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Lettera a Francesco Vettori
Machiavelli, Niccolò
TITOLO: Lettera a Francesco Vettori
AUTORE: Machiavelli, Niccolò
TRADUTTORE:
CURATORE: Bonfantini, Mario
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: 29: Opere / Niccolo Machiavelli
a cura di Mario Bonfantini;
fa parte di: La letteratura italiana;
R. Ricciardi Editore;
Milano ; Napoli, stampa 1954
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 31 agosto 2003
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Laura Cusimano
REVISIONE:
Giuseppe D'Emilio, [email protected]
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Magnifico oratori Florentino Francisco Vectori
apud Summum Pontificem et benefactori suo. Romae
(A Francesco Vettori, Magnifico ambasciatore fiorentino
presso il Sommo Pontefice, proprio benefattore. In Roma)
Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine. Dico questo, perché mi pareva
haver perduta no, ma smarrita la grazia vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi; ed ero
dubbio donde potessi nascere la cagione. E di tutte quelle mi venivono nella mente tenevo poco
conto, salvo che di quella quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi
suto scritto che io non fussi buon massaio delle vostre lettere; e io sapevo che, da Filippo e Pagolo
in fuora, altri per mio conto non le haveva viste. Hònne rihaùto per l'ultima vostra de' 23 del
passato, dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e quietamente voi esercitate
cotesto ufizio publico; e io vi conforto a seguire così, perché chi lascia i sua comodi per li comodi
d'altri, e perde e sua, e di quelli non li è saputo grado. E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si
vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, e aspettar tempo che la lasci fare qualche cosa
aglhuomini; e allhora starà bene a voi durare più fatica, vegliar più le cose, e a me partirmi di villa e
dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari grazie, dirvi in questa mia lettera altro che
qual sia la vita mia; e se voi giudicate che sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla.
Io mi sto in villa; e poi che seguirono quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad accozzarli tutti,
venti dí a Firenze. Ho insino a qui uccellato a' tordi di mia mano. Levavomi innanzi dí, impaniavo,
andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e' tornava dal porto con
i libri di Amphitrione; pigliavo el meno dua, el più sei tordi. E cosí stetti tutto settembre. Di poi
questo badalucco, ancoraché dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere: e quale la vita mia
vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole, e vòmmene in un mio bosco che io fo tagliare, dove sto
dua ore a rivedere l'opere del giorno passato, e a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno
sempre qualche sciagura alle mani o fra loro o co' vicini. E circa questo bosco io vi harei a dire
mille belle cose che mi sono intervenute, e con Frosino da Panzano e con altri che voleano di queste
legne. E Frosino in spezie mandò per certe cataste senza dirmi nulla; e al pagamento, mi voleva
rattenere dieci lire, che dice aveva havere da me quattro anni sono, che mi vinse a cricca in casa
Antonio Guicciardini. Io cominciai a fare el diavolo, volevo accusare el vetturale, che vi era ito per
esse, per ladro. Tandem Giovanni Machiavelli vi entrò di mezzo, e ci pose d'accordo. Batista
Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e certi altri cittadini, quando quella tramontana
soffiava, ognuno me ne prese una catasta. Io promessi a tutti; e manda'ne una a Tommaso, la quale
tornò a Firenze per metà, perché a rizzarla vi era lui, la moglie, la fante, i figlioli, che pareva el
Gaburra quando el giovedí con quelli suoi garzoni bastona un bue. Dimodoché, veduto in chi era
guadagno, ho detto agli altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso, e in specie
Batista, che connumera questa tra le altre sciagure di Prato.
Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto,
o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro
amorose passioni, e quelli loro amori ricordomi de' mia: gòdomi un pezzo in questo pensiero.
Transferiscomi poi in sulla strada, nell'hosteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove
de' paesi loro; intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d'huomini. Viene in questo
mentre l'hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa
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e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell'hosteria: quivi è l'hoste, per
l'ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto dí
giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole
iniuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San
Casciano. Cosí, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa malignità
di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella
veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito
condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto
amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e chio nacqui per lui; dove io non mi
vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità
mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non
temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso - io ho notato quello di
che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus; dove io
mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato,
di quale spezie sono, come e' si acquistono, come e' si mantengono, perché e' si perdono. E se vi
piacque mai alcuno mio ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un principe, e massime
a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto: però io lo indirizzo alla Magnificentia di Giuliano.
Filippo Casavecchia l'ha visto; vi potrà ragguagliare in parte e della cosa in sé e de' ragionamenti ho
hauto seco, ancora che tutta volta io l'ingrasso e ripulisco.
Voi vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita, e venissi a godere con voi la
vostra. Io lo farò in ogni modo; ma quello che mi tenta hora è certe mie faccende, che fra sei
settimane l'harò fatte. Quello che mi fa star dubbio è, che sono costí quelli Soderini, e quali sarei
forzato, venendo costí, visitarli e parlar loro. Dubiterei che alla tornata mia io non credessi
scavalcare a casa, e scavalcassi nel Bargiello; perché, ancora che questo stato habbia grandissimi
fondamenti e gran securità, tamen egli è nuovo, e per questo sospettoso; né manca di saccenti, che
per parere, come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, e lascierebbono el pensiero a me.
Pregovi mi solviate questa paura, e poi verrò in fra el tempo detto a trovarvi a ogni modo.
Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o non lo dare; e, sendo
ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi. Il non lo dare mi faceva
dubitare che da Giuliano e' non fussi, non che altro, letto; e che questo Ardinghelli si facessi onore
di questa ultima mia fatica. El darlo mi faceva la necessità che mi caccia, perché io mi logoro, e
lungo tempo non posso stare cosí che io non diventi per povertà contennendo. Appresso al desiderio
harei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi
voltolare un sasso; perché, se poi io non me gli guadagnassi, io mi dorrei di me; e per questa cosa,
quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni, che io sono stato a studio all'arte dello stato,
non gli ho né dormiti né giuocati; e doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi di uno che alle
spese di altri fussi pieno di esperienza. E della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché,
havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e
buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutare natura; e della fede e bontà mia ne è
testimonio la povertà mia. Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa
materia vi paia. E a voi mi raccomando. Sis felix.
Die 10 Decembris 1513.
NICCOLÒ MACHIAVEGLI in Firenze
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