e molto popolate, sono il centro di riunione da cui escono le spinte all'industria della
campagna, la quale nelle terre non può riscuotersi da se medesima, perchè pochi sono i bisogni, e
poca la circolazione fra gli uomini. Una gran massa di uomini ammucchiata deve diffondere nella
sfera delle terre che l'attorniano l'attività per ritraerne le proprie consumazioni. I comodi della vita
nelle popolose città impiegano un gran numero d'artefici; si raffinano le arti, si riducono a
perfezione le più difficili manifatture. Che se la popolazione medesima si distribuisse per la
campagna, e nessuna città molto popolata vi fosse, non v'ha dubbio che la circolazione, e l'industria
sarebbero minori, e conseguentemente minore l'annua riproduzione. Ognuno sa che maggiori spese
si fanno nella città, di quelle che si facciano vivendo nella campagna, e sa ognuno, e lo prova, che
vivendo nelle città più grandi maggior numero di compre dovrà fare che non nelle città piccole.
Dunque la popolazione medesima diradata avrà minore circolazione assai, condensata, ne avrà assai
maggiore, e la riproduzione annua crescendo col numero delle compre, cioè coll'accrescersi della
circolazione, la riproduzione annua, dico, sarà maggiore quanto più vi saranno in uno Stato città
popolatissime.
Certamente esser vi debbe una proporzione in ogni Stato fra i Cittadini e il popolo della
campagna. In uno Stato militare, e che abbia da temere o invasione dei nemici, o che mediti
conquiste si dovrà render più difficile la vita nella Città, che nella campagna, per moltiplicare a
preferenza i coltivatori, essendo essi gli uomini meglio educati per le armate, ed essendo più
difficile all'invasore l'impadronirsi e conservare la dominazione sopra di un popolo quanto egli è più
diradato. Un milione d'uomini ammassato in una Città è assoggettato tosto che l'inimico posseda
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alcune batterie che la dominino, lo stesso numero diradato si conquista, si custodisce
agevolmente. I Parti, gli Sciti, gli Arabi, i Tartari, la Storia tutta ne fanno fede. Ma in una nazione
che abbia poco a temere d'essere invasa, e che non aspiri a conquiste non sarà di nocumento l'aver
molto popolo nelle città, essendo che queste portano in conseguenza una coltivazione delle terre
sempre proporzionata alla consumazione, tosto che lo Stato le abbia naturalmente fecondabili.
Un filo d'erba la più comune, mietuto sul prato è un pezzo di materia inerte finchè resta
isolato, ovvero raccolto in piccole masse; ma se si ammucchii un voluminoso acervo di quest'erbe
recise vedrassi nascere la fermentazione, schiudersi un calore, propagarsi un moto in tutta la massa,
la quale giungerà ad accendersi, ad avvampare illuminando l'orizzonte. Ogni grappolo di vite
qualora sia da se, o con pochi altri simili, si scioglie in una materia fecciosa, ma compressi in gran
copia in un recipiente, l'urto vicendevole delle infinite volatili particelle, agita la massa tutta, e in lei
ovunque propaga l'effervescenza, e ne stilla un liquore che spande nell'atmosfera fragranti aromi
riscuotenti, e nelle vene di chi ne gusta, vita, e gioventù. Tale è la pittura dell'uman genere, l'uomo
isolato, è timido, selvaggio, e inetto; diradato ch'ei sia o unito a pochi, poco o nulla sa fare; ma una
unione di moltissimi uomini ammucchiati, condensati, e ristretti in piccolo spazio si anima, e
fermenta, e perfeziona, e spande tutto all'intorno l'attività, la riproduzione, e la vita.
§. XXIII.
Errori che possono commettersi nel calcolo della popolazione
Ritornando al soggetto principale, l'accrescimento della popolazione si è dunque il solo
sicuro indice dell'accrescimento dell'annua riproduzione, come si è veduto al paragrafo XXI. Ma per
verificare bene questo fatto conviene usare di alcuni riguardi. Talvolta può parere accresciuta la
popolazione, o scemata in uno Stato unicamente perchè sia accresciuta, o scemata l'attenzione, colla
quale si son fatte le ricerche. I registri degli ecclesiastici sogliono essere i più fedeli; ma se questi si
paragoneranno con altri registri meno esatti, la differenza dei due termini non proverà lo stato della
popolazione. Conviene ne' casi pratici non dimenticare questi riguardi sebben minuti, poichè per
cavare una conseguenza sulla popolazione bisogna che la fedeltà, e l'esattezza dei diversi anni che si
paragonano sia verisimilmente eguale.
Di ogni nazione sarebbe facile il provare qualunque delle due tesi, o che la popolazione sia
scemata, o che sia accresciuta, quando si scelga un anno indistintamente fra i precedenti. Dopo una
pestilenza, dopo i disastri d'una guerra facilmente uno Stato era più spopolato di quello che oggi
non lo sia, quantunque la popolazione attualmente deperisca. In simili calcoli due soli estremi non
bastano, ma conviene avere una serie di più anni immediatamente precedenti. In una serie di 6. o 8.
anni consecutivi si conosce qual moto prenda la popolazione, e formando una media proporzione di
più anni si conosce realmente se l'ultimo Stato sia maggiore, o minore di quella, dal che può
cavarsene una conseguenza la più giusta e provata di qualunque altra per conoscere se l'annua
riproduzione, e la prosperità pubblica accrescano, o diminuiscano.
Si sono fatte delle ricerche curiose, e talvolta utili in questo secolo sulla popolazione degli
Stati. Egli è vero però che tanto la fisica posizione, quanto le leggi di ciascun popolo talmente
variano le proporzioni fralle classi degli uomini, che non può cavarsene molta probabilità
coll'analogia. La quantità degli ecclesiastici varia assai da nazione a nazione, le nozze, o il celibato
prevalgono secondo le leggi diverse, e i diversi costumi de' popoli, così la proporzione de' sessi è
variabile come hanno provato illustri Scrittori. Questi oggetti dobbiamo aver presenti per innalzarci
alla somma arte di dubitare, e per cercare la verità amandola, e rispettandola. Chi stabilisce una
proporzione fra i celibi e gli ammogliati, fra gli ecclesiastici e i laici, fra gli uomini e le donne si
troverebbe in errore o a Roma, o a Londra.
Paragonando la popolazione d'uno Stato coll'altro conviene dividere il numero degli abitanti
sullo spazio intero della nazione, e si vedrà quanti abitanti contenga ogni miglio quadrato: questo è
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il metodo per conoscere quale de' due Stati a proporzione contenga maggior popolazione. Ma per
non cadere in errore bisogna aver quattro dati ben conosciuti e sicuri. Supposto che vogliasi
paragonare la popolazione della Francia colla popolazione della Gran Brettagna, debbono sapersi
con esattezza i quattro seguenti fatti. Primo la popolazione esatta della Francia. Secondo l'esatta
estensione di quel regno. Terzo l'esatta popolazione d'Inghilterra. Quarto l'esatta superficie di
quell'Isola. Un solo di questi fatti che sia equivoco farà erroneo il calcolo.
Troppo sarei per dilungarmi se volessi prevenire gli errori possibili a commettersi in fatti
calcoli politici. In ogni stato vi sono i verdi e i cerulei, vi sono gli uomini che traggono utilità dal
pubblico disordine, l'interesse de' quali è di abellire il tempo presente, screditare le querele dei
popoli, e distogliere il sovrano dal rimediarvi; vi sono parimenti gli uomini negletti e ambiziosi che
cercano d'ingrandire i mali pubblici per invidia verso chi ha i pubblici impieghi. Questi calcoli
conviene che sieno diretti da chi ami imparzialmente la verità e non ami più un'opinione di un'altra.
§. XXIV.
Divisione del popolo in classi
Gli uomini che compongono una nazione io li considero divisi in tre classi, riproduttori,
mediatori, consumatori. Lascio di parlare della classe separata de' direttori, tali sono quei che
rappresentano la maestà del sovrano, i tribunali, i giudici, i soldati, i ministri della religione ec.
classe d'uomini destinati a dirigere le azioni altrui, e a proteggerle, perchè gli ufficj loro non cadono
immediatamente nella sfera degli oggetti che esamina la Economia Politica. Riproduttori adunque
sono quegli uomini, i quali cooperando colla vegetazione della terra, o nell'arti e mestieri,
modificando le produzioni della natura creano, per dir così, un valor nuovo, la somma totale di cui
chiamasi annua riproduzione. Mediatori sono quella classe di uomini, i quali s'interpongono fra il
riproduttore, e il consumatore, procurano al primo un facile sfogo della merce particolare riprodotta
dalla sua industria, e presentano un pronto acquisto di altrettanta porzione corrispondente di merce
universale; offrono al secondo la merce particolare procurandogli il comodo di fare rapidamente la
scelta fra molte qualità radunate della medesima specie. Questi mediatori sono tutti i mercanti, tutti
quegli uomini che comprano per rivendere, tutti gli uomini impiegati ne' trasporti, persone tutte le
quali sono il veicolo che accosta il consumatore al riproduttore, e conseguentemente colla loro
opera facilitano la circolazione. La terza classe de' consumatori s'intende facilmente comprendere
coloro, i quali nessuna industria ripongono del proprio nella massa comune della società, e in ciò
consiste, il carattere distintivo di essi.
Queste tre classi che sono le primigenie, non sono però di lor natura incompatibili; che anzi
ogni venditore debb'essere, compratore, siccome abbiam veduto al §. V., così ogni riproduttore
debb'essere consumatore per necessità di tutta la porzione desinata alla sua sussistenza; lo stesso
dico del mediatore. Il consumatore sembra a primo aspetto un peso inutile dello Stato, essendo che
se dalla nazione uscisse tutta la massa dei meri consumatori altro effetto pare che non potrebbe
accadere se non vedersi accresciuta l'annua esportazione di tanto quanto corrisponde alla
consumazione interna diminuita, dal che ne verrebbe l'utile allo Stato di aver accresciuta la massa
circolante.
Ma in politica bisogna diffidarsi delle conseguenze che si deducono al primo aspetto degli
oggetti. I consumatori sono in gran parte proprietarj dei fondi; la loro vita svogliata, e passiva è in
continuo bisogno d'essere sollecitata colla soddisfazione di variati piaceri: sono in un bisogno
perenne di aver denaro, debbono adunque indirettamente cooperare all'annua riproduzione delle
terre; debbono raffinare e immaginare i metodi per accrescere l'annua riproduzione dei fondi;
debbono servire d'uno sprone continuo al coltivatore, mancando il quale languirebbe di molto
l'agricoltura: la spensieratezza, la profusione del proprietario delle terre, sebbene in alcuni casi
particolari siano di danno, comunemente però sono un ajuto all'annua riproduzione.
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Sarebbe un'idea di perfezione Platonica il pretendere che nello Stato non vi fossero meri
consumatori. Le ricchezze legittimamente acquistate hanno da esser salve al possessore; se questo
debb'essere, è anche necessario che vi sieno uomini ai quali non si possa interdire il far nulla.
Questo ceto non obbligato a pensare al vitto ed ai comodi che di già possede sarà il seminario da cui
si avranno i giovani meglio educati per essere Magistrati, uomini di lettere, capitani: giovani ai
quali non mancarono i mezzi per essere educati, ed ai quali non è necessario di contribuire per il
servigio pubblico quel prezzo che si dovrebbe a chi non avesse che il solo stipendio per campare.
Sono gravosi allo Stato i Consumatori che non possedono, o vivono accattando, o con
importunità, o con altri artifizj il vitto. Essi sono un vero sopraccarico di tributo sugli altri Cittadini
operosi, nè altro effetto producono se non appunto quello di sminuire l'annua esportazione. Il
Legislatore procurerà sempre di scemarne il numero. Io non entrerò in una odiosa enumerazione di
quelle classi di uomini che si trovano in questo caso. Contento di accennare le viste generali degli
oggetti che tratto, lascerò ad altri la cura di adattarle ai casi pratici. Basti ricordare quello che
giudiziosamente osservò un illuminato scrittore; cioè che non tutti i vizj politici sono vizj morali,
tutt'i vizj morali sono vizj politici.
Le tre classi degli uomini, delle quali si è parlato si proporzionerebbero nello Stato, se le
leggi, e le opinioni introdotte non impedissero il libero corso alla natura delle cose; poichè i
mediatori debbono per forza circoscriversi col numero dei contratti: cioè colla quantità della
riproduzione, e della consumazione. I riproduttori accrescerebbero naturalmente fin tanto che
giugnessero ad equilibrare la consumazione, e così tutto sarebbe livellato con sicurezza dal risultato
universale dei bisogni; ma laddove o si limiti il numero de' mediatori con ridurli a ceto, e a corpo
separato, di che si è detto di sopra, ovvero si accresca un ceto di consumatori che non possedono,
questa benefica livellazione e corrispondenza viene alterata; e un abile Ministro indirettamente
tenderà sempre a infievolire queste instituzioni dell'arte, rimettendo le cose più che si può nelle
mani della sagace e benefica natura.
La classe de' consumatori possessori delle terre è bene che si moltiplichi, quanto è possibile,
essendo che, come si disse al §. VI., una vasta estensione di terra che sia in proprietà d'un uomo
solo, sarà sempre meno feconda di quello che lo sarebbe divisa in più: poichè maggior cura e studio
vi porrà ad accrescere la riproduzione della terra un proprietario che ne debba far valere una
mediocre porzione, di quello che vi porrà un ricco proprietario di vasti fondi, il quale oltre all'avere
minore stimolo, nemmeno potrebbe mirar tutto egualmente con attenzione, di che si è già detto.
Aggiungasi che quanto più sono i proprietarj delle terre, in tanto maggiori mani saran le derrate, e
così sarà accresciuto il numero de' venditori a profitto della pubblica abbondanza. I mezzi che a tal
fine adoprerà un accorto legislatore saranno i medesimi, dei quali ho ragionato parlando di quegli
Stati che soffrono il male di aver le fortune troppo disugualmente distribuite. Un'altra osservazione
si può fare a tal proposito, ed è che a misura che s'accresceranno i terrieri, maggiore sarà il numero
degli uomini interessati nella conservazione dello Stato, essendo che i possessori dei fondi stabili
sono i veri indigeni, e i Cittadini più attaccati al suolo, essendolo essi e per l'abitudine che hanno
comune con tutti gli altri, e più per la conservazione delle loro ricchezze, e del loro Stato, beni, che
il mediatore facilmente ritrova anche mutando paese.
Uomo benefico, uomo illuminato che hai esaminati, e conosciuti i sacri dritti dell'uomo non
ti sdegnar meco se ne prescindo, e se unicamente lo considero come parte della società contribuente
alla di lei forza e ricchezza. No, non degrado l'uomo alla servil condizione d'un mero fondo
fruttifero; così potesse la mia voce annunziare con frutto gli augusti primitivi dritti d'un Essere
intelligente e sensibile che associandosi non può averlo fatto che per il miglior genere di vita; dritti
altamente pubblicati da sublimi uomini che la potenza ha in odio, il volgo non conosce, e alcuni
pochi deboli, sparsi, e avvezzi alla meditazione onorano! Sappi che a stento raffreno scrivendo
gl'impeti del cuore; ma la fredda ragione mi suggerisce di promovere il bene degli uomini non col
linguaggio del sentimento, ma coll'analisi tranquilla delle cose, e illuminando chi può far il bene,
mostrare la coincidenza degl'interessi comuni. Rispettiamo la elevazione del genio, e la calda virtù
di chi posto in privata condizione s'erge a tuonare sull'abuso della forza, e vorrebbe far arrossire gli
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uomini in carica de' loro vizj, e de' loro errori. Se per ciò l'umanità venisse sollevata dai mali, la
virtù ci additerebbe quel sentiero: ma la misera condizione degli uomini è tale che più si ottiene
generalmente solleticando l'interesse personale, che non si fa interessando la gloria, a cui rare sono
le anime che s'innalzino.
§. XXV.
Delle Colonie, e delle Conquiste
Se è vero che la forza d'uno Stato, e che l'annua riproduzione si misurino, e vadano del pari
colla popolazione; che dovrem mai pensare delle Colonie che si trasmettono a popolar regioni
lontane per assicurare la conquista? Per una nazione la di cui forza principale debba consistere sul
mare, le Colonie remote possono supplire al danno che cagionano della spopolazione, servendo a
mantenere unr incessante navigazione anche in mezzo alla pace, e la Metropoli rivendendo le
produzioni delle sue Colonie potrà dare tanta spinta all'industria, e accrescere di tanto la
circolazione, che in breve si ricuperi egual numero di popolo al perduto. Ma nelle nazioni, nelle
quali le forze naturali debbono essere terrestri, perchè posson essere terrestri le forze di chi tentasse
sopra di esse un'invasione, nelle nazioni nelle quali la terra non sia per anco popolata a quel segno, a
cui può naturalmente giungere, a me sembra che le Colonie cagionino un male colla loro originaria
spopolazione, e un secondo male perenne coll'obbligo di mantenere troppe forze marittime. Mi pare
che non dovrebbe mai uno Stato cercare di rendersi formidabile in regioni rimote, fintanto che non
sia formidabilissimo su quella porzione di globo ove giace. Poichè quanto più stendesi la
dominazione al di fuori, tanto di forza sottraesi alla difesa interna. Dopo due, o tre generazioni le
Colonie perdono l'affezione all'antica loro patria, e se non si rinnovellano con sacrificj continui di
popolazione v'è pericolo che degenerino in fredde alleate di poca utilità, e che impazienti della
dipendenza talora diventino nemiche ai loro antichi Cittadini.
Le conquiste rimote portano i mali medesimi delle Colonie; e se nelle conquiste anche
contigue agli Stati non si acquistano più uomini che terra, nasceranno i mali di dover di più diradare
la popolazione, e render gli uomini più isolati, il che si è già veduto quanto rallenti la circolazione, e
diminuisca in conseguenza l'annua riproduzione.
§ XXVI.
Come si animi l'industria avvicinando 1'uomo all'uomo
Per animare gli Stati soverchiamente vasti, e mancanti di popolo bisognerebbe poterli
concentrare unicamente quanto basta per lasciar tra gli uomini lo spazio di terra capace di nutrirgli,
e riponendo un deserto tra essi, e i confinanti, comunicare cogli altri popoli per le sole vie dei mari e
dei fiumi. In tal guisa nella nazione s'introdurrebbe il fermento e l'attività, si accelererebbe la-
moltiplicazione della riproduzione annua, e del popolo, s'accrescerebbe l'esportazione, si
acquisterebbe nuova copia di merce universale in premio dell'industria, e a proporzione sempre
accelerandosi la circolazione, e la riproduzione annua si vedrebbe la nazione gradatamente stendersi
sulla pianura che aveva da principio lasciata deserta, fintanto che gli uomini giugnessero al contatto
coi finitimi, e vi giugnessero nello stato di forza, d'industria somma, e di somma coltura.
Non è male il ripeterlo: quanto l'uomo è più isolato, e distante dagli altri suoi simili, tanto
più s'accosta allo stato selvaggio; all'opposto tanto più s'accosta allo stato dell'industria, e della
coltura quanto è più vicino a un più gran numero d'uomini; e deve farsi ogni studio possibile per
accostare l'uomo all'uomo, il villaggio al villaggio, la città alla città. Su questo proposito accade di
osservare che più mezzi ha un governo per eseguire questo accostamento, e può farlo in effetto
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senza che gli uomini trasportino abitazione. Dovunque sieno tributi frapposti sul trasporto interno
dello Stato, se il legislatore gli tolga, avrà effettivamente accostate le città, framezzo alle quali
cadeva il tributo; ma di questa materia parleremo più oltre. Dovunque sieno strade difficili al
trasporto, o pericolose per la sicurezza, se un buon governo le spiani, e le renda agevoli, e sicure,
avrà accostate fra di loro tutte le terre, e città che comunicano per quelle strade; essendo che le
spese, e il tempo del trasporto da luogo a luogo sono tanto maggiori quanto è maggiore la distanza,
ovvero quanto è più scoscesa, difficile, e pericolosa la strada che debbesi fare, e così viceversa.
Tanto minor differenza di prezzo basta a cagionar il trasporto da luogo a luogo, quanto minore è la
spesa, e il tempo della condotta. Le strade adunque ben fatte debbono moltiplicare la circolazione
interna dei contratti, e per le ragioni già dette accrescere l'annua riproduzione.
Conviene però in questa classe di opere pubbliche guardarsi dal lusso, e limitarli alla sola
utilità; poichè le strade soverchiamente larghe, e fatte più a pompa che per uso, sono tante strisce di
sterilità d'una nazione, ed è da osservarsi che il lusso sicuramente più dannoso d'ogni altro si è
quello che impedisce una utile vegetazione sulle terre, e così i vasti giardini, le selve destinate
unicamente alla pompa della caccia, gli sterminati viali, e simili abusi della proprietà sono un
genere di lusso che non ammette compenso; perchè il lusso di consumazione eccita una
proporzionata annua riproduzione, ma questo lusso infecondo è una diretta esclusione alla
riproduzione annua.
Per questo principio istesso la costruzione de' canali navigabili gioverà sommamente ad
accostare le rimote popolazioni; la sicurezza pubblica delle strade, la distribuzione comoda degli
alberghi e simili altri mezzi in mano d'un provido governo rianimeranno la circolazione, l'industria,
e la riproduzione d'un popolo quantunque collocato con diradata ripartizione. Una potenza
marittima di cui la bandiera sia rispettata può dirsi per quella ragione confinante con ciascun Porto
dell'universo.
§. XXVII.
Dell'Agricoltura
Ogni spazio di terra è la materia prima dell'Agricoltura, la qual produce ai popoli la
ricchezza la più vera, e la più indipendente d'ogni altra col variar delle opinioni. Ogni genere di
Agricoltura è utile allo Stato, perchè accresce l'annua riproduzione: ma quel genere di agricoltura
sarà preferibile, che più accresce l'annua riproduzione. Pare che l'interesse del proprietario delle
terre sia quello di ricavare dai suo fondo la maggiore annua riproduzione, per lo che al legislatore
sembra che non convenga averne il pensiero riposandosi sulla vigilanza dell'interesse del
proprietario. Con tutto ciò può darsi, che gl'interessi dello Stato non coincidano talvolta
cogl'interessi del proprietario. Questa verità si conosce riflettendo che l'interesse del proprietario si
è non già d'accrescere l'annua riproduzione totale de' suoi fondi, ma bensì di accrescere quella
porzione di rendita, che a lui spetta. Ciò posto facilmente vedrassi, che la rendita del proprietario
per due maniere si può accrescere, o coll'aumentazione della riproduzione annua, o colla
diminuzione del numero de' giornalieri. L'interesse del proprietario coincide con quello del
legislatore fin tanto che si scelga il primo mezzo per accrescere la rendita; ma qualora si scelga il
secondo, possono gl'interessi dello Stato, e quelli del possessore essere in opposizione. Sempre le
equazioni in Economia Politica si fanno felicemente per addizione, e per sottrazione sempre con
danno; sempre debbesi cercare la massima azione col massimo effetto. Suppongasi che un genere di
coltura richieda l'opera di dieci agricoltori che vivono sul lavoro di un campo, Il proprietario
potrebbe guadagnar più, sostituendovi un'altra coltura, la quale impiegasse due uomini soli, perchè
potrebbe il risparmio di otto uomini di meno da mantenere, essere una somma maggiore della
differenza che passa fra la total produzione del primo, paragonata al secondo genere di coltura. È
dunque un oggetto l'Agricoltura che anche nelle sue specie diverse debbesi aver sott'occhio dagli
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uomini destinati a vegliare sulla felicità pubblica. Prima regola: adunque, generale sarà: preferire
quel genere d'agricoltura che più accresce l'annua totale riproduzione, e che impiega maggior
numero di braccia.
Alcuni generi d'agricoltura possono accrescere l'annua riproduzione su quel terreno su cui si
esercitano, e diminuire in proporzione assai maggiore l'annua riproduzione delle altre terre. Tale
può essere la coltura che si fa per mezzo della irrigazione. Se i terreni paludosi vengano ridotti a
coltura dando uno scolo alle acque, può accrescersi l'annua riproduzione nazionale; ma quando un
fiume si dirami, e si suddivida sopra un vasto spazio di terra, vi sarà pericolo che le frequenti
nebbie, e le grandini frequenti non portino la devastazione alle altre campagne, e non rendasi l'aria
insalubre a diminuzione del popolo. L'evaporazione dell'acqua non si fa in ragione della di lei
quantità assoluta, ma della di lei superficie. La ragione, e la sperienza c'insegnano che le piogge, le
nebbie, e le grandini sono assai più frequenti ne' paesi che hanno molta irrigazione di quello che non
lo sieno ne' paesi più asciutti. Tutte le cose eguali, nelle pianure simili, e similmente poste per
rispetto alle vicine montagne la quantità della pioggia che cade in ciascun anno, il numero e la furia
de' temporali è maggiore dove i fiumi sono sparsi e divisi per le moltiplicate irrigazioni. Nella
Toscana vi sono come nella Lombardia i monti che circondano, eppure assai più grandini e piogge
cadono nella Lombardia dove anco nel Milanese vi sono sicure osservazioni d'essersi anticipato in
Autunno il principio delle nebbie, ed essersi quelle innalzate e distese in maggiore vicinanza delle
colline col dilatarsi la irrigazione. Seconda regola generale: sarà sempre posponibile quel genere di
coltura che deteriori le condizioni del clima.
Si può dare un genere di coltura, il quale accresca l'annua riproduzione senza scapito alcuno,
ma che essendo uno sforzo della terra, dopo alcuni anni la renda sterile, o di troppo difficile
riproduzione. In questo caso pure gl'interessi della nazione sarebbero opposti a quelli del
proprietario. Molti paesi, che la Storia c'insegna essere stati fertilissimi, ora sono acervi d'infeconde
sabbie. Forse la irrigazione per un lungo tratto di anni lambendo lo strato vegetabile della terra, con
una insensibile azione scioglie i sali, e le parti oleose che costituiscono la fecondità, e lascia
coll'andare de' secoli un fondo esaurito e morto, e mentre il suolo s'accosta a quest'estremo rendesi
poi necessaria la irrigazione sopra di quel fondo che in origine avrebbe contribuito alla riproduzione
anche da se. L'interesse del proprietario non provede o calcola questo deperimento perchè troppo
remoto, e di cui egli non ne proverà le conseguenze; ma l'immortale Politica spinge i suoi sguardi
nell'avvenire, e insegna non esser utile allo Stato quella riproduzione, la quale deteriori la fecondità
del suolo. Terza regola generale adunque sarà: preferire qual genere d'agricoltura per cui si
conservi alla terra la sua attività.
Ognuno vede facilmente quanto sia preferibile per lo Stato il ricavar dalle terre prima d'ogni
altra cosa l'immediato alimento, e quanto sia preferibile l'alimento di prima necessità a quello di
piacere. Se una popolazione d'America metterà tutte le sue terre a coltivare lo zucchero, perchè nel
total valore ne ritrae più di quello che farebbe coltivando i grani; dico che quella nazione menerebbe
una vita sempre dipendente, e precaria dalle nazioni estere, e dovrebbe prima d'ogni cosa procurarsi
nel proprio suolo l'alimento fisico immediatamente. Quarta regola generale adunque: preferire quel
genere di coltura che soddisfaccia ai bisogni fisici, fintanto almeno che sieno largamente
assicurati.
Altre osservazioni si possono fare sull'Agricoltura, dalle quali dedurre altri precetti. Io credo
che sia più utile allo Stato che la parte dominicale sia pagata dal fittuario al padrone del fondo,
piuttosto in derrate, che in moneta, perchè affine che il fittuario possa unire la somma da pagare
debbe affrettarsi a vendere i prodotti della terra; e siccome presso ogni nazione vi sono i tempi
legali per pagare i terreni allogati, così tutti ad un tempo s'accrescono i venditori, e facilmente
nascono gl'incettatori, e si può far monipolio. Oltre di ciò, ristagna una parte sensibile di denaro
frattanto, perchè il fittuario appoco appoco ammassa la somma da pagare, e così si sottrae una
porzione della merce universale alla circolazione. Che se il padrone del fondo sarà pagato con tanti
sacchi di grano, botti di vino, ec. non vi saranno questi inconvenienti. Riflettasi pure che l'eccesso
dell'annuale riproduzione sulla consumazione interna sarà sempre più facilmente trasportato agli
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esteri, quanto meno voluminosa sarà la derrata, e meno corruttibile; dal che si vede quali altre
regole di agricoltura si possono aggiungere.
Ma quando io dico che questi oggetti son degni dell'attenzione del legislatore, e che un
genere merita d'essere più promosso, e un altro più ristretto, non intendo dire perciò, che io creda
mai bene l'obbligare i proprietarj con leggi dirette o penali ad abbandonare, o scegliere una coltura
più che un'altra; qualora io accenno i mali che produce una irrigazione troppo estesa suggerisco
perciò di obbligare ad altro genere di coltura quei terreni che più non ne sono suscettibili, o
proscrivo perciò ogni uso di prati, o escludo questo genere dalla economia rurale. Dico che questo
genere di coltura non è mai preferibile alla coltura de' grani; ma dico nel tempo stesso che le leggi
coercitive non possono mai produrre verun buon effetto, perchè limitando esse il dritto di proprietà
per entro a troppo angusti confini tendono a intimidire gli uomini, a scoraggire l'industria, e
diminuire la ricerca dei campi, e a portare la freddezza in ogni parte, dove anzi conviene lasciare
vegetare la vita, e schiudersi l'attività. Si otterrà stabilmente e con placiti mezzi che nello Stato si
stenda più la coltura che più accresce la riproduzione, qualora indirettamente il Legislatore inviti la
coltura più utile, o aggravando meno di tributo quelle terre sulle quali si esercita, ovvero lasciando
più svincolata la contrattazione delle derrate provenienti dalla coltura più utile, ovvero sollevando
nelle gabelle all'uscita e circolazione quelle derrate, e invece aggravandone le prodotte dalla meno
utile coltura. Se i vincoli imposti alla contrattazione de' grani spingessero una nazione a moltiplicare
la irrigazione e la coltura dei Caci, si potrebbe placidamente togliere questa spinta redimendo al
Commercio de' grani la originaria libertà; poichè la ritrosa volontà dell'uomo vuol essere invitata
senza scossa, e guidata senza violenza, affinchè s'ottenga un bene costante, e non compensato da un
maggior male. Nelle nazioni illuminate gli uomini vanno direttamente, e obbliquamente vanno le
leggi, ma quanto sono minori i lumi d'un popolo, tanto vanno più direttamente le leggi, e
obbliquamente gli uomini.
I premj possono essere mezzi che talvolta ajutino l'industria anche nella agricoltura, e se ne
contano esempj di qualche nazione; ma d'ordinario danno poca utili reale. Primieramente v'è
pericolo che questi vengano distribuiti più per ufficj che per attento esame, e non vi è cosa che
avvilisca più il merito, quanto un'arbitraria distribuzione de' premj. Secondariamente se il valore di
questi sta nella ricchezza fisica, saranno un aggravio certo universale per un'incerta utilità parziale:
se il valore non sarà ricchezza fisica diventerà un giuoco la distribuzione; e in una nazione vivace
correrà gran rischio la cerimonia d'essere mancante di quella serietà che ecciti l'emulazione.
Finalmente ogni coltura che non trovi il premio intrinseco del guadagno nella vendita, sarà sempre
una riproduzione efimera, e di pochissima utilità. Io non dico che in alcun caso il premio proposto
non possa essere di bene; dico soltanto che questi sono il vero lusso della legislazione, a cui non è
permesso il pensare, fino a tanto ch'ella in ogni sua parte non sia esattamente modellata e conforme
alla società per cui è fatta.
Si è detto che il legislatore cercherà adunque di promovere più una coltura che l'altra; e
riducendo a una teoria sola qual coltura debbasi preferire, dirò: quella, che più costantemente
accresce il total valore dell'annua riproduzione. Un ministro politico non sarà mai di altro sollecito;
e ottenuto che siasi il necessario fisico non si curerà se sia variata o no la coltura; se molte materie
prime delle arti si producono; se cresca sul suolo quando serve ai comodi della vita; poichè ciò si
livella da se; ogni cosa ricercata ha prezzo, e tanto maggiore quanto è il numero delle ricerche, e
tosto che il proprietario del fondo non coltiva un dato genere, è segno che ne ritrae valor maggiore
altrimenti, col quale potrà procurarsi dall'estero la materia prima che si cerca. L'idea di formare un
compendio dell'universo entro i proprj confini non è mai ben augurata: accrescere l'annua
riproduzione, spingerla quanto oltre si può, snodando, animando l'attività umana, questo è il fine
solo a cui tende l'Economia Politica.
§. XXVIII.
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Errori che possono commettersi del calcolare i progressi dell'agricoltura
Ho detto che la riproduzione si debbe spingere quanto oltre si può: non dico portarla al
colmo, perchè la riproduzione annua, praticamente parlando non vi giunge mai. Il moto
dell'industria è come ogni altro moto; per quanto ei sia rapido può sempre ricevere nuova spinta,
che ne accresca la quantità. Esattamente parlando, so che si tratta di elementi finiti, ma il loro limite
è tanto discosto dallo stato attuale di ogni nazione d'Europa, che può considersi come infinitamente
distante. Risguardisi la sola agricoltura di cui trattiamo. Sintanto che in uno Stato vi saranno dei
pezzi di terreno non ancora coltivati, che vi saranno dei fondi comunali, che vi saranno dei prati e
pascoli, capaci d'una coltura che renda maggior valore per alimentare un più gran numero di
uomini, si deve dire che ancora resti molto da fare per i progressi dell'agricoltura. Non vi è terra che
coll'opera dell'uomo non si renda feconda. Di nessuna parte d'Europa padunque dirsi che ivi
l'agricoltura sia giunta al suo colmo. Converrebbe acciocchè questo fosse, che tutte le brughiere
fossero ridotte a coltura e così tutt'i fondi comunali fossero coltivati dalla mano dell'uomo; che vi
fossero prati e pascoli ma solo quanto è necessario per mantenere gli animali che cooperano
all'agricoltura medesima, e corrispondono alle consumazioni degli abitanti. Il numero degli animali
eccedente questo limite, e che si nudriscono per servire di materia prima alle manifatture sono una
sensibile diminuzione del popolo, poichè quanto più numero di bestie alimenta uno Stato, tanto
minor numero d'uomini può alimentare.
A provare che l'Agricoltura fosse al colmo in uno Stato si credette che fosse un argomento
l'avere ribassati gl'interessi de' banchi pubblici ed essere stati ricercati i capitali da pochi. Dunque è
segno, dicesi, che nell'agricoltura non vi sia più mezzo da fare impiego de' capitali; dunque ella è
giunta al colmo. Per conoscere la spiegazione d'un tal fenomeno basterà riflettere che gli utili che si
potrebbero avere dall'agricoltura suppongono la massima libertà del Commercio delle derrate; che
vi vuole una energia non volgare per intraprendere d'accrescere il valore de' fondi terrieri; che
l'indolenza umana fa che si preferisca un utile minore ma agiato, a un maggiore che richiede
inquietudine, e occupazione; che dove l'attività non sia universalmente in fermento, pochi uomini
osano slanciarli sopra il livello comune. Se adunque non vi saranno comodi, e sicuri impieghi de'
capitali a più alto interesse, la maggior parte de' creditori pubblici si contenterà del ribasso, e
lascierà i suoi capitali su i banchi. Da questo fatto non vi è miglior ragione per argomentare in
favore dell'agricoltura di quello che vi sarebbe per argomentare in favore delle manifatture.
L'interesse del denaro ribassato promuove l'industria nazionale, siccome si è detto; ma non è una
prova che l'industria sia già in piena attività. Ho detto pure che dall'interesse del denaro si può
calcolare la reciproca felicità delle nazioni; ma ciò s'intende un interesse uniformemente ribassato
ne' denari che si accomodano, e allora paragonando l'interesse nostro coll'interesse che corre in altri
Stati avremo la misura per calcolare quale de' due goda di maggiore felicità.
§. XXIX.
Origine del Tributo
Il tributo ha moltissima influenza sull'annua riproduzione; può scemarla, può accrescerla a
misura che sia bene o male regolato. Si è accennato come un tributo saggiamente collocato possa
animare le manifatture interne, come possa promuovere quel genere di agricoltura che più accresca
la totale riproduzione; ora dile teorie che mi sembrano le primordiali per conoscere e l'origine e
la natura e la influenza di esso sulla prosperità d'un popolo. Sin ora ho scorsi gli oggetti proprj della
Economia; mi restano ora da scorrere quelli della Finanza, parte anch'essa della Economia Politica
la quale comprende il modo di rendere più ricco lo Stato, e quello di fare il miglior uso della
ricchezza.
Sebbene sul tributo sieno usciti alla luce in questi ultimi anni ottimi trattati, e siensi posti in
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chiaro per la maggior parte i principj; con tutto ciò credo che vi resti qualche cosa da fare anche a
chi scrive in quest'oggi. Per formarci un'idea della necessità e giustizia del tributo si rifletta che una
società di uomini non potrebbe sussistere tosto che fosse impunita la violenza e la frode che un
cittadino può fare all'altro, ovvero tosto che una nazione conquistatrice venisse a devastarla. Da quì
nasce la necessità per cui una parte de' cittadini debb'essere occupata a difendere la nazione intiera,
e ciascun individuo che la compone da ogni usurpazione e violenza interna che esterna. Una
unione d'uomini la quale non avesse veruna forma di governo, alla prima minaccia d'un invasione o
dovrebbe disperdersi abbandonando il suolo nativo, ovvero tumultuariamente accorrere per
respingere l'aggressore. Frattanto sarebbe abbandonata la coltura delle terre, e costretta dalla fame
dovrebbe piegare alla necessità, e sottomettersi. Così tumultuariamente e con un disordine perenne
si respingerebbe anche l'aggressore interno, la forza sola deciderebbe di tutto, tutto sarebbe in
combustione.
Da ciò nasce la necessità di avere un numero di uomini unicamente destinati a mantenere la
sicurezza della proprietà a ciascun membro dello Stato, uomini di professione obbligati in parte ad
agire per respingere con impeto le usurpazioni della forza, e in parte a verificare tranquillamente i
diritti d'ognuno e ordinarne la difesa; a invigilare sulla pubblica felicità da ogni suo lato, e
promuoverla. Ecco l'origine dei Sovrani, della Milizia, dei Magistrati, e dei Ministri. Questa classe
separata di uomini nè produttori, mediatori, unicamente consacrata alla sicurezza, e felicità
pubblica, classe d'uomini che io chiamo direttrice, ragion vuole che sia mantenuta da quella società
medesima, a cui conserva, e procura ogni bene. La necessità di avere questa classe di uomini forma
la giustizia del tributo; e l'alimento proporzionato all'officio di ciascuno di questi uomini fino a quel
limite a cui giunge l'utilipubblica, forma la somma totale del tributo. Il tributo adunque si è una
porzione della proprietà che ciascuno depone nell'erario pubblico, affine di godere con sicurezza la
proprietà che gli rimane.
Egli è dunque interesse di ogni uomo che sieno pagati i tributi, e che sieno convertiti per il
bene che gli ha fatti nascere. D'onde avviene dunque che laddove ogni altra legge: realmente
coincidente coll'interesse della, maggior parte degli uomini viene facilmente ubbidita, ed è punito
colla disapprovazione pubblica il violatore; le leggi del tributo per lo contrario, sebbene del pari
interessanti la maggior parte, trovano un niso continuo nella nazione ad opporvisi, e non incontra
mai la disapprovazione pubblica il fraudatore? Ciò forse accade perchè l'intelletto dell'uomo è fatto
come l'occhio, a cui un piccolo oggetto, ma assai vicino, cuopre vastissimi oggetti rimoti, e così
l'immediato male di privarsi di parte della propria ricchezza si sente assai più che non il lontano
bene di venire assicurati da una eventuale violenza. Secondariamente l'idea della privata proprietà è
assai più radicata nell'animo dell'uomo di quel che non lo sia l'idea generale dell'organizzazione
politica d'uno Stato; e siccome il tributo è una diminuzione delle proprietà, ed è una relazione fra
l'uomo e lo Stato, ogni individuo sente più la parte che è diminuita, di quello che senta il legame dei
rapporti che la bilanciano. C non ostante io credo che se in ogni tempo fosse stato il tributo
sempre un fondo giudiziosamente impiegato, l'opinione pubblica lo risguarderebbe come un debito
sacro; e forse il costume avrebbe radicata negli animi tanta vergogna al sottrarvisi, quanta ne prova
ogni uomo spontaneamente unito in una privata società, se non possa pagare la sua porzione:
avendo risentita la sua parte nel bene. Se i costumi hanno associata una macchia, e una vergogna a
chi non paga i debiti del giuoco; perchè non se ne infligge altrettanta a chi non paga i debiti al
mercante, o all'erario? Sarebbe mai per la ragione che agli ultimi provvede la legge, ai primi no?
Forse è da osservarsi che l'abuso fatto in altri tempi del potere legislativo, e il più grande abuso
moltiplicatosi di rendere incerta, e dubbiosa ogni legge colla interpretazione, hanno impressa nel
cuore degli uomini un'idea poco favorevole alla legge, e perciò l'opinione pubblica assolve fin dove
si può, quello che la legge condanna. Nelle nazioni che hanno una felice legislazione scorgesi
maggiore coincidenza fralle leggi e i costumi; le condanne sono uniformi, e nel tribunale e nella
opinione pubblica. Forse la divergenza di questi due principj è la vera misura della corruzione d'un
popolo. Ma queste idee, secondate che fossero, troppo mi porterebbero lontano dal mio argomento.
Sarebbe pure cosa disparata dal mio soggetto s'io volessi considerare il tributo come una
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legittima porzione depositata nell'erario. Altri vi sono che hanno portata la luce su di questa materia.
L'instituto di quest'opera mi richiama a contemplare il tributo unicamente come un oggetto che ha
relazione ed influenza sulla circolazione, sulla riproduzione annua, sull'industria, e sulla prosperità
dello Stato,
§. XXX.
Principj per regolare il Tributo
Una nazione decaderà per colpa del tributo in due casi. Primo caso, quando la quantità del
tributo eccederà le forze della nazione, e non sarà proporzionata alla ricchezza universale. Secondo
caso, quando una quantità di tributo, la quale nella sua totalità è proporzionata alle forze, sia
viziosamente distribuita. Nel primo caso il rimedio è solo, e semplice, cioè proporzionare il peso
alla robustezza della nazione. Il secondo caso è assai variabile, e inviluppato. Cerchiamo di mettere
a luogo le idee, e comprendere in capi tutti i casi particolari.
Il tributo è viziosamente ripartito quando immediatamente piomba sopra una classe di
Cittadini dei più deboli dello Stato, ovvero quando nella percezione vi sia abuso, ovvero quando
impedisca la circolazione, la esportazione, lo sviluppamento dell'industria, in una parola quando
renda difficili quelle azioni per le quali s'accresce la riproduzione annua.
Ogni tributo naturalmente tende a livellarsi uniformemente su tutti gl'individui d'uno Stato a
proporzione delle consumazioni di ciascuno. Se il tributo sarà nelle terre, suppongasi che venga
pagato in derrate le quali si distribuiscano alla classe direttrice di cui poco fa ho detto. Egli è vero
che tutti gl'individui di quella classe cessano allora d'esserne compratori, e il terriere vedrà
diminuito il numero de' compratori delle sue derrate, onde dovrebbe venderle, tutto il resto uguale, a
un minor prezzo, e così non si compenserebbe del tributo sul restante de' compratori. Ma dico che
non restera tutto il resto uguale, e il numero de' venditori si diminuirà: perchè imponendosi un
nuovo tributo sopra i terrieri, e cadendo un nuovo interesse immediatamente, e accrescendosi sopra
della loro classe tutto in un tempo un nuovo bisogno d'avere più merce universale, ne accaderà, che
al bel principio i più facoltosi si asterranno dal fare le vendite aspettando prezzi più alti, e i pochi
venditori che resteranno in attività ristretti a minor numero, otterranno che il prezzo si rialzi, e
fattasi questa livellazione al primo imporsi del tributo, naturalmente seguiterà fin tanto che il tributo
continui, tutto il resto uguale, a distribuirsi in quella forma. Suppongasi che il tributo si paghi in
denaro, come realmente si fa, allora la classe direttrice formerà una nuova schiera di compratori, i
quali quanto più mezzi hanno per consumare e più consumano, siccome si è veduto, onde
naturalmente cooperano col terriere medesimo a rendere più cari i prezzi delle derrate, e così il
proprietario delle Terre procurerà di risarcirsi sopra ciascun consumatore del tributo che avrà
anticipato. Se il tributo sarà sulle merci, e sulle manifatture, i mercanti e gli artigiani cercheranno di
risarcirsene, vendendone a pcaro prezzo le loro manifatture, e così ripartire su i loro consumatori
proporzionatamente il tributo. Se il tributo verrà imposto immediatamente sul minuto popolo che
niente possede, e che locando unicamente se stesso, vive d'un giornaliero salario, il minuto popolo
necessariamente esigerà salario maggiore, e così il tributo ha sempre una forza espansiva per cui
tende a livellarsi sulla sfera più vasta che si può. Riguardato da questo canto solo parrebbe
indifferente ch'ei cadesse più su di una classe di uomini che su di un'altra.
Ho detto: che il tributo si distribuisce, e si conguaglia naturalmente sulle consumazioni di
ciascuno. Per rendere quest'idea, più chiara immaginiamoci un forastiero domiciliato da noi, il quale
abbia tre mila scudi d'entrata che gli vengono dalle terre che possede nella sua patria. Suppongasi
ch'egli spenda ogni anno per il proprio mantenimento tutta l'entrata. Egli deve pagare sopra le
consumazioni che fa, sì immediatamente per la sua persona, quanto mediatamente per le persone de'
suoi domestici, il tributo del nostro paese; e se i tributi da noi ascendessero al diecisette per cento
del valor capitale, dico che il forastiere avrebbe contribuito cinquecento scudi delle sue terre nel
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carico nostro nazionale. Quando i tributi sono imposti sull'ingresso delle merci in città sulla vendita
de' generi di prima consumazione, sulle case, sulle arti e mestieri, come lo sono attualmente quasi
dappertutto, ella è cosa assai ovvia d'intendere, come il forastiere a misura della sua consumazione
forza è che contribuisca. Ma se il tributo presso di noi fosse interamente collocato sulla sola parte
dominicale delle terre, allora è più lunga la strada del conguaglio sulle consumazioni; pure egli
pagherebbe le derrate di suo consumo più care di quello che le comprerebbe se non vi fosse tributo,
e tutte le opere e servizj che dovrà pagare saranno proporzionatamente più cari quanto sarà
maggiore il peso della terra da cui ricevono alimento i cittadini de' quali ha impiegato l'opera.
Quindi io credo che se un terriere possessore di vasti fondi consumerà pochissimo, sarà realmente
piccolissima la porzion del tributo che avrà pagata; e così il forastiere che soggiorna da noi,
pochissimo contribuisce alla sua nazione. Ciò anche più chiaramente si conosce riflettendo che il
tributo imposto sulle terre e stabilmente e uniformemente conservato è piuttosto una diminuzione
istantanea del valore delle terre accaduta nel momento in cui venne stabilito anzi che una annua
diminuzione del frutto del padrone; poichè per i contratti passando i fondi di terra dopo imposto il
carico a un possessore nuovo egli ne ha fatto l'acquisto impiegando il suo denaro a un determinato
frutto annuo e sottraendo dal fondo l'importanza del tributo. Da ciò è nata la legge di alcuni Stati
che vieta ai proprietarj delle terre di soggiornare in estero paese; legge diretta, la quale se da una
parte impedisce l'uscita del denaro, e la diminuzione del numero de' contribuenti, dall'altra però non
invita l'estere famiglie a stabilirsi nello Stato, a comperarvi dei fondi, e a portarvi le ricchezze, e
l'industria loro.
Per disssipare sempre più le nebbie su di questa materia si rifletta che colui che non possede
cosa alcuna non può pagare verun tributo se non carpendolo dalle mani di chi possede. Un
possessore sia egli o di terre, o di capitali, o d'altri fondi, s'egli mantiene degli artigiani pagherà
necessariamente il tributo imposto ad essi, poichè se egli consuma il tempo e l'opera loro debbe
cedere ad essi di che si alimentino, e paghino il loro debito all'erario. Lo stesso dico de' Salariati che
il possessore stipendia de' quali pagherà il tributo sicuramente: così dico delle mercanzie tutte che il
possessore consumerà, per le quali egli pagherà necessariamente al mercante il prezzo primitivo più
il trasporto, più l'alimento di esso mercante, più il tributo che il mercante anticipò. A misura dunque
che farà di consumazioni, maggior parte pagherà di tributo ogni possessore; e a misura che ciascuno
più è aggravato di tributo cercherà di più risarcirsene nelle vendite, ed ecco come il tributo tende a
conguagliarsi sulle consumazioni. Riflettasi che un terriere che abbia comprati i suoi fondi sulla
rendita depurata del 3 1/2 per cento ricaverà dalla terra il frutto intero del suo capitale, e come
possessore non pagherà tributo in quella guisa che acquistandosi un podere soggetto a servitù non si
cede niente del proprio lasciando l'uso di essa a chi ne ha il diritto, così accadde pagando il tributo
anticamente imposto sulle terre. L'idea che il sovrano sia comproprietario delle terre non mi pare
vera, e se lo fosse lo sarebbe ugualmente dei magazzini delle merci. Perciò ogni uomo pagherà, il
tributo in qualità di consumatore perchè di tanto pagherà di più le consumazioni quanto è il tributo,
onde acquisterà tante merci particolari di meno da consumare spendendo una determinata quantità
di denaro quanto è l'incarimento cagionato dal tributo, e queste merci di meno che acquisterà
saranno la porzione della proprietà deposta nell'erario pubblico. Chi più consuma più contribuisce
al tributo, e il tributo siccome dissi si diffonde e conguaglia sulle consumazioni.
Sembra dunque a primo aspetto, poichè il tributo tende a conguagliarsi sulle consumazioni,
che arbitrario sia lo scegliere anzi una classe che l'altra del popolo: ma ciò non è; poichè questo
conguaglio, e questa suddivisione del tributo è sempre uno stato di guerra fra ceto, e ceto d'uomini.
Quando il possessore, e il Cittadino che ha fondi debbono anticipare il tributo, la suddivisione sul
minuto popolo si fa sollecitamente e con poco ostacolo, perchè egli è il potente che richiede ragione
dal debole; ma quando il tributo immediatamente cada di primo slancio sulla classe del debole, la
suddivisione si farà, ma con quella lentezza„ e con quegli ostacoli che debbon nascere quando il
debole, e povero cerca ragione dal ricco e potente. Questi intervalli fra l'impulso e la quiete sono le
crisi più importanti negli Stati; e sono ben da osservarsi in ogni cambiamento di tributo.
Il tempo che trascorre fra la imposizione del tributo e il conguaglio, è un tempo di guerra, e
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di rivoluzione. Quel che dico del tributo dicasi delle mutazioni nel valor numerario delle monete. In
questo intervallo di tempo fra l'impulso dato dal legislatore e l'equilibrio, quel ceto d'uomini
anticipatamente caricato del tributo soffre un peso maggiore delle ordinarie sue forze; quanto più
sarà debole e povera la classe a preferenza caricata, tanto più sarà da temere lo scoraggimento
dell'industria, o l'evasione degli abitanti. Il primo canone dunque per dirigere il tributo sarà: non
piombar mai immediatamente sulla classe de' poveri.
Si è pensato che ogni tributo termini finalmente in una capitazione, e fu questo principio si è
immaginato che la forma più semplice sia tassare egualmente ogni abitante. Il ragionamento che si
fa si è questo. Ogni uomo a misura che è facoltoso gode delle manifatture e dei servigj di un
maggior numero di poveri Cittadini, ai quali forza è che paghi non solamente il vitto corrispondente
al tempo che impiegarono per lui, ma altresì il tributo proporzionato a questo tempo medesimo che
da essi si è dovuto pagare. In conseguenza di ciò la capitazione si conguaglia da se medesima, e al
termine di ogni anno avrà pagato maggior tributo ogni uomo in ragione degli agj maggiori che ha
goduto, e il popolo che non possede sarà stato intieramente indennizzato. Ma questo discorso ha
contro di se il tempo del conguaglio, cioè lo spazio in cui debbe il povero far la guerra al ricco.
Aggiungasi a tutto ciò la ostiliche seco porta un simile tributo, e la odiosa servitù a cui degrada
l'uomo; poichè quando il tributo abbia per base o i fondi stabili, o le merci di un cittadino, il tributo
è un'azione che cade sulla cosa, e non sulla persona; laonde la pena di non aver pagato il tributo sarà
la perdita, tutto al più, del fondo o della merce: Ma quando il tributo cade sulla persona, l'uomo
medesimo, la sua libertà, la sua esistenza personale vengono ipotecate per il tributo, e la povertà e
l'impotenza vengono offese e oppresse da quelle leggi medesime che dovrebbero pure esser fatte per
sollevarle e difenderle. Ogni angolo più riposto dello Stato, ogni povera capanna debb'essere
visitata dai perlustratori; se la famiglia d'un povero contadino non ha la moneta del censo,
l'insensibile esattore la ridurrà all'esterminio; si vedranno i gabellieri a forza strappare le marre, i
vomeri, e una semplice virtuosa e povera famiglia resterà in totale rovina. Questa immagine deve
realizzarsi dovunque vi sia un tributo diviso per capitazione. Dovunque paghi l'uomo, e non il
possessore, ivi è violata radicalmente la libertà civile. Le idee morali della nazione saranno in
pericolo, perchè continui esempj della forza pubblica esercitata sopra gl'innocenti le distruggeranno.
L'industria viene corrosa nella sua radice, e la nazione non riceverà mai spinta ad accrescere l'annua
riproduzione, perchè fischia il flagello delle leggi terribilmente sul capo degli uomini riproduttori
avviliti e scoraggiti. A questi mali un altro se ne aggiugne, cioè la spesa della percezione di questo
tributo, per esigere il quale, sotto questa forma, conviene mantenere de' subalterni in tanto numero
da stendersi e visitare ogni anno ogni più riposta abitazione dello Stato.
Le spese della percezione del tributo sono di un mero aggravio allo Stato per due ragioni.
Una ragione si è perchè data la somma del tributo corrispondente ai bisogni dello Stato, dal
medesimo forza è che si paghi in oltre il dippiù che costano i gabellieri. L'altra si è perchè quanto
più s'accrescono i gabellieri di ogni genere, tanto si aumenta nello Stato una classe d'uomini, i quali
non essendo riproduttori, mediatori, ma semplici consumatori, e consumatori che non
possedon fondi, che non difendono lo Stato, sono perciò uomini puramente a carico. Il loro officio
naturalmente odioso, la loro abitudine di soffocare i principj di compassione, le insidie che talvolta
tessono per profittare di un vero o supposto contrabbando, rendono per lo più questa classe di
uomini da restringersi quanto è possibile. Il secondo canone adunque che debbe dirigere il tributo si
è: sceglier quella forma che importi le minori spese possibili nella percezione.
Il tributo ferisce immediatamente la classe del più minuto popolo non solamente in ogni
capitazione palese e manifesta, ma altresì in ogni capitazione tacita e occulta. Tale si è ogni tributo
imposto fu i generi di prima necessità, e molto più se qualche privativa se ne appropriasse il
Principe per venderli solo al popolo. In questi generi di prima necessità consumandone presso a
poco egual porzione tanto il facoltoso, quanto il povero, egli è manifesto che quanto ai suoi effetti
un simil tributo si riduce a capitazione.
Quelìa capitazione, tacita però, sebbene porti con se il contrasto fra il debole e il forte nel di
lei conguaglio, non è nella esecuzione tanto odiosa e ostile, quanto la vera capitazione, essendovi
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Tempre una sorta di spontaneità nel contribuente, ed essendo garanti verso l'erario non la nuda
esistenza dell'uomo, ma gl'indispensabili bisogni di lui.
Cade il tributo sulla classe de' Cittadini più deboli immediatamente quando venga
particolarmente imposto sulle vendite più minute -. In alcuni paesi è libero il contrattare in grosse
partite di alcune merci di uso pubblico, e non lo è il venderne in ritaglio per i giornalieri bisogni del
più minuto popolo senza pagare un separato tributo. Da ciò ne nasce che i più poveri e bisognosi
mancando sempre di un capitale per provvedersi ad un tratto della consumazione di qualche
settimana, debbono colle piccole compre di ogni giorno pagare talvolta la merce perfino il doppio di
quello che la pagano i più facoltosi. Ognuno facilmente sentirà quanto poco sia umana e giusta una
fatta maniera di distribuire il carico, e che tutti questi pesi, di primo slancio imposti a quella parte
di uomini che non possede, tendono a scoraggiare l'industria, e desolare la parte più operosa della
nazione, e conseguentemente essere tributi, che sarà sempre possibile ripartire altrimenti con utile
della nazione.
Ho detto di sopra che il secondo vizio nella ripartizione del tributo si è quando nella
percezione di esso vi sia abuso. Sarà un abuso nella percezione del tributo se nella classe degli
uomini desitnati alla finanza vi sarà o eccesso nel numero, o eccesso ne' salarj; poichè, come si
disse, questo peso ricaderà sulla nazione. Il problema che deve sciogliersi tutte le volte che si tratta
di tributo si è sempre questo. Come si possa fare che fra la somma totale pagata dal popolo, e la
somma totale entrata nell'erario vi sia la minore differenza possibile; lasciando alla nazione tutta
la possibile libertà.
Sarà un abuso nella percezione del tributo, e abuso massimo, quando vi sia luogo ad arbitrio,
e che i finanzieri possano esentar gli uni, aggravare gli altri a loro talento, e che il debole lontano,
sia nella alternativa o di sofrrire con pazienza una forza ingiustamente adoperata contro di lui,
ovvero intentare una lite contro un potente incaricato della riscossione dei tributi, che ha un facile
accesso ai tribunali. Tutte le volte che nella società possa più l'uomo che la legge, non si speri mai
industria. Questa non regna se non vi è sparsa generalmente sulla faccia della nazione la sicurezza
della persona, e dei beni: si vedrà mai l'industria dar vita ad un popolo se non sia fiancheggiata
dalla libertà civile, per cui dalla sacra autorità delle leggi tanta protezione riceva ogni membro della
società, che nessuno possa mai impunemente usurpargli del suo. Il terzo canone adunque del tributo
si è: ch'egli abbia per norma leggi chiare, precise, inviolabili da osservarsi imparzialmente verso di
qualunque contribuente.
Il terzo vizio nella ripartizione del tributo si è quando direttamente si opponga alla
circolazione, ovvero all'accrescimento dell'annua esportazione, e in una parola quando si opponga
di fronte a quella azione che è utile a promovere nello Stato per accrescere l'annua riproduzione.
Ogni tributo che sia imposto sul trasporto delle merci da luogo a luogo nello Stato fa l'effetto
medesimo, come si è di sopra accennato, come se si allontanasse fisicamente un luogo dall'altro:
conseguentemente tende a diminuire i contratti e la circolazione. Ogni tributo imposto sul passaggio
delle strade, e sul trasporto delle merci, come i pedaggi, i carichi sulle vetture, su i carri ec. è del
genere medesimo, e fa il medesimo effetto di diradare la nazione, e rendere le parti di essa più
isolate, e meno comunicanti. Questi mali, come ognun vede, risguardano la circolazione, ossia i
contratti interni dello Stato. Giova allontanare talora un compratore estero; talora un estero
venditore, e quest'effetto lo fanno i tributi sulle merci, di che si dial paragrafo XXXIV; ma non
giova mai anzi nuoce, l'allontanare l'uomo dall'uomo, il villaggio dal villaggio, il compratore
interno dal venditore interno, di che si trattò antecedentemente.
Impedirà la circolazione interna parimente ogni tributo che sia imposto su i contratti; poichè
sebbene immediatamente non impedisca il trasporto, rallenta però la rapida comunicazione dei
Cittadini, diminuisce il numero dei contratti, scema la circolazione, conseguentemente tende a
impicciolire l'annua riproduzione. Quarto canone adunque sarà; non collocare mai il tributo in
modo che direttamente accresca le spese del trasporto da luogo a luogo nello Stato, o s'interponga
mai fra il venditore e il compratore nell'interno dello Stato.
Se vorrà imporvisi tributo all'ingresso nello Stato delle materie prime, sulle quali si esercita
108
l'industria nazionale, ovvero sugli stromenti che si adoperano dall'industria per le manifatture,
l'annua riproduzione delle manifatture scemerà, come ognun vede: parimente se s'imponga tributo
nell'uscita dallo Stato sulle manifatture nazionali, vi sarà da temere che esse nella concorrenza
vengano posposte presso degli esteri per il prezzo troppo caro, ammeno che l'eccellenza delle
manifatture non sia giunta a segno da non aver concorrenti.
Se a misura che le terre vengono dall'industria accresciute di valore, a misura che
l'agricoltura si stende su' terreni in prima derelitti, a misura che un'artigiano accresce il numero de'
telaj, in una parola se a misura che l'uomo cerca di migliorar la sua sorte coll'attività dell'industria,
gli caderà proporzionatamente sul capo un sopraccarico di tassa sul tributo, questo tributo sarà
diametralmente opposto ai progressi dell'industria, e tenderà direttamente a impedire l'avanzamento
dell'annua riproduzione. Quinto canone adunque: non si debbe far mai che il tributo segua
immediatamente l'accrescimento dell'industria.
Non fa d'uopo ch'io ricordi come tutt'i tributi imposti sulle nozze sono dannosi, perchè sono
un ostacolo diretto contro la popolazione.
Si osservi inoltre che se il tributo si pagherà una o due volte l'anno, e o non si divida o si
divida in poche parti, ne accaderà che avvicinandosi il tempo di pagarlo si sottrarrà dalla
circolazione tutta ad un tratto una massa importante di denaro, anzi dov cominciarsi qualche
tempo anticipatamente a radunarla, e così con un moto forzato uscirà dalla carriera dei contratti una
quantità sensibile di merce universale, e si rallenterà l'attività del commercio. Per lo che in quanto
maggior numero di pagamenti più piccoli si potrà dividere il tributo, tanto più si conserverà
uniforme il moto della circolazione.
§. XXXI.
Aspetti diversi del Tributo
Ho accennato, secondo che mi sembra, qual sia la forma in cui ripartito il tributo sia di
nocumento alla nazione. Brevemente osserviamo sotto quai diversi aspetti si presenti il tributo al
popolo.
Alcuni sono tributi scoperti e tale è ogni pagamento che fa il Cittadino all'erario pubblico
senza riceverne alcuna cosa immediatamente in contraccambio. Tali sono i tributi che paga il
proprietario sulle sue terre, il mercante sulle sue merci, il padrone sulla sua casa, il viaggiatore sul
pedaggio, e l'uomo qualunque nella capitazione propriamente tale.
Altri sono tributi occulti. Di questa natura sono le vendite privative che ha il Sovrano o dei
Sale o del Tabacco, o d'altro qualunque genere, poichè l'uomo mentre paga il tributo fa l'acquisto di
una merce, e la quantità del tributo resta quasi amalgamata e occulta col prezzo naturale della merce
che compra. Di tal genere son pure tutt'i tributi che anticipò il mercante a nome del consumatore
all'introdurre le merci estere nello Stato, tributi che il compratore paga senza quasi avvedersene,
perchè frammischiati col prezzo della merce.
In due altri aspetti si sottodividono in faccia della nazione i tributi, e sono: altri forzosi, altri
spontanei. Forzosi son quei sulle terre, sulla capitazione propriamente tale, sulle case, ec. poichè
non è in libertà del Cittadino l'esentarsene quando ei voglia perseverare nel suo Stato. Spontanei poi
sono, o almeno appajono i tributi ai quali l'uomo si assoggetta per propria scelta, affine di procurarsi
un bene. Fra gli spontanei il primo di tutti si è il tributo delle Lotterie. Io non parlo di ogni sorta di
Lotterie indistintamente; molte ve ne sono di fondate sopra un'equa proporzione fra l'utile e
l'azzardo; altre si convertono in oggetti di pubblica utilità; ma alcune lotterie nascondono una tale
ingiustizia, che se questo genere di tributo non ci fosse trapassato per tradizione del secolo scorso,
tanta è l'umanità che presentemente regna in Europa, tanti progressi ha fatti la ragione universale,
tanto luminosamente si conosce la unione che passa fra gl'interessi pubblici, e la tutela del più
minuto popolo, ch'io ardisco credere che ne sarebbe rifiutato il progetto, se ora fosse per la prima
109
volta proposto. La venerabile autorità delle leggi destinate a far vegliare la giustizia de' contratti non
si vorrebbe degradata a segno di far insidioso invito ai creduli Cittadini per un contratto talmente
seducente e lesivo che sarebbe disciolto dalle leggi medesime qualora si facesse tra privato e privato
a molto minore disuguaglianza. Il più minuto popolo che non è ne può mai essere generalmente
profondo calcolatore viene deluso con gigantesche, e chimeriche speranze d'una difficilissima
fortuna, alla quale le più povere famiglie dello Stato sacrificano il letto, il vestito della moglie e de'
figli, riducendosi all'ultima miseria e disperazione. La superstizione, i sacrilegj, i furti, le
prostituzioni, e il mal costume di ogni genere viene promosso da questa classe di tributo spontaneo,
per cui all'uomo più virtuoso dello Stato, al padre del popolo, al legislatore si fece vestire talvolta il
carattere della seduzione. Lo ripeto, non parlo indistintamente di ogni lotteria, parlo soltanto di
quelle che adescano la pmisera plebe ad un contratto sproporzionatissimo, di cui la ingiustizia
farebbe stupore se la complicazione del calcolo e la nebbia da cui è attorniata l'intrinseca somma
sproporzione di quest'azzardo fosse facilmente penetrabile dai Magistrati. Dico adunque che questa
classe di tributo, sebbene volontario, verrebbe p innocuamente ripartita sulla nazione in altro
modo, e tanto più facilmente quanto che non è mai questo un ramo de' principali per l'erario.
§. XXXII.
Su qual classe d'uomini convenga distribuire il Tributo
Quale sarà dunque il modo con cui distribuire le pubbliche gravezze con minore nocumento
del popolo? Dai cinque canoni fissati disopra emana la soluzione di questo quesito. Quel tributo
sarà men nocivo allo Stato che immediatamente non percuoterà la classe dei poveri, quello di cui la
percezione sarà la meno dispendiosa, e meno soggetta all'arbitrio, quello che non accresca
immediatamente le spese dei trasporti interni, nè s'interponga fra il venditore ed il compratore, e che
non vada troppo da vicino accrescendo col crescere dell'industria.
Si è accennato più sopra che il tributo è sempre una legge che trova un niso negli uomini a
deluderla. Dunque sarà sempre più fermo, e sicuro il tributo quando percuoterà immediatamente un
numero minore di uomini. Due vantaggi vi saranno: un vantaggio di dover tener di vista un numero
minore di debitori. L'altro vantaggio sarà di avere minori spese nella percezione perchè le spese di
essa tanto sono minori quanto diminuisce il numero degl'immediati contribuenti.
Posto ciò, quale è la classe fra i membri dello Stato, che si può trascegliere più
innocuamente per ricevere immediatamente da essa il tributo? La classe dei Possessori. Chiamo
possessori coloro, i quali hanno in loro dominio e proprietà o fondi di terra, o case, o mercanzie, o
merce universale data a censo, o su i banchi pubblici, o particolari. Tutte queste quattro categorie di
possessori vorrebbe la giustizia che uniformemente a misura della loro proprietà portassero
immediatamente tutt'i pesi della nazione, perchè dalla società essi ritraggono non solamente la
protezione della proprietà personale comune a ciascun uomo, ma essi di più ritraggono la protezione
della proprietà reale; potendo dare cosa alcuna all'erario chi nessuna ricchezza possede, ogni
ragion vuole che l'erario riceva una parte dell'annua riproduzione dalle mani di quelli che soli la
possiedono.
Si è già veduto in prima qual sia la forza espansiva dei tributi, e come i possessori
cercherebbero a conguagliarsi, e a far concorrere anche i non possessori con un'opera più intensa, e
attiva, la quale è il solo fondo con cui i non possessori possono portare la lor parte del tributo. I
possessori inoltre sono la classe sola che possa fare l'anticipato disborso del tributo, perchè essi
unicamente ne hanno la forza, e altresì essi unicamente possono fare colla maggiore celerità il
conguaglio, e diramare a norma delle consumazioni di ciascuno i pesi pubblici.
Ho detto che la giustizia vorrebbe che uniformemente pagassero le quattro categorie dei
possessori indistintamente a misura della loro proprietà; ma spesse volte in politica vuole la
necessità che ci scostiamo dalla rigida precisione geometrica, e conviene allontanarsi dal gran
110
nemico del bene, l'ottimo apparente. Si tratta non già di evitare ogni inconveniente, nè ogni parziale
ingiustizia (che il tributo ne ha sempre porzione) si tratta di scegliere i minori inconvenienti e non
più.
I Possessori della merce universale accomodata o ai Cittadini, ovvero ne' banchi pubblici
come contribuirebbero al tributo? Su i banchi pubblici sarebbe di facile esecuzione; ma perchè
pagar loro un interesse, e poi diminuirlo? Sarebbe assai più semplice ribassar gli interessi nel modo
detto altrove. I censi fatti presso dei privati come potrebbero ridursi a catastro? Obbligheremo noi
ogni uomo a palesare i suoi debiti? Con ciò si diminuirebbe con una odiosissima legge tutta quella
parte non piccola di circolazione che fassi unicamente appoggiata alla opinione, conseguentemente
si rallenterebbe l'industria. Se vogliasi stare alle spontanee notificazioni, apparirà ben modico il
fondo censibile, e sarà punita l'ingenuità. Si ricorrerà a premiar delatori per iscoprire i censi non
palesati? la diffidenza, il sospetto si spargerà nel popolo, e il costume pubblico verrà corrotto nelle
midolla. Che catastro sarà mai questo dei prestiti? Variabile in ogni mese, in ogni giorno, e sempre
di una fluttuante quantità. Aggiungansi le spese del gran numero dei subordinati, necessarj a correr
dietro a questi volubili elementi, e tenerne registro, e troverassi che è men male la parziale
ingiustizia di lasciare esente questa categoria di possessori, e accollar la loro porzione ad altra
categoria, che ingolfarsi in questo caos di gravissimi disordini.
§. XXXIII.
Se convenga addossare tutti i carichi ai fondi di terra
Restano dunque censibili i fondi d'agricoltura, le case, e le merci. Non mancano in questi
ultimi tempi delle opere scritte profondamente sulla materia del tributo, nelle quali con assai
precisione si dostiene dover questo cadere interamente sopra le terre, e doversi i fondi d'agricoltura
considerare come i soli beni censibili dello Stato. Questa forma di ripartire il tributo è perfettamente
corrispondente ai cinque canoni stabiliti di sopra; poichè non caderebbe mai di slancio su i poveri;
sarebbe di pochissima spesa la percezione; avrebbe leggi inviolabili che escluderebbero ogni
arbitrio: non s'interporrebbe mai a interrompere la circolazione, punirebbe l'accrescimento
dell'industria, soltanto che le terre rese nuovamente a coltura si lasciassero per leggi esenti dal
tributo per un determinato numero di anni. Non si può dare maniera più semplice di questa. Una
stima generale di tutti i fondi dello Stato formerebbe il catastro sul quale ripartire il tributo. Ogni
anno si potrebbe sapere di quanta somma abbia bisogno l'erario pubblico, quante spese si debban
fare dallo Stato per mantenere le opere pubbliche, le strade, i ponti, gli argini ec. (spese le quali è
sempre bene ripartirle universalmente su tutta la società), quanto importerebbero le nuove opere da
farsi per render navigabili i canali, e i fiumi, veicoli dell'industria che avvicinano reciprocamente le
terre ec. Tutte queste spese territoriali unite a quelle stabili dell'erario formerebbero la somma da
imporsi fu tutti i fondi di terra registrati nel catastro, e così con un facile conteggio verrebbe
dichiarato quanto si debba pagare per ogni scudo di valor capitale de' fondi stabili. Ogni terra, ogni
distretto avrebbe il suo catastro provinciale colla quantità totale degli scudi a cui è valutato il suo
territorio, e colla specifica nomenclativa della quantità del valore ogni campo; onde con un
semplice editto ogni possessore saprebbe quando scada il tempo, e quanto debba pagare per il
tributo. Ogni terra avrebbe il proprio esattore obbligato a sborsare nella cassa della provincia nel
dato termine la data somma. L'esattore talvolta dovrebbe anticipare la somma a nome di qualche
possessore, contro del quale avrebbe l'ipoteca privilegiatissima dei fondi obbligati al tributo, e dal
quale dovrebbe percepire un frutto del denaro anticipato, fissato bensì dalla legge, ma più alto dei
correnti interessi. Le casse delle provincie disporrebbero poi del tributo o trasmettendolo alla
capitale, ovvero a misura degli ordini che ricevessero dalla camera.
Ma se tutto d'un colpo si abolissero le gabelle e si collocasse l'intero tributo sulle terre egli è
certo che con questa operazione si verrebbe a diminuire il valor capitale di tutti i fondi terrieri di
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tanto quanto ascende il capitale l'interesse di cui sia uguale al tributo nuovamente imposto. Se ad un
podere si accrescano di tributo perpetuo trentacinque lire annue quel podere al momento è diminuito
di prezzo mille lire per lo meno, giacchè gl'impieghi in fondi stabili si fanno a meno del 3 1/2 per
100. e il padrone del fondo se lo venderà riceverà mille lire di meno del suo podere. Quand'anche
collo scorrere di molti anni, mutando padrone i fondi, dovesse trovarsi la società in un felice
sistema, resterebbe da vedere se sia cosa poi tanto ragionevole il sacrificare totalmente il ben essere
della società vivente, e avente una odierna ragione di bene esistere alla ventura società di ignoti
successori. Io non lascerò di condannare la spensieratezza de' nostri antenati i quali con molte
cattive operazioni e con debiti pubblici hanno fatto cadere sulla generazione vigente la pena de' loro
abusi; ma l'altro estremo è vizioso del pari. Sin tanto che gli affari politici saranno maneggiati dagli
uomini, e che le opinioni vi avranno il loro giuoco non meno che i movimenti sconosciuti che noi
chiamiamo fortuna credo che sarà sempre un cattivo partito l'affrontare un male certo e sensibile per
ottenere un bene pubblico in un tempo rimoto che sarà sempre incerto, perchè entro un lungo spazio
di tempo accadono dei bisogni e delle circostanze affatto imprevedibili ad una nazione.
Ho detto al §. XXX. che il tributo si conguaglia sopra i consumatori: ma un tributo di slancio
imposto sopra i fondi di terra diventa una perpetua servitù passiva del fondo, e una diminuzione del
capitale, e una vera sterilità politica rispetto al proprietario attuale; il quale se vende il fondo non si
risarcirà del tributo giammai e lo avrà portato solo, se lo conserva non potrà giammai risarcirsi sulle
vendite de' frutti delle sue terre ammeno che non venisse intercetto l'ingresso nello Stato di simili
frutti; operazione ostile per tutto il popolo e che importerebbe le gabelle per custodia togliendo la
uniforme semplicità che si ricerca da chi così propone. Quindi a me pare che sarebbe ingiusta cosa
il collocare di slancio una parte sensibile di tributo sulle terre abolendo altri tributi perchè non è
giusto preferibilmente collocare i pesi pubblici a una sola classe in modo che ella non possa averne
conguaglio e perchè anche i possessori delle merci son possessori che ricevono dallo Stato una
egual protezione sulla lor proprietà reale, e in conseguenza debbono egualmente a proporzione della
ricchezza portar parte del peso della pubblica tutela. Se l'annua riproduzione è il vero fondo della
ricchezza nazionale, e se quest'annua riproduzione parte è formata dalle derrate e dai frutti della
terra, e parte dalle manifatture; sarà indifferente che l'uomo sia ricco perchè posseda le une piuttosto
che l'altre; e se la giustizia suggerisce di far che contribuiscano i possessori nel tributo a misura
della loro ricchezza, mi pare evidente che il possessore mercante debba portare una parte del peso
appunto come il possessore terriere.
Se vorrà darsi una esenzione totale al mercante, e appoggiare il carico totalmente sul
possessor terriere, resterà l'industria degli uomini rivolta più alle manifatture che non all'agricoltura,
e vi sarà pericolo che quest'ultima non risenta i mali del tributo; quando il di lui difetto è originato
dalla sproporzione colle forze dei contribuenti. potrà il terriere giammai conguagliare sulla
nazione il gravoso tributo impostogli, tosto che la nazione possa ricevere le derrate anche da estero
paese: essendo che qualora il terriere volesse risarcirsi vendendo a più caro prezzo il grano, il vino,
l'olio ec. il negoziante introdurrebbe da paesi esteri le medesime derrate, e forzerebbe il proprietario
terriere a ribassare. Si osservi in tal proposito che anzi se lo Stato confinasse con un paese fertile, e
in cui il tributo sulle terre fosse leggiero, tutte le derrate estere entrandovi senz'alcun tributo
verrebbero ad avere la preferenza, ammeno che il proprietario delle terre nazionali non ribassasse al
loro livello il prezzo delle derrate nazionali; e così il tributo nuovamente imposto sulle terre
ricaderebbe in una costante diminuzione di ricchezza del terriere sia nella rendita annua, sia nella
vendita che volesse fare dei fondi. In uno Stato estero e grande quest'inconveniente non si farà
sentire se non verso i confini; ma in una più ristretta società il danno passerà in ogni parte, e
penetrerà fino al centro.
Tutt'i tributi che si pagano dal contadino e nel vestito, e nel cibo, e nei contratti, e sotto
qualunque altra forma gli paghi, realmente gli paga il proprietario del fondo. Questo è evidente;
poichè dalla riproduzione annua, dei campi si debbono prededurre le spese della coltivazione, il
vitto del contadino, e ogni tributo pagato dal contadino; il restante sarà la porzione dominicale; e se
al contadino si toglierà ogni tributo, di altrettanto verrà a potersi dilatare la porzione dominicale.
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Dunque il tributo del contadino cade sul proprietario. Lo stesso dico del tributo che paga ogni
domestico salariato dal padrone dei fondi di terra, essendo che colui che non possede in questo
mondo altro che il suo salario, da questo cava di che pagare il tributo; onde di tanto potrebbe
sgravarsi il proprietario sulla porzione colonica di quanto fosse aggravata la dominicale; e di tanto
pure sgravarsi il padrone su i salarj de' domestici, di quanto essi fossero sollevati nella
consumazione; e il manifattore di tanto pure diminuire le mercedi della man d'opera di quant'essa
fosse sollevata. Sin tanto adunque che si aggraverà la parte dominicale del proprietario terriere di
tutto il tributo che pagavano i contadini, e i salariati; con queste operazioni si saranno ottenuti due
ottimi fini; cioè rendere più certa, e indefettibile la rendita per l'erario, e sollevare il proprietario
medesimo, gli agricoltori, e i salariati dall'arbitrio, e dalle maggiori spese della percezione
dell'antico tributo.
Ma in una nazione si considera che la quinta parte di essa vive nelle città, e sebbene quella
proporzione asserita da uno scrittore, che fu dei primi a meditare sopra alcuni di questi oggetti sia
stata contrastata da un filosofo Inglese, si troverà in pratica generalmente vera. Delle quattro quinte
parti della nazione che vivono fuori delle Città, ve n'è una porzione sensibile che non vive
d'agricoltura, ma bensì sulla negoziazione. La parte che vive nelle città non è certamente composta
tutta di possessori delle terre, e de' loro salariati. Vi è un ceto considerabile di Cittadini possessori di
merci, e molti salariati dipendenti da essi, e tutta la somma del tributo che attualmente pagano i
possessori delle merci e loro salariati sarebbe una somma di sopraccarico che caderebbe sulle terre
con troppo peso ai proprietarj, e con fisica e reale diminuzione della loro ricchezza.
Quando tutto il tributo fosse sulle terre egli è vero altresì che il proprietario per le
consumazioni proprie, come vitto, vestito, addobbi, livree, cavalli, e loro mantenimento ec.
riceverebbe un sollievo, poichè tanto meno dovrebbe spendere per questi oggetti, quanto era il
valore del tributo che portavano, delle spese della percezione di esso, e dell'arbitrio, a cui era
sottoposto. Ma questa utilità sarà ella paragonabile al sopraccarico che gli piomberebbe sulla parte
dominicale? Sarà bilanciata se le spese diminuite nella percezione saranno eguali al tributo che
pagavano tutt'i sudditi non possessori di terre, non salariati da essi, non contadini.
§. XXXIV.
Del Tributo sulle Merci
È da considerarsi oltre ciò che qualora si ripartissero tutt'i tributi su i fondi di terra si
perderebbe affatto il beneficio che lo Stato può ricevere da una tariffa ben fatta che regoli il tributo
sulle merci, all'ingresso, all'uscita. Il tributo sulle merci fa l'officio di allontanare la nazione
rivale, come le gratificazioni fanno l'officio di accostarci alle altre nazioni in quella parte, in cui
gl'interessi dell'annua riproduzione lo richiedono. Un tributo sulla uscita d'una materia prima può
essere un incentivo fortissimo ad accrescer l'annua riproduzione col ridurla a manifattura. Un tributo
sopra una manifattura estera può dar vigore a una consimile manifattura interna. Io non mi
estenderò su questi elementi chiaramente sviluppati da varj scrittori. La direzione che può darsi
providamente all'industria col mezzo della tariffa, l'accrescimento sensibile dell'annua riproduzione
che si può operare col tributo saggiamente imposto sulle merci, sono beni di tale importanza ch'io
credo che superino di gran lunga l'inconveniente delle spese della percezione.
Una ben regolata tariffa può essere utilissima adunque a proteggere l'industria nazionale, ed
a promuovere la riproduzione dello Stato: ma non perciò credo io che il tributo sulle merci possa
mai far concorrere le terre forestiere al tributo nazionale; poichè o trattasi di merci estere introdotte
nello Stato, e il tributo che loro s'imponga lo pagherà il consumatore nazionale siccome si è veduto:
ovvero trattasi di tributo imposto sull'uscita delle merci nostre, e questo pure si pagherà dal
consumatore estero bensì, ma non caderà mai sulle terre. Il terriere come terriere non paga mai
tributo, il tributo lo paga sempre, e infallibilmente il consumatore; egli è vero, che i consumatori
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sono alla fine quei che possedono, poichè pagano ai non possessori (de' quali consumano il tempo)
tutte le loro consumazioni subalterne; penon è in qualità di possessori che pagano il tributo, ma
bensì di consumatori. Se però vorrà farsi concorrere al tributo in tal modo il consumatore estero, le
nazioni rivali nella vendita potranno annientare la nostra esportazione offrendo le merci a minor
prezzo.
Credo giovevolissima allo Stato una tariffa saggiamente immaginata, e un tributo
giudiziosamente imposto sulle merci, ma non credo che sia utile giammai il proibire l'uscita
d'alcuna materia prima dallo Stato; sebbene credo utile l'imporre a quell'uscita un tributo. La
ragione di ciò si è già accennata altrove, perchè le leggi proibitive e vincolanti l'uscita avviliscono il
prezzo, perchè al bel principio sottraggono tutto il numero de' compratori esteri a fronte dei
venditori nazionali. Avvilito il prezzo se ne deve diminuire la coltura necessariamente, e la materia
prima caderà nelle mani di alcuni pochi monipolisti che non lasceranno godere alla nazione
nemmeno l'abbondanza di questa materia prima, di che ho parlato più sopra; laddove un tributo
cautamente impostovi fa l'effetto di allontanare il compratore estero bensì, ma non l'esclude, si
dà luogo a nascere il monipolio.
Per la tutela poi di questo tributo sulle merci è da osservarsi che quanto più le merci sono
voluminose e di valore, tanto più si può accrescere il tributo; e quanto meno ne è il volume o il
valore, tanto debb'essere più leggiero il tributo: e ciò perchè quanto è più facile la frode, e quanto
maggiore interesse vi è di farla, tanto più si fa; e la pena naturale del contrabbando si è la perdita
della merce fraudata.
La tariffa dovrebb'essere un semplice vocabolario succinto e portatile, dove per ordine
d'alfabeto si ritrovassero tutte le merci soggette a tributo, con di contro la quantità che per ciascuna
si deve pagare in due casi: quando entri, ovvero quando esca dallo Stato. I meri transiti dovrebbero
lasciarsi esenti, perchè questa esenzione sempre pinviterà il passaggio per lo stato e il denaro che
i condottieri vi lasceranno di gran lunga ricompenserà la poca perdita di quel tributo; perchè in
secondo luogo o il tributo di transito s'impone indistintamente a peso, ovvero distinguendo le
mercanzie in classi; se indistintamente si fa, dovrebbe pagare lo stesso tributo un centinajo di libbre
di seta e oro, e un centinajo di vasi di terra, sproporzione ingiustissima e che escluderebbe i transiti
più numerosi delle merci meno preziose; se si fa con distinzione, debbono dunque assoggettarsi alla
visita le cose che transitano, e il proprietario della merce non soffrirà che passi da uno Stato dove
colla presenza del solo condottiere debbe scomporsi e ricomporsi, con pericolo d'essere poi o
mancante o mal rassettata. Gl'inconvenienti e i pericoli d'imporre tributo ai transiti sono tali a mio
giudizio che non sono compensati dal poco utile che può recare quella tenue porzione di tributo; e la
libertà totale del passaggio è tanto ospitale, e conforme alla ragione e agl'interessi pubblici che non
mi pare possibile il provarvi un inconveniente.Alcune merci pagano ai misura, altre a peso, altre a
numero, altre a stima del valor capitale. La tariffa dovrebbe secondar l'uso della negoziazione e
tassare su quella misura sulla quale si fanno comunemente i contratti. A stima di valore si
dovrebbero tassare quelle merci che nella contrattazione, si pesano, si misurano; poiche in
quel genere di merci vi è somma differenza nel valor capitale anche fra due cose che avranno lo
stesso nome. Ogni trasporto interno dovrebbe poi essere libero pienamente, e il tributo dovrebbe
esser uniforme in ogni parte dello Stato sulla merce medesima. Così la totalità del tributo sarebbe
portata da tutti i fondi stabili, e da tutte le merci cadenti nel Commercio esterno; dal che verrebbero
i commercianti a sollevare in parte i pesi dell'agricoltura; si lascerebbero neutrali i possessori della
merce universale d'impiegarla in aumento dell'annua riproduzione, o nell'agricoltura, o nelle
manifatture; e si sarebbe posto il censo su tutt'i possessori censibili.
È stato propodo il quesito se qualora tutte le nazioni si accordassero ad abolire il tributo sulle
merci, cosicchè liberamente e senza verun carico ogni merce potesse entrare o uscire in uno Stato,
se, dico, questa operazione sarebbe universalmente giovevole, ovvero quali effetti produrrebbe. Se
questo accordo fra le potenze d'Europa fosse sperabile è molto facile il prevedere quali ne sarebbero
le conseguenze; cioè le medesime che nascono in uno Stato, togliendogli i tributi sulla interna
circolazione. Si accosterebbero le nazioni fra di loro; si moltiplieherebbero i contratti; l'industria
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generalmente e l'annua riproduzione si rianimerebbero per tutta l'Europa; gli uomini goderebbero di
comodi maggiori; ma la potenza degli stati cioè la relazione che ha uno stato coll'altro resterebbe la
medesima. Se fosse sperabile un accordo così fortunato (nel tempo in cui nemmen si è fatta una
convenzione per ridurre i pesi e le misure all'uniformità generale, il che pure non porterebbe
sacrificio alcuno o dispendio a farsi) nessun uomo vi sarebbe che volesse contraddire a una idea
tanto provida e umana, che tenderebbe ad accrescere il numero de' nostri simili, e ad aumentare gli
agj della vita sopra di ciascuno. Ma fin tanto che altri Stati impongono tributo sulle merci, e che si
sforzano di allontanare le nostre dal consumarsi entro i loro confini, necessivuole che noi pure
rendiamo ad essi pcare le materie prime che ricevono da noi, e in paragone nell'interno consumo
dello Stato aggraviamo di tributo le manifatture estere; cosicchè le nostre abbiano, sempre che si
può, la preferenza; che se ciò non si facesse da una nazione sola, dico, che quella soffrirebbe colla
massima energia i mali che posson cagionare i tributi sulle merci, e avrebbe rinunziato alla utilità
che se ne può risentire.
Riassumendo la Teoria del tributo io dirò che la esatta giustizia vorrebbe che il tributo
venisse ripartito sopra di ciascun possessore a misura di quanto possede, ma gl'inconvenienti che
altrimenti nascerebbero obbligano a escludere i meri possessori della merce universale. I soli
possessori adunque dei campi e delle merci vendibili sono i naturali anticipatori del tributo che si
paga finalmente dal consumatore. Collocato il tributo, in ogni altra parte sarà sempre di maggior
peso alla nazione.
§. XXXV.
Metodo per fare utili riforme del tributo
Poche sono le nazioni, nelle quali sia il tributo ridotto a questa semplicità di avere due sole
percezioni, una su i fondi stabili, l'altra sulle dogane. Come mai potrà un abile ministro di finanza
sciogliere quell'inviluppata rete di tanti tributi, e gabelle, e monipoli, che attraversano in ogni parte
uno Stato, e legano le azioni de' Cittadini? Il tributo, parte la più interessante ed irritabile del corpo
politico, non può mai essere scomposto con violenza, e con impeto. Gli antichi sistemi delle finanze
sono vecchie fabbriche formate gradatamente senza che una mente direttrice ne organizzasse il
disegno; sono crollanti edificj che si sostengono a forza di puntelli, e lo smoverli tutti ad un tratto
sarebbe lo stesso che cagionarne la rovina. Somma cautela vi vuole nello stendervi la mano, e
conviene procedervi gradatamente, e più con tentativi che con ardite operazioni portarvi rimedio.
Si vedono ancora gli avanzi de' metodi co' quali si distribuiva il tributo ne' secoli della
passata barbarie. La ignorata Geometria non permetteva allora di immaginare la mappa o il catastro
de' fondi di una intera Provincia; quindi o si teneva per base la popolazione di ciascuna terra, e su di
essa si distribuiva il censo, il quale colle guerre e colle pestilenze allora frequentissime in breve
rendeva sproporzionatissima la ripartizione del carico che pure si voleva considerare immobile;
ovvero si teneva per base la descrizione annua dei frutti raccolti, operazione dispendiosissima,
odiosissima, e che collocava nell'arbitrio de' commessi la tassazione. Questo secondo metodo è il
più antico, e forse più conforme alle piccole idee di esattissima proporzione sia le annue facoltà e i
pesi annui di ogni cittadino che non s'assoggettava a un costante peso sopra una incostante
ricchezza. I tributi poi sulle mercanzie erano piuttosto pedaggi in origine di un tanto per ogni carro,
o soma; indi si tassarono le merci colla proporzione di un tanto per cento del loro valore senz'alcuna
idea di favorire, o di scostare più una merce che l'altra. Crebbero i pubblici bisogni a misura che
s'incivilirono le società, e s'introdusse in Europa maggiore massa di merce universale; i piccoli Stati
furono incorporati, e diminuendosi il sistema feudale l'Europa rimase divisa in pezzi grandi, e le
guerre si fecero da armate numerose e stabilmente assoldate. I vizj de' due catastri de' fondi stabili e
della tariffa non permisero di aggiugnere sopra di essi i nuovi pesi; quindi una creazione perenne di
gabelle capricciosissime con mirabile fecondità s'immaginò ne' due secoli precedenti singolarmente,
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per modo che una quantidi azioni innocenti anzi talora utili venne interdetta, si crearono nuovi
delitti, si gettarono nel carcere i cittadini, nacque una nuova legislazione penale, una nuova lingua
di gabelle; tale è il prospetto che le provincie d'Europa presentano alla riforma.
Suppongo che un ministro voglia ridurre la finanza alla semplicità di non avere che questi
due soli tributi, dogane, e censo sulle terre. Qual sarà la strada per cui gradatamente potrà giugnere
con sicurezza all'adempimento d'un progetto tanto benaugurato? Primieramente sarà da proscriversi
il metodo di affittare la percezione del tributo singolarmente in masse grandi. Vi è già chi ha
osservato essere la Amministrazione Regia quella di un Padre che dirigge gl'interessi di sua
famiglia, ed oltre l'odio delle rapide fortune essere dannosi i grandi Appaltatori per le leggi che di
riverbero sforzano a promulgare. Io credo di più che un contratto frapposto che limita la
beneficenza del Sovrano e i bisogni del suo popolo sia direttamente nocivo ad ogni costituzione, e
che pericoloso per la virtù de' Magistrati sia un ammasso di ricchezze collocato presso di una
compagnia avente perenne bisogno. Prenderà di mira alcun tributo de' meno importanti, e de' più
odiosi che cadono sul contadino, e cominciando da quello lo abolirà, sostituendovi un proporzionato
sopraccarico alle terre. Poi prenderà qualche consimile tributo che si paghi dagli artigiani, o dalle
università de' mestieri, o dalla negoziazione, e con un calcolo ben pensato vi sostituirà un
accrescimento nella tariffa, o generalmente un tanto per cento, o particolarmente sopra alcuni capi
che sieno più atti a sopportare maggior tributo. Poscia alternativamente ritornando ai tributi indiretti
dell'agricoltura, quindi passando di nuovo alle merci gradatamente, anderà versando parte sulla
porzione dominicale del terriere, e parte sulla tariffa. Così temporeggiando potrà egli medesimo
veder gli effetti delle operazioni senza avventurare giammai la tranquillità pubblica, sulla quale
inavvedutamente talvolta si fanno degli esperimenti troppo importanti. L'umanità non consente che
s'impari l'anatomia sugli uomini vivi.
Preparerà utilmente la materia ad ogni salutare riforma il legislatore, se farà in modo che la
nazione s'illumini ne' suoi veri interessi, e ragioni sulla pubblica felicità. Una falsa politica regnò
nel passato secolo, e i popoli s'impoverirono, e gli Erarj divennero oberati dai debiti, e i sovrani
perdettero quella robustezza, e vigore che hanno riacquistata in tempi più felici. L'arte di reggere
una nazione allora si definì l'arte di tenere gli uomini ubbidienti. Le tenebre del mistero coprivano
tutti i pubblici affari. La popolazione, l'indole del Commercio le finanze d'uno Stato erano oggetti
dei quali alcuni finanzieri conoscevano le parti, nessuno osava o poteva rimirarli sotto un punto di
vista. La strada dei pubblici impieghi non era battuta se non colla diffidenza, e colla simulazione ai
fianchi. Il Cielo ci accorda un secolo ben diverso! I Governi d'Europa generalmente fanno a gara
per distruggere i mali ereditati da quella falsa politica. Si conosce, e si definisce l'arte di reggere un
popolo quella di rianimarlo alla prosperità. Le verità annunziate da alcuni uomini privilegiati si
sono generalmente sparse in Europa; sono queste salite al trono de' benefici Sovrani, si sono scossi
gl'ingegni, e coll'affritto reciproco si va diffondendo quest'elettricismo che rischiara gli oggetti
relativi alla pubblica felicità; materia degna certamente delle meditazioni nostre più ancora di quello
che lo sono le verità astratte, e i fenomeni della natura, e i fatti dell'antichità; confini troppo angusti,
entro de' quali si volle ristringere per lo passato l'impero della ragione.
Prova di quanto asserisco lo sono i libri pubblicati in questi ultimi tempi in ogni nazione, in
ogni lingua sull'economia pubblica, sul Commercio, sul governo civile, sul tributo; libri nei quali
con sicurezza, e con libertà gli autori hanno posto nelle mani del pubblico quegli arcani dei quali
sarebbe stato un attentato solamente il parlare in altri tempi. Si è discusso e ridotto a problema, se i
regolamenti e le leggi sopra alcuni oggetti pubblici sieno utili o no. Ognuno del popolo può
instruirsi, può pensare, può avere la sua opinione; nè agli autori è accaduto verun male, anzi molti di
essi furono rimeritati, e dalle loro opere giudicati degni de’ pubblici impieghi. L'abile ministro
adunque fomenterà nel pubblico la curiosità d'instruirsi negli oggetti di finanza e di economia; ne
fonderà delle cattedre, acciocchè nella instituzione della gioventù uomini illuminati le imprimano i
veri principj motori della felicità pubblica; lascerà libero l'ingresso alle opere che versano su di
queste utili materie: lascerà libera la stampa, col mezzo di cui ogni Cittadino possa decentemente e
costumatamente manifestare le sue opinioni su i pubblici oggetti. In tal guisa dibattendosi in un
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liberale conflitto le opinioni su questa classe di oggetti, facilmente se ne schiudono ottime idee, e
frammezzo ai sogni, e ai delirj germogliano talvolta dei semi utilissimi alla prosperità dello Stato.
Quanto più il pubblico sarà illuminato, tanto più sarà giusto estimatore delle beneficenze che
emanano dal trono; docile alla ragione, grato alla sovrana provvidenza, non s'ascolterà sussurare fra
un popolo colto quel maligno rumore, che fa impallidire talvolta il ministro appena stenda la mano
per rimediare ai vecchi mali d'una società. I Sully, e i Colbert, sappiam dalle storie, quanto abbian
dovuto lottare per molti anni.
Aggiungo a questo che quanto più il popolo sailluminato, tanto il sovrano sarà più sicuro
che i ministri operino il bene dello Stato; poichè i magistrati quand'anche per sentimento non
cercassero il ben pubblico, che è il bene del Principe, saranno tanto più costretti ad operare
utilmente quanto più avranno aperti gli occhi i cittadini, e saranno essi accorti e intelligenti
osservatori della loro condotta. Promovere adunque i lumi e la curiosità nelle materie di Finanza e
di Commercio sarà sempre la preparazione migliore di tutte per cominciar le riforme.
§ XXXVI.
Se il tributo per se medesimo sia utile, o dannoso
Rettificata che sia la distribuzione del tributo, e ridotta alla semplicità di due soli principj;
facilitata così la circolazione interna; reso libero il trasporto, sciolto ogni vincolo coercitivo
dell'industria; ridotti i Cittadini a vivere sotto leggi chiare, semplici, umane, inviolabili; dato un
libero corso alla buona fede, protetta con ogni vigilanza; non v'ha dubbio che la nazione si vedrà
progredire al bene. Ma potrà chiedersi se il tributo ben distribuito sia utile, o no all'industria
nazionale? Varj autori opinarono per il , appoggiandosi su questo principio. Il tributo impoverisce
gli uomini, dunque accresce i loro bisogni, dunque da loro una nuova spinta per essere industriosi.
A questo ragionamento, a me sembra che se ne possa contrapporre un altro, ed è il seguente. Il
tributo sottrae per qualche tempo alla circolazione una parte sensibile della merce universale;
dunque diminuirà la circolazione, e seco lei diminuirà l'industria: poichè diminuiti i mezzi di
procuracene l'adempimento, si freneranno le voglie, e diminuendosi queste scemeranno
immediatamente i contratti, siccome si è più volte detto, e scemandosi i contratti la circolazione per
quella cagione si rallenterà. Di più il tributo è una diminuzione dell'utile prodotto dalla industria;
dunque minore stimolo avranno gli uomini per essere industriosi. Riflettono alcuni che nelle città
più floride si pagano i più gravosi tributi, e quasi sembrano a questi attribuirne la prosperità, la
quale in vece è cagione si sopportino senza discapito i gravosi tributi. Se qualche volta su gli Stati
animati da una estesa industria una cattiva operazione non produrrà apparentemente mali effetti, ciò
avviene perchè le grandi masse, dove la materia sia ben compatta, riscaldate che sieno sono più
lente a perdere il calore. Quanto più è ristretto uno Stato, tanto egli è più facile il rianimarlo,
siccome il condurlo alla rovina. A misura che le masse d'uomini grandeggiano, maggior tempo e
spinta vi vogliono a dar loro moto sì al bene, come al male.
È seducente la pittura che può farsi a persuadere che il tributo sia un bene. Osserviamo
generalmente le nazioni della terra, vedremo i climi più dolci, i paesi più secondati dal sole esser
popolati da nazioni povere, mancanti d'attività e che appena conoscono industria; per lo contrario i
climi i più ingrati, se non restano deserti, sono abitati da nazioni ricche, e da popoli industriosissimi.
Vi fa bisogno di un freddo sommo perchè l'uomo inventi abitazioni deliziose, nelle quali si respiri
un'aria soavemente tepida nel maggior rigore dell'inverno. Vi fa bisogno del mare che sovrasti
minacciando di sommergere una nazione perchè ivi le terre diventino i più fecondi giardini del
mondo, ricchi di cose peregrine. Poni un popolo sopra di un sasso nudo e sterile, minacciato d'una
continua fame e lo vedrai diventare il più ricco e abbondante del contorno. La voce dispotica del
bisogno mette l'uomo nell'alternativa, o perire, o essere industrioso, e l'abitudine va sempre al di
dei bisogni, onde il lusso e la delizia regnano su quel suolo medesimo sul quale la natura vi aveva
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piantata la morte. I tributi fanno l'effetto della sterilità: poichè se un campo coltivato da dieci
uomini in un paese fecondo produrrà l'annuo frutto per nodrire trenta uomini, resteranno al
proprietario del fondo le porzioni di venti uomini ch'ei potrà salariare, e quella sarà la di lui rendita:
In un clima ingrato sopra un'estensione eguale di terreno, il lavoro di dieci uomini darà frutto per
mantenere venti uomini, ed ivi il proprietario non ricaverà se non di che mantenere dieci uomini.
Ma se nel terreno fecondo s'imponga un tributo per cui il proprietario della terra debba pagare la
metà della sua rendita, non resteranno più, se non dieci uomini anche a quel proprietario da poter
mantenere. L'effetto adunque del tributo sulle terre rispetto al possessore si è il medesimo di quello
dell'infecondità originaria sul suolo. Taluni dicono adunque se l'originaria infecondità spinge l'uomo
all'industria, l'effetto medesimo si otterrà coll'infecondità artificiale prodotta dal tributo.
Ma questa maniera di ragionare non regge, perchè manca di un dato. L'uomo vede più
facilmente i confini immutabili della fisica, che i variabili e fluttuanti delle opinioni di chi lo
governa. Una lunga sperienza venutagli per tradizione gli fa conoscere quali ostacoli fisici debba
superare per continuare a vivere fu quel terreno sterile sì, ma prediletto, perchè vi è nato; misura le
sue forze coll'ostacolo, sa che colla tale quantità di lavoro potrà superarlo, e godrà poscia con
sicurezza il frutto del suo travaglio. Ma quando la infecondità è artificiale, l'uomo vede un odiato
ostacolo, che può ingrandirsi a misura che si accresceranno i di lui sforzi per vincerlo. L'uomo si
avvilisce per il peso che gli viene imposto, diminuisce la confidenza verso chi regge il suo destino,
e si abbandona all'indolenza.
Io credo adunque che un tributo generalmente sia sempre una diminuzione d'industria,
eccettuato soltanto qualche tributo opportunamente imposto o sull'uscita, o sull'entrata di alcuna
merce; nel qual caso può essere di giovamento positivo all'industria. Per conoscere che il tributo è
generalmente una diminuzione d'industria ascendiamo a quei principj, dei quali si è accennato
altrove qualche cosa. Se in una nazione non si pagasse tributo, e vi fosse un'organizzazione di
governo necessaria a mantenere una società; qualora un'estera nazione fosse ingiusta verso di lei, o
minacciasse d'invaderla, bisognerebbe che una parte della nazione abbandonasse l'agricoltura, e i
mestieri, si ponesse in armi, e accorresse alla pubblica difesa frattanto che l'altra parte della nazione
resterebbe occupata nell'annua riproduzione, con cui mantenere e se stessa, e i suoi difensori. In
questa ipotesi non può dubitarsi che verrebbe scemata l'industria nazionale, e l'annua riproduzione
di tanto, quante sono le braccia che avessero abbandonata l'agricoltura, e i mestieri per la pubblica
difesa. In vece di ciò; in vece di togliere all'occasione del bisogno le braccia all'agricoltura, e ai
mestieri, si sono assoldati degli uomini i quali per lor professione si sacrificano unicamente alla
difesa dello Stato, e in vece, di trasmettere immediatamente parte delle derrate, e delle merci
necessarie al vitto de' difensori, i proprietarj di quelle e di queste le cambiano colla merce
universale, e la consegnano all'erario per alimentare i difensori. L'effetto sarà dunque il medesimo
in un caso come nell'altro; cioè che l'industria sarebbe assai maggiore, e sarebbe maggiore la
riproduzione annua se fosse eseguibile il chimerico progetto di abolir tutt'i carichi, siccome il più
stupido e il più crudele fra gli uomini che disonorasse il Trono di Augusto, osò proporre al Senato
di Roma.
Sempre sarà più innocuo il tributo quanto più celeramente passerà dalle mani del
contribuente all'erario, e da questo agli stipendiati, o alle opere pubbliche, poichè allora sebbene
siasi dato un moto forzoso a una parte della merce circolante, ella però ritornerà nella contrattazione
col minore intervallo possibile a moltiplicare i contratti e tanto più sarà innocuo il tributo quando si
distribuisca sul luogo medesimo che lo contribuisce, e quanto più si dividerà in molte mani uscendo
dall'erario.
§. XXXVII.
Dello spirito di Finanza, e di Economia Pubblica
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È una osservazione degna da farsi la seguente, che i principj che debbon muovere il Ministro
di Finanza sono in gran parte diversi dai principj che debbon muovere un Ministro di Economia
pubblica. Le leggi di Finanza se sono indirette sono pessime; le leggi di Economia pubblica per lo
contrario sono pessime se sono leggi dirette. Mi spiegherò. Se nella Finanza vorrà percepirsi un
tributo per legge indiretta: per esempio proibire a tutt'i Cittadini un'azione, non già perchè realmente
si voglia essa impedire, ma affine che comprino la dispensa per farla, (delle quali leggi in molti
paesi ve ne sono) dico che questo tributo indiretto costerà alla nazione assai più di quello che ne
ricava l'erario, e importerà molte volte la venalità, la corruzione, e una dispersione di tempo in
uffizj. Laonde se chiaramente e direttamente la legge di Finanza ordinasse il pagamento d'una
somma corrispondente sul fondo censibile, sarebbe assai più naturalmente, e placidamente collocato
il tributo. Si esaminino tutt'i casi in cui il tributo è indiretto, e troverassi che hanno ragione i molti
autori che trovano questa forma sempre viziosa. La finanza deve sempre andare di fronte, e con
semplicità a ricercare dai contribuenti il tributo. Ella si spinge direttamente al suo fine.
Ma l'Economia pubblica debbe andar sempre per le strade indirette. La Finanza ha per
oggetto legar meno che si può la nazione nel ripartimento del tributo. L'Economia pubblica ha per
oggetto di accrescere al maggior grado possibile l'annua riproduzione. Nella Finanza vi debb'essere
più impero e attività. Nell'Economia pubblica vi vuole più delicatezza, e più sagacità. Alcuni
esempj rappresenteranno con chiari contorni le mie idee. Suppongasi che si voglia accrescere la
popolazione dello Stato, dilatare la coltura su i terreni abbandonati, perfezionare i frutti del paese:
dico che queste provide idee rovinerebbero una nazione se fossero promosse con leggi dirette, e se
il legislatore invece d'invito, e di guida si servisse della forza, e del comando. Le leggi dirette
sarebbero, per esempio, proibire la evasione dello Stato, ed obbligare ogni Cittadino giunto ai 20.
anni ad ammogliarsi. Comandare alle comunità di mettere a coltura tutte le terre del loro distretto.
Comandare il metodo di preparare la seta, l'olio, il vino raccolti ne' proprj fondi. Gli effetti di queste
leggi dirette e vincolanti sarebbero la spopolazione, e la desolazione dello Stato. L'evasione
crescerebbe, perchè l'uomo ama meno lo stare dov'è costretto, che dove spontaneamente soggiorna;
sarebbero ripiene le carceri d'infelici Cittadini non d'altro rei che di non aver tradita una fanciulla
associandola alla loro miseria; sarebbero le comunità esposte alle esecuzioni militari per non aver
coltivata quella terra, per la quale mancavano le braccia; gli sgherri e la feccia degli uomini
romperebbero l'asilo delle domestiche mura per inquirere su metodi prescritti per le preparazioni. In
questa ebulizione interna la confusione, il disordine, l'avvilimento si spanderebbero in ogni parte, e
si rifugierebbero i popoli affannati presso i finitimi, cercando una nuova patria, ove tranquillamente
passar la vita, sicuri di goderla in pace, fintanto chè le loro mani saranno monde da ogni delitto.
Il provido Ministro di Economia pubblica indirettamente camminerà a questo fine, colle
preferenze ed onori renderà rispettabile lo stato conjugale; rianimel'industria col toglierle i ceppi,
collo spianarvi le strade, coll'assodare la proprietà, preziosissimo bene dell'uomo sociale, col
procurare agli abitanti un'intima persuasione della sicurezza propria, nel che solo consiste la libertà
civile; snoderà l'attività degli uomini, in una parola, per tutti que' mezzi che si sono veduti, e ne
verrà in conseguenza che la popolazione crescerà, si dilaterà la coltura, si perfezioneranno le arti
tutte.
§. XXXVIII.
Quale sia la prima spinta che porti rimedio ai disordini
Si è veduto quai siano i principj motori dell'industria, quali gl'inciampi che ne impediscono
lo sviluppamento. Si è in seguito osservato con qual metodo si potrà dai Ministri operare una
benefica riforma nello Stato. Resta finalmente ch'io aggiunga qualche cosa per indicare in qual
modo io creda che i sommi arbitrj del destino della società possano dare la spinta a una felice
rivoluzione. Se gli uomini sono esseri sovranamente dominati dalla abitudine, se gli antichi usi, e le
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leggi, e i costumi ereditati, e de' quali siamo imbevuti dall'infanzia formano la ragione della
maggior parte degli uomini: questo singolarmente poi si verifica nei tribunali, i quali come corpi
immortali lentissimamente removibili dalle opinioni seguitate, ottimi custodi di quelle leggi, e di
quel sistema dello Stato, da cui nasce l'ordine, difficilmente abbracciano alcuna novità. Ogni nuovo
individuo collocato a sedervi forza è che si spieghi alla comune maniera di sentire, e quanto più il
tribunale è venerabile agli occhi del pubblico, tanto più ogni individuo risentendo la gloria d'esservi
ascritto si renderà cara e propria la opinione di tutto il ceto. Non mai si è veduto che un ceto di più
uomini collegialmente radunati abbia potuto o eseguire, o tentare qualche riforma.
Un'unione di più uomini raccolti anche per una nuova adunanza difficilmente si creerà da se
medesima un comune principio universale, a cui tendano le sue opinioni. Ogni individuo, supposto
anche della più retta e imparziale intenzione, ha sempre i suoi privati punti di vista, dai quali rimira
l'oggetto; e siccome l'unione di più architetti collegialmente raccolti non produrrà mai una regolare,
ed uniforme bruttura di un disegno; così nemmeno io credo che un ceto di uomini a guisa di
tribunale possa mai organizzare un regolato sistema di riforma. Che se poi le passioni, le simultà, le
propensioni, le quali talvolta per umana debolezza entrano negli animi vengano a frammischiarvisi,
l'attività degli uomini impiegati si disperderà in tutt'altro che negli oggetti immediatamente destinati
al servizio del Sovrano, cioè al bene del pubblico, di che ne vediamo gli esempj nelle storie, e i fatti
domestici di molti Stati ne fanno testimonianza. Dovunque siasi fatta mutazione essenziale,
dovunque con qualche rapidità, e felice successo si saranno sradicati gli antichi disordini, si vedrà
che questa fu l'opera di un solo lottante contro molti privati interessi, i quali se a pluralità di voti si
dovessero singolarmente dibattere altro non cagionerebbero, che lunghe e amare defatigazioni.
Quindi a me sembra che se in tutte le cose, le quali hanno per oggetto l'esecuzione delle leggi già
fatte è utile, anzi indispensabile il farne dipendere la decisione dalla opinione di più uomini; per lo
contrario dove si tratta d'organizzare sistemi, e dirigere il corso a un determinato fine, sorpassando
le difficoltà che si frappongono, e che tutte non possono mai prevedersi, necessità vuole che
quest'impeto, e questa direzione dipenda da un sol principio motore; siccome la dittatura fu appunto
presso i Romani nelle cose ardue adoperata felicemente, e per lo contrario l'instituzione de'
Decemviri col disgraziato esito che sappiamo. Quando si tratta di decidere i casi particolari a norma
delle leggi già pubblicate, la diversità delle opinioni umane rende appunto difficile l'ingiustizia,
perchè l'una contempera l'altra; ma quando si tratta d'agire, e di una azione pronta, spedita, e sempre
uniforme ad un fine, io non credo potersi ciò far dipendere dalla pluralità di voti.
Convien dunque nell'Economia Politica, singolarmente quando si tratti di ridurla a
semplicità, riformando i vecchi abusi, convien, dico, creare un dispotismo che duri quanto basta ad
aver messo in moto regolarmente un provido sistema.
§. XXXIX.
Carattere d'un Ministro di Finanza
Considerare sempre gli uomini fatti per gl'impieghi, non mai gl'impieghi per gli uomini;
saper resistere a qualunque officiosità, non conoscere né familiari, clienti, amici; pesare i
servigj che può rendere il soggetto che si sceglie, non la persona che lo propone, avere ogni
particolare sentimento in disposizione di annientarsi tosto che s'ascolti la sacra voce del dovere;
conservare in mezzo a ciò un costume umano, e dolce che faccia al pubblico sempre più accetta la
forma di amministrare il tributo; amare sinceramente il buon esito della commissione senza rivalità,
e con una imparziale ricerca del vero, e dell'utile; sapersi internare ne' dettagli senza dimenticare i
tronchi maestri, e il tutto insieme; conoscere per intima persuasione i principj motori dell'industria;
avere analizzata la natura dell'uomo e della società: amare con uno spirito di vera filantropia il bene
degli uomini; conoscere esattamente le circostanze del paese sul quale deve operare: tali sarebbero i
talenti che formerebbero un perfetto uomo di Finanza; al quale potrebbe il Principe confidare una
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piena autorità necessaria per fare un buon sistema. Ma la natura non è prodiga de' suoi doni.
Quanto più sarà grande il numero degli uomini illuminati nella nazione, tanto maggiore sarà
la probabilità che il Sovrano ritrovi l'uomo che somigli al carattere che se ne è fatto. È inutile ch'io
soggiunga quanto sia necessario l'averlo ben definito, e provato prima di concedergli nelle mani
un'autorità così estesa, e tanta influenza sulla tranquillità del popolo. È inutile pure ch'io dica quanto
debba esser forte e costante la protezione sovrana verso dell'uomo trascelto, contro di cui in ogni
paese non mancheranno d'alzarsi reclami, e accuse. Tutto convien che vada nell'epoca della riforma
colla maggiore sollecitudine e attività, acciocchè quest'epoca sia più breve che si può, e termini
coll'avere organizzato un sistema regolare, placido, e niente arbitrario; e in quel momento felice
cessi il potere dell'uomo, e ricomincino a regnare le sole leggi. Poichè gli uomini muojono, ed i
sistemi restano; e convien scegliere gli uomini per gl'impieghi, come se tutto dovesse dipendere
dalla loro sola virtù, e organizzare i sistemi, come se nulla si dovesse contare sulla virtù degli
uomini prescelti; e come cessato il bisogno per cui s'era creato un Dittatore finchè Roma fu felice,
l'autorità di esso s'annientò; così pure cessata la necessità nello Stato, l'amministrazione delle
Finanze già rettificata, e resa semplice potrà confidarsi anche a un ceto di più uomini custodi di una
legge già fatta, e confacente agl'interessi della nazione.
§. XL.
Carattere d'un Ministro d'Economia
Ho detto quali debbon essere le qualità di un Ministro di Finanza. Da quanto ho toccato
appare altresì, quai talenti debba avere un Ministro di Economia. Egli debbe sopra ogni cosa essere
attivo nel distruggere, cautissimo nell'edificare. La maggior parte degli oggetti su i quali verte,
ricusano la mano dell'uomo. Rimuovere gli ostacoli; abolire i vincoli; spianar le strade alla
concorrenza animatrice della riproduzione; accrescere la libertà civile; lasciare un campo spazioso
all'industria; proteggere la classe de' riproduttori singolarmente con buone leggi, sicchè l'agricoltore
o l'artigiano non temano la prepotenza del ricco; assicurare un corso facile, pronto, e disinteressato
alla ragione de' contratti; dilatare la buona fede del Commercio col non lasciar mai impunita la
frode; combattere con tranquillità, e fermezza in favore della causa pubblica ben intesa: di quella
causa che è sempre la causa del Sovrano; non disperare mai dal bene, ma accelerarne l'evento
diffondendo nella nazione i germi delle più utili verità. Questi e non altri sono gli oggetti che
debbono occupare un abile Ministro di Economia Pubblica, il restante forz'è abbandonarlo al
principio immediato motore dell'universo che agisce con immutabili leggi, unisce e scompone gli
esseri, ma niente depreda, niente lascia inoperoso così nel fisico che nel politico; principio di cui
vediamo alcuni effetti, conosciamo l'esistenza, ammiriamo le leggi, e con un vago e non mai
definito vocabolo chiamiamo natura. Felice colui che nel suo cuore la serba, e ubbidiente alla voce
di questa figlia dell'Onnipossente ne calca il sentiero, e lo indica a chi l'ha smarrito! L'errore solo, le
Opinioni incatenano gli uomini e guidano le intere nazioni alla squallida sterilità.
FINE.
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INDICE DE' PARAGRAFI.
§. I. Quale sia il Commercio delle Nazioni che non conoscono il denaro.
§ II. Del denaro, e come accresca il Commercio.
§. III. Accrescimento e diminuzione della ricchezza d'uno Stato.
§. IV. Principi motori del Commercio, e analisi del prezzo.
§. V. Principj generali dell Economia.
§. VI. Viziosa distribuzione delle ricchezze.
§. VII. De' Corpi de' Mercanti e Artigiani.
§. VIII. Delle Leggi che vincolano l'uscita dallo Stato delle merci.
§. IX. Della libertà del Commercio de' Grani.
§. X. De' Privilegi esclusivi.
§. XI. Alcune sorgenti di errori nell'Economia Politica.
§. XII. Se convenga, tassar per legge i prezzi di alcuna merce.
§. XIII. Del valor del denaro, e influenza che ha sull'industria.
§. XIV. Degl'Interessi del denaro.
§ XV. Mezzi per fare che gl'Interessi del denaro si ribassino.
§. XVI. Dei Banchi pubblici.
§. XVII. Della Circolazione.
§. XVIII. Dei Metalli monetati.
§. XIX. Del Bilancio del Commercio.
§. XX. Del Cambio.
§. XXI. Della Popolazione.
§. XXII. Della locale distribuzione degli uomini.
§. XXIII. Errori che possono commettersi nel calcolo della popolazione.
§. XXIV. Divisione del popolo in classi.
§, XXV. Delle Colonie, e delle Conquiste.
§. XXVI. Come si animi l'Industria avvicinando l'uomo all'uomo.
§. XXVII. Dell'Agricoltura.
§. XXVIII. Errori che possono commettersi nel calcolare i progressi dell'agricoltura.
§. XXIX. Origine del Tributo.
§. XXX. Principj per regolare il Tributo.
§. XXXI. Aspetti diversi del Tributo.
§. XXXII. Su qual classe d'uomini convenga distribuire il Tributo.
§. XXXIII. Se convenga addossare tutt'i carichi ai fondi di terra.
§. XXXIV. Del Tributo sulle Merci.
§. XXXV. Metodo per fare utili riforme del tributo.
§. XXXVI. Se il tributo per sè medesimo sia utile, o dannoso.
§. XXXVII. Dello spirito di Finanza, e di Economia Pubblica.
§. XXXVIII. Quale sia la prima spinta che porti rimedio ai disordini.
§. XXXIX. Carattere d'un Mìnistro di Finanza.
§. XL. Carattere a un Mìnistro d'Economia.