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Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
Niccolò Machiavelli
TITOLO: Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
AUTORE: Niccolò Machiavelli
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: Tutte le Opere di Niccolò Machiavelli
A cura di Mario Martelli
Sansoni Editore, Firenze 1971
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 10 gennaio 1998
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Claudio Paganelli, [email protected]
REVISIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]
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<B>Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio</B>
<I>Niccolò Machiavelli</I>
<B>Niccolò Machiavelli </B>
<B>a Zanobi Buondelmonti </B>
<B>e Cosimo Rucellai </B>
<B>salute.</B>
Io vi mando uno presente, il quale, se non corrisponde agli obblighi che io ho con voi, è tale, sanza
dubbio, quale ha potuto Niccolò Machiavelli mandarvi maggiore. Perché in quello io ho espresso
quanto io so e quanto io ho imparato per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo.
E non potendo né voi né altri desiderare da me più, non vi potete dolere se io non vi ho donato più.
Bene vi può increscere della povertà dello ingegno mio, quando siano queste mie narrazioni povere;
e della fallacia del giudicio, quando io in molte parte, discorrendo, m'inganni. Il che essendo, non so
quale di noi si abbia ad essere meno obligato all'altro: o io a voi, che mi avete forzato a scrivere
quello che io mai per me medesimo non arei scritto; o voi a me, quando, scrivendo non vi abbi
sodisfatto. Pigliate, adunque, questo in quello modo che si pigliano tutte le cose degli amici; dove si
considera più sempre la intenzione di chi manda, che le qualità della cosa che è mandata. E crediate
che in questo io ho una sola satisfazione, quando io penso che, sebbene io mi fussi ingannato in
molte sue circunstanzie, in questa sola so ch'io non ho preso errore, di avere eletto voi, ai quali,
sopra ogni altri, questi mia Discorsi indirizzi: sì perché, faccendo questo, mi pare avere mostro
qualche gratitudine de' beneficii ricevuti: sì perché e' mi pare essere uscito fuora dell'uso comune di
coloro che scrivono, i quali sogliono sempre le loro opere a qualche principe indirizzare; e, accecati
dall'ambizione e dall'avarizia, laudano quello di tutte le virtuose qualitadi, quando da ogni
vituperevole parte doverrebbono biasimarlo. Onde io, per non incorrere in questo errore, ho eletti
non quelli che sono principi, ma quelli che, per le infinite buone parti loro, meriterebbono di essere;
non quelli che potrebbero di gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo,
vorrebbono farlo. Perché gli uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno a stimare quelli che
sono, non quelli che possono essere liberali, e così quelli che sanno, non quelli che, sanza sapere,
possono governare uno regno. E gli scrittori laudano più Ierone Siracusano quando egli era privato,
che Perse Macedone quando egli era re: perché a Ierone ad essere principe non mancava altro che il
principato; quell'altro non aveva parte alcuna di re, altro che il regno. Godetevi, pertanto, quel bene
o quel male che voi medesimi avete voluto: e se voi starete in questo errore, che queste mie
opinioni Vi siano grate, non mancherò di seguire il resto della istoria, secondo che nel principio vi
promissi. Valete.
<B>LIBRO PRIMO</B>
Ancora che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare
modi ed ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti a
biasimare che a laudare le azioni d'altri; nondimanco, spinto da quel naturale desiderio che fu
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sempre in me di operare, sanza alcuno respetto, quelle cose che io creda rechino comune benefizio a
ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita, se la
mi arrecherà fastidio e difficultà, mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante quelli che
umanamente di queste mie fatiche il fine considerassino. E se lo ingegno povero, la poca
esperienzia delle cose presenti e la debole notizia delle antique faranno questo mio conato difettivo
e di non molta utilità; daranno almeno la via ad alcuno che, con più virtù, più discorso e iudizio,
potrà a questa mia intenzione satisfare: il che, se non mi arrecherà laude, non mi doverebbe
partorire biasimo.
Considerando adunque quanto onore si attribuisca all'antiquità, e come molte volte, lasciando
andare infiniti altri esempli, un frammento d'una antiqua statua sia suto comperato gran prezzo, per
averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si
dilettono; e come quegli dipoi con ogni industria si sforzono in tutte le loro opere rappresentarlo; e
veggiendo, da l'altro canto, le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono state
operate da regni e republiche antique, dai re, capitani, cittadini, latori di leggi, ed altri che si sono
per la loro patria affaticati, essere più presto ammirate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno in ogni
minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno; non posso fare che
insieme non me ne maravigli e dolga. E tanto più, quanto io veggo nelle diferenzie che intra
cittadini civilmente nascano, o nelle malattie nelle quali li uomini incorrono, essersi sempre ricorso
a quelli iudizii o a quelli remedii che dagli antichi sono stati iudicati o ordinati: perché le leggi civili
non sono altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti, le quali, ridutte in ordine, a' presenti
nostri iureconsulti iudicare insegnano. Né ancora la medicina è altro che esperienze fatte dagli
antiqui medici, sopra le quali fondano e' medici presenti e' loro iudizii. Nondimanco, nello ordinare
le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e' regni, nello ordinare la milizia ed amministrare
la guerra, nel iudicare e' sudditi, nello accrescere l'imperio, non si truova principe né republica che
agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca non tanto da la debolezza nella quale la
presente religione ha condotto el mondo, o da quel male che ha fatto a molte provincie e città
cristiane uno ambizioso ozio, quanto dal non avere vera cognizione delle storie, per non trarne,
leggendole, quel senso né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infiniti
che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono,
sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come
se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza, da quello
che gli erono antiquamente. Volendo, pertanto, trarre li uomini di questo errore, ho giudicato
necessario scrivere, sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de' tempi non ci sono
stati intercetti, quello che io, secondo le cognizione delle antique e moderne cose, iudicherò essere
necessario per maggiore intelligenzia di essi, a ciò che coloro che leggeranno queste mia
declarazioni, possino più facilmente trarne quella utilità per la quale si debbe cercare la cognizione
delle istorie. E benché questa impresa sia difficile, nondimanco, aiutato da coloro che mi hanno, ad
entrare sotto questo peso, confortato, credo portarlo in modo, che ad un altro resterà breve cammino
a condurlo a loco destinato.
<B>1</B>
<I></I>
<B>Quali siano stati universalmente </B>
<B>i principii di qualunque città, </B>
<B>e quale fusse quello di Roma. </B>
Coloro che leggeranno quale principio fusse quello della città di Roma, e da quali latori di leggi e
come ordinato, non si maraviglieranno che tanta virtù si sia per più secoli mantenuta in quella città;
e che dipoi ne sia nato quello imperio al quale quella republica aggiunse. E volendo discorrere
prima il nascimento suo, dico che tutte le cittadi sono edificate o dagli uomini natii del luogo dove
le si edificano o dai forestieri. Il primo caso occorre quando agli abitatori dispersi in molte e piccole
parti non pare vivere securi, non potendo ciascuna per sé, e per il sito e per il piccolo numero,
resistere all'impeto di chi le assaltasse; e ad unirsi per loro difensione, venendo il nimico, non sono
a tempo; o quando fussono, converrebbe loro lasciare abbandonati molti de' loro ridotti; e così
verrebbero ad essere subita preda dei loro inimici: talmente che, per fuggire questi pericoli, mossi o
da loro medesimi, o da alcuno che sia infra loro di maggiore autorità, si ristringono ad abitare
insieme in luogo eletto da loro, più commodo a vivere e più facile a difendere.
Di queste, infra molte altre, sono state Atene e Vinegia. La prima, sotto l'autorità di Teseo, fu per
simili cagioni dagli abitatori dispersi edificata; l'altra, sendosi molti popoli ridotti in certe isolette
che erano nella punta del mare Adriatico, per fuggire quelle guerre che ogni dì, per lo avvenimento
di nuovi barbari, dopo la declinazione dello Imperio romano, nascevano in Italia, cominciarono
infra loro, sanza altro principe particulare che gli ordinasse, a vivere sotto quelle leggi che parevono
loro più atte a mantenerli. Il che successe loro felicemente per il lungo ozio che il sito dette loro,
non avendo quel mare uscita, e non avendo quelli popoli, che affliggevano Italia, navigli da poterli
infestare: talché ogni piccolo principio li poté fare venire a quella grandezza nella quale sono.
Il secondo caso, quando da genti forestiere è edificata una città, nasce o da uomini liberi o che
dependono da altri: come sono le colonie mandate o da una republica o da uno principe per
isgravare le loro terre d'abitatori, o per difesa di quel paese che, di nuovo acquistato, vogliono
sicuramente e sanza ispesa mantenersi; delle quali città il Popolo romano ne edificò assai, e per
tutto l'imperio suo: ovvero le sono edificate da uno principe, non per abitarvi, ma per sua gloria;
come la città di Alessandria, da Alessandro. E per non avere queste cittadi la loro origine libera,
rade volte occorre che le facciano processi grandi, e possinsi intra i capi dei regni numerare. Simile
a queste fu l'edificazione di Firenze, perché (o edificata da' soldati di Silla, o, a caso, dagli abitatori
dei monti di Fiesole, i quali, confidatisi in quella lunga pace che sotto Ottaviano nacque nel mondo,
si ridussero ad abitare nel piano sopra Arno) si edificò sotto l'imperio romano: né poté, ne' principii
suoi, fare altri augumenti che quelli che per cortesia del principe gli erano concessi.
Sono liberi gli edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli, o sotto uno principe o da per sé, sono
constretti, o per morbo o per fame o per guerra, a abbandonare il paese patrio, e crearsi nuova sede:
questi tali, o egli abitano le cittadi che e' truovono ne' paesi ch'egli acquistano, come fe' Moises; o e'
ne edificano di nuovo, come fe' Enea. In questo caso è dove si conosce la virtù dello edificatore, e la
fortuna dello edificato: la quale è più o meno maravigliosa, secondo che più o meno è virtuoso colui
che ne è stato principio. La virtù del quale si conosce in duo modi: il primo è nella elezione del sito;
l'altro nella ordinazione delle leggi. E perché gli uomini operono o per necessità o per elezione; e
perché si vede quivi essere maggior virtù dove la elezione ha meno autorità; è da considerare se
sarebbe meglio eleggere, per la edificazione delle cittadi, luoghi sterili, acciocché gli uomini,
constretti a industriarsi, meno occupati dall'ozio, vivessono più uniti avendo, per la povertà del sito,
minore cagione di discordie; come interviene in Raugia, e in molte altre cittadi in simili luoghi
edificate: la quale elezione sarebbe sanza dubbio più savia e più utile, quando gli uomini fossero
contenti a vivere del loro, e non volessono cercare di comandare altrui. Pertanto, non potendo gli
uomini assicurarsi se non con la potenza, è necessario fuggire questa sterilità del paese, e porsi in
luoghi fertilissimi; dove, potendo per la ubertà del sito ampliare, possa e difendersi da chi
l'assaltasse e opprimere qualunque alla grandezza sua si opponesse. E quanto a quell'ozio che le
arrecasse il sito, si debbe ordinare che a quelle necessità le leggi la costringhino, che il sito non la
costrignesse, ed imitare quelli che sono stati savi, ed hanno abitato in paesi amenissimi e
fertilissimi, e atti a produrre uomini oziosi ed inabili a ogni virtuoso esercizio, che, per ovviare a
quelli danni i quali l'amenità del paese, mediante l'ozio, arebbe causati, hanno posto una necessità di
esercizio a quelli che avevano a essere soldati; di qualità che, per tale ordine, vi sono diventati
migliori soldati che in quelli paesi i quali naturalmente sono stati aspri e sterili. Intra i quali fu il
regno degli Egizi, che, non ostante che il paese sia amenissimo, tanto potette quella necessità,
ordinata dalle leggi, che ne nacque uomini eccellentissimi; e se li nomi loro non fussono dalla
antichità spenti, si vedrebbe come ei meriterebbero più laude che Alessandro Magno, e molti altri
de' quali ancora è la memoria fresca. E chi avesse considerato il regno del Soldano, e l'ordine de'
Mammalucchi e di quella loro milizia, avanti che da Salì, Gran Turco, fusse stata spenta, arebbe
veduto in quello molti esercizi circa i soldati, ed averebbe, in fatto, conosciuto quanto essi
temevano quell'ozio a che la benignità del paese li poteva condurre, se non vi avessono con leggi
fortissime ovviato. Dico, adunque, essere più prudente elezione porsi in luogo fertile, quando quella
fertilità con le leggi infra i debiti termini si ristringa. Ad Alessandro Magno, volendo edificare una
città per sua gloria, venne Dinocrate architetto, e gli mostrò come e' la poteva edificare sopra il
monte Atho, il quale luogo, oltre allo essere forte, potrebbe ridursi in modo che a quella città si
darebbe forma umana; il che sarebbe cosa maravigliosa e rara, e degna della sua grandezza. E
domandandolo Alessandro di quello che quelli abitatori viverebbero, rispose non ci avere pensato:
di che quello si rise, e, lasciato stare quel monte, edificò Alessandria, dove gli abitatori avessero a
stare volentieri per la grassezza del paese, e per la commodità del mare e del Nilo. Chi esaminerà,
adunque, la edificazione di Roma, se si prenderà Enea per suo primo progenitore, sarà di quelle
cittadi edificate da' forestieri; se Romolo di quelle edificate dagli uomini natii del luogo; ed in
qualunque modo, la vedrà avere principio libero, sanza dependere da alcuno: vedrà ancora, come di
sotto si dirà, a quante necessitadi le leggi fatte da Romolo, Numa, e gli altri, la costringessono;
talmente che la fertilità del sito, la commodità del mare, le spesse vittorie, la grandezza dello
imperio, non la potero per molti secoli corrompere, e la mantennero piena di tanta virtù, di quanta
mai fusse alcun'altra città o republica ornata.
E perché le cose operate da lei, e che sono da Tito Livio celebrate, sono seguite o per publico o per
privato consiglio, o dentro o fuori della cittade; io comincerò a discorrere sopra quelle cose occorse
dentro e per consiglio publico, le quali degne di maggiore annotazione giudicherò, aggiungendovi
tutto quello che da loro dependessi; con i quali Discorsi questo primo libro, ovvero questa prima
parte, si terminerà.
<B>2</B>
<B>Di quante spezie sono le republiche, </B>
<B>e di quale fu la republica romana. </B>
Io voglio porre da parte il ragionare di quelle cittadi che hanno avuto il loro principio sottoposto a
altrui; e parlerò di quelle che hanno avuto il principio lontano da ogni servitù esterna, ma si sono
subito governate per loro arbitrio, o come republiche o come principato: le quali hanno avuto, come
diversi principii, diverse leggi ed ordini. Perché ad alcune, o nel principio d'esse, o dopo non molto
tempo, sono state date da uno solo le leggi, e ad un tratto; come quelle che furono date da Licurgo
agli Spartani: alcune le hanno avute a caso, ed in più volte e secondo li accidenti, come ebbe Roma.
Talché, felice si può chiamare quella republica, la quale sortisce uno uomo sì prudente, che gli dia
leggi ordinate in modo che, sanza avere bisogno di ricorreggerle, possa vivere sicuramente sotto
quelle. E si vede che Sparta le osservò più che ottocento anni sanza corromperle, o sanza alcuno
tumulto pericoloso: e, pel contrario, tiene qualche grado d'infelicità quella città, che, non si sendo
abbattuta a uno ordinatore prudente, è necessitata da sé medesima riordinarsi. E di queste ancora è
più infelice quella che è più discosto dall'ordine; e quella ne è più discosto che co' suoi ordini è al
tutto fuori del diritto cammino, che la possa condurre al perfetto e vero fine. Perché quelle che sono
in questo grado, è quasi impossibile che per qualunque accidente si rassettino: quelle altre che, se le
non hanno l'ordine perfetto, hanno preso il principio buono, e atto a diventare migliore, possono per
la occorrenzia degli accidenti diventare perfette. Ma fia bene vero questo, che mai si ordineranno
sanza pericolo; perché gli assai uomini non si accordano mai ad una legge nuova che riguardi uno
nuovo ordine nella città se non è mostro loro da una necessità che bisogni farlo; e non potendo
venire questa necessità sanza pericolo, è facil cosa che quella republica rovini, avanti che la si sia
condotta a una perfezione d'ordine. Di che ne fa fede appieno la republica di Firenze, la quale fu
dallo accidente d'Arezzo, nel dua, riordinata; e da quel di Prato, nel dodici, disordinata.
Volendo, adunque, discorrere quali furono li ordini della città di Roma, e quali accidenti alla sua
perfezione la condussero; dico come alcuni che hanno scritto delle republiche dicono essere in
quelle uno de' tre stati, chiamati da loro Principato, Ottimati, e Popolare, e come coloro che
ordinano una città, debbono volgersi ad uno di questi, secondo pare loro più a proposito. Alcuni
altri, e, secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni governi: delli
quali tre ne siano pessimi tre altri siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi, che
vengono ancora essi a essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono e' soprascritti tre: quelli che
sono rei, sono tre altri, i quali da questi tre dipendano; e ciascuno d'essi è in modo simile a quello
che gli è propinquo, che facilmente saltano dall'uno all'altro: perché il Principato facilmente diventa
tirannico; gli Ottimati con facilità diventano stato di pochi; il Popolare sanza difficultà in licenzioso
si converte. Talmente che, se uno ordinatore di republica ordina in una città uno di quelli tre stati,
ve lo ordina per poco tempo; perché nessuno rimedio può farvi, a fare che non sdruccioli nel suo
contrario, per la similitudine che ha in questo caso la virtute ed il vizio.
Nacquono queste variazioni de' governi a caso intra gli uomini: perché nel principio del mondo,
sendo gli abitatori radi, vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie; dipoi, moltiplicando la
generazione, si ragunarono insieme, e, per potersi meglio difendere, cominciarono a riguardare
infra loro quello che fusse più robusto e di maggiore cuore, e fecionlo come capo, e lo ubedivano.
Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle perniziose e ree: perché,
veggendo che se uno noceva al suo benificatore, ne veniva odio e compassione intra gli uomini,
biasimando gl'ingrati ed onorando quelli che fussero grati, e pensando ancora che quelle medesime
ingiurie potevano essere fatte a loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare
punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della giustizia. La quale cosa faceva che,
avendo dipoi a eleggere uno principe, non andavano dietro al più gagliardo, ma a quello che fusse
più prudente e più giusto. Ma come dipoi si cominciò a fare il principe per successione, e non per
elezione, subito cominciarono li eredi a degenerare dai loro antichi; e, lasciando l'opere virtuose,
pensavano che i principi non avessero a fare altro che superare gli altri di sontuosità e di lascivia e
d'ogni altra qualità di licenza: in modo che, cominciando il principe a essere odiato, e per tale odio a
temere, e passando tosto dal timore all'offese, ne nasceva presto una tirannide. Da questo nacquero,
appresso, i principii delle rovine, e delle conspirazioni e congiure contro a' principi; non fatte da
coloro che fussono o timidi o deboli, ma da coloro che, per generosità, grandezza d'animo,
ricchezza e nobilità, avanzavano gli altri; i quali non potevano sopportare la inonesta vita di quel
principe. La moltitudine, adunque, seguendo l'autorità di questi potenti, s'armava contro al principe,
e, quello spento, ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli, avendo in odio il nome d'uno solo
capo, constituivano di loro medesimi uno governo; e, nel principio, avendo rispetto alla passata
tirannide, si governavono secondo le leggi ordinate da loro, posponendo ogni loro commodo alla
commune utilità; e le cose private e le publiche con somma diligenzia governavano e conservavano.
Venuta dipoi questa amministrazione ai loro figliuoli, i quali non conoscendo la variazione della
fortuna, non avendo mai provato il male, e non volendo stare contenti alla civile equalità, ma
rivoltisi alla avarizia, alla ambizione, alla usurpazione delle donne, feciono che d'uno governo
d'ottimati diventassi uno governo di pochi, sanza avere rispetto ad alcuna civilità, talché, in breve
tempo, intervenne loro come al tiranno; perché, infastidita da' loro governi, la moltitudine si fe'
ministra di qualunque disegnassi in alcun modo offendere quelli governatori; e così si levò presto
alcuno che, con l'aiuto della moltitudine, li spense. Ed essendo ancora fresca la memoria del
principe e delle ingiurie ricevute da quello, avendo disfatto lo stato de' pochi e non volendo rifare
quel del principe, si volsero allo stato popolare; e quello ordinarono in modo, che né i pochi potenti,
né uno principe, vi avesse autorità alcuna. E perché tutti gli stati nel principio hanno qualche
riverenzia, si mantenne questo stato popolare un poco, ma non molto, massime spenta che fu quella
generazione che l'aveva ordinato; perché subito si venne alla licenza, dove non si temevano né gli
uomini privati né i publici; di qualità che, vivendo ciascuno a suo modo, si facevano ogni dì mille
ingiurie: talché, costretti per necessità, o per suggestione d'alcuno buono uomo, o per fuggire tale
licenza, si ritorna di nuovo al principato; e da quello, di grado in grado, si riviene verso la licenza,
ne' modi e per le cagioni dette. E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono
governate e si governano: ma rade volte ritornano ne' governi medesimi; perché quasi nessuna
republica può essere di tanta vita, che possa passare molte volte per queste mutazioni, e rimanere in
piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una republica, mancandole sempre consiglio e forze,
diventa suddita d'uno stato propinquo, che sia meglio ordinato di lei: ma, posto che questo non
fusse, sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi.
Dico, adunque, che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne' tre buoni, e per
la malignità che è ne' tre rei. Talché, avendo quelli che prudentemente ordinano leggi, conosciuto
questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per sé stesso, ne elessero uno che participasse di
tutti, giudicandolo più fermo e più stabile; perché l'uno guarda l'altro, sendo in una medesima città
il Principato, gli Ottimati, e il Governo Popolare.
Intra quelli che hanno per simili constituzioni meritato più laude, è Licurgo; il quale ordinò in modo
le sue leggi in Sparta, che, dando le parti sue ai Re, agli Ottimati e al Popolo, fece uno stato che
durò più che ottocento anni, con somma laude sua e quiete di quella città. Al contrario intervenne a
Solone, il quale ordinò le leggi in Atene; che, per ordinarvi solo lo stato popolare, lo fece di sì breve
vita, che, avanti morisse, vi vide nata la tirannide di Pisistrato; e benché, dipoi anni quaranta, ne
fussero gli eredi suoi cacciati, e ritornasse Atene in libertà, perché la riprese lo stato popolare,
secondo gli ordini di Solone, non lo tenne più che cento anni, ancora che per mantenerlo facessi
molte constituzioni, per le quali si reprimeva la insolenzia de' grandi e la licenza dell'universale, le
quali non furono da Solone considerate: nientedimeno, perché la non le mescolò con la potenza del
Principato e con quella degli Ottimati, visse Atene, a rispetto di Sparta, brevissimo tempo.
Ma vegnamo a Roma; la quale, nonostante che non avesse uno Licurgo che la ordinasse in modo,
nel principio, che la potesse vivere lungo tempo libera, nondimeno furo tanti gli accidenti che in
quella nacquero, per la disunione che era intra la Plebe ed il Senato, che quello che non aveva fatto
uno ordinatore, lo fece il caso. Perché, se Roma non sortì la prima fortuna, sortì la seconda; perché i
primi ordini suoi, se furono difettivi, nondimeno non deviarono dalla diritta via che li potesse
condurre alla perfezione. Perché Romolo e tutti gli altri re fecero molte e buone leggi, conformi
ancora al vivere libero: ma perché il fine loro fu fondare un regno e non una republica, quando
quella città rimase libera, vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della
libertà, le quali non erano state da quelli re ordinate. E avvengaché quelli suoi re perdessono
l'imperio, per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi subito
due Consoli che stessono nel luogo de' Re, vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà
regia: talché, essendo in quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a essere mista di due
qualità delle tre soprascritte, cioè di Principato e di Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo
popolare: onde, sendo diventata la Nobilità romana insolente per le cagioni che di sotto si diranno si
levò il Popolo contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la
sua parte e, dall'altra parte, il Senato e i Consoli restassono con tanta autorità, che potessono tenere
in quella republica il grado loro. E così nacque la creazione de' Tribuni della plebe, dopo la quale
creazione venne a essere più stabilito lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre qualità di
governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la fortuna, che, benché si passasse dal governo de' Re
e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle medesime cagioni che di sopra si
sono discorse, nondimeno non si tolse mai, per dare autorità agli Ottimati, tutta l'autorità alle qualità
regie; ne si diminuì l'autorità in tutto agli Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece
una republica perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del Senato, come
nei dua prossimi seguenti capitoli largamente si dimosterrà.
<B>3</B>
<B>Quali accidenti facessono creare in Roma </B>
<B>i Tribuni della Plebe, il che fece </B>
<B>la republica più perfetta. </B>
Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempli ogni
istoria, è necessario a chi dispone una republica, ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli
uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne
abbiano libera occasione; e quando alcuna malignità sta occulta un tempo, procede da una occulta
cagione, che, per non si essere veduta esperienza del contrario, non si conosce; ma la fa poi scoprire
il tempo, il quale dicono essere padre d'ogni verità.
Pareva che fusse in Roma intra la Plebe ed il Senato, cacciati i Tarquini, una unione grandissima; e
che i Nobili avessono diposto quella loro superbia, e fossero diventati d'animo popolare, e
sopportabili da qualunque ancora che infimo. Stette nascoso questo inganno, né se ne vide la
cagione, infino che i Tarquinii vissero; dei quali temendo la Nobilità, ed avendo paura che la Plebe
male trattata non si accostasse loro, si portava umanamente con quella: ma, come prima ei furono
morti i Tarquinii, e che ai Nobili fu la paura fuggita, cominciarono a sputare contro alla Plebe quel
veleno che si avevano tenuto nel petto, ed in tutti i modi che potevano la offendevano. La quale
cosa fa testimonianza a quello che di sopra ho detto che gli uomini non operono mai nulla bene, se
non per necessità; ma, dove la elezione abonda, e che vi si può usare licenza, si riempie subito ogni
cosa di confusione e di disordine. Però si dice che la fame e la povertà fa gli uomini industriosi, e le
leggi gli fanno buoni. E dove una cosa per sé medesima sanza la legge opera bene, non è necessaria
la legge; ma quando quella buona consuetudine manca, è subito la legge necessaria. Però mancati i
Tarquinii, che con la paura di loro tenevano la Nobilità a freno, convenne pensare a uno nuovo
ordine che facesse quel medesimo effetto che facevano i Tarquinii quando erano vivi. E però, dopo
molte confusioni, romori e pericoli di scandoli, che nacquero intra la Plebe e la Nobilità, si venne,
per sicurtà della Plebe, alla creazione de' Tribuni; e quelli ordinarono con tante preminenzie e tanta
riputazione, che poterono essere sempre di poi mezzi intra la Plebe e il Senato, e ovviare alla
insolenzia de' Nobili.
<B>4</B>
<B>Che la disunione della Plebe </B>
<B>e del Senato romano fece libera </B>
<B>e potente quella republica. </B>
Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in Roma dalla morte de'
Tarquinii alla creazione de' Tribuni; e di poi alcune cose contro la opinione di molti che dicono,
Roma essere stata una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione che, se la buona fortuna e
la virtù militare non avesse sopperito a' loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica. Io
non posso negare che la fortuna e la milizia non fossero cagioni dell'imperio romano; ma e' mi pare
bene, che costoro non si avegghino, che, dove è buona milizia, conviene che sia buono ordine, e
rade volte anco occorre che non vi sia buona fortuna. Ma vegnamo agli altri particulari di quella
città. Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle
cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a' romori ed alle grida
che di tali tumulti nascevano, che a' buoni effetti che quelli partorivano; e che e' non considerino
come e' sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de' grandi; e come
tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si
può vedere essere seguito in Roma; perché da' Tarquinii ai Gracchi, che furano più di trecento anni,
i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio e radissime sangue. Né si possano per tanto,
giudicare questi tomulti nocivi, né una republica divisa, che in tanto tempo per le sue differenzie
non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora ne
condannò in danari. Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove
siano tanti esempli di virtù; perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona
educazione, dalle buone leggi; e le buone leggi, da quelli tumulti che molti inconsideratamente
dannano: perché, chi esaminerà bene il fine d'essi, non troverrà ch'egli abbiano partorito alcuno
esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà.
E se alcuno dicessi: i modi erano straordinarii, e quasi efferati, vedere il popolo insieme gridare
contro al Senato, il Senato contro al Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le
botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma, le quali cose tutte spaventano, non che altro, chi le legge;
dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l'ambizione sua, e
massime quelle città che nelle cose importanti si vogliono valere del popolo: intra le quali, la città
di Roma aveva questo modo, che, quando il popolo voleva ottenere una legge, o e' faceva alcuna
delle predette cose, o e' non voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo
bisognava in qualche parte sodisfarli. E i desiderii de' popoli liberi rade volte sono perniziosi alla
libertà, perché e' nascono, o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi. E
quando queste opinioni fossero false e' vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da
bene, che, orando, dimostri loro come ei s'ingannano: e li popoli, come dice Tullio, benché siano
ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedano, quando da uomo degno di fede è detto loro
il vero.
Debbesi, adunque, più parcamente biasimare il governo romano; e considerare che tanti buoni
effetti, quanti uscivano di quella republica, non erano causati se non da ottime cagioni. E se i
tumulti furano cagione della creazione de' Tribuni, meritano somma laude, perché, oltre al dare la
parte sua all'amministrazione popolare, furano constituiti per guardia della libertà romana, come nel
seguente capitolo si mosterrà.
<B>5</B>
<B>Dove più sicuramente si ponga </B>
<B>la guardia della libertà, o nel Popolo </B>
<B>o ne' Grandi; e quali hanno maggiore </B>
<B>cagione di tumultuare, o chi vuole </B>
<B>acquistare o chi vuole mantenere. </B>
Quelli che prudentemente hanno constituita una republica, in tra le più necessarie cose ordinate da
loro è stato constituire una guardia alla libertà: e, secondo che questa è bene collocata, dura più o
meno quel vivere libero. E perché in ogni republica sono uomini grandi e popolari, si è dubitato
nelle mani di quali sia meglio collocata detta guardia. Ed appresso a' Lacedemonii, e, ne' nostri
tempi, appresso de' Viniziani, la è stata messa nelle mani de' Nobili; ma appresso de' Romani fu
messa nelle mani della Plebe.
Pertanto, è necessario esaminare quale di queste republiche avesse migliore elezione. E se si
andasse dietro alle ragioni ci è che dire da ogni parte; ma se si esaminasse il fine loro, si piglierebbe
la parte de' Nobili, per avere avuta la libertà di Sparta e di Vinegia più lunga vita che quella di
Roma. E venendo alle ragioni, dico, pigliando prima la parte de' Romani, come e' si debbe mettere
in guardia coloro d'una cosa, che hanno meno appetito di usurparla. E sanza dubbio, se si considerrà
il fine de' nobili e degli ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare, ed in questi solo
desiderio di non essere dominati; e, per conseguente, maggiore volontà di vivere liberi, potendo
meno sperare di usurparla che non possono i grandi: talché essendo i popolari preposti a guardia
d'una libertà, è ragionevole ne abbiano più cura; e non la potendo occupare loro, non permettino che
altri la occupi. Dall'altra parte, chi difende l'ordine spartano e veneto, dice che coloro che mettono
la guardia in mano di potenti fanno due opere buone: l'una, che ei satisfanno più all'ambizione loro,
ed avendo più parte nella republica, per avere questo bastone in mano, hanno cagione di contentarsi
più; l'altra, che lievono una qualità di autorità dagli animi inquieti della plebe, che è cagione
d'infinite dissensioni e scandoli in una republica, e atta a ridurre la Nobilità a qualche disperazione,
che col tempo faccia cattivi effetti. E ne dànno per esemplo la medesima Roma, che, per avere i
Tribuni della plebe questa autorità nelle mani, non bastò loro avere un Consolo plebeio, che gli
vollono avere ambedue. Da questo, ei vollono la Censura, il Pretore, e tutti gli altri gradi
dell'imperio della città: né bastò loro questo, ché, menati dal medesimo furore, cominciorono poi,
col tempo, a adorare quelli uomini che vedevano atti a battere la Nobilità; donde nacque la potenza
di Mario, e la rovina di Roma. E veramente, chi discorressi bene l'una cosa e l'altra, potrebbe stare
dubbio, quale da lui fusse eletto per guardia di tale libertà, non sappiendo quale umore di uomini sia
più nocivo in una republica, o quello che desidera mantenere l'onore già acquistato o quel che
desidera acquistare quello che non ha.
Ed in fine, chi sottilmente esaminerà tutto, ne farà questa conclusione: o tu ragioni d'una republica
che voglia fare uno imperio, come Roma; o d'una che le basti mantenersi. Nel primo caso, gli è
necessario fare ogni cosa come Roma; nel secondo, può imitare Vinegia e Sparta, per quelle cagioni
e come nel seguente capitolo si dirà.
Ma, per tornare a discorrere quali uomini siano in una republica più nocivi, o quelli che desiderano
d'acquistare, o quelli che temono di non perdere l'acquistato; dico che, sendo creato Marco Menenio
Dittatore, e Marco Fulvio Maestro de' cavagli, tutti a due plebei, per ricercare certe congiure che si
erano fatte in Capova contro a Roma, fu data ancora loro autorità dal popolo di potere ricercare chi
in Roma, per ambizione e modi straordinari, s'ingegnasse di venire al consolato, ed agli altri onori
della città. E parendo alla Nobilità, che tale autorità fusse data al Dittatore contro a lei, sparsono per
Roma, che non i nobili erano quelli che cercavano gli onori per ambizione e modi straordinari ma
gl'ignobili, i quali, non confidatisi nel sangue e nella virtù loro, cercavano, per vie straordinarie,
venire a quelli gradi, e particularmente accusavano il Dittatore. E tanto fu potente questa accusa che
Menenio, fatta una concione e dolutosi delle calunnie dategli da' Nobili, depose la dittatura, e
sottomessesi al giudizio che di lui fusse fatto dal Popolo, e dipoi, agitata la causa sua, ne fu
assoluto: dove si disputò assai, quale sia più ambizioso o quel che vuole mantenere o quel che vuole
acquistare; perché facilmente l'uno e l'altro appetito può essere cagione di tumulti grandissimi. Pur
nondimeno, il più delle volte sono causati da chi possiede, perché la paura del perdere genera in
loro le medesime voglie che sono in quelli che desiderano acquistare; perché non pare agli uomini
possedere sicuramente quello che l'uomo ha, se non si acquista di nuovo dell'altro. E di più vi è,
che, possedendo molto, possono con maggiore potenza e maggiore moto fare alterazione. Ed ancora
vi è di più, che gli loro scorretti e ambiziosi portamenti accendano, ne' petti di chi non possiede,
voglia di possedere, o per vendicarsi contro di loro spogliandoli, o per potere ancora loro entrare in
quelle ricchezze e in quelli onori che veggono essere male usati dagli altri.
<B>6</B>
<B>Se in Roma si poteva ordinare uno stato </B>
<B>che togliesse via le inimicizie </B>
<B>intra il Popolo ed il Senato. </B>
Noi abbiamo discorso, di sopra, gli effetti che facevano le controversie intra il Popolo ed il Senato.
Ora, sendo quelle seguitate infino al tempo de' Gracchi, dove furono cagione della rovina del vivere
libero, potrebbe alcuno desiderare che Roma avesse fatti gli effetti grandi che la fece, sanza che in
quella fussono tali inimicizie. Però mi è parso cosa degna di considerazione, vedere se in Roma si
poteva ordinare uno stato che togliesse via dette controversie. Ed a volere esaminare questo, è
necessario ricorrere a quelle republiche le quali sanza tante inimicizie e tumulti sono state
lungamente libere, e vedere quale stato era in loro, e se si poteva introdurre in Roma. In esemplo tra
gli antichi ci è Sparta, tra i moderni Vinegia, state da me di sopra nominate. Sparta fece uno Re, con
uno piccolo Senato, che la governasse; Vinegia non ha diviso il governo con i nomi, ma, sotto una
appellagione, tutti quelli che possono avere amministrazione si chiamano Gentiluomini. Il quale
modo lo dette il caso, più che la prudenza di chi dette loro le leggi: perché, sendosi ridotti in su
quegli scogli dove è ora quella città, per le cagioni dette di sopra, molti abitatori, come furano
cresciuti in tanto numero, che, a volere vivere insieme, bisognasse loro far leggi, ordinarono una
forma di governo; e convenendo spesso insieme ne' consigli, a diliberare della città, quando parve
loro essere tanti che fossero a sufficienza a uno vivere politico, chiusero la via a tutti quelli altri che
vi venissono ad abitare di nuovo, di potere convenire ne' loro governi; e, col tempo, trovandosi in
quello luogo assai abitatori fuori del governo, per dare riputazione a quelli che governavano, gli
chiamarono Gentiluomini, e gli altri Popolani. Potette questo modo nascere e mantenersi senza
tumulto, perché, quando e' nacque, qualunque allora abitava in Vinegia fu fatto del governo, di
modo che nessuno si poteva dolere; quelli che dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo stato fermo e
terminato, non avevano cagione né commodità di fare tumulto. La cagione non vi era, perché non
era stato loro tolto cosa alcuna; la commodità non vi era, perché chi reggeva li teneva in freno, e
non gli adoperava in cose dove e' potessono pigliare autorità. Oltre a di questo, quelli che dipoi
vennono ad abitare Vinegia non sono stati molti, e di tanto numero che vi sia disproporzione da chi
gli governa a loro che sono governati, perché il numero de' Gentiluomini o egli è equale al loro, o
egli è superiore: sicché, per queste cagione, Vinegia potette ordinare quello stato, e mantenerlo
unito.
Sparta, come ho detto, era governata da uno Re e da uno stretto Senato. Potette mantenersi così
lungo tempo, perché, essendo in Sparta pochi abitatori, ed avendo tolta la via a chi vi venisse ad
abitare, ed avendo preso le leggi di Licurgo con riputazione (le quali osservando, levavano via tutte
le cagioni de' tumulti) poterono vivere uniti lungo tempo. Perché Licurgo con le sue leggi fece in
Sparta più equalità di sustanze, e meno equalità di grado; perché quivi era una equale povertà, ed i
plebei erano manco ambiziosi, perché i gradi della città si distendevano in pochi cittadini ed erano
tenuti discosto dalla plebe, né gli nobili col trattargli male dettono mai loro desiderio di avergli.
Questo nacque dai Re spartani, i quali, essendo collocati in quel principato e posti in mezzo di
quella Nobilità, non avevano il maggiore rimedio a tenere ferma la loro dignità, che tenere la Plebe
difesa da ogni ingiuria: il che faceva che la Plebe non temeva e non desiderava imperio; e non
avendo imperio né temendo, era levata via la gara che la potesse avere con la Nobilità, e la cagione
de' tumulti; e poterono vivere uniti lungo tempo. Ma due cose principali causarono questa unione:
l'una essere pochi gli abitatori di Sparta, e per questo poterono essere governati da pochi; l'altra,
che, non accettando forestieri nella loro republica, non avevano occasione né di corrompersi né di
crescere in tanto che la fusse insopportabile a quelli pochi che la governavano.
Considerando adunque tutte queste cose, si vede come a' legislatori di Roma era necessario fare una
delle due cose a volere che Roma stesse quieta come le sopradette republiche: o non adoperare la
plebe in guerra, come i Viniziani; o non aprire la via a' forestieri, come gli Spartani. E loro feciono
l'una e l'altra; il che dette alla plebe forze ed augumento, ed infinite occasioni di tumultuare. Ma
venendo lo stato romano a essere più quieto, ne seguiva questo inconveniente, ch'egli era anche più
debile, perché e' gli si troncava la via di potere venire a quella grandezza dove ei pervenne: in modo
che, volendo Roma levare le cagioni de' tumulti, levava ancora le cagioni dello ampliare. Ed in tutte
le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene: che non si può mai cancellare uno
inconveniente, che non ne surga un altro. Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato
per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se
tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi
tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta. E però, in ogni nostra
diliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare quello per migliore
partito: perché tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai. Poteva dunque Roma, a
similitudine di Sparta, fare un principe a vita, fare uno Senato piccolo; ma non poteva, come lei,
non crescere il numero de' cittadini suoi, volendo fare un grande imperio: il che faceva che il Re a
vita ed il piccolo numero del Senato, quanto alla unione, gli sarebbe giovato poco.
Se alcuno volesse, per tanto, ordinare una republica di nuovo, arebbe a esaminare se volesse che
ampliasse, come Roma, di dominio e di potenza, ovvero che la stesse dentro a brevi termini. Nel
primo caso, è necessario ordinarla come Roma, e dare luogo a' tumulti e alle dissensioni universali,
il meglio che si può; perché, sanza gran numero di uomini, e bene armati, mai una republica potrà
crescere, o, se la crescerà, mantenersi. Nel secondo caso, la puoi ordinare come Sparta e come
Vinegia: ma perché l'ampliare è il veleno di simili republiche, debbe, in tutti quelli modi che si può,
chi le ordina proibire loro lo acquistare, perché tali acquisti fondati sopra una republica debole,
sono al tutto la rovina sua. Come intervenne a Sparta ed a Vinegia: delle quali la prima, avendosi
sottomessa quasi tutta la Grecia, mostrò in su uno minimo accidente il debile fondamento suo;
perché, seguita la ribellione di Tebe, causata da Pelopida, ribellandosi l'altre cittadi, rovinò al tutto
quella republica. Similmente Vinegia, avendo occupato gran parte d'Italia, e la maggiore parte non
con guerra ma con danari e con astuzia, come la ebbe a fare pruova delle forze sue, perdette in una
giornata ogni cosa. Crederrei bene, che a fare una republica che durasse lungo tempo, fusse il
modo, ordinarla dentro come Sparta o come Vinegia; porla in luogo forte, e di tale potenza che
nessuno credesse poterla subito opprimere; e, dall'altra parte, non fusse sì grande, che la fusse
formidabile a' vicini: e così potrebbe lungamente godersi il suo stato. Perché, per due cagioni si fa
guerra a una republica: l'una, per diventarne signore; l'altra, per paura ch'ella non ti occupi. Queste
due cagioni il sopraddetto modo quasi in tutto toglie via; perché, se la è difficile a espugnarsi, come
io la presuppongo, sendo bene ordinata alla difesa, rade volte accaderà, o non mai, che uno possa
fare disegno di acquistarla. Se la si starà intra i termini suoi, e veggasi, per esperienza, che in lei
non sia ambizione, non occorrerà mai che uno per paura di sé le faccia guerra: e tanto più sarebbe
questo, se e' fussi in lei constituzione o legge che le proibisse l'ampliare. E sanza dubbio credo, che,
potendosi tenere la cosa bilanciata in questo modo, che e' sarebbe il vero vivere politico e la vera
quiete d'una città. Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene
che le salghino o che le scendino; e a molte cose che la ragione non t'induce, t'induce la necessità:
talmente che, avendo ordinata una republica atta a mantenersi, non ampliando, e la necessità la
conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fondamenti suoi, ed a farla rovinare più tosto. Così,
dall'altra parte, quando il Cielo le fusse sì benigno che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe
che l'ozio la farebbe o effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o ciascuna per sé, sarebbono
cagione della sua rovina. Pertanto, non si potendo, come io credo, bilanciare questa cosa, né
mantenere questa via del mezzo a punto; bisogna, nello ordinare la republica, pensare alle parte più
onorevole; ed ordinarle in modo, che, quando pure la necessità le inducesse ad ampliare, elle
potessono, quello ch'elle avessono occupato, conservare. E, per tornare al primo ragionamento,
credo ch'e' sia necessario seguire l'ordine romano, e non quello dell'altre republiche; perché trovare
un modo, mezzo infra l'uno e l'altro, non credo si possa, e quelle inimicizie che intra il popolo ed il
senato nascessino, tollerarle, pigliandole per uno inconveniente necessario a pervenire alla romana
grandezza. Perché, oltre all'altre ragioni allegate, dove si dimostra l'autorità tribunizia essere stata
necessaria per la guardia della libertà, si può facilmente considerare il beneficio che fa nelle
republiche l'autorità dello accusare, la quale era, intra gli altri, commessa a' Tribuni; come nel
seguente capitolo si discorrerà.
<B>7</B>
<B>Quanto siano in una republica </B>
<B>necessarie le accuse a mantenerla </B>
<B>in libertade. </B>
A coloro che in una città sono preposti per guardia della sua libertà, non si può dare autorità più
utile e necessaria, quanto è quella di potere accusare i cittadini al popolo, o a qualunque magistrato
o consiglio, quando peccassono in alcuna cosa contro allo stato libero. Questo ordine fa dua effetti
utilissimi a una republica. Il primo è che i cittadini, per paura di non essere accusati, non tentano
cose contro allo stato; e tentandole, sono, incontinente e sanza rispetto, oppressi. L'altro è che si dà
onde sfogare a quegli omori che crescono nelle cittadi, in qualunque modo, contro a qualunque
cittadino: e quando questi omori non hanno onde sfogarsi ordinariamente, ricorrono a' modi
straordinari, che fanno rovinare tutta una republica. E però non è cosa che faccia tanto stabile e
ferma una republica, quanto ordinare quella in modo che l'alterazione di quegli omori che l'agitano,
abbia una via da sfogarsi ordinata dalle leggi. Il che si può per molti esempli dimostrare, e massime
per quello che adduce Tito Livio, di Coriolano, dove dice, che, essendo irritata contro alla Plebe la
Nobilità romana, per parerle che la Plebe avessi troppa autorità, mediante la creazione de' Tribuni
che la difendevano; ed essendo Roma, come avviene, venuta in penuria grande di vettovaglie, ed
avendo il Senato mandato per grani in Sicilia; Coriolano, inimico alla fazione popolare, consigliò
come egli era venuto il tempo da potere gastigare la Plebe, e torle quella autorità che ella si aveva in
pregiudicio della Nobilità presa; tenendola affamata, e non gli distribuendo il frumento: la quale
sentenzia sendo venuta agli orecchi del Popolo, venne in tanta indegnazione contro a Coriolano, che
allo uscire del Senato lo arebbero tumultuariamente morto, se gli Tribuni non lo avessero citato a
comparire, a difendere la causa sua. Sopra il quale accidente, si nota quello che di sopra si è detto,
quanto sia utile e necessario che le republiche con le leggi loro, diano onde sfogarsi all'ira che
concepe la universalità contro a uno cittadino: perché quando questi modi ordinari non vi siano, si
ricorre agli straordinari; e sanza dubbio questi fanno molto peggiori effetti che non fanno quelli.
Perché, se ordinariamente uno cittadino è oppresso, ancora che li fusse fatto torto, ne sé guita o poco
o nessuno disordine in la republica; perché la esecuzione si fa sanza forze private, e sanza forze
forestieri, che sono quelle che rovinano il vivere libero; ma si fa con forze ed ordini pubblici, che
hanno i termini loro particulari, né trascendono a cosa che rovini la republica. E quanto a
corroborare questa opinione con gli esempli, voglio che degli antiqui mi basti questo di Coriolano;
sopra il quale ciascuno consideri, quanto male saria risultato alla republica romana, se
tumultuariamente ei fusse stato morto: perché ne nasceva offesa da privati a privati, la quale offesa
genera paura; la paura cerca difesa; per la difesa si procacciano partigiani; da' partigiani nascono le
parti nelle cittadi, dalle parti la rovina di quelle. Ma sendosi governata la cosa mediante chi ne
aveva autorità si vennero a tor via tutti quelli mali che ne potevano nascere governandola con
autorità privata.
Noi avemo visto ne' nostri tempi quale novità ha fatto alla republica di Firenze non potere la
moltitudine sfogare l'animo suo ordinariamente contro a un suo cittadino, come accadde ne' tempi
che Francesco Valori era come principe della città; il quale sendo giudicato ambizioso da molti, e
uomo che volesse con la sua audacia e animosità transcendere il vivere civile; e non essendo nella
republica via a potergli resistere se non con una setta contraria alla sua; ne nacque che, non avendo
paura quello se non di modi straordinari, si cominciò a fare fautori che lo difendessono; dall'altra
parte, quelli che lo oppugnavano non avendo via ordinaria a reprimerlo, pensarono alle vie
straordinarie: intanto che si venne alle armi. E dove, quando per l'ordinario si fusse potuto
opporsegli, sarebbe la sua autorità spenta con suo danno solo; avendosi a spegnere per lo
straordinario, seguì con danno non solamente suo, ma di molti altri nobili cittadini. Potrebbesi
ancora allegare, in sostentamento della soprascritta conclusione, l'accidente seguito pur in Firenze
sopra Piero Soderini, il quale al tutto seguì per non essere in quella republica alcuno modo di
accuse contro alla ambizione de' potenti cittadini. Perché lo accusare uno potente a otto giudici in
una republica, non basta: bisogna che i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de'
pochi. Tanto che, se tali modi vi fussono stati, o i cittadini lo arebbero accusato, vivendo lui male; e
per tale mezzo, sanza far venire l'esercito spagnuolo, arebbono sfogato l'animo loro; o, non vivendo
male, non arebbono avuto ardire operargli contro, per paura di non essere accusati essi: e così
sarebbe da ogni parte cessato quello appetito che fu cagione di scandolo.
Tanto che si può conchiudere questo, che, qualunque volta si vede che le forze estranee siano
chiamate da una parte di uomini che vivono in una città, si può credere nasca da' cattivi ordini di
quella, per non essere, dentro a quel cerchio, ordine da potere, sanza modi istraordinari, sfogare i
maligni omori che nascono negli uomini: a che si provede al tutto con ordinarvi le accuse agli assai
giudici, e dare riputazione a quelle. I quali modi furono in Roma sì bene ordinati, che, in tante
dissensioni della Plebe e del Senato, mai o il Senato o la Plebe o alcuno particulare cittadino
disegnò valersi di forze esterne; perché, avendo il rimedio in casa, non erano necessitati andare per
quello fuori. E benché gli esempli soprascritti siano assai sufficienti a provarlo, nondimeno ne
voglio addurre un altro, recitato da Tito Livio nella sua istoria: il quale riferisce come, sendo stato
in Chiusi, città in quelli tempi nobilissima in Toscana, da uno Lucumone violata una sorella di
Arunte, e non potendo Arunte vendicarsi per la potenza del violatore, se n'andò a trovare i
Franciosi, che allora regnavano in quello luogo che oggi si chiama Lombardia; e quelli confortò a
venire con armata mano a Chiusi, mostrando loro come con loro utile lo potevano vendicare della
ingiuria ricevuta: che se Arunte avesse veduto potersi vendicare con i modi della città, non arebbe
cerco le forze barbare. Ma come queste accuse sono utili in una republica, così sono inutili e
dannose le calunnie, come nel capitolo seguente discorreremo.
<B>8</B>
<I></I>
<B>Quanto le accuse sono utili </B>
<B>alle republiche, tanto sono perniziose </B>
<B>le calunnie. </B>
Non ostante che la virtù di Furio Cammillo, poi ch'egli ebbe libera Roma dalla oppressione de'
Franciosi, avesse fatto che tutti i cittadini romani, sanza parere loro torsi riputazione o grado,
cedevano a quello; nondimanco Manlio Capitolino non poteva sopportare che gli fusse attribuito
tanto onore e tanta gloria; parendogli, quanto alla salute di Roma, per avere salvato il Campidoglio,
avere meritato quanto Cammillo; e, quanto all'altre belliche laude, non essere inferiore a lui. Di
modo che, carico d'invidia, non potendo quietarsi per la gloria di quello, e veggendo non potere
seminare discordia infra i Padri, si volse alla Plebe, seminando varie opinioni sinistre intra quella. E
intra le altre cose che diceva, era come il tesoro il quale si era adunato insieme per dare ai Franciosi,
e poi non dato loro, era stato usurpato da privati cittadini; e, quando si riavesse, si poteva
convertirlo in publica utilità, alleggerendo la Plebe da' tributi, o da qualche privato debito. Queste
parole poterono assai nella Plebe; talché cominciò a avere concorso, ed a fare a sua posta dimolti
tumulti nella città: la quale cosa dispiacendo al Senato, e parendogli di momento e pericolosa, creò
uno Dittatore, perché ci riconoscesse questo caso, e frenasse lo empito di Manlio. Onde è che subito
il Dittatore lo fece citare, e condussonsi in publico all'incontro l'uno dell'altro; il Dittatore in mezzo
de' Nobili, e Manlio nel mezzo della Plebe. Fu domandato Manlio che dovesse dire, appresso a chi
fusse questo tesoro ch'e' diceva, perché n'era così desideroso il Senato, d'intenderlo, come la Plebe:
a che Manlio non rispondeva particularmente; ma, andando sfuggendo, diceva come non era
necessario dire loro quello che si sapevano: tanto che il Dittatore lo fece mettere in carcere.
È da notare, per questo testo, quanto siano nelle città libere, ed in ogni altro modo di vivere,
detestabili le calunnie; e come, per reprimerle, si debba non perdonare a ordine alcuno che vi faccia
a proposito. Né può essere migliore ordine, a torle via, che aprire assai luoghi alle accuse; perché,
quanto le accuse giovano alle republiche, tanto le calunnie nuocono: e dall'una all'altra parte è
questa differenza, che le calunnie non hanno bisogno né di testimone né di alcuno altro particulare
riscontro a provarle, in modo che ciascuno e da ciascuno può essere calunniato; ma non può già
essere accusato, avendo le accuse bisogno di riscontri veri e di circunstanze che mostrino la verità
dell'accusa. Accusansi gli uomini a' magistrati, a' popoli, a' consigli; calunnionsi per le piazze e per
le logge. Usasi più questa calunnia dove si usa meno l'accusa, e dove le città sono meno ordinate a
riceverle. Però, un ordinatore d'una republica debbe ordinare che si possa in quella accusare ogni
cittadino, sanza alcuna paura o sanza alcuno rispetto; e fatto questo, e bene osservato, debbe punire
acremente i calunniatori: i quali non si possono dolere quando siano puniti, avendo i luoghi aperti a
udire le accuse di colui che gli avesse per le logge calunniato. E dove non è bene ordinata questa
parte, seguitano sempre disordini grandi: perché le calunnie irritano, e non castigano i cittadini; e
gli irritati pensano di valersi, odiando più presto, che temendo, le cose che si dicano contro a loro.
Questa parte, come è detto, era bene ordinata in Roma; ed è stata sempre male ordinata nella nostra
città di Firenze. E come a Roma questo ordine fece molto bene, a Firenze questo disordine fece
molto male. E chi legge le istorie di questa città, vedrà quante calunnie sono state in ogni tempo
date a' suoi cittadini, che si sono adoperati nelle cose importanti di quella. Dell'uno dicevano, ch'egli
aveva rubato i danari al Comune; dell'altro, che non aveva vinta una impresa per essere stato
corrotto; e che quell'altro per sua ambizione aveva fatto il tale ed il tale inconveniente. Di che ne
nasceva che da ogni parte ne surgeva odio: donde si veniva alla divisione, dalla divisione alle sètte,
dalle sètte alla rovina. Che se fusse stato in Firenze ordine d'accusare i cittadini, e punire i
calunniatori, non seguivano infiniti scandoli che sono seguiti; perché quelli cittadini, o condannati o
assoluti che fussono, non arebbono potuto nuocere alla città, e sarebbeno stati accusati meno assai
che non ne erano calunniati, non si potendo, come ho detto, accusare come calunniare ciascuno. Ed
intra l'altre cose di che si è valuto alcun cittadino per venire alla grandezza sua, sono state queste
calunnie: le quali venendo contro a cittadini potenti che all'appetito suo si opponevano, facevono
assai per quello; perché, pigliando la parte del Popolo, e confermandolo nella mala opinione ch'egli
aveva di loro, se lo fece amico. E benché se ne potessi addurre assai esempli, voglio essere contento
solo d'uno. Era lo esercito fiorentino a campo a Lucca, comandato da messer Giovanni
Guicciardini, commessario di quello. Vollono o i cattivi suoi governi o la cattiva sua fortuna che la
espugnazione di quella città non seguisse: pure, comunque il caso stesse, ne fu incolpato messer
Giovanni, dicendo com'egli era stato corrotto da' Lucchesi: la quale calunnia sendo favorita
dagl'inimici suoi, condusse messer Giovanni quasi in ultima disperazione. E benché, per
giustificarsi, e' si volessi mettere nelle mani del Capitano; nondimeno non si potette mai
giustificare, per non essere modi in quella republica da poterlo fare. Di che ne nacque assai sdegni
intra gli amici di messer Giovanni, che erano la maggior parte degli uomini grandi ed infra coloro
che desideravano fare novità in Firenze. La quale cosa, e per questa e per altre simili cagioni, tanto
crebbe che ne seguì la rovina di quella republica.
Era adunque Manlio Capitolino calunniatore, e non accusatore; ed i Romani mostrarono, in questo
caso appunto, come i calunniatori si debbono punire. Perché si debbe farli diventare accusatori; e
quando l'accusa si riscontri vera, o premiarli o non punirli: ma quando la non si riscontri vera,
punirli, come fu punito Manlio.
<B>9</B>
<B>Come egli è necessario essere solo </B>
<B>a volere ordinare una repubblica </B>
<B>di nuovo, o al tutto fuor degli antichi </B>
<B>suoi ordini riformarla. </B>
Ei parrà forse ad alcuno, che io sia troppo trascorso dentro nella istoria romana, non avendo fatto
alcuna menzione ancora degli ordinatori di quella republica, né di quelli ordini che alla religione o
alla milizia riguardassero. E però, non volendo tenere più sospesi gli animi di coloro che sopra
questa parte volessono intendere alcune cose; dico come molti per avventura giudicheranno di
cattivo esemplo, che uno fondatore d'un vivere civile, quale fu Romolo, abbia prima morto un suo
fratello, dipoi consentito alla morte di Tito Tazio Sabino, eletto da lui compagno nel regno;
giudicando, per questo, che gli suoi cittadini potessono con l'autorità del loro principe, per
ambizione e desiderio di comandare, offendere quelli che alla loro autorità si opponessero. La quale
opinione sarebbe vera, quando non si considerasse che fine lo avesse indotto a fare tal omicidio.
E debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado occorre che alcuna republica o
regno sia, da principio, ordinato bene, o al tutto di nuovo, fuora degli ordini vecchi, riformato, se
non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo sia quello che dia il modo, e dalla cui mente
dependa qualunque simile ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d'una republica, e che abbia
questo animo, di volere giovare non a sé ma al bene comune, non alla sua propria successione ma
alla comune patria, debbe ingegnarsi di avere l'autorità, solo; né mai uno ingegno savio riprenderà
alcuno di alcuna azione straordinaria, che, per ordinare un regno o constituire una republica, usasse.
Conviene bene, che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di
Romolo, sempre lo scuserà: perché colui che è violento per guastare, non quello che è per
racconciare, si debbe riprendere. Debbi bene in tanto essere prudente e virtuoso, che quella autorità
che si ha presa non la lasci ereditaria a un altro: perché, sendo gli uomini più proni al male che al
bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente quello che virtuosamente da lui fusse stato
usato. Oltre a di questo, se uno è atto a ordinare, non è la cosa ordinata per durare molto, quando la
rimanga sopra le spalle d'uno; ma sì bene, quando la rimane alla cura di molti e che a molti stia il
mantenerla. Perché, così come molti non sono atti a ordinare una cosa, per non conoscere il bene di
quella, causato dalle diverse opinioni che sono fra loro; così, conosciuto che lo hanno, non si
accordano a lasciarlo. E che Romolo fusse di quelli che nella morte del fratello e del compagno
meritasse scusa, e che quello che fece, fusse per il bene comune, e non per ambizione propria, lo
dimostra lo avere quello, subito ordinato uno Senato, con il quale si consigliasse, e secondo la
opinione del quale deliberasse. E chi considerrà bene l'autorità che Romolo si riserbò, vedrà non se
ne essere riserbata alcun'altra che comandare agli eserciti quando si era deliberata la guerra e di
ragunare il Senato. Il che si vide poi, quando Roma divenne libera per la cacciata de' Tarquini, dove
da' Romani non fu innovato alcun ordine dello antico, se non che, in luogo d'uno Re perpetuo,
fossero due Consoli annuali; il che testifica, tutti gli ordini primi di quella città essere stati più
conformi a uno vivere civile e libero, che a uno assoluto e tirannico.
Potrebbesi dare in sostentamento delle cose soprascritte infiniti esempli; come Moises, Licurgo,
Solone, ed altri fondatori di regni e di republiche, e' quali poterono, per aversi attribuito un'autorità,
formare leggi a proposito del bene comune: ma li voglio lasciare indietro, come cosa nota.
Addurronne solamente uno, non sì celebre, ma da considerarsi per coloro che desiderassono essere
di buone leggi ordinatori: il quale è, che, desiderando Agide re di Sparta ridurre gli Spartani intra
quelli termini che le leggi di Licurgo gli avevano rinchiusi, parendogli che, per esserne in parte
deviati, la sua città avesse perduto assai di quella antica virtù, e, per consequente, di forze e
d'imperio, fu, ne' suoi primi principii, ammazzato dagli Efori spartani, come uomo che volesse
occupare la tirannide. Ma succedendo dopo di lui nel regno Cleomene, e nascendogli il medesimo
desiderio per gli ricordi e scritti ch'egli aveva trovati d'Agide, dove si vedeva quale era la mente ed
intenzione sua, conobbe non potere fare questo bene alla sua patria se non diventava solo di
autorità; parendogli, per l'ambizione degli uomini, non potere fare utile a molti contro alla voglia di
pochi: e presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti gli Efori, e qualunque altro gli potesse
contrastare; dipoi rinnovò in tutto le leggi di Licurgo. La quale diliberazione era atta a fare
risuscitare Sparta, e dare a Cleomene quella riputazione che ebbe Licurgo, se non fusse stata la
potenza de' Macedoni, e la debolezza delle altre republiche greche. Perché, essendo, dopo tale
ordine, assaltato da' Macedoni, e trovandosi per sé stesso inferiore di forze, e non avendo a chi
rifuggire, fu vinto; e restò quel suo disegno, quantunque giusto e laudabile, imperfetto.
Considerato adunque tutte queste cose, conchiudo, come a ordinare una republica è necessario
essere solo; e Romolo, per la morte di Remo e di Tito Tazio, meritare iscusa e non biasimo.
<B>10</B>
<B>Quanto sono laudabili i fondatori </B>
<B>d'una republica o d'uno regno, </B>
<B>tanto quelli d'una tirannide </B>
<B>sono vituperabili. </B>
Intra tutti gli uomini laudati sono i laudatissimi quelli che sono stati capi e ordinatori delle religioni.
Appresso, dipoi, quelli che hanno fondato o republiche o regni. Dopo a costoro, sono celebri quelli
che, preposti agli eserciti, hanno ampliato o il regno loro o quello della patria. A questi si
aggiungono gli uomini litterati. E perché questi sono di più ragioni, sono celebrati, ciascuno d'essi,
secondo il grado suo. A qualunque altro uomo, il numero de' quali è infinito, si attribuisce qualche
parte di laude, la quale gli arreca l'arte e lo esercizio suo. Sono pel contrario, infami e detestabili gli
uomini distruttori delle religioni, dissipatori de' regni e delle republiche, inimici delle virtù, delle
lettere, e d'ogni altra arte che arrechi utilità e onore alla umana generazione; come sono gl'impii, i
violenti, gl'ignoranti, i dappochi, gli oziosi, i vili. E nessuno sarà mai sì pazzo o sì savio, sì tristo o
sì buono, che, prepostagli la elezione delle due qualità d'uomini, non laudi quella che è da laudare, e
biasimi quella che è da biasimare: nientedimeno, dipoi, quasi tutti, ingannati da uno falso bene e da
una falsa gloria, si lasciono andare, o voluntariamente o ignorantemente, nei gradi di coloro che
meritano più biasimo che laude; e potendo fare, con perpetuo loro onore, o una republica o uno
regno, si volgono alla tirannide: né si avveggono per questo partito quanta fama, quanta gloria,
quanto onore, sicurtà, quiete, con sodisfazione d'animo, ei fuggono; e in quanta infamia, vituperio,
biasimo, pericolo e inquietudine, incorrono.
Ed è impossibile che quelli che in stato privato vivono in una republica, o che per fortuna o per
virtù ne diventono principi, se leggessono le istorie, e delle memorie delle antiche cose facessono
capitale, che non volessero quelli tali privati vivere nella loro patria più tosto Scipioni che Cesari; e
quelli che sono principi, più tosto Agesilai, Timoleoni, Dioni, che Nabidi, Falari e Dionisii: perché
vedrebbono questi essere sommamente vituperati, e quelli eccessivamente laudati. Vedrebbero
ancora come Timoleone e gli altri non ebbono nella patria loro meno autorità che si avessono
Dionisio e Falari, ma vedrebbono di lunga avervi avuta più sicurtà. Né sia alcuno che s'inganni, per
la gloria di Cesare, sentendolo, massime, celebrare dagli scrittori: perché quegli che lo laudano,
sono corrotti dalla fortuna sua, e spauriti dalla lunghezza dello imperio, il quale, reggendosi sotto
quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassono liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere
quello che gli scrittori liberi ne direbbono, vegga quello che dicono di Catilina. E tanto è più
biasimevole Cesare, quanto più è da biasimare quello che ha fatto, che quello che ha voluto fare un
male. Vegga ancora con quante laude ei celebrano Bruto; talché, non potendo biasimare quello, per
la sua potenza, ei celebravano il nimico suo.
Consideri ancora quello che è diventato principe in una republica, quanta laude, poiché Roma fu
diventata Imperio, meritarono più quelli imperadori che vissero sotto le leggi e come principi buoni,
che quelli che vissero al contrario: e vedrà come a Tito Nerva, Traiano, Adriano, Antonino e
Marco, non erano necessari i soldati pretoriani né la moltitudine delle legioni a difenderli, perché i
costumi loro, la benivolenza del Popolo, l'amore del Senato, gli difendeva. Vedrà ancora come a
Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti altri scelerati imperadori, non bastarono gli eserciti orientali ed
occidentali a salvarli contro a quelli inimici che li loro rei costumi, la loro malvagia vita, aveva loro
generati. E se la istoria di costoro fusse bene considerata, sarebbe assai ammaestramento a
qualunque principe, a mostrargli la via della gloria o del biasimo, e della sicurtà o del timore suo.
Perché, di ventisei imperadori che furono da Cesare a Massimino, sedici ne furono ammazzati, dieci
morirono ordinariamente e se di quelli che furono morti ne fu alcun buono come Galba e Pertinace,
fu morto da quella corruzione che lo antecessore suo aveva lasciata nei soldati. E se tra quelli che
morirono ordinariamente ve ne fu alcuno scelerato, come Severo, nacque da una sua grandissima
fortuna e virtù; le quali due cose pochi uomini accompagnano. Vedrà ancora, per la lezione di
questa istoria, come si può ordinare un regno buono: perché tutti gl'imperadori che succederono
all'imperio per eredità, eccetto Tito, furono cattivi, quelli che per adozione, furono tutti buoni come
furono quei cinque da Nerva a Marco: e come l'imperio cadde negli eredi, e' ritornò nella sua
rovina.
Pongasi, adunque, innanzi un principe i tempi da Nerva a Marco, e conferiscagli con quelli che
erano stati prima e che furono poi; e dipoi elegga in quali volesse essere nato, o a quali volesse
essere preposto. Perché, in quelli governati da' buoni, vedrà un principe sicuro in mezzo de' suoi
sicuri cittadini, ripieno di pace e di giustizia il mondo; vedrà il Senato con la sua autorità, i
magistrati co' suoi onori; godersi i cittadini ricchi le loro ricchezze, la nobilità e la virtù esaltata;
vedrà ogni quiete ed ogni bene; e, dall'altra parte, ogni rancore, ogni licenza, corruzione e
ambizione spenta; vedrà i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e difendere quella opinione che
vuole. Vedrà, in fine, trionfare il mondo; pieno di riverenza e di gloria il principe, d'amore e sicurtà
i popoli. Se considererà, dipoi, tritamente i tempi degli altri imperadori, gli vedrà atroci per le
guerre, discordi per le sedizioni, nella pace e nella guerra crudeli: tanti principi morti col ferro,
tante guerre civili, tante esterne; l'Italia afflitta, e piena di nuovi infortunii; rovinate e saccheggiate
le cittadi di quella. Vedrà Roma arsa, il Campidoglio da' suoi cittadini disfatto, desolati gli antichi
templi, corrotte le cerimonie, ripiene le città di adulterii: vedrà il mare pieno di esilii, gli scogli
pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire innumerabili crudeltadi e la nobilità, le ricchezze, i passati
onori, e sopra tutto la virtù, essere imputate a peccato capitale. Vedrà premiare gli calunniatori,
essere corrotti i servi contro al signore, i liberti contro al padrone; e quelli a chi fussero mancati
inimici, essere oppressi dagli amici. E conoscerà allora benissimo quanti oblighi Roma, l'Italia, e il
mondo, abbia con Cesare.
E sanza dubbio, se e' sarà nato d'uomo, si sbigottirà da ogni imitazione de' tempi cattivi, ed
accenderassi d'uno immenso desiderio di seguire i buoni. E veramente, cercando un principe la
gloria del mondo, doverrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto
come Cesare, ma per riordinarla come Romolo. E veramente i cieli non possono dare agli uomini
maggiore occasione di gloria, né gli uomini la possono maggiore desiderare. E se, a volere ordinare
bene una città, si avesse di necessità a diporre il principato, meriterebbe, quello che non la ordinasse
per non cadere di quel grado, qualche scusa: ma potendosi tenere il principato ed ordinarla, non si
merita scusa alcuna. E, in somma, considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come ei sono
loro preposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte li rende gloriosi; l'altra li fa
vivere in continove angustie, e, dopo la morte, lasciare di sé una sempiterna infamia.
<B>11</B>
<B>Della religione de' Romani. </B>
Avvenga che Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da quello abbi a riconoscere,
come figliuola, il nascimento e la educazione sua, nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di
Romolo non bastassero a tanto imperio, inspirarono nel petto del Senato romano di eleggere Numa
Pompilio per successore a Romolo, acciocché quelle cose che da lui fossero state lasciate indietro,
fossero da Numa ordinate. Il quale, trovando uno popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle
obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione, come cosa al tutto necessaria a volere
mantenere una civiltà; e la constituì in modo, che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio
quanto in quella republica; il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini
romani disegnassero fare. E chi discorrerà infinite azioni, e del popolo di Roma tutto insieme, e di
molti de' Romani di per sé, vedrà come quelli cittadini temevono più assai rompere il giuramento
che le leggi; come coloro che stimavano più la potenza di Dio, che quella degli uomini: come si
vede manifestamente per gli esempli di Scipione e di Manlio Torquato. Perché, dopo la rotta che
Annibale aveva dato ai Romani a Canne, molti cittadini si erano adunati insieme, e, sbigottiti della
patria, si erano convenuti abbandonare la Italia, e girsene in Sicilia; il che sentendo Scipione, gli
andò a trovare, e col ferro ignudo in mano li costrinse a giurare di non abbandonare la patria. Lucio
Manlio, padre di Tito Manlio, che fu dipoi chiamato Torquato, era stato accusato da Marco
Pomponio, Tribuno della plebe, ed innanzi che venisse il dì del giudizio, Tito andò a trovare Marco,
e, minacciando di ammazzarlo se non giurava di levare l'accusa al padre, lo costrinse al giuramento;
e quello, per timore avendo giurato, gli levò l'accusa. E così quelli cittadini i quali lo amore della
patria, le leggi di quella, non ritenevano in Italia, vi furono ritenuti da un giuramento che furano
forzati a pigliare; e quel Tribuno pose da parte l'odio che egli aveva col padre, la ingiuria che gli
avea fatto il figliuolo, e l'onore suo, per ubbidire al giuramento preso: il che non nacque da altro,
che da quella religione che Numa aveva introdotta in quella città.
E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti,
a animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei. Talché, se si avesse a
disputare a quale principe Roma fusse più obligata, o a Romolo o a Numa, credo più tosto Numa
otterrebbe il primo grado: perché, dove è religione, facilmente si possono introdurre l'armi e dove
sono l'armi e non religione, con difficultà si può introdurre quella. E si vede che a Romolo, per
ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e militari, non gli fu necessario dell'autorità di Dio;
ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di avere domestichezza con una Ninfa, la quale lo
consigliava di quello ch'egli avesse a consigliare il popolo: e tutto nasceva perché voleva mettere
ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse.
E veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio;
perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i
quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che
vogliono tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, così Solone, così molti altri che
hanno avuto il medesimo fine di loro. Maravigliando, adunque, il Popolo romano la bontà e la
prudenza sua, cedeva ad ogni sua diliberazione. Ben è vero che l'essere quelli tempi pieni di
religione, e quegli uomini, con i quali egli aveva a travagliare, grossi, gli dettono facilità grande a
conseguire i disegni suoi, potendo imprimere in loro facilmente qualunque nuova forma. E sanza
dubbio, chi volesse ne' presenti tempi fare una republica più facilità troverrebbe negli uomini
montanari, dove non è alcuna civilità, che in quelli che sono usi a vivere nelle cittadi, dove la
civilità è corrotta: ed uno scultore trarrà più facilmente una bella statua d'un marmo rozzo, che
d'uno male abbozzato da altrui.
Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni
della felicità di quella città: perché quella causò buoni ordini; i buoni ordini fanno buona fortuna; e
dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è
cagione della grandezza delle republiche, così il dispregio di quello è cagione della rovina d'esse.
Perché, dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini, o che sia sostenuto dal
timore d'uno principe che sopperisca a' difetti della religione. E perché i principi sono di corta vita,
conviene che quel regno manchi presto, secondo che manca la virtù d'esso. Donde nasce che gli
regni i quali dipendono solo dalla virtù d'uno uomo, sono poco durabili, perché quella virtù manca
con la vita di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come
prudentemente Dante dice:
Rade volte discende per li rami
L'umana probitate; e questo vuole
Quel che la dà, perché da lui si chiami.
Non è, adunque, la salute di una republica o d'uno regno avere uno principe che prudentemente
governi mentre vive; ma uno che l'ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. E benché
agli uomini rozzi più facilmente si persuada uno ordine o una opinione nuova, non è però per questo
impossibile persuaderla ancora agli uomini civili e che presumono non essere rozzi. Al popolo di
Firenze non pare essere né ignorante né rozzo: nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu
persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s'egli era vero o no, perché d'uno tanto uomo
se ne debbe parlare con riverenza: ma io dico bene, che infiniti lo credevono sanza avere visto cosa
nessuna straordinaria, da farlo loro credere; perché la vita sua la dottrina e il suggetto che prese,
erano sufficienti a fargli prestare fede. Non sia, pertanto, nessuno che si sbigottisca di non potere
conseguire quel che è stato conseguito da altri; perché gli uomini, come nella prefazione nostra si
disse, nacquero, vissero e morirono, sempre, con uno medesimo ordine.
<B>12</B>
<B>Di quanta importanza sia tenere conto </B>
<B>della religione, e come la Italia, </B>
<B>per esserne mancata mediante </B>
<B>la Chiesa romana, è rovinata. </B>
Quelli principi o quelle republiche, le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra
cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro
venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d'una provincia, che
vedere dispregiato il culto divino. Questo è facile a intendere, conosciuto che si è in su che sia
fondata la religione dove l'uomo è nato; perché ogni religione ha il fondamento della vita sua in su
qualche principale ordine suo. La vita della religione Gentile era fondata sopra i responsi degli
oracoli e sopra la setta degli indovini e degli aruspici: tutte le altre loro cerimonie sacrifici e riti,
dependevano da queste perché loro facilmente credevono che quello Iddio che ti poteva predire il
tuo futuro bene o il tuo futuro male, te lo potessi ancora concedere. Di qui nascevano i templi, di
qui i sacrifici, di qui le supplicazioni, ed ogni altra cerimonia in venerarli: perché l'oracolo di Delo,
il tempio di Giove Ammone, ed altri celebri oracoli, i quali riempivano il mondo di ammirazione e
divozione. Come costoro cominciarono dipoi a parlare a modo de' potenti, e che questa falsità si fu
scoperta ne' popoli, diventarono gli uomini increduli, ed atti a perturbare ogni ordine buono.
Debbono, adunque i principi d'una republica o d'uno regno, i fondamenti della religione che loro
tengono, mantenergli; e fatto questo sarà loro facil cosa mantenere la loro republica religiosa, e, per
conseguente buona e unita. E debbono, tutte le cose che nascano in favore di quella come che le
giudicassono false, favorirle e accrescerle; e tanto più lo debbono fare quanto più prudenti sono, e
quanto più conoscitori delle cose naturali. E perché questo modo è stato osservato dagli uomini
savi, ne è nato l'opinione dei miracoli, che si celebrano nelle religioni eziandio false; perché i
prudenti gli augumentano, da qualunque principio e' si nascano; e l'autorità loro dà poi a quelli fede
appresso a qualunque. Di questi miracoli ne fu a Roma assai; intra i quali fu, che, saccheggiando i
soldati romani la città de' Veienti, alcuni di loro entrarono nel tempio di Giunone, ed accostandosi
alla imagine di quella, e dicendole: «Vis venire Romam?» parve a alcuno vedere che la accennasse,
a alcuno altro che la dicesse di sì. Perché sendo quegli uomini ripieni di religione (il che dimostra
Tito Livio, perché, nello entrare nel tempio, vi entrarono sanza tumulto, tutti devoti e pieni di
riverenza), parve loro udire quella risposta che alla domanda loro per avventura si avevano
presupposta: la quale opinione e credulità da Cammillo a dagli altri principi della città fu al tutto
favorita ed accresciuta. La quale religione se ne' principi della republica cristiana si fusse
mantenuta, secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le republiche cristiane
più unite, più felici assai, che le non sono. Né si può fare altra maggiore coniettura della
declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana,
capo della religione nostra hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse
l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe essere propinquo, sanza dubbio, o la rovina
o il fragello.
E perché molti sono d'opinione, che il bene essere delle città d'Italia nasca dalla Chiesa romana,
voglio, contro a essa, discorrere quelle ragioni che mi occorrono: e ne allegherò due potentissime
ragioni le quali, secondo me, non hanno repugnanzia. La prima è, che, per gli esempli rei di quella
corte, questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione: il che si tira dietro infiniti
inconvenienti e infiniti disordini; perché, così come dove è religione si presuppone ogni bene, così,
dove quella manca, si presuppone il contrario. Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi
Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno
maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene
questa provincia divisa. E veramente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene
tutta alla ubbidienza d'una republica o d'uno principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna.
E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch'ella o una republica o
uno principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché, avendovi quella abitato e tenuto imperio
temporale, non è stata sì potente né di tanta virtù che l'abbia potuto occupare la tirannide d'Italia e
farsene principe; e non è stata, dall'altra parte, sì debole, che, per paura di non perdere il dominio
delle sue cose temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda contro a quello
che in Italia fusse diventato troppo potente: come si è veduto anticamente per assai esperienze,
quando, mediante Carlo Magno, la ne cacciò i Longobardi, ch'erano già quasi re di tutta Italia; e
quando ne' tempi nostri ella tolse la potenza a' Viniziani con l'aiuto di Francia; di poi ne cacciò i
Franciosi con l'aiuto de' Svizzeri. Non essendo, adunque, stata la Chiesa potente da potere occupare
la Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto
uno capo; ma è stata sotto più principi e signori, da' quali è nata tanta disunione e tanta debolezza,
che la si è condotta a essere stata preda, non solamente de' barbari potenti, ma di qualunque
l'assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri. E chi ne volesse per
esperienza certa vedere più pronta la verità, bisognerebbe che fusse di tanta potenza che mandasse
ad abitare la corte romana, con l'autorità che l'ha in Italia, in le terre de' Svizzeri; i quali oggi sono,
solo, popoli che vivono, e quanto alla religione e quanto agli ordini militari, secondo gli antichi: e
vedrebbe che in poco tempo farebbero più disordine in quella provincia i rei costumi di quella corte,
che qualunque altro accidente che in qualunque tempo vi potesse surgere.
<B>13</B>
<I></I>
<B>Come i Romani si servivono </B>
<B>della religione per riordinare la città </B>
<B>e seguire le loro imprese e fermare </B>
<B>i tumulti. </B>
Ei non mi pare fuora di proposito addurre alcuno esemplo dove i Romani si servivono della
religione per riordinare la città, e per seguire le imprese loro; e quantunque in Tito Livio ne siano
molti, nondimeno voglio essere contento a questi. Avendo creato il Popolo romano i Tribuni di
potestà consolare, e, fuora che uno, tutti plebei; ed essendo occorso, quello anno, peste e fame, e
venuto certi prodigi, usorono questa occasione i Nobili nella nuova creazione de' Tribuni, dicendo
che gl'Iddii erano adirati per avere Roma male usato la maiestà del suo imperio, e che non era altro
rimedio a placare gl'Iddii che ridurre la elezione de' Tribuni nel luogo suo: di che nacque che la
plebe, sbigottita da questa religione, creò i Tribuni tutti nobili. Vedesi ancora, nella espugnazione
della città de' Veienti, come i capitani degli eserciti si valevano della religione per tenergli disposti
a una impresa; che, essendo il lago Albano, quello anno, cresciuto mirabilmente, ed essendo i
soldati romani infastiditi per la lunga ossidione, e volendo tornarsene a Roma, trovarono i Romani
come Apollo e certi altri risponsi dicevano che quello anno si espugnerebbe la città de' Veienti, che
si derivassi il lago Albano: la quale cosa fece ai soldati sopportare i fastidi della ossidione, presi da
questa speranza di espugnare la terra: e stettono contenti a seguire la impresa, tanto che Cammillo
fatto Dittatore espugnò detta città, dopo dieci anni che la era stata assediata. E così la religione,
usata bene, giovò e per la espugnazione di quella città, e per la restituzione del Tribunato nella
Nobilità che, sanza detto mezzo, difficilmente si sarebbe condotto e l'uno e l'altro.
Non voglio mancare di addurre a questo proposito un altro esemplo. Erano nati in Roma assai
tumulti per cagione di Terentillo tribuno, volendo lui proporre certa legge, per le cagioni che di
sotto, nel suo luogo, si diranno; e tra i primi rimedi che vi usò la Nobilità, fu la religione, della
quale si servirono in due modi. Nel primo, fecero vedere i libri Sibillini, e rispondere come alla
città, mediante la civile sedizione, soprastavano quello anno pericoli di non perdere la libertà: la
quale cosa, ancora che fusse scoperta da' tribuni, nondimeno messe tanto terrore ne' petti della
plebe, che la raffreddò nel seguirli. L'altro modo fu che, avendo un Appio Erdonio, con una
moltitudine di sbanditi e di servi, in numero di quattromila uomini, occupato di notte il
Campidoglio, in tanto che si poteva temere che, se gli Equi e i Volsci, perpetui inimici al nome
romano, ne fossero venuti a Roma, la arebbono espugnata; e non cessando i tribuni, per questo,
continovare nella pertinacia loro, di proporre la legge Terentilla, dicendo che quello insulto era
simulato e non vero; uscì fuori del Senato un Publio Ruberio, cittadino grave e di autorità , con
parole, parte amorevoli, parte minaccianti, mostrandogli i pericoli della città, e la intempestiva
domanda loro; tanto ch'ei costrinse la plebe a giurare di non si partire dalla voglia del consolo: tanto
che la plebe, ubbidiente, per forza ricuperò il Campidoglio. Ma essendo in tale espugnazione morto
Publio Valerio consolo, subito fu rifatto consolo Tito Quinzio, il quale, per non lasciare riposare la
plebe, né darle spazio a pensare alla legge Terentilla, le comandò s'uscisse di Roma per andare
contro ai Volsci, dicendo che per quel giuramento aveva fatto di non abbandonare il consolo, era
obligata a seguirlo: a che i tribuni si opponevano, dicendo come quel giuramento s'era dato al
consolo morto, e non a lui. Nondimeno Tito Livio mostra come la Plebe, per paura della religione,
volle più tosto ubbidire al consolo, che credere a' tribuni, dicendo in favore della antica religione
queste parole: «Nondum haec, quae nunc tenet saeculum, negligentia Deum venerat, nec
interpretando sibi quisque jusjurandum et leges aptas faciebat». Per la quale cosa dubitando i
Tribuni di non perdere allora tutta la lor dignità, si accordarono col consolo di stare alla ubbidienza
di quello; e che per uno anno non si ragionasse della legge Terentilla, ed i Consoli per uno anno non
potessero trarre fuori la plebe alla guerra. E così la religione fece al Senato vincere quelle difficultà,
che, sanza essa, mai averebbe vinte.
<B>14</B>
<I></I>
<B>I Romani interpetravano gli auspizi </B>
<B>secondo la necessità, e con la prudenza </B>
<B>mostravano di osservare la religione, </B>
<B>quando forzati non la osservavano; </B>
<B>e se alcuno temerariamente </B>
<B>la dispregiava, punivano. </B>
Non solamente gli augurii, come di sopra si è discorso, erano il fondamento, in buona parte,
dell'antica religione de' Gentili, ma ancora erano quelli che erano cagione del bene essere della
Republica romana. Donde i Romani ne avevano più cura che di alcuno altro ordine di quella; ed
usavongli ne' comizi consolari, nel principiare le imprese, nel trar fuora gli eserciti, nel fare le
giornate, ed in ogni azione loro importante, o civile o militare; né mai sarebbono iti ad una
espedizione, che non avessono persuaso ai soldati che gli Dei promettevano loro la vittoria. Ed in
fra gli altri auspicii, avevano negli eserciti certi ordini di aruspici, ch'e' chiamavano pullarii: e
qualunque volta eglino ordinavano di fare la giornata con il nimico, ei volevano che i pullarii
facessono i loro auspicii; e, beccando i polli, combattevono con buono augurio, non beccando, si
astenevano dalla zuffa. Nondimeno, quando la ragione mostrava loro una cosa doversi fare, non
ostante che gli auspicii fossero avversi, la facevano in ogni modo; ma rivoltavanla con termini e
modi tanto attamente, che non paresse che la facessino con dispregio della religione.
Il quale termine fu usato da Papirio consolo in una zuffa che ei fece importantissima coi Sanniti,
dopo la quale restarono in tutto deboli ed afflitti. Perché, sendo Papirio in su' campi rincontro ai
Sanniti, e parendogli avere nella zuffa la vittoria certa, e volendo per questo fare la giornata,
comandò ai pullarii che facessono i loro auspicii; ma non beccando i polli, e veggendo il principe
de' pullarii la gran disposizione dello esercito di combattere, e la opinione che era nel capitano ed in
tutti i soldati di vincere, per non tôrre occasione di bene operare a quello esercito, riferì al consolo
come gli auspicii procedevono bene: talché Papirio, ordinando le squadre, ed essendo da alcuni de'
pullarii detto a certi soldati, i polli non avere beccato, quelli lo dissono a Spurio Papirio nepote del
consolo; e quello riferendolo al consolo, rispose subito, ch'egli attendessi a fare l'ufficio suo bene;
che, quanto a lui ed allo esercito, gli auspicii erano buoni; e se il pullario aveva detto le bugie, le
tornerebbono in pregiudizio suo. E perché lo effetto corrispondesse al pronostico, comandò ai legati
che constituissono i pullarii nella prima fronte della zuffa. Onde nacque che, andando contro a'
nimici, sendo da un soldato romano tratto uno dardo, a caso ammazzò il principe de' pullarii: la
quale cosa udita, il consolo disse come ogni cosa procedeva bene, e col favore degli Dei; perché lo
esercito con la morte di quel bugiardo s'era purgato da ogni colpa e da ogni ira che quelli avessono
presa contro a di lui. E così, col sapere bene accomodare i disegni suoi agli auspicii, prese partito di
azzuffarsi, sanza che quello esercito si avvedesse che in alcuna parte quello avesse negletti gli
ordini della loro religione.
Al contrario fece Appio Pulcro in Sicilia, nella prima guerra punica: che, volendo azzuffarsi con
l'esercito cartaginese, fece fare gli auspicii a' pullarii; e riferendogli quelli, come i polli non
beccavano, disse: - Veggiamo se volessero bere! - e gli fece gittare in mare. Donde che
azzuffandosi, perdé la giornata: di che egli fu a Roma condannato, e Papirio onorato, non tanto per
avere l'uno vinto, e l'altro perduto, quanto per avere l'uno fatto contro agli auspicii prudentemente, e
l'altro temerariamente. Né ad altro fine tendeva questo modo dello aruspicare, che di fare i soldati
confidentemente ire alla zuffa; dalla quale confidenza quasi sempre nasce la vittoria. La qual cosa
fu non solamente usata dai Romani, ma dagli esterni: di che mi pare da addurne uno esemplo nel
seguente capitolo.
<B>15</B>
<B>I Sanniti, per estremo rimedio </B>
<B>alle cose loro afflitte, </B>
<B>ricorsero alla religione. </B>
Avendo i Sanniti avute più rotte da' Romani, ed essendo stati per ultimo distrutti in Toscana, e morti
i loro eserciti e gli loro capitani; ed essendo stati vinti i loro compagni, come Toscani, Franciosi ed
Umbri; «nec suis nec externis viribus jam stare poterant, tamen bello non abstinebant adeo ne
infeliciter quidem defensae libertatis taedebat, et vinci, quam non tentare victoriam, malebant».
Onde deliberarono fare l'ultima prova: e perché ei sapevano che, a volere vincere, era necessario
indurre ostinazione negli animi de' soldati, e che a indurvela non era migliore mezzo che la
religione; pensarono di ripetere uno antico loro sacrificio, mediante Ovio Paccio, loro sacerdote. Il
quale ordinarono in questa forma: che, fatto il sacrificio solenne e fatto, intra le vittime morte e gli
altari accesi, giurare tutti i capi dell'esercito di non abbandonare mai la zuffa, citorono i soldati ad
uno ad uno: ed intra quegli altari, nel mezzo di più centurioni con le spade nude in mano gli
facevano prima giurare che non ridirebbono cosa che vedessono o sentissono; dipoi, con parole
esecrabili e versi pieni di spavento, gli facevano promettere agli Dei, d'essere presti dove
gl'imperadori gli mandassono, e di non si fuggire mai dalla zuffa, e d'ammazzare qualunque ei
vedessono che si fuggisse: la quale cosa non osservata, tornassi sopra il capo della sua famiglia e
della sua stirpe. Ed essendo sbigottiti alcuni di loro, non volendo giurare, subito da' loro centurioni
erano morti, talché gli altri che succedevono poi, impauriti dalla ferocità dello spettacolo, giurarono
tutti. E per fare questo loro assembramento più magnifico, sendo quarantamila uomini, ne vestirono
la metà di panni bianchi, con creste e pennacchi sopra le celate; e così ordinati si posero presso ad
Aquilonia. Contro a costoro venne Papirio; il quale, nel confortare i suoi soldati, disse: «non enim
cristas vulnera facere, et picta atque aurata scuta transire romanum pilum». E per debilitare la
opinione che avevono i suoi soldati de' nimici per il giuramento preso, disse che quello era a timore
non a fortezza loro; perché in quel medesimo tempo gli avevano avere paura de' cittadini, degl'Iddii,
e de' nimici. E venuti al conflitto, furono superati i Sanniti; perché la virtù romana, e il timore
conceputo per le passate rotte, superò qualunque ostinazione ei potessero avere presa per virtù della
religione e per il giuramento preso. Nondimeno si vede come a loro non parve potere avere altro
rifugio, né tentare altro rimedio a potere pigliare speranza di ricuperare la perduta virtù. Il che
testifica appieno, quanta confidenza si possa avere mediante la religione bene usata. E benché
questa parte più tosto, per avventura, si richiederebbe essere posta intra le cose estrinseche;
nondimeno, dependendo da uno ordine de' più importanti della Republica di Roma, mi è parso da
connetterlo in questo luogo, per non dividere questa materia e averci a ritornare più volte.
<B>16</B>
<B>Uno popolo, uso a vivere sotto </B>
<B>uno principe, se per qualche </B>
<B>accidente diventa libero, </B>
<B>con difficultà mantiene la libertà. </B>
Quanta difficultà sia a uno popolo, uso a vivere sotto uno principe, perservare dipoi la libertà, se per
alcuno accidente l'acquista, come l'acquistò Roma dopo la cacciata de' Tarquinii, lo dimostrono
infiniti esempli che si leggono nelle memorie delle antiche istorie. E tale difficultà è ragionevole;
perché quel popolo è non altrimenti che un animale bruto, il quale, ancora che di natura feroce e
silvestre, sia stato nutrito sempre in carcere ed in servitù; che dipoi lasciato a sorte in una campagna
libero, non essendo uso a pascersi, né sappiendo i luoghi dove si abbia a rifuggire, diventa preda del
primo che cerca rincatenarlo.
Questo medesimo interviene a uno popolo, il quale, sendo uso a vivere sotto i governi d'altri, non
sappiendo ragionare né delle difese o offese pubbliche, non conoscendo i principi né essendo
conosciuto da loro, ritorna presto sotto uno giogo, il quale il più delle volte è più grave che quello
che, poco inanzi, si aveva levato d'in sul collo: e trovasi in queste difficultà, quantunque che la
materia non sia corrotta. Perché un popolo dove in tutto è entrata la corruzione, non può, non che
piccol tempo, ma punto vivere libero come di sotto si discorrerà: e però i ragionamenti nostri sono
di quelli popoli dove la corruzione non sia ampliata assai, e dove sia più del buono che del guasto.
Aggiungesi alla soprascritta un'altra difficultà, la quale è, che lo stato che diventa libero si fa
partigiani inimici, e non partigiani amici. Partigiani inimici gli diventono tutti coloro che dello stato
tirannico si prevalevono, pascendosi delle ricchezze del principe; a' quali sendo tolta la facultà del
valersi, non possono vivere contenti, e sono forzati ciascuno di tentare di ripigliare la tirannide, per
ritornare nell'autorità loro. Non si acquista, come ho detto, partigiani amici; perché il vivere libero
prepone onori e premii, mediante alcune oneste e determinate cagioni, e fuora di quelle non premia
né onora alcuno, e quando uno ha quegli onori e quegli utili che gli pare meritare, non confessa
avere obligo con coloro che lo rimunerano. Oltre a di questo, quella comune utilità che del vivere
libero si trae, non è da alcuno, mentre che ella si possiede conosciuta: la quale è di potere godere
liberamente le cose sue sanza alcuno sospetto, non dubitare dell'onore delle donne, di quel de'
figliuoli, non temere di sé; perché nessuno confesserà mai avere obligo con uno che non l'offenda.
Però, come di sopra si dice, viene ad avere, lo stato libero e che di nuovo surge, partigiani inimici, e
non partigiani amici. E volendo rimediare a questi inconvenienti, e a quegli disordini che le
soprascritte difficultà arrecherebbono seco, non ci è più potente rimedio, né più valido né più sicuro
né più necessario, che ammazzare i figliuoli di Bruto: i quali, come la istoria mostra, non furono
indotti, insieme con altri giovani romani, a congiurare contro alla patria per altro, se non perché non
si potevono valere straordinariamente sotto i consoli come sotto i re; in modo che la libertà di quel
popolo pareva che fosse diventata la loro servitù. E chi prende a governare una moltitudine, o per
via di libertà o per via di principato, e non si assicura di coloro che a quell'ordine nuovo sono
inimici, fa uno stato di poca vita. Vero è che io giudico infelici quelli principi che, per assicurare lo
stato loro hanno a tenere vie straordinarie, avendo per nimici la moltitudine: perché quello che ha
per nimici i pochi, facilmente e sanza molti scandoli, si assicura, ma chi ha per nimico l'universale
non si assicura mai, e quanta più crudeltà usa tanto più debole diventa il suo principato. Talché il
maggiore rimedio che ci abbia, è cercare di farsi il popolo amico.
E benché questo discorso sia disforme dal soprascritto, parlando qui d'uno principe e quivi d'una
republica; nondimeno, per non avere a tornare più in su questa materia, ne voglio parlare
brevemente. Volendo, pertanto, uno principe guadagnarsi uno popolo che gli fosse inimico,
parlando di quelli principi che sono diventati della loro patria tiranni, dico ch'ei debbe esaminare
prima quello che il popolo desidera, e troverrà sempre che desidera due cose: l'una, vendicarsi
contro a coloro che sono cagione che sia servo; l'altra, di riavere la sua libertà. Al primo desiderio il
principe può sodisfare in tutto, al secondo in parte. Quanto al primo, ce n'è lo esemplo appunto.
Clearco, tiranno di Eraclea, sendo in esilio, occorse che, per controversia venuta intra il popolo e gli
ottimati di Eraclea, che, veggendosi gli ottimati inferiori, si volsono a favorire Clearco e
congiuratisi seco lo missono, contro alla disposizione popolare, in Eraclea e tolsono la libertà al
popolo. In modo che, trovandosi Clearco intra la insolenzia degli ottimati, i quali non poteva in
alcuno modo né contentare né correggere, e la rabbia de' popolari, che non potevano sopportare lo
avere perduta la libertà, diliberò a un tratto liberarsi dal fastidio de' grandi, e guadagnarsi il popolo.
E presa, sopr'a questo, conveniente occasione, tagliò a pezzi tutti gli ottimati, con una estrema
sodisfazione de' popolari. E così egli per questa via sodisfece a una delle voglie che hanno i popoli,
cioè di vendicarsi. Ma quanto all'altro popolare desiderio, di riavere la sua libertà, non potendo il
principe sodisfargli, debbe esaminare quali cagioni sono quelle che gli fanno desiderare d'essere
liberi; e troverrà che una piccola parte di loro desidera di essere libera per comandare; ma tutti gli
altri, che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere sicuri. Perché in tutte le republiche, in
qualunque modo ordinate, ai gradi del comandare non aggiungono mai quaranta o cinquanta
cittadini: e perché questo è piccolo numero, è facil cosa assicurarsene, o con levargli via, o con fare
loro parte di tanti onori, che, secondo le condizioni loro, e' si abbino in buona parte a contentare.
Quelli altri, ai quali basta vivere sicuri, si sodisfanno facilmente, faccendo ordini e leggi, dove
insieme con la potenza sua si comprenda la sicurtà universale. E quando uno principe faccia questo,
e che il popolo vegga che, per accidente nessuno, ei non rompa tali leggi, comincerà in breve tempo
a vivere sicuro e contento. In esemplo ci è il regno di Francia, il quale non vive sicuro per altro che
per essersi quelli re obligati a infinite leggi, nelle quali si comprende la sicurtà di tutti i suoi popoli.
E chi ordinò quello stato, volle che quelli re, dell'armi e del danaio facessero a loro modo, ma che
d'ogni altra cosa non ne potessono altrimenti disporre che le leggi si ordinassero. Quello principe,
adunque, o quella republica che non si assicura nel principio dello stato suo, conviene che si
assicuri nella prima occasione, come fecero i Romani. Chi lascia passare quella, si pente tardi di
non avere fatto quello che doveva fare.
Sendo, pertanto, il popolo romano ancora non corrotto quando ei ricuperò la libertà, potette
mantenerla, morti i figliuoli di Bruto e spenti i Tarquinii, con tutti quelli modi ed ordini che altra
volta si sono discorsi. Ma se fusse stato quel popolo corrotto, né in Roma né altrove si truova rimedi
validi a mantenerla; come nel seguente capitolo mosterreno.
<B>17</B>
<B>Uno popolo corrotto, venuto in libertà,</B>
<B>si può con difficultà grandissima </B>
<B>mantenere libero. </B>
Io giudico ch'egli era necessario, o che i re si estinguessono in Roma, o che Roma in brevissimo
tempo divenisse debole e di nessuno valore; perché, considerando a quanta corruzione erano venuti
quelli re, se fossero seguitati così due o tre successioni, e che quella corruzione, che era in loro, si
fosse cominciata ad istendere per le membra, come le membra fossero state corrotte, era
impossibile mai più riformarla. Ma perdendo il capo quando il busto era intero, poterono facilmente
ridursi a vivere liberi ed ordinati. E debbesi presupporre per cosa verissima, che una città corrotta
che viva sotto uno principe, come che quel principe con tutta la sua stirpe si spenga, mai non si può
ridurre libera, anzi conviene che l'un principe spenga l'altro: e sanza creazione d'uno nuovo signore
non si posa mai, se già la bontà d'uno, insieme con la virtù, non la tenesse libera; ma durerà tanto
quella libertà, quanto durerà la vita di quello: come intervenne, a Siracusa, di Dione e di Timoleone:
la virtù de' quali in diversi tempi, mentre vissono, tenne libera quella città; morti che furono, si
ritornò nell'antica tirannide. Ma non si vede il più forte esemplo che quello di Roma; la quale,
cacciati i Tarquinii, poté subito prendere e mantenere quella libertà; ma, morto Cesare, morto Caio
Caligola, morto Nerone, spenta tutta la stirpe cesarea, non poté mai, non solamente mantenere, ma
pure dar principio alla libertà. Né tanta diversità di evento in una medesima città nacque da altro, se
non da non essere ne' tempi de' Tarquinii il popolo romano ancora corrotto, ed in questi ultimi
tempi essere corrottissimo. Perché allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i re, bastò solo
farlo giurare che non consentirebbe mai che a Roma alcuno regnasse; e negli altri tempi non bastò
l'autorità e severità di Bruto, con tutte le legioni orientali, a tenerlo disposto a volere mantenersi
quella libertà che esso, a similitudine del primo Bruto, gli aveva renduta. Il che nacque da quella
corruzione che le parti mariane avevano messa nel popolo; delle quali sendo capo Cesare, potette
accecare quella moltitudine, ch'ella non conobbe il giogo che da sé medesima si metteva in sul
collo.
E benché questo esemplo di Roma sia da preporre a qualunque altro esemplo, nondimeno voglio a
questo proposito addurre innanzi popoli conosciuti ne' nostri tempi. Pertanto dico, che nessuno
accidente, benché grave e violento, potrebbe ridurre mai Milano o Napoli liberi, per essere quelle
membra tutte corrotte. Il che si vide dopo la morte di Filippo Visconti; che, volendosi ridurre
Milano alla libertà, non potette e non seppe mantenerla. Però, fu felicità grande quella di Roma, che
questi rediventassero corrotti presto, acciò ne fussono cacciati, ed innanzi che la loro corruzione
fusse passata nelle viscere di quella città: la quale incorruzione fu cagione che gl'infiniti tumulti che
furono in Roma, avendo gli uomini il fine buono, non nocerono, anzi giovorono, alla Republica.
E si può fare questa conclusione, che, dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non
nuocono: dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano, se già le non sono mosse da uno
che con una estrema forza le faccia osservare, tanto che la materia diventi buona. Il che non so se si
è mai intervenuto o se fusse possibile ch'egli intervenisse: perché e' si vede, come poco di sopra
dissi, che una città venuta in declinazione per corruzione di materia, se mai occorre che la si rilievi,
occorre per la virtù d'uno uomo che è vivo allora, non per la virtù dello universale che sostenga gli
ordini buoni; e subito che quel tale è morto, la si ritorna nel suo pristino abito: come intervenne a
Tebe, la quale, per la virtù di Epaminonda, mentre lui visse, potette tenere forma di republica e di
imperio; ma, morto quello, la si ritornò ne' primi disordini suoi. La cagione è, che non può essere
uno uomo di tanta vita, che 'l tempo basti ad avvezzare bene una città lungo tempo male avvezza. E
se uno d'una lunghissima vita, o due successione virtuose continue, non la dispongano; come la
manca di loro, come di sopra è detto, rovina, se già con dimolti pericoli e dimolto sangue e' non la
facesse rinascere. Perché tale corruzione e poca attitudine alla vita libera, nasce da una inequalità
che è in quella città: e volendola ridurre equale, è necessario usare grandissimi straordinari, i quali
pochi sanno o vogliono usare; come in altro luogo più particularmente si dirà.
<B>18</B>
<B>In che modo nelle città corrotte </B>
<B>si potesse mantenere uno stato libero, </B>
<B>essendovi; o, non vi essendo, </B>
<B>ordinarvelo. </B>
Io credo che non sia fuora di proposito, né disforme dal soprascritto discorso, considerare se in una
città corrotta si può mantenere lo stato libero, sendovi; o quando e' non vi fusse, se vi si può
ordinare. Sopra la quale cosa, dico, come gli è molto difficile fare o l'uno o l'altro: e benché sia
quasi impossibile darne regola, perché sarebbe necessario procedere secondo i gradi della
corruzione; nondimanco, essendo bene ragionare d'ogni cosa, non voglio lasciare questa indietro. E
presupporrò una città corrottissima, donde verrò ad accrescere più tale difficultà; perché non si
truovano né leggi né ordini che bastino a frenare una universale corruzione. Perché, così come gli
buoni costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno
bisogno de' buoni costumi. Oltre a di questo, gli ordini e le leggi fatte in una republica nel
nascimento suo, quando erano gli uomini buoni, non sono dipoi più a proposito, divenuti che ei
sono rei. E se le leggi secondo gli accidenti in una città variano, non variano mai, o rade volte, gli
ordini suoi: il che fa che le nuove leggi non bastano, perché gli ordini, che stanno saldi, le
corrompono.
E per dare ad intendere meglio questa parte, dico come in Roma era l'ordine del governo, o vero
dello stato; e le leggi dipoi, che con i magistrati frenavano i cittadini. L'ordine dello stato era
l'autorità del Popolo, del Senato, de' Tribuni, de' Consoli, il modo di chiedere e del creare i
magistrati, ed il modo di fare le leggi. Questi ordini poco o nulla variarono negli accidenti.
Variarono le leggi che frenavano i cittadini; come fu la legge degli adulterii, la suntuaria, quella
della ambizione, e molte altre; secondo che di mano in mano i cittadini diventavano corrotti. Ma
tenendo fermi gli ordini dello stato, che nella corruzione non erano più buoni, quelle legge, che si
rinnovavano, non bastavano a mantenere gli uomini buoni, ma sarebbono bene giovate, se con la
innovazione delle leggi si fussero rimutati gli ordini.
E che sia il vero, che tali ordini nella città corrotta non fussero buoni, si vede espresso in doi capi
principali, quanto al creare i magistrati e le leggi. Non dava il popolo romano il consolato, e gli altri
primi gradi della città, se non a quelli che lo domandavano. Questo ordine fu, nel principio, buono,
perché e' non gli domandavano se non quelli cittadini che se ne giudicavano degni ed averne la
repulsa era ignominioso sì che, per esserne giudicati degni, ciascuno operava bene. Diventò questo
modo, poi, nella città corrotta, perniziosissimo; perché non quelli che avevano più virtù, ma quelli
che avevano più potenza domandavano i magistrati; e gl'impotenti, comecché virtuosi, se ne
astenevano di domandarli, per paura. Vennesi a questo inconveniente, non a un tratto, ma per i
mezzi, come si cade in tutti gli altri inconvenienti: perché avendo i Romani domata l'Africa e l'Asia,
e ridotta quasi tutta la Grecia a sua ubbidienza, erano divenuti sicuri della libertà loro, né pareva
loro avere più nimici che dovessono fare loro paura. Questa sicurtà e questa debolezza de' nimici
fece che il popolo romano, nel dare il consolato, non riguardava più la virtù, ma la grazia; tirando a
quel grado quelli che meglio sapevano intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano meglio
vincere i nimici: dipoi da quelli che avevano più grazia, ei discesono a darlo a quegli che avevano
più potenza; talché i buoni, per difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno
tribuno, e qualunque altro cittadino, preporre al Popolo una legge; sopra la quale ogni cittadino
poteva parlare, o in favore o incontro, innanzi che la si deliberasse. Era questo ordine buono,
quando i cittadini erano buoni; perché sempre fu bene che ciascuno che intende uno bene per il
publico lo possa preporre; ed è bene che ciascuno sopra quello possa dire l'opinione sua, acciocché
il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale
ordine pessimo; perché solo i potenti proponevono leggi, non per la comune libertà, ma per la
potenza loro; e contro a quelle non poteva parlare alcuno, per paura di quelli: talché il popolo
veniva o ingannato o sforzato a diliberare la sua rovina.
Era necessario, pertanto, a volere che Roma nella corruzione si mantenesse libera, che, così come
aveva nel processo del vivere suo fatto nuove leggi, l'avesse fatto nuovi ordini: perché altri ordini e
modi di vivere si debbe ordinare in uno suggetto cattivo, che in uno buono; né può essere la forma
simile in una materia al tutto contraria. Ma perché questi ordini, o e' si hanno a rinnovare tutti a un
tratto, scoperti che sono non essere più buoni, o a poco a poco, in prima che si conoschino per
ciascuno; dico che l'una e l'altra di queste due cose è quasi impossibile. Perché, a volergli rinnovare
a poco a poco, conviene che ne sia cagione uno prudente, che vegga questo inconveniente assai
discosto, e quando e' nasce. Di questi tali è facilissima cosa che in una città non ne surga mai
nessuno: e quando pure ve ne surgessi, non potrebbe persuadere mai a altrui quello che egli proprio
intendesse; perché gli uomini, usi a vivere in un modo, non lo vogliono variare; e tanto più non
veggendo il male in viso, ma avendo a essere loro mostro per coniettura. Quanto all'innovare questi
ordini a un tratto, quando ciascuno conosce che non son buoni, dico che questa inutilità, che
facilmente si conosce, è difficile a ricorreggerla; perché, a fare questo, non basta usare termini
ordinari, essendo modi ordinari cattivi; ma è necessario venire allo straordinario, come è alla
violenza ed all'armi, e diventare innanzi a ogni cosa principe di quella città, e poterne disporre a suo
modo. E perché il riordinare una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare
per violenza principe di una republica presuppone uno uomo cattivo; per questo si troverrà che
radissime volte accaggia che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia
diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nello
animo usare quella autorità bene, che gli ha male acquistata.
Da tutte le soprascritte cose nasce la difficultà, o impossibilità, che è nelle città corrotte, a
mantenervi una republica, o a crearvela di nuovo. E quando pure la vi si avesse a creare o a
mantenere, sarebbe necessario ridurla più verso lo stato regio, che verso lo stato popolare;
acciocché quegli uomini i quali dalle leggi, per la loro insolenzia, non possono essere corretti,
fussero da una podestà quasi regia in qualche modo frenati. E a volergli fare per altre vie diventare
buoni, sarebbe o crudelissima impresa o al tutto impossibile; come io dissi, di sopra, che fece
Cleomene: il quale se, per essere solo, ammazzò gli Efori; e se Romolo, per le medesime cagioni,
ammazzò il fratello e Tito Tazio Sabino, e dipoi usarono bene quella loro autorità; nondimeno si
debbe avvertire che l'uno e l'altro di costoro non aveano il suggetto di quella corruzione macchiato,
della quale in questo capitolo ragioniamo, e però poterono volere, e, volendo, colorire il disegno
loro.
<B>19</B>
<B>Dopo uno eccellente principe </B>
<B>si può mantenere uno principe debole; </B>
<B>ma, dopo uno debole, non si può </B>
<B>con un altro debole mantenere </B>
<B>alcuno regno. </B>
Considerato la virtù ed il modo del procedere di Romolo, Numa e di Tullo, i primi tre re romani, si
vede come Roma sortì una fortuna grandissima, avendo il primo re ferocissimo e bellicoso, l'altro
quieto e religioso, il terzo simile di ferocità a Romolo, e più amatore della guerra che della pace.
Perché in Roma era necessario che surgesse ne' primi principii suoi un ordinatore del vivere civile,
ma era bene poi necessario che gli altri re ripigliassero la virtù di Romolo; altrimenti quella città
sarebbe diventata effeminata, e preda de' suoi vicini. Donde si può notare che uno successore, non
di tanta virtù quanto il primo, può mantenere uno stato per la virtù di colui che lo ha retto innanzi, e
si può godere le sue fatiche: ma s'egli avviene o che sia di lunga vita, o che dopo lui non surga un
altro che ripigli la virtù di quel primo, è necessitato quel regno a rovinare. Così, per il contrario, se
dua, l'uno dopo l'altro, sono di gran virtù, si vede spesso che fanno cose grandissime, e che ne
vanno con la fama in fino al cielo.
Davit, sanza dubbio, fu un uomo, per arme, per dottrina, per giudizio, eccellentissimo; e fu tanta la
sua virtù, che, avendo vinti e battuti tutti i suoi vicini, lasciò a Salomone suo figliuolo uno regno
pacifico: quale egli si potette con l'arte della pace, e non con la guerra, conservare; e si potette
godere felicemente la virtù di suo padre. Ma non potette già lasciarlo a Roboam suo figliuolo; il
quale, non essendo per virtù simile allo avolo, né per fortuna simile al padre, rimase con fatica
erede della sesta parte del regno. Baisit, sultan de' Turchi, come che fussi più amatore della pace
che della guerra, potette godersi le fatiche di Maumetto suo padre; il quale avendo, come Davit,
battuto i suoi vicini, gli lasciò un regno fermo, e da poterlo con l'arte della pace facilmente
conservare. Ma se il figliuolo suo Salì, presente signore, fusse stato simile al padre, e non all'avolo,
quel regno rovinava; ma e' si vede costui essere per superare la gloria dell'avolo. Dico pertanto con
questi esempli, che, dopo uno eccellente principe, si può mantenere uno principe debole; ma, dopo
un debole, non si può, con un altro debole, mantenere alcun regno, se già e' non fusse come quello
di Francia, che gli ordini suoi antichi lo mantenessero: e quelli principi sono deboli, che non stanno
in su la guerra.
Conchiudo pertanto, con questo discorso, che la virtù di Romolo fu tanta, che la potette dare spazio
a Numa Pompilio di potere molti anni con l'arte della pace reggere Roma: ma dopo lui successe
Tullo, il quale per la sua ferocità riprese la riputazione di Romolo: dopo il quale venne Anco, in
modo dalla natura dotato, che poteva usare la pace e sopportare la guerra. E prima si dirizzò a
volere tenere la via della pace, ma subito conobbe come i vicini, giudicandolo effeminato, lo
stimavano poco: talmente che pensò che, a volere mantenere Roma, bisognava volgersi alla guerra,
e somigliare Romolo, e non Numa.
Da questo piglino esemplo tutti i principi che tengono stato; che chi somiglierà Numa, lo terrà o non
terrà, secondo che i tempi o la fortuna gli girerà sotto; ma chi somiglierà Romolo, e fia come esso
armato di prudenza e d'armi, lo terrà in ogni modo, se da una ostinata ed eccessiva forza non gli è
tolto. E certamente si può stimare che, se Roma sortiva per terzo suo re un uomo che non sapesse
con le armi renderle la sua riputazione non arebbe mai poi, o con grandissima difficultà, potuto
pigliare piede, né fare quegli effetti ch'ella fece. E così, in mentre che la visse sotto i re la portò
questi pericoli di rovinare sotto uno re o debole o malvagio.
<B>20</B>
<B>Dua continove successioni di principi </B>
<B>virtuosi fanno grandi effetti; </B>
<B>e come le republiche bene ordinate </B>
<B>hanno di necessità virtuose successioni, </B>
<B>e però gli acquisti ed augumenti loro </B>
<B>sono grandi. </B>
Poiché Roma ebbe cacciati i re, mancò di quelli pericoli, i quali di sopra sono detti che la portava
succedendo in lei uno re o debole o cattivo. Perché la somma dello imperio si ridusse ne' consoli, i
quali, non per eredità o per inganni o per ambizione violenta, ma per suffragi liberi venivano a
quello imperio, ed erono sempre uomini eccellentissimi: de' quali godendosi Roma la virtù, e la
fortuna di tempo in tempo, poté venire a quella sua ultima grandezza in altrettanti anni che la era
stata sotto i re. Perché si vede, come due continove successioni di principi virtuosi sono sufficienti
ad acquistare il mondo: come furano Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno. Il che tanto più
debba fare una republica, avendo per il modo dello eleggere non solamente due successioni ma
infiniti principi virtuosissimi che sono l'uno dell'altro successori: la quale virtuosa successione fia
sempre in ogni republica bene ordinata.
<B>21</B>
<B>Quanto biasimo meriti quel principe </B>
<B>e quella republica che manca </B>
<B>d'armi proprie. </B>
Debbono i presenti principi e le moderne republiche, le quali circa le difese ed offese mancano di
soldati propri, vergognarsi di loro medesime; e pensare con lo esemplo di Tullo, tale difetto essere,
non per mancamento di uomini atti alla milizia, ma per colpa sua, che non han saputo fare i suoi
uomini militari. Perché Tullo, sendo stata Roma in pace quarant'anni, non trovò, succedendo egli
nel regno, uomo che fusse stato mai in guerra: nondimeno, disegnando esso fare guerra, non pensò
valersi né de' Sanniti, né de' Toscani, né di altri che fussero consueti stare nell'armi, ma diliberò,
come uomo prudentissimo, di valersi de' suoi. E fu tanta la sua virtù, che in un tratto, sotto il suo
governo gli poté fare soldati eccellentissimi. Ed è più vero che alcuna altra verità, che, se dove è
uomini non è soldati, nasce per difetto del principe, e non per altro difetto o di sito o di natura.
Di che ce n'è un esemplo freschissimo. Perché ognuno sa, come ne' prossimi tempi il re d'Inghilterra
assaltò il regno di Francia, né prese altri soldati che popoli suoi; e, per essere stato quel regno più
che trenta anni sanza fare guerra, non aveva né soldati né capitano che avesse mai militato:
nondimeno, non dubitò con quelli assaltare uno regno pieno di capitani e di buoni eserciti, i quali
erano stati continovamente sotto l'armi nelle guerre d'Italia. Tutto nacque da essere quel re prudente
uomo, e quel regno bene ordinato; il quale nel tempo della pace non intermette gli ordini della
guerra.
Pelopida ed Epaminonda tebani, poiché gli ebbero libera Tebe, e trattala della servitù dello imperio
spartano, trovandosi in una città usa a servire, ed in mezzo di popoli effeminati; non dubitarono,
tanta era la virtù loro, di ridurgli sotto l'armi, e con quelli andare a trovare alla campagna gli eserciti
spartani, e vincergli: e chi ne scrive, dice come questi duoi in brieve tempo mostrarono che non
solamente in Lacedemonia nascevano gli uomini da guerra, ma in ogni altra parte dove nascessi
uomini, pure che si trovasse chi li sapesse indirizzare alla milizia, come si vede che Tullo seppe
indirizzare i Romani. E Virgilio non potrebbe meglio esprimere questa opinione, né con altre parole
mostrare di accostarsi a quella, dove dice:
Desidesque movebit
Tullus in arma viros.
<B>22</B>
<B>Quello che sia da notare nel caso </B>
<B>de' tre Orazii romani </B>
<B>e tre Curiazii albani. </B>
Tullo re di Roma, e Mezio, re di Alba, convennero che quello popolo fusse signore dell'altro, di cui
i soprascritti tre uomini vincessero. Furono morti tutti i Curiazii albani, restò vivo uno degli Orazii
romani: e per questo restò Mezio re albano, con il suo popolo suggetto a' Romani. E tornando
quello Orazio vincitore in Roma, scontrando una sua sorella, che era a uno de' tre Curiazii morti
maritata, che piangeva la morte del marito, l'ammazzò. Donde quello Orazio per questo fallo fu
messo in giudizio, e dopo molte dispute fu libero, più per li prieghi del padre, che per li suoi meriti.
Dove sono da notare tre cose: l'una, che mai non si debbe con parte delle sue forze arrischiare tutta
la sua fortuna; l'altra, che non mai in una città bene ordinata le colpe con gli meriti si ricompensano;
la terza, che non mai sono i partiti savi, dove si debba o possa dubitare della inosservanza. Perché,
gl'importa tanto a una città lo essere serva, che mai non si doveva credere che alcuno di quelli re o
di quelli popoli stessero contenti che tre loro cittadini gli avessero sottomessi: come si vide che
volle fare Mezio, il quale, benché subito dopo la vittoria de' Romani si confessassi vinto, e
promettessi la ubbidienza a Tullo, nondimeno nella prima espedizione che gli ebbero a convenire
contro a' Veienti, si vide come ei cercò d'ingannarlo; come quello che tardi si era avveduto della
temerità del partito preso da lui. E perché di questo terzo notabile se n'è parlato assai, parlereno solo
degli altri due ne' seguenti duoi capitoli.
<B>23</B>
<B>Che non si debbe mettere a pericolo </B>
<B>tutta la fortuna e non tutte le forze; </B>
<B>e, per questo, spesso il guardare </B>
<B>i passi è dannoso. </B>
Non fu mai giudicato partito savio mettere a pericolo tutta la fortuna tua e non tutte le forze. Questo
si fa in più modi. L'uno è faccendo come Tullo e Mezio, quando e' commissono la fortuna tutta
della patria loro, e la virtù di tanti uomini quanti aveva l'uno e l'altro di costoro negli eserciti suoi
alla virtù e fortuna di tre de' loro cittadini, che veniva a essere una minima parte delle forze di
ciascuno di loro. Né si avvidono, come per questo partito tutta la fatica che avevano durata i loro
antecessori nell'ordinare la republica, per farla vivere lungamente libera e per fare i suoi cittadini
difensori della loro libertà, era quasi che stata vana, stando nella potenza di sì pochi a perderla. La
quale cosa da quelli re non poté essere peggio considerata.
Cadesi ancora in questo inconveniente quasi sempre per coloro, che, venendo il nimico, disegnano
di tenere i luoghi difficili, e guardare i passi: perché quasi sempre questa diliberazione sarà
dannosa, se già in quello luogo difficile commodamente tu non potesse tenere tutte le forze tue. In
questo caso, tale partito è da prendere; ma sendo il luogo aspro, e non vi potendo tenere tutte le
forze, il partito è dannoso. Questo mi fa giudicare così lo esemplo di coloro, che, essendo assaltati
da un inimico potente, ed essendo il paese loro circundato da' monti e luoghi alpestri, non hanno
mai tentato di combattere il nimico in su' passi ed in su' monti, ma sono iti a rincontrarlo di là da
essi; o, quando non hanno voluto fare questo, lo hanno aspettato dentro a essi monti, in luoghi
benigni e non alpestri. E la cagione ne è stata la preallegata: perché, non si potendo condurre alla
guardia de' luoghi alpestri molti uomini, sì per non vi potere vivere lungo tempo, sì per essere i
luoghi stretti e capaci di pochi, non è possibile sostenere uno inimico che venga grosso a urtarti: ed
al nimico è facile il venire grosso perché la intenzione sua è passare, e non fermarsi, ed a chi
l'aspetta è impossibile aspettarlo grosso, avendo ad alloggiarsi per più tempo, non sappiendo
quando il nimico voglia passare in luoghi, come io ho detto, stretti e sterili. Perdendo, adunque,
quel passo che tu ti avevi presupposto tenere, e nel quale i tuoi popoli e lo esercito tuo confidava,
entra il più delle volte ne' popoli e nel residuo delle genti tua tanto terrore, che, sanza potere
esperimentare la virtù d'esse, rimani perdente; e così vieni a avere perduta tutta la tua fortuna con
parte delle tue forze.
Ciascuno sa con quanta difficultà Annibale passasse l'alpe che dividono la Lombardia dalla Francia,
e con quanta difficultà passasse quelle che dividono la Lombardia dalla Toscana: nondimeno i
Romani l'aspettarono prima in sul Tesino, e dipoi nel piano d'Arezzo: e vollon, più tosto, che il loro
esercito fusse consumato da il nimico nelli luoghi dove poteva vincere, che condurlo su per l'alpe a
essere distrutto dalla malignità del sito.
E chi leggerà sensatamente tutte le istorie, troverrà pochissimi virtuosi capitani avere tentato di
tenere simili passi, e per le ragioni dette, e perché e' non si possono chiudere tutti, sendo i monti
come campagne, ed avendo non solamente le vie consuete e frequentate, ma molte altre le quali, se
non sono note a' forestieri, sono note a paesani; con l'aiuto de' quali sempre sarai condotto in
qualunque luogo, contro alla voglia di chi ti si oppone. Di che se ne può addurre uno freschissimo
esemplo, nel 1515. Quando Francesco re di Francia disegnava passare in Italia per la recuperazione
dello stato di Lombardia, il maggior fondamento che facevono coloro ch'erano alla sua impresa
contrari, era che gli Svizzeri lo terrebbono a' passi in su' monti. E, come per esperienza poi si vidde,
quel loro fondamento restò vano: perché , lasciato quel Re da parte dua o tre luoghi guardati da loro,
se ne venne per un'altra via incognita; e fu prima in Italia, e loro apresso, che lo avessono
presentito. Talché loro sbigottiti si ritirarono in Milano, e tutti i popoli di Lombardia si accostarono
alle genti franciose; sendo mancati di quella opinione avevano, che i Franciosi devessono essere
ritenuti in su' monti.
<B>24</B>
<I></I>
<B>Le republiche bene ordinate </B>
<B>costituiscono premii e pene </B>
<B>a' loro cittadini, né compensono mai </B>
<B>l'uno con l'altro. </B>
Erano stati i meriti di Orazio grandissimi, avendo con la sua virtù vinti i Curiazii: era stato il fallo
suo atroce, avendo morto la sorella: nondimeno dispiacque tanto tale omicidio a' Romani, che lo
condussono a disputare della vita, non ostante che gli meriti suoi fossero tanto grandi e sì freschi.
La quale cosa, a chi superficialmente la considerasse, parrebbe un esemplo d'ingratitudine popolare:
nondimeno, chi la esamina meglio e con migliore considerazione ricerca quali debbono essere gli
ordini delle republiche, biasimerà quel popolo più tosto per averlo assoluto che per averlo voluto
condannare. E la ragione è questa, che nessuna republica bene ordinata non mai cancellò i demeriti
con gli meriti de' suoi cittadini; ma avendo ordinati i premii a una buona opera e le pene a una
cattiva ed avendo premiato uno per avere bene operato, se quel medesimo opera dipoi male, lo
gastiga, sanza avere riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando questi ordini sono bene
osservati, una città vive libera molto tempo: altrimenti sempre rovinerà tosto. Perché, se a un
cittadino che abbia fatto qualche egregia opera per la città, si aggiugne, oltre alla riputazione che
quella cosa gli arreca, una audacia e confidenza di poter, senza temere pena, fare qualche opera non
buona, diventerà in brieve tempo tanto insolente che si risolverà ogni civilità.
È bene necessario, volendo che sia tenuta la pena per le malvagie opere, osservare i premii per le
buone, come si vide che fece Roma. E benché una republica sia povera, e possa dare poco, debbe da
quel poco non astenersi, perché sempre ogni piccol dono, dato ad alcuno per ricompenso di bene
ancora che grande, sarà stimato, da chi lo riceve, onorevole e grandissimo. È notissima la istoria di
Orazio Cocle, e quella di Muzio Scevola: come l'uno sostenne i nimici sopra un ponte, tanto che si
tagliasse; l'altro si arse la mano, che aveva errato, volendo ammazzare Porsenna, re degli Toscani.
A costoro per queste due opere tanto egregie fu donato dal pubblico due staiora di terra per
ciascuno. È nota ancora la istoria di Manlio Capitolino. A costui, per avere salvato il Campidoglio
da' Franciosi che vi erano a campo, fu dato, da quelli che insieme con lui vi erano assediati dentro,
una piccola misura di farina. Il quale premio, secondo la fortuna che allora correva in Roma fu
grande; e di qualità che, mosso poi Manlio o da invidia o dalla sua cattiva natura, a fare nascere
sedizione in Roma e cercando guadagnarsi il popolo, fu, sanza rispetto alcuno de' suoi meriti, gittato
precipite da quello Campidoglio che esso prima, con tanta sua gloria, avea salvo.
<B>25</B>
<B>Chi vuole riformare uno stato anticato </B>
<B>in una città libera, </B>
<B>ritenga almeno l'ombra de' modi antichi. </B>
Colui che desidera o che vuole riformare uno stato d'una città, a volere che sia accetto, e poterlo con
satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere l'ombra almanco de' modi antichi, acciò
che a' popoli non paia avere mutato ordine, ancorché, in fatto, gli ordini nuovi fussero al tutto alieni
dai passati; perché lo universale degli uomini si pascono così di quel che pare come di quello che è:
anzi, molte volte si muovono più per le cose che paiono che per quelle che sono. Per questa cagione
i Romani, conoscendo nel principio del loro vivere libero questa necessità, avendo in cambio d'uno
re creati duoi consoli, non vollono ch'egli avessono più che dodici littori, per non passare il numero
di quelli che ministravano ai re. Oltre a di questo, faccendosi in Roma uno sacrificio anniversario, il
quale non poteva essere fatto se non dalla persona del re, e volendo i Romani che quel popolo non
avesse a desiderare per la assenzia degli re alcuna cosa delle antiche; crearono uno capo di detto
sacrificio, il quale loro chiamarono Re Sacrificulo, e sottomessonlo al sommo Sacerdote: talmente
che quel popolo per questa via venne a sodisfarsi di quel sacrificio, e non avere mai cagione, per
mancamento di esso, di disiderare la ritornata de' re. E questo si debbe osservare da tutti coloro che
vogliono scancellare un antico vivere in una città, e ridurla a uno vivere nuovo e libero: perché,
alterando le cose nuove le menti degli uomini, ti debbi ingegnare che quelle alterazioni ritenghino
più dello antico sia possibile; e se i magistrati variano, e di numero e d'autorità e di tempo, degli
antichi, che almeno ritenghino il nome. E questo, come ho detto, debbe osservare colui che vuole
ordinare uno vivere politico, o per via di republica o di regno: ma quello che vuole fare una potestà
assoluta, la quale dagli autori è chiamata tirannide, debbe rinnovare ogni cosa, come nel seguente
capitolo si dirà.
<B>26</B>
<B>Uno principe nuovo, in una città </B>
<B>o provincia presa da lui, </B>
<B>debbe fare ogni cosa nuova. </B>
Qualunque diventa principe o d'una città o d'uno stato, e tanto più quando i fondamenti suoi fussono
deboli e non si volga o per via di regno o di republica alla vita civile, il megliore rimedio che egli
abbia, a tenere quel principato, è, sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa, in quello stato, di
nuovo: come è, nelle città, fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi
uomini; fare i ricchi poveri, i poveri ricchi come fece Davit quando ei diventò re: «qui esurientes
implevit bonis, et divites dimisit inanes»; edificare, oltra di questo, nuove città, disfare delle
edificate, cambiare gli abitatori da un luogo a un altro; ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta
in quella provincia e che non vi sia né grado, né ordine né stato, né ricchezza, che chi la tiene non la
riconosca da te; e pigliare per sua mira Filippo di Macedonia, padre di Alessandro, il quale, con
questi modi, di piccol re, diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice che tramutava gli
uomini di provincia in provincia, come e' mandriani tramutano le mandrie loro. Sono questi modi
crudelissimi, e nimici d'ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunque
uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato, che re con tanta rovina degli uomini; nondimeno,
colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere conviene che
entri in questo male. Ma gli uomini pigliono certe vie del mezzo, che sono dannosissime; perché
non sanno essere né tutti cattivi né tutti buoni: come nel seguente capitolo, per esemplo, si mosterrà.
<B>27</B>
<B>Sanno rarissime volte gli uomini </B>
<B>essere al tutto cattivi o al tutto buoni. </B>
Papa Iulio secondo, andando nel 1505 a Bologna, per cacciare di quello stato la casa de' Bentivogli,
la quale aveva tenuto il principato di quella città cento anni, voleva ancora trarre Giovampagolo
Baglioni di Perugia, della quale era tiranno, come quello che aveva congiurato contro a tutti i tiranni
che occupavano le terre della Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo animo e
deliberazione, nota a ciascuno, non aspettò di entrare in quella città con lo esercito suo, che lo
guardasse, ma vi entrò disarmato, non ostante vi fusse drento Giovampagolo con gente assai, quale
per difesa di sé aveva ragunata. Sì che, portato da quel furore con il quale governava tutte le cose,
con la semplice sua guardia si rimisse nelle mani del nimico; il quale dipoi ne menò seco, lasciando
un governatore in quella città, che rendesse ragione per la Chiesa. Fu notata, dagli uomini prudenti
che col papa erano, la temerità del papa e la viltà di Giovampagolo; né potevono estimare donde si
venisse che quello non avesse, con sua perpetua fama, oppresso ad un tratto il nimico suo, e sé
arricchito di preda, sendo col papa tutti li cardinali, con tutte le loro delizie. Né si poteva credere si
fusse astenuto o per bontà o per conscienza che lo ritenesse; perché in uno petto d'un uomo
facinoroso, che si teneva la sorella, che aveva morti i cugini e i nipoti per regnare, non poteva
scendere alcun pietoso rispetto: ma si conchiuse, nascesse che gli uomini non sanno essere
onorevolmente cattivi, o perfettamente buoni, e, come una malizia ha in sé grandezza, o è in alcuna
parte generosa, e' non vi sanno entrare. Così Giovampagolo, il quale non stimava essere incesto e
publico parricida, non seppe, o, a dir meglio, non ardì, avendone giusta occasione, fare una impresa,
dove ciascuno avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sé lasciato memoria eterna, sendo il primo
che avesse dimostro a' prelati, quanto sia da stimare poco chi vive e regna come loro ed avessi fatto
una cosa, la cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni pericolo, che da quella potesse
dependere.
<B>28</B>
<B>Per quale cagione i Romani </B>
<B>furono meno ingrati contro agli loro </B>
<B>cittadini che gli Ateniesi. </B>
Qualunque legge le cose fatte dalle republiche, troverrà in tutte qualche spezie d'ingratitudine
contro a' suoi cittadini: ma ne troverrà meno in Roma che in Atene, e per avventura in qualunque
altra republica. E ricercando la cagione di questo, parlando di Roma e d'Atene credo accadessi
perché i Romani avevano meno cagione di sospettare de' suoi cittadini, che gli Ateniesi. Perché a
Roma, ragionando di lei dalla cacciata de' Re infino a Silla e Mario, non fu mai tolta la libertà da
alcuno suo cittadino in modo che in lei non era grande cagione di sospettare di loro, e, per
conseguente, di offendergli inconsideratamente. Intervenne bene ad Atene il contrario; perché,
sendogli tolta la libertà da Pisistrato nel suo più florido tempo, e sotto uno inganno di bontà; come
prima la diventò poi libera, ricordandosi delle ingiurie ricevute e della passata servitù, diventò
prontissima vendicatrice, non solamente degli errori, ma della ombra degli errori de' suoi cittadini.
Quinci nacque lo esilio e la morte di tanti eccellenti uomini, quinci l'ordine dell'ostracismo, ed ogni
altra violenza che contro a' suoi ottimati in varii tempi da quella città fu fatta. Ed è verissimo quello
che dicono questi scrittori della civilità: che i popoli mordono più fieramente poi ch'egli hanno
recuperata la libertà, che poi che l'hanno conservata. Chi considererà, adunque, quanto è detto, non
biasimerà in questo Atene, né lauderà Roma; ma ne accuserà solo la necessità, per la diversità degli
accidenti che in queste città nacquero. Perché si vedrà, chi considererà le cose sottilmente che, se a
Roma fusse stata tolta la libertà come a Atene, non sarebbe stata Roma più pia verso i suoi cittadini,
che si fusse quella. Di che si può fare verissima coniettura per quello che occorse, dopo la cacciata
de' re, contro a Collatino ed a Publio Valerio: de' quali il primo, ancora che si trovasse a liberare
Roma, fu mandato in esilio non per altra cagione che per tenere il nome de' Tarquinii; l'altro,
avendo solo dato di sé sospetto per edificare una casa in sul monte Celio, fu ancora per esser fatto
esule. Talché si può stimare, veduto quanto Roma fu in questi due sospettosa e severa, che l'arebbe
usata la ingratitudine come Atene, se da' suoi cittadini come quella, ne' primi tempi ed innanzi allo
augumento suo, fusse stata ingiuriata. E per non avere a tornare più sopra questa materia della
ingratitudine, ne dirò, quello ne occorrerà, nel seguente capitolo.
<B>29</B>
<B>Quale sia più ingrato, </B>
<B>o uno popolo o uno principe. </B>
Egli mi pare, a proposito della soprascritta materia, da discorrere quale usi con maggiori esempli
questa ingratitudine, o uno popolo o uno principe. E per disputare meglio questa parte, dico, come
questo vizio della ingratitudine nasce o dall'avarizia o da il sospetto. Perché, quando o uno popolo o
uno principe ha mandato fuori uno suo capitano in una espedizione importante, dove quel capitano,
vincendola, ne abbi acquistata assai gloria, quel principe o quel popolo è tenuto allo incontro a
premiarlo: e se, in cambio di premio, o e' lo disonora o e' l'offende, mosso dall'avarizia, non
volendo, ritenuto da questa cupidità, satisfarli; fa uno errore che non ha scusa, anzi si tira dietro una
infamia eterna. Pure si truova molti principi che ci peccono. E Cornelio Tacito dice, con questa
sentenzia, la cagione: «Proclivius est iniuriae, quam beneficio vicem exsolvere, quia gratia oneri,
ultio in questu habetur». Ma quando ei non lo premia, o, a dir meglio, l'offende, non mosso da
avarizia ma da sospetto, allora merita, e il popolo e il principe, qualche scusa. E di queste
ingratitudini, usate per tale cagione, se ne legge assai: perché quello capitano il quale virtuosamente
ha acquistato uno imperio al suo signore, superando i nimici, e riempiendo sé di gloria e gli suoi
soldati di ricchezze, di necessità, e con i soldati suoi, e con i nimici, e con i sudditi propri di quel
principe, acquista tanta riputazione, che quella vittoria non può sapere di buono a quel signore che
lo ha mandato. E perché la natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa, e non sa porre modo a
nessuna sua fortuna, è impossibile che quel sospetto che subito nasce nel principe dopo la vittoria di
quel suo capitano, non sia da quel medesimo accresciuto per qualche suo modo o termine usato
insolentemente. Talché il principe non può pensare a altro che assicurarsene: e, per fare questo, ei
pensa o di farlo morire o di torgli la riputazione, che si ha guadagnata nel suo esercito o ne' suoi
popoli; e con ogni industria mostrare che quella vittoria è nata non per la virtù di quello ma per
fortuna, o per viltà de' nimici, o per prudenza degli altri capi che sono stati seco in tale fazione.
Poiché Vespasiano, sendo in Giudea fu dichiarato dal suo esercito imperadore, Antonio Primo, che
si trovava con un altro esercito in Illiria, prese le parti sue, e vennene in Italia contro a Vitellio,
quale regnava a Roma, e virtuosissimamente ruppe dua eserciti Vitelliani, e occupò Roma, talché
Muziano, mandato da Vespasiano, trovò, per la virtù d'Antonio, acquistato il tutto, e vinta ogni
difficultà. Il premio che Antonio ne riportò, fu che Muziano gli tolse subito la ubbidienza dello
esercito, e a poco a poco lo ridusse in Roma sanza alcuna autorità: talché Antonio ne andò a trovare
Vespasiano, quale era ancora in Asia, dal quale fu in modo ricevuto, che, in breve tempo, ridotto in
nessuno grado, quasi disperato morì. E di questi esempli ne sono piene le istorie. Ne' nostri tempi,
ciascuno che al presente vive, sa con quanta industria e virtù Consalvo Ferrante, militando nel
regno di Napoli contro a' Franciosi, per Ferrando re di Ragona, conquistassi e vincessi quel regno; e
come, per premio di vittoria, ne riportò che Ferrando si partì da Ragona, e, venuto a Napoli, in
prima gli levò la ubbidienza delle genti d'armi, dipoi gli tolse le fortezze, ed appresso lo menò seco
in Spagna; dove, poco tempo poi, inonorato, morì. È tanto, dunque, naturale questo sospetto ne'
principi, che non se ne possono difendere; ed è impossibile ch'egli usino gratitudine a quelli che con
vittoria hanno fatto, sotto le insegne loro, grandi acquisti.
E da quello che non si difende un principe, non è miracolo, né cosa degna di maggior memoria, se
uno popolo non se ne difende. Perché, avendo una città che vive libera, duoi fini, l'uno lo
acquistare, l'altro il mantenersi libera; conviene che nell'una cosa e nell'altra per troppo amore erri.
Quanto agli errori nello acquistare, se ne dirà nel luogo suo. Quanto agli errori per mantenersi
libera, sono, intra gli altri, questi: di offendere quegli cittadini che la doverrebbe premiare; avere
sospetto di quegli in cui la si doverrebbe confidare. E benché questi modi in una republica venuta
alla corruzione sieno cagione di gran mali, e che molte volte piuttosto la viene alla tirannide, come
intervenne a Roma di Cesare, che per forza si tolse quello che la ingratitudine gli negava;
nondimeno in una republica non corrotta sono cagione di gran beni, e fanno che la ne vive libera;
più mantenendosi, per paura di punizione, gli uomini migliori e meno ambiziosi. Vero è che infra
tutti i popoli che mai ebbero imperio, per le cagioni di sopra discorse, Roma fu la meno ingrata:
perché della sua ingratitudine si può dire che non ci sia altro esemplo che quello di Scipione; perché
Coriolano e Cammillo furono fatti esuli per ingiuria che l'uno e l'altro avea fatto alla plebe. Ma
all'uno non fu perdonato, per aversi sempre riserbato contro al popolo l'animo inimico; l'altro, non
solamente fu richiamato, ma per tutti i tempi della sua vita adorato come principe. Ma la
ingratitudine usata a Scipione nacque da uno sospetto che i cittadini cominciarono avere di lui, che
degli altri non si era avuto: il quale nacque dalla grandezza del nimico che Scipione aveva vinto,
dalla riputazione che gli aveva data la vittoria di sì lunga e pericolosa guerra, dalla celerità di essa,
dai favori che la gioventù, la prudenza, e le altre sue memorabili virtudi gli acquistavano. Le quali
cose furono tante, che, non che altro, i magistrati di Roma temevano della sua autorità: la quale cosa
dispiaceva agli uomini savi, come cosa inusitata in Roma. E parve tanto straordinario il vivere suo,
che Catone Prisco, riputato santo, fu il primo a fargli contro; e a dire che una città non si poteva
chiamare libera, dove era uno cittadino che fusse temuto dai magistrati. Talché se il popolo di Roma
seguì in questo caso la opinione di Catone, merita quella scusa che di sopra ho detto meritare quegli
popoli e quegli principi che per sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque questo discorso, dico
che, usandosi questo vizio della ingratitudine o per avarizia o per sospetto, si vedrà come i popoli
non mai per avarizia la usarono, e per sospetto assai manco che i principi, avendo meno cagione di
sospettare: come di sotto si dirà.
<B>30</B>
<B>Quali modi debbe usare uno principe </B>
<B>o una republica per fuggire questo vizio </B>
<B>della ingratitudine; e quali quel capitano </B>
<B>o quel cittadino per non essere oppresso </B>
<B>da quella. </B>
Uno principe, per fuggire questa necessità di avere a vivere con sospetto, o essere ingrato, debbe
personalmente andare nelle espedizioni, come facevono nel principio quegli imperadori romani,
come fa ne' tempi nostri il Turco, e come hanno fatto e fanno quegli che sono virtuosi. Perché,
vincendo, la gloria e lo acquisto è tutto loro, e quando ei non vi sono, sendo la gloria d'altrui, non
par loro potere usare quello acquisto, se non spengano in altrui quella gloria che loro non hanno
saputo guadagnarsi; e diventono ingrati ed ingiusti: e sanza dubbio è maggiore la loro perdita che il
guadagno. Ma quando, o per negligenza o per poca prudenza, e' si rimangono a casa oziosi, e
mandano uno capitano; io non ho che precetto dare loro, altro che quello che per loro medesimi si
sanno. Ma dico bene a quel capitano, giudicando io che non possa fuggire i morsi della
ingratitudine, che facci una delle due cose: o subito dopo la vittoria lasci lo esercito, e rimettasi
nelle mani del suo principe, guardandosi da ogni atto insolente o ambizioso, acciocché quello,
spogliato d'ogni sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di non lo offendere; o, quando questo non
gli paia di fare, prenda animosamente la parte contraria, e tenga tutti quelli modi per li quali creda
che quello acquisto sia suo proprio e non del principe suo, faccendosi benivoli i soldati ed i sudditi;
e facci nuove amicizie co' vicini, occupi con li suoi uomini le fortezze, corrompa i principi del suo
esercito, e di quelli che non può corrompere si assicuri; e per questi modi cerchi di punire il suo
signore di quella ingratitudine che esso gli userebbe. Altre vie non ci sono: ma, come di sopra si
disse, gli uomini non sanno essere né al tutto tristi, né al tutto buoni; e sempre interviene che, subito
dopo la vittoria, lasciare lo esercito non vogliono, portarsi modestamente non possono, usare
termini violenti e che abbiano in sé l'onorevole non sanno; talché, stando ambigui, intra quella loro
dimora ed ambiguità, sono oppressi.
Quanto a una republica, volendo fuggire questo vizio dello ingrato, non si può dare il medesimo
rimedio che al principe; cioè che vadia, e non mandi, nelle espedizioni sue, sendo necessitata a
mandare uno suo cittadino. Conviene, pertanto, che per rimedio io le dia, che la tenga i medesimi
modi che tenne la Republica romana a essere meno ingrata che l'altre. Il che nacque dai modi del
suo governo. Perché, adoperandosi tutta la città, e gli nobili e gli ignobili, nella guerra, surgeva
sempre in Roma in ogni età tanti uomini virtuosi, ed ornati di varie vittorie, che il popolo non aveva
cagione di dubitare d'alcuno di loro, sendo assai, e guardando l'uno l'altro. E in tanto si
mantenevano interi e respettivi di non dare ombra di alcuna ambizione né cagione al popolo, come
ambiziosi, l'offendergli, che, venendo alla dittatura quello maggiore gloria ne riportava che più
tosto la diponeva. E così, non potendo simili modi generare sospetto, non generavano ingratitudine.
In modo che, una republica che non voglia avere cagione d'essere ingrata, si debba governare come
Roma, e uno cittadino che voglia fuggire quelli suoi morsi, debbe osservare i termini osservati da'
cittadini romani.
<B>31</B>
<B>Che i capitani romani per errore </B>
<B>commesso non furano mai </B>
<B>istraordinariamente puniti; né furano </B>
<B>mai ancora puniti </B>
<B>quando per la ignoranza loro </B>
<B>o tristi partiti presi da loro </B>
<B>ne fusse seguiti danni alla republica. </B>
I Romani non solamente, come di sopra avemo discorso, furano manco ingrati che l'altre
republiche, ma ancora furano più pii e più rispettivi nella punizione de' loro capitani degli eserciti
che alcuna altra. Perché se il loro errore fusse stato per malizia, e' lo gastigavano umanamente; se
gli era per ignoranza, non che lo punissono, e' lo premiavano ed onoravano. Questo modo del
procedere era bene considerato da loro: perché e' giudicavano che fusse di tanta importanza, a quelli
che governavano gli eserciti loro, lo avere l'animo libero ed espedito, e sanza altri estrinseci rispetti
nel pigliare i partiti, che non volevono aggiugnere, a una cosa per sé stessa difficile e pericolosa,
nuove difficultà e pericoli; pensando che, aggiugnendoveli, nessuno potessi essere che operassi mai
virtuosamente. Verbigrazia, e' mandavano uno esercito in Grecia contro a Filippo di Macedonia, o
in Italia contro a Annibale, o contro a quelli popoli che vinsono prima. Era, questo capitano che era
preposto a tale espedizione, angustiato da tutte quelle cure che si arrecavano dietro quelle faccende,
le quali sono gravi e importantissime. Ora, se a tali cure si fussi aggiunto più esempli de' Romani
ch'eglino avessono crucifissi o altrimenti morti quelli che avessono perdute le giornate, egli era
inpossibile che quello capitano intra tanti sospetti potessi deliberare strenuamente. Però, giudicando
essi che a questi tali fusse assai pena la ignominia dello avere perduto, non li vollono con altra
maggiore pena sbigottire.
Uno esemplo ci è, quanto allo errore commesso non per ignoranza. Erano Sergio e Virginio a
campo a Veio, ciascuno preposto a una parte dello esercito; de' quali Sergio era all'incontro donde
potevono venire i Toscani, e Virginio dall'altra parte. Occorse che, sendo assaltato Sergio da' Falisci
e da altri popoli, sopportò di essere rotto e fugato prima che mandare per aiuto a Virginio. E
dall'altra parte Virginio, aspettando che si umiliasse, volle più tosto vedere il disonore della patria
sua e la rovina di quello esercito, che soccorrerlo. Caso veramente malvagio e degno d'essere
notato, e da fare non buona coniettura della Republica romana, se l'uno o l'altro non fussono stati
gastigati. Vero è che, dove un'altra republica gli averebbe puniti di pena capitale, quella gli punì in
denari. Il che nacque non perché i peccati loro non meritassono maggiore punizione, ma perché gli
Romani vollono in questo caso, per le ragioni già dette, mantenere gli antichi costumi loro. E
quando agli errori per ignoranza, non ci è il più bello esemplo che quello di Varrone: per la temerità
del quale sendo rotti i Romani a Canne da Annibale, dove quella Republica portò pericolo della sua
libertà; nondimeno, perché vi fu ignoranza e non malizia, non solamente non lo gastigarono ma lo
onorarono; e gli andò incontro, nella tornata sua in Roma, tutto l'ordine senatorio: e non lo potendo
ringraziare della zuffa, lo ringraziarono ch'egli era tornato in Roma, e non si era disperato delle cose
romane. Quando Papirio Cursore voleva fare morire Fabio, per avere, contro al suo comandamento,
combattuto co' Sanniti; intra le altre ragioni che dal padre di Fabio erano assegnate contro alla
ostinazione del dittatore, era che il popolo romano in alcuna perdita de' suoi capitani non aveva
fatto mai quello che Papirio nelle vittorie voleva fare.
<B>32</B>
<B>Una republica o uno principe </B>
<B>non debbe differire </B>
<B>a beneficare gli uomini </B>
<B>nelle sue necessitadi. </B>
Ancora che ai Romani succedesse felicemente essere liberali al popolo, sopravvenendo il pericolo,
quando Porsenna venne a assaltare Roma per rimettere i Tarquinii; dove il Senato, dubitando della
plebe, che la non volesse più tosto accettare i re che sostenere la guerra, per assicurarsene la sgravò
delle gabelle del sale, e d'ogni gravezza, dicendo come i poveri assai operavano in beneficio publico
se ei nutrivono i loro figliuoli; e che per questo beneficio quel popolo si esponessi a sopportare
ossidione, fame e guerra; non sia alcuno che, confidatosi in questo esemplo, differisca ne' tempi de'
pericoli a guadagnarsi il popolo; però che mai gli riuscirà quello che riuscì ai Romani. Perché
l'universale giudicherà non avere quel bene da te, ma dagli avversari tuoi, e dovendo temere che,
passata la necessità, tu ritolga loro quello che hai forzatamente loro dato, non arà teco obligo
alcuno. E la cagione perché a' Romani tornò bene questo partito, fu perché lo stato era nuovo, e non
per ancora fermo; e aveva veduto quel popolo, come innanzi si erano fatte leggi in beneficio suo,
come quella dell'appellagione alla plebe; in modo che ei potette persuadersi che quel bene gli era
fatto, non era tanto causato dalla venuta dei nimici, quanto dalla disposizione del Senato in
beneficarli. Oltre a questo, la memoria dei re era fresca, dai quali erano stati in molti modi vilipesi e
ingiuriati. E perché simili cagioni accaggiono rade volte, occorrerà ancora rade volte che simili
rimedi giovino. Però, debbe qualunque tiene stato, così republica come principe, considerare
innanzi, quali tempi gli possono venire addosso contrari, e di quali uomini ne' tempi avversi si può
avere di bisogno; e dipoi vivere con loro in quello modo che giudica, sopravvegnente qualunque
caso, essere necessitato vivere. E quello che altrimenti si governa, o principe o republica, e massime
un principe, e poi in sul fatto crede, quando il pericolo sopravviene, con i beneficii riguadagnarsi gli
uomini, se ne inganna: perché, non solamente non se ne assicura, ma accelera la sua rovina.
<B>33</B>
<B>Quando uno inconveniente è cresciuto </B>
<B>o in uno stato o contro a uno stato, </B>
<B>è più salutifero partito temporeggiarlo </B>
<B>che urtarlo. </B>
Crescendo la Republica romana in riputazione, forze ed imperio, i vicini, i quali prima non avevano
pensato quanto quella nuova republica potesse arrecare loro di danno, cominciarono, ma tardi, a
conoscere lo errore loro; e volendo rimediare a quello che prima non aveano rimediato,
congiurarono bene quaranta popoli contro a Roma: donde i Romani intra gli altri rimedii soliti farsi
da loro negli urgenti pericoli, si volsono a creare il Dittatore, cioè dare potestà a uno uomo che
sanza alcuna consulta potesse diliberare, e sanza alcuna appellagione potesse esequire le sue
diliberazioni. Il quale rimedio, come allora fu utile, e fu cagione che vincessero i soprastanti
pericoli, così fu sempre utilissimo in tutti quegli accidenti che, nello augumento dello imperio, in
qualunque tempo surgessono contro alla Republica.
Sopra il quale accidente è da discorrere prima, come, quando uno inconveniente, che surga o in una
republica o contro a una republica, causato da cagione intrinseca o estrinseca, è diventato tanto
grande che e' cominci a fare paura a ciascuno, è molto più sicuro partito temporeggiarsi con quello,
che tentare di estinguerlo. Perché, quasi sempre, coloro che tentano di ammorzarlo fanno le sue
forze maggiori, e fanno accelerare quel male che da quello si sospettava. E di questi simili accidenti
ne nasce nella republica più spesso per cagione intrinseca che estrinseca: dove molte volte, o e' si
lascia pigliare ad uno cittadino più forze che non è ragionevole, o e' si comincia a corrompere una
legge, la quale è il nervo e la vita del vivere libero; e lasciasi trascorrere questo errore in tanto, che
gli è più dannoso partito il volere rimediare che lasciarlo seguire. E tanto è più difficile il conoscere
questi inconvenienti quando e' nascono, quanto e' pare più naturale agli uomini favorire sempre i
principii delle cose: e tali favori possano, più che in alcuna altra cosa, nelle opere che paiano che
abbiano in sé qualche virtù e siano operate da' giovani. Perché se in una republica si vede surgere
uno giovane nobile, quale abbia in sé virtù istraordinaria, tutti gli occhi de' cittadini si cominciono a
voltare verso lui e concorrere,sanza alcuno rispetto, a onorarlo; in modo che, se in quello è punto
d'ambizione, accozzati i favori che gli dà la natura e questo accidente, viene subito in luogo che,
quando i cittadini si avveggono dello errore loro, hanno pochi rimedi ad ovviarvi e volendo quegli
tanti ch'egli hanno, operarli, non fanno altro che accelerare la potenza sua.
Di questo se ne potrebbe addurre assai esempli, ma io ne voglio solamente dare uno della città
nostra. Cosimo de' Medici, dal quale la casa de' Medici in la nostra città ebbe il principio della sua
grandezza, venne in tanta riputazione col favore che gli dette la sua prudenza e la ignoranza degli
altri cittadini, che ei cominciò a fare paura allo stato, in modo che gli altri cittadini giudicavano
l'offenderlo pericoloso ed il lasciarlo stare così, pericolosissimo. Ma vivendo in quei tempi Niccolò
da Uzzano, il quale nelle cose civili era tenuto uomo espertissimo, ed avendo fatto il primo errore di
non conoscere i pericoli che dalla riputazione di Cosimo potevano nascere; mentre che visse, non
permesse mai che si facesse il secondo, cioè che si tentasse di volerlo spegnere; giudicando tale
tentazione essere al tutto la rovina dello stato loro; come si vide in fatto, che fu, dopo la sua morte:
perché, non osservando quegli cittadini che rimasono, questo suo consiglio, si feciono forti contro a
Cosimo, e lo cacciorono da Firenze. Donde ne nacque che la sua parte, per questa ingiuria
risentitasi, poco di poi lo richiamò, e lo fece principe della republica: a il quale grado sanza quella
manifesta opposizione non sarebbe mai potuto salire.
Questo medesimo intervenne a Roma con Cesare, che, favorita da Pompeio e dagli altri quella sua
virtù, si convertì poco dipoi quel favore in paura: di che fa testimone Cicerone, dicendo che
Pompeio aveva tardi cominciato a temere Cesare. La quale paura fece che pensarono ai rimedi; e gli
rimedi che fecero, accelerarono la rovina della loro Republica.
Dico, adunque, che poi che gli è difficile conoscere questi mali quando ei surgano, causata questa
difficultà da uno inganno che ti fanno le cose in principio, è più savio partito il temporeggiarle poi
che le si conoscono, che l'oppugnarle: perché, temporeggiandole, o per loro medesime si spengono,
o almeno il male si differisce in più lungo tempo. E in tutte le cose debbono aprire gli occhi i
principi che disegnano cancellarle o alle forze ed impeto loro opporsi; di non dare loro, in cambio
di detrimento, augumento; e, credendo sospingere una cosa, tirarsela dietro, ovvero suffocare una
pianta a annaffiarla. Ma si debbano considerare bene le forze del malore, e quando ti vedi
sufficiente a sanare quello, metterviti sanza rispetto; altrimenti lasciarlo stare, né in alcun modo
tentarlo. Perché interverrebbe, come di sopra si discorre, come intervenne a' vicini di Roma: ai
quali, poiché Roma era cresciuta in tanta potenza, era più salutifero con gli modi della pace cercare
di placarla e ritenerla addietro, che coi modi della guerra farle pensare ai nuovi ordini e alle nuove
difese. Perché quella loro congiura non fece altro che farli più uniti, più gagliardi, e pensare a modi
nuovi, mediante i quali in più breve tempo ampliarono la potenza loro. Intra i quali fu la creazione
del Dittatore; per lo quale nuovo ordine, non solamente superarono i soprastanti pericoli ma fu
cagione di ovviare a infiniti mali, ne' quali sanza quello rimedio quella republica sarebbe incorsa.
<B>34</B>
<B>L'autorità dittatoria fece bene, </B>
<B>e non danno, alla Republica romana: </B>
<B>e come le autorità che i cittadini </B>
<B>si tolgono, non quelle che sono loro </B>
<B>dai suffragi liberi date, </B>
<B>sono alla vita civile perniziose. </B>
E' sono stati dannati da alcuno scrittore quelli Romani che trovarono in quella città modo di creare
il Dittatore, come cosa che fosse cagione, col tempo, della tirannide di Roma; allegando, come il
primo tiranno che fosse in quella città la comandò sotto questo titolo dittatorio; dicendo che, se non
vi fusse stato questo Cesare non arebbe potuto sotto alcuno titolo publico adonestare la sua
tirannide. La quale cosa non fu bene, da colui che tiene questa opinione, esaminata, e fu fuori d'ogni
ragione creduta. Perché, e' non fu il nome né il grado del Dittatore che facesse serva Roma, ma fu
l'autorità presa dai cittadini per la lunghezza dello imperio: e se in Roma fusse mancato il nome
dittatorio, ne arebbono preso un altro; perché e' sono le forze che facilmente si acquistano i nomi,
non i nomi le forze. E si vede che 'l Dittatore, mentre fu dato secondo gli ordini publici, e non per
autorità propria, fece sempre bene alla città. Perché e' nuocono alle republiche i magistrati che si
fanno e l'autoritadi che si dànno per vie istraordinarie, non quelle che vengono per vie ordinarie:
come si vede che seguì in Roma, in tanto processo di tempo, che mai alcuno Dittatore fece se non
bene alla Republica.
Di che ce ne sono ragioni evidentissime. Prima, perché a volere che un cittadino possa offendere, e
pigliarsi autorità istraordinaria, conviene ch'egli abbia molte qualità, le quali in una republica non
corrotta non può mai avere: perché gli bisogna essere ricchissimo, ed avere assai aderenti e
partigiani, i quali non può avere dove le leggi si osservano; e quando pure ve gli avessi, simili
uomini sono in modo formidabili, che i suffragi liberi non concorrano in quelli. Oltra di questo, il
Dittatore era fatto a tempo, e non in perpetuo, e per ovviare solamente a quella cagione mediante la
quale era creato; e la sua autorità si estendeva in potere diliberare per sé stesso circa i rimedi di
quello urgente pericolo, e fare ogni cosa sanza consulta, e punire ciascuno sanza appellagione: ma
non poteva fare cosa che fussi in diminuzione dello stato; come sarebbe stato tôrre autorità al
Senato o al Popolo, disfare gli ordini vecchi della città, e farne de' nuovi. In modo che, raccozzato il
breve tempo della sua dittatura, e le autorità limitate che egli aveva, ed il popolo romano non
corrotto; era impossibile ch'egli uscisse de' termini suoi, e nocessi alla città: e per esperienza si vede
che sempre mai giovò.
E veramente, infra gli altri ordini romani, questo è uno che merita essere considerato e numerato
infra quegli che furono cagione della grandezza di tanto imperio; perché sanza uno simile ordine le
cittadi con difficultà usciranno degli accidenti istraordinari. Perché gli ordini consueti nelle
republiche hanno il moto tardo (non potendo alcuno consiglio né alcuno magistrato per sé stesso
operare ogni cosa, ma avendo in molte cose bisogno l'uno dell'altro, e perché nel raccozzare insieme
questi voleri va tempo) sono i rimedi loro pericolosissimi, quando egli hanno a rimediare a una cosa
che non aspetti tempo. E però le republiche debbano intra loro ordini avere uno simile modo: e la
Republica viniziana, la quale intra le moderne republiche è eccellente, ha riservato autorità a pochi
cittadini, che ne' bisogni urgenti, sanza maggiore consulta, tutti d'accordo possino deliberare.
Perché, quando in una republica manca uno simile modo, è necessario, o, servando gli ordini,
rovinare, o, per non ruinare, rompergli. Ed in una republica non vorrebbe mai accadere cosa che
con modi straordinari si avesse a governare. Perché, ancora che il modo straordinario per allora
facesse bene, nondimeno lo esemplo fa male; perché si mette una usanza di rompere gli ordini per
bene, che poi, sotto quel colore, si rompono per male. Talché mai fia perfetta una republica, se con
le leggi sue non ha provisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio, e dato il modo a
governarlo. E però, conchiudendo, dico che quelle republiche, le quali negli urgenti pericoli non
hanno rifugio o al Dittatore o a simili autoritadi, sempre ne' gravi accidenti rovineranno. È da notare
in questo nuovo ordine il modo dello eleggerlo, quanto dai Romani fu saviamente provisto. Perché,
sendo la creazione del Dittatore con qualche vergogna dei Consoli, avendo, di capi della città, a
divenire sotto una ubbidienza come gli altri; e presupponendo che di questo avessi a nascere
isdegno fra' cittadini; vollono che l'autorità dello eleggerlo fosse nei Consoli: pensando che, quando
l'accidente venisse che Roma avesse bisogno di questa regia potestà, ei lo avessono a fare volentieri
e facendolo loro, che dolesse loro meno. Perché le ferite ed ogni altro male che l'uomo si fa da sé
spontaneamente e per elezione, dolgano di gran lunga meno, che quelle che ti sono fatte da altrui.
Ancora che poi negli ultimi tempi i Romani usassono, in cambio del Dittatore, di dare tale autorità
al Console, con queste parole: «Videat Consul, ne Respublica quid detrimenti capiat». E per tornare
alla materia nostra, conchiudo, come i vicini di Roma, cercando opprimergli, gli fecerono ordinare,
non solamente a potersi difendere, ma a potere, con più forza, più consiglio e più autorità, offendere
loro.
<B>35</B>
<B>La cagione perché la creazione in Roma </B>
<B>del Decemvirato fu nociva alla libertà </B>
<B>di quella republica, non ostante </B>
<B>che fusse creato per suffragi publici </B>
<B>e liberi. </B>
E' pare contrario a quel che di sopra è discorso, che quella autorità che si occupa con violenza, non
quella ch'è data con gli suffragi, nuoce alle republiche, la elezione dei dieci cittadini creati dal
Popolo romano per fare le leggi in Roma: i quali ne diventarono con il tempo tiranni, e sanza alcuno
rispetto occuparono la libertà di quella. Dove si debbe considerare i modi del dare l'autorità e il
tempo per che la si dà. E quando e' si dia autorità libera, col tempo lungo, chiamando il tempo lungo
uno anno o più, sempre fia pericolosa, e farà gli effetti o buoni o rei, secondo che siano rei o buoni
coloro a chi la sarà data. E se si considerrà l'autorità che ebbero i Dieci, e quella che avevano i
Dittatori, si vedrà, sanza comparazione, quella de' Dieci maggiore. Perché, creato il Dittatore,
rimanevano i Tribuni, i Consoli, il Senato, con la loro autorità; né il Dittatore la poteva tôrre loro: e
s'egli avessi potuto privare, uno del Consolato, uno del Senato, ei non poteva annullare l'ordine
senatorio, e fare nuove leggi. In modo che il Senato, i Consoli, i Tribuni, restando con l'autorità
loro, venivano a essere come sua guardia, a farlo non uscire della via diritta. Ma nella creazione de'
Dieci occorse tutto il contrario: perché gli annullorono i Consoli ed i Tribuni; dettero loro autorità
di fare legge, ed ogni altra cosa, come il Popolo romano. Talché, trovandosi soli, sanza Consoli,
sanza Tribuni, sanza appellagione al Popolo; e per questo non venendo ad avere chi gli osservasse
ei poterono, il secondo anno, mossi dall'ambizione di Appio, diventare insolenti. E per questo si
debbe notare, che, quando e' si è detto che una autorità, data da' suffragi liberi, non offese mai
alcuna republica, si presuppone che un popolo non si conduca mai a darla, se non con le debite
circunstanze e ne' debiti tempi: ma quando, o per essere ingannato, o per qualche altra cagione che
lo accecasse, e' si conducesse a darla imprudentemente, e nel modo che il Popolo romano la dette a'
Dieci gl'interverrà sempre come a quello. Questo si prova facilmente, considerando quali cagioni
mantenessero i Dittatori buoni, e quali facessero i Dieci cattivi; e considerando ancora, come hanno
fatto quelle republiche che sono state tenute bene ordinate, nel dare l'autorità per lungo tempo,
come davano gli Spartani agli loro Re, e come dànno i Viniziani ai loro Duci: perché si vedrà,
all'uno ed all'altro modo di costoro essere poste guardie, che facevano che ei non potevano usare
male quella autorità. Né giova, in questo caso, che la materia non sia corrotta; perché una autorità
assoluta in brevissimo tempo corrompe la materia e si fa amici e partigiani. Né gli nuoce, o essere
povero, o non avere parenti; perché le ricchezze ed ogni altro favore subito gli corre dietro: come
particularmente nella creazione de' detti Dieci discorrereno.
<B>36</B>
<B>Non debbano i cittadini, </B>
<B>che hanno avuti i maggiori onori, </B>
<B>sdegnarsi de' minori. </B>
Avevano i Romani fatto Marco Fabio e G. Manilio consoli, e vinta una gloriosissima giornata
contro a' Veienti e gli Etruschi; nella quale fu morto Quinto Fabio, fratello del consolo, quale lo
anno davanti era stato consolo. Dove si debbe considerare quanto gli ordini di quella città erano atti
a farla grande; e quanto le altre republiche, che si discostono da' modi suoi, s'ingannino. Perché,
ancora che i Romani fossono amatori grandi della gloria, nondimeno non stimavano così
disonorevole ubbidire ora a chi altra volta essi avevano comandato, e trovarsi a servire in quello
esercito del quale erano stati principi. Il quale costume è contrario alla opinione, ordini e modi de'
cittadini de' tempi nostri: ed in Vinegia è ancora questo errore, che uno cittadino, avendo avuto un
grado grande, si vergogni di accettarne uno minore; e la città gli consenta che se ne possa
discostare. La quale cosa, quando fusse onorevole per il privato, è al tutto inutile per il publico.
Perché più speranza debbe avere una republica, e più confidare in uno cittadino che da uno grado
grande scenda a governare uno minore che in quello che da uno minore salga a governare uno
maggiore. Perché a costui non può ragionevolmente credere, se non gli vede uomini intorno, i quali
siano di tanta riverenza o di tanta virtù che la novità di colui possa essere, con il consiglio ed
autorità loro, moderata. E quando in Roma fosse stata la consuetudine quale è a Vinegia e nell'altre
republiche e regni moderni, che chi era stato una volta Consolo non volesse mai più andare negli
eserciti se non Consolo, ne sarebbero nate infinite cose in disfavore del vivere libero; e per gli errori
che arebbon fatti gli uomini nuovi, e per l'ambizione che loro arebbono potuta usare meglio, non
avendo uomini intorno, nel cospetto de' quali ei temessono errare; e così sarebbero venuti a essere
più sciolti: il che sarebbe tornato tutto in detrimento publico.
<B>37</B>
<B>Quali scandoli partorì in Roma </B>
<B>la legge agraria: e come fare una legge </B>
<B>in una republica, che riguardi </B>
<B>assai indietro, e sia contro a una </B>
<B>consuetudine antica della città, </B>
<B>è scandolosissimo. </B>
Egli è sentenzia degli antichi scrittori, come gli uomini sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel
bene; e come dall'una e dall'altra di queste due passioni nascano i medesimi effetti. Perché,
qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per ambizione; la quale
è tanto potente ne' petti umani, che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La cagione è,
perché la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa, e non possono
conseguire ogni cosa: talché, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare,
ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d'esso. Da questo
nasce il variare della fortuna loro: perché, disiderando gli uomini, parte di avere più, parte temendo
di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie ed alla guerra; dalla quale nasce la rovina di
quella provincia e la esaltazione di quell'altra. Questo discorso ho fatto, perché alla Plebe romana
non bastò assicurarsi de' nobili per la creazione de' Tribuni, al quale desiderio fu costretta per
necessità; che lei, subito, ottenuto quello, cominciò a combattere per ambizione, e volere con la
Nobiltà dividere gli onori e le sustanze, come cosa stimata più dagli uomini. Da questo nacque il
morbo che partorì la contenzione della legge agraria, che infine fu causa della distruzione della
Republica. E perché le republiche bene ordinate hanno a tenere ricco il publico e gli loro cittadini,
poveri, convenne che fusse nella città di Roma difetto in questa legge: la quale o non fusse fatta nel
principio in modo che la non si avesse ogni dì a ritrattare, o che si differisse tanto in farla, che fosse
scandoloso il riguardarsi indietro o, sendo ordinata bene da prima, era stata poi dall'uso corrotta,
talché in qualunque modo si fusse, mai non si parlò di questa legge in Roma, che quella città non
andasse sottosopra.
Aveva questa legge due capi principali. Per l'uno si disponeva che non si potesse possedere per
alcuno cittadino più che tanti iugeri di terra; per l'altro, che i campi di che si privavano i nimici, si
dividessono intra il popolo romano. Veniva pertanto a fare di dua sorte offese ai nobili: perché
quegli che possedevano più beni non permetteva la legge (quali erano la maggiore parte de' nobili),
ne avevano a essere privi, e dividendosi intra la plebe i beni de' nimici, si toglieva a quegli la via
dello arricchire. Sicché, venendo a essere queste offese contro a uomini potenti, e, che pareva loro,
contrastandola, difendere il publico, qualunque volta, come è detto, si ricordava, andava sottosopra
tutta quella città: e i nobili con pazienza ed industria la temporeggiavano o con trarre fuora uno
esercito o che a quel Tribuno che la proponeva si opponesse un altro Tribuno, o talvolta cederne
parte, ovvero mandare una colonia in quel luogo che si avesse a distribuire: come intervenne del
contado di Anzio, per il quale surgendo questa disputa della legge, si mandò in quel luogo una
colonia, tratta di Roma, alla quale si consegnasse detto contado. Dove Tito Livio usa un termine
notabile, dicendo che con difficultà si trovò in Roma chi desse il nome per ire in detta colonia: tanto
era quella plebe più pronta a volere desiderare le cose in Roma, che a possederle in Anzio. Andò
questo omore di questa legge, così, travagliandosi un tempo, tanto che gli Romani cominciarono a
condurre le loro armi nelle estreme parti di Italia, o fuori di Italia; dopo al quale tempo parve che la
cessassi. Il che nacque perché i campi che possedevano i nimici di Roma essendo discosti agli occhi
della plebe, ed in luogo dove non gli era facile il cultivargli, veniva a essere meno desiderosa di
quegli: e ancora i Romani erano meno punitori de' loro nimici in simil modo; e quando pure
spogliavano alcuna terra del suo contado, vi distribuivano colonie. Tanto che, per tali cagioni,
questa legge stette come addormentata infino ai Gracchi; da' quali essendo poi svegliata, rovinò al
tutto la libertà romana; perché la trovò raddoppiata la potenza de' suoi avversari, e si accese, per
questo, tanto odio intra la Plebe ed il Senato, che si venne nelle armi ed al sangue, fuori d'ogni
modo e costume civile. Talché, non potendo i publici magistrati rimediarvi, né sperando più alcuna
delle fazioni in quegli, si ricorse ai rimedi privati, e ciascuna delle parti pensò di farsi uno capo che
la difendesse. Prevenne in questo scandolo e disordine la plebe, e volse la sua riputazione a Mario
tanto che la lo fece quattro volte consule; ed in tanto continovò con pochi intervalli il suo consolato,
che si potette per sé stesso far consulo tre altre volte. Contro alla quale peste non avendo la Nobilità
alcuno rimedio, si volse a favorire Silla; e fatto, quello, capo della parte sua, vennero alle guerre
civili; e, dopo molto sangue e variare di fortuna, rimase superiore la Nobilità. Risuscitarono poi
questi omori a tempo di Cesare e di Pompeio; perché, fattosi Cesare capo della parte di Mario, e
Pompeio di quella di Silla, venendo alle mani, rimase superiore Cesare: il quale fu primo tiranno in
Roma; talché mai fu poi libera quella città.
Tale, adunque, principio e fine ebbe la legge agraria. E benché noi mostrassimo altrove, come le
inimicizie di Roma intra il Senato e la Plebe mantenessero libera Roma, per nascerne, da quelle,
leggi in favore della libertà, e per questo paia disforme a tale conclusione il fine di questa legge
agraria; dico come, per questo, io non mi rimuovo da tale opinione: perché gli è tanta l'ambizione
de' grandi, che, se per varie vie ed in vari modi ella non è in una città sbattuta, tosto riduce quella
città alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare
Roma serva, si sarebbe condotta, per avventura, molto più tosto in servitù quando la plebe, e con
questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato l'ambizione de' nobili. Vedesi per
questo ancora, quanto gli uomini stimano più la roba che gli onori. Perché la Nobilità romana
sempre negli onori cede sanza scandoli straordinari alla plebe; ma come si venne alla roba fu tanta
la ostinazione sua nel difenderla, che la plebe ricorse, per isfogare l'appetito suo, a quegli
straordinari che di sopra si discorrono. Del quale disordine furono motori i Gracchi, de' quali si
debbe laudare più la intenzione che la prudenzia. Perché, a volere levar via uno disordine cresciuto
in una republica, e per questo fare una legge che riguardi assai indietro, è partito male considerato;
e, come di sopra largamente si discorse, non si fa altro che accelerare quel male, a che quel
disordine ti conduce: ma, temporeggiandolo, o il male viene più tardo, o per sé medesimo col tempo
avanti che venga al fine suo, si spegne.
<B>38</B>
<B>Le republiche deboli sono male risolute </B>
<B>e non si sanno diliberare; e se le pigliano </B>
<B>mai alcun partito, nasce più da necessità </B>
<B>che da elezione. </B>
Essendo in Roma una gravissima pestilenza, e parendo per questo agli Volsci ed agli Equi che fusse
venuto il tempo di potere oppressare Roma, fatto questi due popoli uno grossissimo esercito,
assaltarono i Latini e gli Ernici; e guastando il loro paese, furono costretti i Latini e gli Ernici farlo
intendere a Roma, e pregare che fossero difesi da' Romani: ai quali, sendo i Romani gravati dal
morbo, risposero che pigliassero partito di difendersi da loro medesimi e con le loro armi, perché
essi non gli potevano difendere. Dove si conosce la generosità e prudenza di quel Senato, e come
sempre in ogni fortuna volle essere quello che fusse principe delle diliberazioni che avessero a
pigliare i suoi; né si vergognò mai diliberare una cosa che fusse contraria al suo modo di vivere o ad
altre diliberazioni fatte da lui, quando la necessità gliene comandava.
Questo dico, perché altre volte il medesimo Senato aveva vietato ai detti popoli l'armarsi e
difendersi; talché a uno Senato meno prudente di questo sarebbe paruto cadere del grado suo a
concedere loro tale difensione. Ma quello sempre giudicò le cose come si debbano giudicare, e
sempre prese il meno reo partito per migliore: perché male gli sapeva non potere difendere i suoi
sudditi, male gli sapeva che si armassero sanza loro, per le ragioni dette e per molte altre che
s'intendano: nondimeno, conoscendo che si sarebbono armati, per necessità, a ogni modo, avendo il
nimico addosso; prese la parte onorevole, e volle che quello che gli aveano a fare, lo facessero con
licenza sua, acciocché, avendo disubbidito per necessità, non si avvezzassero a disubbidire per
elezione. E benché questo paia partito che da ciascuna republica dovesse essere preso,
nientedimeno le republiche deboli e male consigliate non gli sanno pigliare, né si sanno onorare di
simili necessità. Aveva il duca Valentino presa Faenza, e fatto calare Bologna agli accordi suoi.
Dipoi, volendo tornarsene a Roma per la Toscana, mandò in Firenze uno suo uomo a domandare il
passo per sé e per lo esercito suo. Consultossi in Firenze come si avesse a governare questa cosa, né
fu mai consigliato per alcuno di concedergliene. In che non si seguì il modo romano: perché, sendo
il Duca armatissimo, ed i Fiorentini in modo disarmati che non gli potevan vietare il passare, era
molto più onore loro, che paresse che passasse con volontà di quegli, che a forza; perché, dove vi fu
al tutto il loro vituperio, sarebbe stato in parte minore quando l'avessero governata altrimenti. Ma la
più cattiva parte che abbiano le republiche deboli, è essere inresolute; in modo che tutti i partiti che
le pigliono, gli pigliono per forza; e se vien loro fatto alcun bene, lo fanno forzate, e non per
prudenza loro.
Io voglio dare di questo due altri esempli, occorsi ne' tempi nostri, nello stato della nostra città.
Nel 1500, ripreso che il re Luigi XII di Francia ebbe Milano, desideroso di rendervi Pisa, per avere
cinquantamila ducati che gli erano stati promessi da' Fiorentini dopo tale restituzione, mandò gli
suoi eserciti verso Pisa, capitanati da monsignore di Beumonte; benché francese, nondimanco uomo
in cui i Fiorentini assai confidavano. Condussesi questo esercito e questo capitano intra Cascina e
Pisa, per andare a combattere le mura; dove dimorando alcuno giorno per ordinarsi alla
espugnazione, vennono oratori Pisani a Beumonte, e gli offerirono di dare la città allo esercito
francese con questi patti: che, sotto la fede del re, promettesse non la mettere in mano de' Fiorentini,
prima che dopo quattro mesi. Il quale partito fu da' Fiorentini al tutto rifiutato, in modo che si seguì
nello andarvi a campo e partirsene con vergogna. Né fu rifiutato il partito per altra cagione che per
diffidare della fede del re; come quegli che per debolezza di consiglio si erano per forza messi nelle
mani sue, e, dall'altra parte, non se ne fidavano, ne vedevano quanto era meglio che il re potesse
rendere loro Pisa sendovi dentro, e, non la rendendo, scoprire l'animo suo, che, non la avendo,
poterla loro promettere, e loro essere forzati comperare quelle promesse. Talché, molto più
utilmente arebbono fatto a acconsentire che Beumonte l'avessi, sotto qualunque promessa, presa:
come se ne vide la esperienza dipoi nel 1502, che, essendosi ribellato Arezzo, venne ai soccorsi de'
Fiorentini mandato da il re di Francia monsignor Imbalt con gente francese; il quale, giunto
propinquo ad Arezzo, dopo poco tempo cominciò a praticare accordo con gli Aretini, i quali sotto
certa fede volevon dare la terra, a similitudine de' Pisani. Fu rifiutato in Firenze tale partito; il che
veggendo monsignor Imbalt, e parendogli come i Fiorentini se ne intendessero poco, cominciò a
tenere le pratiche dello accordo da sé, sanza partecipazione de' Commessari: tanto che ei lo
conchiuse a suo modo, e, sotto quello, con le sue genti se n'entrò in Arezzo, faccendo intendere ai
Fiorentini come egli erano matti, e non s'intendevano delle cose del mondo: che, se volevano
Arezzo, lo facessero intendere a il re, il quale lo poteva dare loro molto meglio, avendo le sua gente
in quella città, che fuori. Non si restava in Firenze di lacerare e biasimare detto Imbalt; né si restò
mai infino a tanto che si conobbe che, se Beumonte fosse stato simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa
come Arezzo.
E così, per tornare a proposito, le republiche inresolute non pigliono mai partiti buoni, se non per
forza, perché la debolezza loro non le lascia mai deliberare dove è alcuno dubbio; e se quel dubbio
non è cancellato da una violenza che le sospinga, stanno sempre mai sospese.
<B>39</B>
<B>In diversi popoli si veggano spesso </B>
<B>i medesimi accidenti. </B>
E' si conosce facilmente, per chi considera le cose presenti e le antiche, come in tutte le città ed in
tutti i popoli sono quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e come vi furono sempre. In
modo che gli è facil cosa, a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le
future, e farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati; o, non ne trovando degli usati,
pensarne de' nuovi, per la similitudine degli accidenti. Ma perché queste considerazioni sono
neglette, o non intese da chi legge, o, se le sono intese, non sono conosciute da chi governa; ne
seguita che sempre sono i medesimi scandoli in ogni tempo.
Avendo la città di Firenze, dopo il 94, perso parte dello imperio suo, come Pisa ed altre terre, fu
necessitata fare guerra a coloro che le occupavano. E perché chi le occupava era potente, ne seguiva
che si spendeva assai nella guerra, sanza alcun frutto; dallo spendere assai, ne risultava assai
gravezze; dalle gravezze, infinite querele del popolo: e perché questa guerra era amministrata da
uno magistrato di dieci cittadini che si chiamavano i Dieci della guerra, l'universale cominciò a
recarselo in dispetto, come quello che fusse cagione e della guerra e delle spese d'essa; e cominciò a
persuadersi che, tolto via detto magistrato, fusse tolto via la guerra, tanto che, avendosi a rifare, non
se gli fecero gli scambi; e lasciatosi spirare, si mandarono le azioni sue alla Signoria. La quale
diliberazione fu tanto perniziosa, che, non solamente non levò la guerra, come lo universale si
persuadeva, ma, tolto via quegli uomini che con prudenza l'amministravano, ne seguì tanto
disordine, che, oltre a Pisa, si perdé Arezzo e molti altri luoghi: in modo che, ravvedutosi il popolo
dello errore suo, e come la cagione del male era la febbre e non il medico, rifece il magistrato de'
Dieci. Questo medesimo omore si levò in Roma contro al nome de' Consoli: perché veggendo
quello popolo nascere l'una guerra dall'altra, e non poter mai riposarsi; dove e' dovevano pensare
che la nascessi dall'ambizione de' vicini che gli volevano opprimere, pensavano nascessi
dall'ambizione de' nobili, che, non potendo dentro in Roma gastigare la Plebe difesa dalla potestà
tribunizia, la volevon condurre fuora di Roma sotto i Consoli, per oppressarla dove la non aveva
aiuto alcuno. E pensarono, per questo, che fusse necessario o levar via i Consoli, o regolare in modo
la loro potestà, che e' non avessono autorità sopra il popolo né fuori né in casa. Il primo che tentò
questa legge, fu uno Terentillo tribuno; il quale proponeva che si dovessero creare cinque uomini
che dovessero considerare la potenza de' Consoli, e limitarla. Il che alterò assai la Nobilità,
parendogli che la maiestà dello imperio fusse al tutto declinata, talché alla Nobilità non restasse più
alcun grado in quella Republica. Fu nondimeno tanta l'ostinazione de' Tribuni, che 'l nome
consolare si spense; e furono in fine contenti, dopo qualche altro ordine, più tosto creare Tribuni
con potestà consolare, che Consoli: tanto avevano più in odio il nome che l'autorità loro. E così
seguitarono lungo tempo, infine che, conosciuto l'errore loro, come i Fiorentini ritornarono a' Dieci,
così loro ricreorno i Consoli.
<B>40</B>
<B>La creazione del Decemvirato in Roma, </B>
<B>e quello che in essa è da notare: </B>
<B>dove si considera, intra molte altre cose, </B>
<B>come si può o salvare, per simile </B>
<B>accidente, o oppressare una republica. </B>
Volendo discorrere particularmente sopra gli accidenti che nacquero in Roma per la creazione del
Decemvirato, non mi pare soperchio narrare, prima, tutto quello che seguì per simile creazione, e
dopo disputare quelle parti che sono, in esse azioni, notabili: le quali sono molte e di grande
considerazione, così per coloro che vogliono mantenere una republica libera, come per quelli che
disegnassono sottometterla. Perché in tale discorso si vedrà, molti errori fatti dal Senato e dalla
plebe in disfavore della libertà; e molti errori fatti da Appio, capo del Decemvirato, in disfavore di
quella tirannide che egli si aveva presupposto stabilire in Roma. Dopo molte disputazioni e
contenzioni seguite intra il Popolo e la Nobilità per fermare nuove leggi in Roma, per le quali si
stabilisse più la libertà di quello stato, mandarono, d'accordo, Spurio Pestumio, con duoi altri
Cittadini, a Atene, per gli esempli di quelle leggi che Solone dette a quella città, acciocché sopra
quelle potessono fondare le leggi romane. Andati e tornati costoro, si venne alla creazione degli
uomini che avessero ad esaminare e fermare dette leggi; e crearono dieci cittadini per uno anno,
intra i quali fu creato Appio Claudio, uomo sagace ed inquieto. E perché e' potessono, sanza alcun
rispetto, creare tali leggi, si levarono di Roma tutti gli altri magistrati, ed in particulare i Tribuni ed
i Consoli, e levossi lo appello al Popolo; in modo che tale magistrato veniva a essere al tutto
principe di Roma. Appresso ad Appio si ridusse tutta l'autorità degli altri suoi compagni, per i
favori che gli faceva la Plebe; perché egli s'era fatto in modo popolare con le dimostrazioni, che
pareva maraviglia ch'egli avesse preso sì presto una nuova natura e uno nuovo ingegno, essendo
stato tenuto, innanzi a questo tempo, uno crudele perseguitatore della plebe.
Governaronsi questi Dieci assai civilmente, non tenendo più che dodici littori, i quali andavano
davanti a quello ch'era infra loro proposto. E benché gli avessono l'autorità assoluta, nondimeno,
avendosi a punire uno cittadino romano per omicida, lo citorno nel cospetto del popolo, e da quello
lo fecero giudicare. Scrissero le loro leggi in dieci tavole; ed avanti che le confermassero, le
messono in publico, acciocché ciascuno le potesse leggere e disputarle; acciocché si conoscesse se
vi era alcun difetto, per poterle innanzi alla confermazione loro emendare. Fece, in su questo, Appio
nascere un romore per Roma, che, se a queste dieci tavole se ne aggiugnesse due altre, si darebbe a
quelle la loro perfezione; talché questa opinione dette occasione al popolo di rifare i Dieci per un
altro anno: a che il popolo s'accordò volentieri, sì perché i Consoli non si rifacessono, sì perché e'
pareva loro potere stare sanza Tribuni, sendo loro giudici delle cause, come disopra si disse. Preso,
dunque, partito di rifarli, tutta la Nobilità si mosse a cercare questi onori; ed intra i primi era Appio;
ed usava tanta umanità verso la plebe nel domandarlo, che la cominciò a essere sospetta a' suoi
compagni: «credebant enim haud gratuitam in tanta superbia comitatem fore». E dubitando di
opporsegli apertamente, deliberarono farlo con arte, e benché e' fusse minore di tempo di tutti
dettono a lui autorità di proporre i futuri Dieci al popolo, credendo ch'egli osservassi i termini degli
altri di non proporre sé medesimo, sendo cosa inusitata e ignominiosa in Roma. «Ille vero
impedimentum pro occasione arripuit» e nominò sé intra i primi, con maraviglia e dispiacere di tutti
i nobili; nominò dipoi nove altri, a suo proposito. La quale nuova creazione, fatta per uno altro
anno, cominciò a mostrare al Popolo ed alla Nobilità lo errore suo. Perché subito «Appius finem
fecit ferendae alienae personae»; e cominciò a mostrare la innata sua superbia, ed in pochi dì
riempié de' suoi costumi i suoi compagni. E per isbigottire il popolo ed il Senato in cambio di
dodici littori, ne feciono cento venti.
Stette la paura equale qualche giorno; ma cominciarono poi a intrattenere il Senato, e batter la
plebe: e se alcuno battuto dall'uno, appellava all'altro, era peggio trattato nell'appellagione che nella
prima sentenzia. In modo che la Plebe, conosciuto lo errore suo, cominciò piena di afflizione a
riguardare in viso i nobili, «et inde libertatis captare auram, unde servitutem timendo, in eum
statum rempublicam adduxerunt». E alla Nobilità era grata questa loro afflizione, «ut ipsi, taedio
praesentium, Consules desiderarent». Vennono i dì che terminavano l'anno: le due tavole delle leggi
erano fatte, ma non publicate. Da questo i Dieci presono occasione di continovare nel magistrato; e
cominciarono a tenere con violenza lo stato, e farsi satelliti della gioventù nobile, alla quale davono
i beni di quegli che loro condennavano. «Quibus donis juventus corrumpebatur et malebat licentiam
suam, quam omnium libertatem». Nacque in questo tempo, che i Sabini ed i Volsci mossero guerra
a' Romani; in su la quale paura cominciarono i Dieci a vedere la debolezza dello stato loro, perché
sanza il Senato non potevono ordinare la guerra, e, ragunando il Senato, pareva loro perdere lo
stato. Pure, necessitati, presono questo ultimo partito; e ragunati i senatori insieme, molti de'
senatori parlarono contro alla superbia de' Dieci, e in particulare Valerio ed Orazio: e l'autorità loro
si sarebbe al tutto spenta, se non che il Senato, per invidia della Plebe, non volle mostrare l'autorità
sua pensando che, se i Dieci deponevano il magistrato voluntari, che potesse essere che i Tribuni
della plebe non si rifacessero. Deliberossi dunque la guerra uscissi fuori con dua eserciti guidati da
parte di detti Dieci; Appio rimase a governare la città. Donde nacque che si innamorò di Virginia, e
che, volendola tôrre per forza, il padre Virginio, per liberarla, l'ammazzò: donde seguirono i tumulti
di Roma e degli eserciti: i quali riduttisi insieme con il rimanente della plebe romana, se ne
andarono nel Monte Sacro, dove stettero tanto che i Dieci deposono il magistrato, e che furono
creati i Tribuni ed i Consoli, e ridotta Roma nella forma della sua antica libertà.
Notasi adunque, per questo testo, in prima, essere nato in Roma questo inconveniente di creare
questa tirannide per quelle medesime cagioni che nascano la maggior parte delle tirannidi nelle
città: e questo è da troppo desiderio del popolo, d'essere libero, e da troppo desiderio de' nobili, di
comandare. E quando e' non convengano a fare una legge in favore della libertà, ma gettasi
qualcuna delle parti a favorire uno, allora è che subito la tirannide surge. Convennono il popolo ed i
nobili di Roma a creare i Dieci, e crearli con tanta autorità, per il desiderio che ciascuna delle parti
aveva, l'una di spegnere il nome consolare, l'altra il tribunizio. Creati che furono, parendo alla plebe
che Appio fusse diventato popolare e battessi la Nobilità, si volse il popolo a favorirlo. E quando
uno popolo si conduce a fare questo errore, di dare riputazione a uno, perché batta quelli che egli ha
in odio, e che quello uno sia savio, sempre interverrà ch'e' diventerà tiranno di quella città. Perché
egli attenderà, insieme col favore del popolo, a spegnere la Nobilità; e non si volterà mai alla
oppressione del popolo, se non quando e' l'arà spenta; nel quale tempo, conosciutosi il popolo essere
servo, non abbi dove rifuggire. Questo modo hanno tenuto tutti coloro che hanno fondato tirannide
in le republiche. E se questo modo avesse tenuto Appio, quella sua tirannide arebbe presa più vita, e
non sarebbe mancata sì presto: ma e' fece tutto il contrario, né si potette governare più
imprudentemente; che, per tenere la tirannide, e' si fece inimico di coloro che gliele avevano data e
che gliele potevano mantenere, ed inimico di quelli che non erano concorsi a dargliene e che non
gliene arebbono potuta mantenere; e perdessi coloro che gli erano amici, e cercò di avere amici
quegli che non gli potevano essere amici. Perché, ancora che i nobili desiderino tiranneggiare,
quella parte della Nobilità che si truova fuori della tirannide, è sempre inimica al tiranno; né quello
se la può guadagnare mai tutta, per l'ambizione grande e grande avarizia che è in lei non potendo il
tiranno avere né tante ricchezze né tanti onori che a tutta satisfaccia. E così Appio, lasciando il
popolo ed accostandosi a' nobili, fece uno errore evidentissimo, e per le ragioni dette di sopra, e
perché, a volere con violenza tenere una cosa, bisogna che sia più potente chi sforza che chi è
sforzato.
Donde nasce che quegli tiranni che hanno amico l'universale ed inimici i grandi, sono più sicuri, per
essere la loro violenza sostenuta da maggiori forze, che quella di coloro che hanno per inimico il
popolo e amica la Nobilità. Perché con quello favore bastono a conservarsi le forze intrinseche:
come bastarono a Nabide, tiranno di Sparta, quando tutta Grecia e il Popolo romano lo assaltò: il
quale, assicuratosi di pochi nobili, avendo amico il Popolo, con quello si difese; il che non arebbe
potuto fare avendolo inimico. In quello altro grado per avere pochi amici dentro, non bastono le
forze intrinseche, ma gli conviene cercare di fuora. Ed hanno a essere di tre sorte: l'una satelliti
forestieri, che ti guardino la persona, l'altra armare il contado, che faccia quello ufficio che arebbe a
fare la plebe, la terza accostarsi con vicini potenti che ti difendino. Chi tiene questi modi e gli
osserva bene, ancora ch'egli avesse per inimico il popolo, potrebbe in qualche modo salvarsi. Ma
Appio non poteva fare questo, di guadagnarsi il contado, sendo una medesima cosa il contado e
Roma: e quel che poteva fare, non seppe: talmente che rovinò ne' primi principii suoi. Fecero il
Senato ed il Popolo in questa creazione del Decemvirato errori grandissimi: perché, avvenga che di
sopra si dica, in quel discorso che si fa del Dittatore, che quegli magistrati che si fanno da per loro,
non quelli che fa il popolo, sono nocivi alla libertà; nondimeno il popolo debbe, quando egli ordina
i magistrati, fargli in modo che gli abbino avere qualche rispetto a diventare scelerati. E dove e' si
debbe preporre loro guardia per mantenergli buoni, i Romani la levarono, faccendolo solo
magistrato in Roma, ed annullando tutti gli altri, per la eccessiva voglia (come di sopra dicemo) che
il Senato aveva di spegnere i Tribuni, e la plebe di spegnere i Consoli; la quale gli accecò in modo,
che concorsono in tale disordine. Perché gli uomini, come diceva il re Ferrando, spesso fanno come
certi minori uccelli di rapina; ne' quali è tanto desiderio di conseguire la loro preda, a che la natura
gl'incita, che non sentono uno altro maggiore uccello che sia loro sopra per ammazzarli. Conoscesi,
adunque, per questo discorso, come nel principio preposi, lo errore del popolo romano, volendo
salvare la libertà, e gli errori di Appio, volendo occupare la tirannide.
<B>41</B>
<B>Saltare dalla umiltà alla superbia, </B>
<B>dalla piatà alla crudeltà, </B>
<B>sanza i debiti mezzi, è cosa imprudente </B>
<B>e inutile. </B>
Oltre agli altri termini male usati da Appio per mantenere la tirannide, non fu di poco momento
saltare troppo presto da una qualità a un'altra. Perché l'astuzia sua nello ingannare la plebe
simulando d'essere uomo popolare, fu bene usata; furono ancora bene usati i termini che tenne
perché i Dieci si avessono a rifare; fu ancora bene usata quella audacia di creare sé stesso contro
alla opinione della Nobilità; fu bene usato creare compagni a suo proposito: ma non fu già bene
usato, come egli ebbe fatto questo, secondo che disopra dico, mutare, in uno subito, natura; e, di
amico, mostrarsi inimico alla plebe; di umano, superbo; di facile, difficile; e farlo tanto presto, che,
sanza scusa niuna, ogni uomo avesse a conoscere la fallacia dello animo suo. Perché chi è paruto
buono un tempo, e vuole a suo proposito diventar cattivo, lo debbe fare per i debiti mezzi; ed in
modo condurvisi con le occasioni, che, innanzi che la diversa natura ti tolga de' favori vecchi, la te
ne abbia dati tanti de' nuovi, che tu non venga a diminuire la tua autorità: altrimenti, trovandoti
scoperto e sanza amici, rovini.
<B>42</B>
<B>Quanto gli uomini facilmente </B>
<B>si possono corrompere. </B>
Notasi ancora, in questa materia del Decemvirato, quanto facilmente gli uomini si corrompono, e
fannosi diventare di contraria natura, quantunque buoni e bene ammaestrati; considerando quanto
quella gioventù che Appio si aveva eletta intorno, cominciò a essere amica della tirannide per uno
poco di utilità che gliene conseguiva; e come Quinto Fabio, uno del numero de' secondi Dieci,
sendo uomo ottimo, accecato da uno poco d'ambizione, e persuaso dalla malignità di Appio, mutò i
suoi buoni costumi in pessimi, e diventò simile a lui. Il che esaminato bene, farà tanto più pronti i
latori di leggi delle republiche o de' regni a frenare gli appetiti umani, e tôrre loro ogni speranza di
potere impune errare.
<B>43</B>
<B>Quegli che combattono per la gloria </B>
<B>propria, sono buoni e fedeli soldati. </B>
Considerasi ancora, per il soprascritto trattato, quanta differenzia è da uno esercito contento e che
combatte per la gloria sua, a quello che è male disposto e che combatte per l'ambizione d'altrui.
Perché, dove gli eserciti romani solevano sempre essere vittoriosi sotto i Consoli, sotto i Decemviri
sempre perderono. Da questo esemplo si può conoscere, in parte, delle cagioni della inutilità de'
soldati mercenari; i quali non hanno altra cagione che gli tenga fermi, che un poco di stipendio che
tu dai loro. La qual cagione non è né può essere bastante a fargli fedeli, né tanto tuoi amici, che
voglino morire per te. Perché in quegli eserciti che non è un'affezione verso di quello per chi e'
combattono, che gli faccia diventare suoi partigiani, non mai vi potrà essere tanta virtù che basti a
resistere a uno nimico un poco virtuoso. E perché questo amore non può nascere, né questa gara, da
altro che da' sudditi tuoi; è necessario, a volere tenere uno stato, a volere mantenere una republica o
uno regno, armarsi de' sudditi suoi: come si vede che hanno fatto tutti quelli che con gli eserciti
hanno fatto grandi profitti. Avevano gli eserciti romani sotto i Dieci quella medesima virtù; ma
perché in loro non era quella medesima disposizione, non facevono gli usitati loro effetti. Ma come
prima il magistrato de' Dieci fu spento, e che loro come liberi cominciorono a militare, ritornò in
loro il medesimo animo; e per consequente, le loro imprese avevono il loro fine felice, secondo
l'antica consuetudine loro.
<B>44</B>
<B>Una moltitudine sanza capo è inutile: </B>
<B>e come e' non si debbe minacciare prima, </B>
<B>e poi chiedere l'autorità. </B>
Era la plebe romana, per lo accidente di Virginia, ridotta armata nel Monte Sacro. Mandò il Senato
suoi ambasciadori a dimandare con quale autorità gli avevano abbandonati i loro capitani, e
ridottosi nel Monte. E tanto era stimata l'autorità del Senato, che, non avendo la plebe intra loro
capi, niuno si ardiva a rispondere. E Tito Livio dice, che e' non mancava loro materia a rispondere,
ma mancava loro chi facesse la risposta. La qual cosa dimostra appunto la inutilità d'una
moltitudine sanza capo. Il quale disordine fu conosciuto da Virginio, e per suo ordine si creò venti
Tribuni militari, che fossero loro capi, a rispondere e convenire col Senato. Ed avendo chiesto che
si mandasse loro Valerio ed Orazio, a' quali loro direbbono la voglia loro, non vi vollono andare se
prima i Dieci non deponevano il magistrato: e arrivati sopra il Monte dove era la Plebe, fu
domandato loro da quella, che volevano che si creassero i Tribuni della Plebe, e che si avesse a
appellare al Popolo da ogni magistrato, e che si dessono loro tutti i Dieci che gli volevono ardere
vivi. Laudarono Valerio ed Orazio le prime loro domande; biasimarono l'ultima come impia,
dicendo: «Crudelitatem damnatis, in crudelitatem ruitis»; e consigliarongli che dovessono lasciare il
fare menzione de' Dieci, e ch'egli attendessero a ripigliare l'autorità e potestà loro: dipoi non
mancherebbe loro modo a sodisfarsi. Dove apertamente si conosce quanta stultizia e poca prudenza
è domandare una cosa, e dire prima: io voglio fare il tale male con essa; perché non si debbe
mostrare l'animo suo, ma vuolsi cercare di ottenere quel suo desiderio in ogni modo. Perché e' basta
a domandare a uno l'arme, sanza dire: io ti voglio ammazzare con esse; potendo, poi che tu hai
l'arme in mano, soddisfare allo appetito tuo.
<B>45</B>
<B>È cosa di malo esemplo non osservare </B>
<B>una legge fatta, e massime </B>
<B>dallo autore d'essa; e rinfrescare </B>
<B>ogni dì nuove ingiurie in una città, </B>
<B>è, a chi la governa, dannosissimo. </B>
Seguito lo accordo, e ridotta Roma in l'antica sua forma, Virginio citò Appio innanzi al Popolo, a
difendere la sua causa. Quello comparse accompagnato da molti nobili: Virginio comandò che fusse
messo in prigione. Cominciò Appio a gridare, ed appellare al Popolo. Virginio diceva che non era
degno di avere quella appellagione che egli aveva distrutta, ed avere per difensore quel Popolo che
egli aveva offeso: Appio replicava, come e' non avevano a violare quella appellagione che gli aveva
con tanto desiderio ordinata. Pertanto egli fu incarcerato, ed avanti al dì del giudizio ammazzò se
stesso. E benché la scelerata vita di Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno fu cosa poco civile
violare le leggi, e tanto più quella che era fatta allora. Perché io non credo che sia cosa di più cattivo
esemplo in una republica, che fare una legge e non la osservare; e tanto più, quanto la non è
osservata da chi l'ha fatta. Essendo Firenze, dopo al 94, stata riordinata nello stato suo con lo aiuto
di frate Girolamo Savonerola, gli scritti del quale mostrono la dottrina, la prudenza, e la virtù dello
animo suo; ed avendo, intra le altre costituzioni per assicurare i cittadini, fatto fare una legge, che si
potesse appellare al Popolo dalle sentenzie che, per casi di stato, gli Otto e la Signoria dessono; la
quale legge persuase più tempo, e con difficultà grandissima ottenne; occorse che, poco dopo la
confermazione d'essa, furono condannati a morte dalla Signoria, per conto di stato, cinque cittadini;
e volendo quegli appellare, non furono lasciati, e non fu osservata la legge. Il che tolse più
riputazione a quel frate, che alcuno altro accidente: perché, se quella appellagione era utile, e'
doveva farla osservare, se la non era utile, non doveva farla vincere. E tanto più fu notato questo
accidente, quanto che il frate, in tante predicazioni che fece poi che fu rotta questa legge, non mai o
dannò chi l'aveva rotta, o lo scusò; come quello che dannare non la voleva come cosa che gli
tornava a proposito, e scusare non la poteva. Il che avendo scoperto l'animo suo ambizioso e
partigiano, gli tolse riputazione, e dettegli assai carico.
Offende ancora uno stato assai, rinfrescare ogni dì nello animo de' tuoi cittadini nuovi umori per
nuove ingiurie che a questo e quello si facciano: come intervenne a Roma dopo il Decemvirato.
Perché tutti i Dieci, ed altri cittadini in diversi tempi, furono accusati e condennati; in modo che gli
era uno spavento grandissimo in tutta la Nobilità, giudicando che e' non si avesse mai a porre fine a
simili condennagioni, fino a tanto che tutta la Nobilità non fusse distrutta. Ed arebbe generato, in
quella città, grande inconveniente, se da Marco Duellio tribuno non vi fusse stato proveduto; il
quale fece uno editto, che per uno anno non fusse lecito a alcuno citare o accusare alcuno cittadino
romano: il che rassicurò tutta la Nobilità. Dove si vede quanto sia dannoso a una republica o a un
principe, tenere con le continove pene ed offese sospesi e paurosi gli animi de' sudditi. E sanza
dubbio non si può tenere il più pernizioso ordine: perché gli uomini che cominciono a dubitare di
avere a capitare male, in ogni modo si assicurano ne' pericoli, e diventono più audaci, e meno
respettivi a tentare cose nuove. Però è necessario o non offendere mai alcuno, o fare le offese a un
tratto: e dipoi rassicurare gli uomini, e dare loro cagione di quietare e fermare l'animo.
<B>46</B>
<B>Li uomini salgono da una ambizione </B>
<B>a un'altra; e prima si cerca non essere </B>
<B>offeso, dipoi si offende altrui. </B>
Avendo il Popolo romano recuperata la libertà e ritornato nel suo pristino grado ed in tanto
maggiore quanto si erano fatte di molte leggi nuove in confermazione della sua potenza; pareva
ragionevole che Roma qualche volta quietassi. Nondimeno, per esperienza si vide in contrario;
perché ogni dì vi surgeva nuovi tumulti e nuove discordie. E perché Tito Livio prudentissimamente
rende la ragione donde questo nasceva, non mi pare se non a proposito referire appunto le sue
parole, dove dice che sempre o il Popolo o la Nobilità insuperbiva, quando l'altro si umiliava; e
stando la plebe quieta intra i termini suoi, cominciarono i giovani nobili a ingiuriarla; ed i Tribuni
vi potevon fare pochi rimedi, perché, loro anche, erano violati. La Nobilità, dall'altra parte, ancora
che gli paresse che la sua gioventù fusse troppo feroce, nonpertanto aveva a caro che, avendosi a
trapassare il modo, lo trapassassono i suoi, e non la plebe. E così il disiderio di difendere la libertà
faceva che ciascuno tanto si prevaleva ch'egli oppressava l'altro. E l'ordine di questi accidenti è che,
mentre che gli uomini cercono di non temere, cominciono a fare temere altrui; e quella ingiuria che
gli scacciano da loro, la pongono sopra un altro; come se fusse necessario offendere o essere offeso.
Vedesi, per questo, in quale modo, fra gli altri, le republiche si risolvono, ed in che modo gli uomini
salgono da un'ambizione a un'altra, e come quella sentenza sallustiana, posta in bocca di Cesare, e
verissima: «quod omnia mala exempla bonis initiis orta sunt». Cercono, come di sopra è detto,
quegli cittadini che ambiziosamente vivono in una republica, la prima cosa, di non potere essere
offesi, non solamente dai privati, ma etiam da' magistrati: cercono, per poter fare questo, amicizie; e
quelle acquistano per vie in apparenza oneste, o con sovvenire di danari, o con difenderli da'
potenti: e perché questo pare virtuoso, inganna facilmente ciascuno, e per questo non vi si pone
rimedi; in tanto che lui, sanza ostaculo perseverando, diventa di qualità che i privati cittadini ne
hanno paura, ed i magistrati gli hanno rispetto. E quando egli è salito a questo grado, e non si sia
prima ovviato alla sua grandezza, viene a essere in termine, che volerlo urtare è pericolosissimo,
per le ragioni che io dissi, di sopra, del pericolo ch'è nello urtare un inconveniente che abbi di già
fatto assai augumento in una città: tanto che la cosa si riduce in termine che bisogna, o cercare di
spegnerlo con pericolo d'una subita rovina, o, lasciandolo fare, entrare in una servitù manifesta, se
morte o qualche accidente non te ne libera. Perché, venuto a' soprascritti termini, che i cittadini e
magistrati abbino paura a offendere lui e gli amici suoi, non dura dipoi molta fatica a fare che
giudichino ed offendino a suo modo. Donde una republica intra gli ordini suoi debbe avere questo,
di vegghiare che i suoi cittadini, sotto ombra di bene non possino fare male; e ch'egli abbino quella
riputazione che giovi, e non nuoca, alla libertà, come nel suo luogo da noi sarà disputato.
<B>47</B>
<B>Gli uomini, come che s'ingannino </B>
<B>ne' generali, ne' particulari </B>
<B>non s'ingannono. </B>
Essendosi il Popolo romano, come di sopra si disse, recato a noia il nome consolare, e volendo che
potessono essere fatti Consoli uomini plebei, o che fusse diminuita la loro autorità; la Nobilità, per
non maculare l'autorità consolare né con l'una né con l'altra cosa, prese una via di mezzo, e fu
contenta che si creassi quattro Tribuni con potestà consolare, i quali potessono essere così plebei
come nobili. Fu contenta a questo la plebe, parendole spegnere il Consolato, ed avere in questo
sommo grado la parte sua. Nacquene di questo uno caso notabile: che, venendosi alla creazione di
questi Tribuni, e potendosi creare tutti plebei, furono dal Popolo romano creati tutti nobili. Onde
Tito Livio dice queste parole: «Quorum comitiorum eventus docuit, alios animos in contentione
libertatis et honoris, alios secundum deposita certamina in incorrupto iudicio esse». Ed esaminando
donde possa procedere questo, credo proceda che gli uomini nelle cose generali s'ingannono assai,
nelle particulari non tanto. Pareva generalmente alla Plebe romana di meritare il Consolato, per
avere più parte in la città, per portare più pericolo nelle guerre, per essere quella che con le braccia
sue manteneva Roma libera, e la faceva potente. E parendogli, come è detto, questo suo desiderio
ragionevole, volse ottenere questa autorità in ogni modo. Ma come la ebbe a fare giudicio degli
uomini suoi particularmente, conobbe la debolezza di quegli, e giudicò che nessuno di loro
meritasse quello che tutta insieme gli pareva meritare. Talché, vergognatasi di loro, ricorse a quegli
che lo meritavano. Della quale diliberazione maravigliandosi meritamente Tito Livio, dice queste
parole: «Hanc modestiam aequitatemque et altitudinem animi, ubi nunc in uno inveneris, quae tunc
populi universi fuit?».
In confirmazione di questo, se ne può addurre un altro notabile esemplo, seguito in Capova da poi
che Annibale ebbe rotti i Romani a Canne. Per la quale rotta sendo tutta sollevata Italia, Capova
ancora stava per tumultuare, per l'odio che era intra 'l popolo ed il Senato: e trovandosi in quel
tempo nel supremo magistrato Pacuvio Calano, e conoscendo il pericolo che portava quella città di
tumultuare, disegnò con suo grado riconciliare la Plebe con la Nobilità; e fatto questo pensiero, fece
ragunare il Senato, e narrò loro l'odio che il popolo aveva contro di loro, ed i pericoli che portavano
di essere ammazzati da quello, e data la città a Annibale, sendo le cose de' Romani afflitte: dipoi
soggiunse che, se volevano lasciare governare questa cosa a lui, farebbe in modo che si unirebbono
insieme; ma gli voleva serrare dentro al palagio, e, col fare potestà al popolo di potergli gastigare,
salvargli. Cederono a questa sua opinione i Senatori; e quello chiamò il popolo a concione, avendo
rinchiuso in palagio il Senato; e disse com'egli era venuto il tempo che potevano domare la superbia
della Nobilità, e vendicarsi delle ingiurie ricevute da quella, avendogli rinchiusi tutti sotto la sua
custodia: ma perché credeva che loro non volessono che la loro città rimanessi sanza governo, era
necessario, volendo ammazzare i Senatori vecchi, crearne de' nuovi: e per tanto aveva messo tutti i
nomi de' Senatori in una borsa, e comincerebbe a tragli in loro presenza; e gli farebbe, i tratti, di
mano in mano morire, come prima loro avessono trovato il successore. E cominciato a trarne uno,
fu al nome di quello levato uno romore grandissimo, chiamandolo uomo superbo, crudele ed
arrogante: e chiedendo Pacuvio che facessono lo scambio, si racchetò tutta la concione; e dopo
alquanto spazio, fu nominato uno della plebe; al nome del quale chi cominciò a fischiare, chi a
ridere, chi a dirne male in uno modo, e chi in uno altro. E così seguitando di mano in mano, tutti
quegli che furono nominati, gli giudicavano indegni del grado senatorio. Di modo che Pacuvio,
preso sopra questo occasione, disse: Poiché voi giudicate che questa città stia male sanza il Senato,
e, a fare gli scambi a' Senatori vecchi non vi accordate, io penso che sia bene che voi vi riconciliate
insieme; perché questa paura in la quale i Senatori sono stati, gli arà fatti in modo raumiliare che
quella umanità che voi cercavi altrove, troverrete in loro. Ed accordatisi a questo, ne seguì la unione
di questo ordine; e quello inganno in che egli erano si scoperse, come e' furno costretti venire a'
particulari. Ingannonsi, oltra di questo, i popoli generalmente nel giudicare le cose e gli accidenti di
esse; le quali, dipoi si conoscono particularmente, mancano di tale inganno.
Dopo il 1494, sendo stati i principi della città cacciati da Firenze, e non vi essendo alcuno governo
ordinato, ma più tosto una certa licenza ambiziosa, ed andando le cose publiche di male in peggio;
molti popolari, veggendo la rovina della città, e non ne intendendo altra cagione, ne accusavano la
ambizione di qualche potente che nutrisse i disordini, per potere fare uno stato a suo proposito, e
tôrre loro la libertà; e stavano questi tali per le logge e per le piazze, dicendo male di molti cittadini,
minacciandogli che, se mai si trovassino de' Signori, scoprirebbero questo loro inganno, e gli
gastigarebbero. Occorreva spesso che di simili ne ascendeva al supremo magistrato; e come egli era
salito in quel luogo, e che vedeva le cose più da presso, conosceva i disordini donde nascevano, ed i
pericoli che soprastavano, e la difficultà del rimediarvi. E veduto come i tempi, e non gli uomini,
causavano il disordine, diventava subito d'un altro animo, e d'un'altra fatta; perché la cognizione
delle cose particulari gli toglieva via quello inganno che nel considerarle generalmente si aveva
presupposto. Dimodoché, quelli che lo avevano prima, quando era privato, sentito parlare, e
vedutolo poi nel supremo magistrato stare quieto, credevono che nascessi, non per più vera
cognizione delle cose, ma perché fusse stato aggirato e corrotto dai grandi. Ed accadendo questo a
molti uomini, e molte volte, ne nacque tra loro uno proverbio che diceva: Costoro hanno uno animo
in piazza, ed uno in palazzo. Considerando, dunque, tutto quello si è discorso, si vede come e' si
può fare tosto aprire gli occhi a' popoli, trovando modo, veggendo che uno generale gl'inganna,
ch'egli abbino a discendere a' particulari; come fece Pacuvio in Capova, ed il Senato in Roma.
Credo ancora, che si possa conchiudere, che mai un uomo prudente non debba fuggire il giudicio
populare nelle cose particulari, circa le distribuzioni de' gradi e delle dignità: perché solo in questo
il popolo non s'inganna; e se s'inganna qualche volta, fia sì rado, che s'inganneranno più volte i
pochi uomini che avessono a fare simili distribuzioni. Né mi pare superfluo mostrare, nel seguente
capitolo, l'ordine che teneva il Senato per ingannare il popolo nelle distribuzioni sue.
<B>48</B>
<B>Chi vuole che uno magistrato </B>
<B>non sia dato a uno vile o a uno cattivo, </B>
<B>lo facci domandare o a uno troppo vile </B>
<B>e troppo cattivo o a uno troppo nobile </B>
<B>e troppo buono. </B>
Quando il Senato dubitava che i Tribuni con potestà consolare non fussero fatti d'uomini plebei,
teneva uno de' due modi: o egli faceva domandare ai più riputati uomini di Roma; o veramente, per
i debiti mezzi, corrompeva qualche plebeio vile ed ignobilissimo, che mescolati con i plebei che, di
migliore qualità, per l'ordinario se lo domandavano, anche loro lo domandassono. Questo ultimo
modo faceva che la plebe si vergognava a darlo; quel primo faceva che la si vergognava a torlo. Il
che tutto torna a proposito del precedente discorso, dove si mostra che il popolo, se s'inganna de'
generali, de' particulari non s'inganna.
<B>49</B>
<B>Se quelle cittadi che hanno avuto </B>
<B>il principio libero, come Roma, </B>
<B>hanno difficultà a trovare legge </B>
<B>che le mantenghino: quelle che lo hanno </B>
<B>immediate servo, ne hanno quasi </B>
<B>una impossibilità. </B>
Quanto sia difficile, nello ordinare una republica, provedere a tutte quelle leggi che la mantengono
libera, lo dimostra assai bene il processo della Republica romana: dove, non ostante che fussono
ordinate di molte leggi da Romolo prima, dipoi da Numa, da Tullo Ostilio e Servio, ed ultimamente
dai dieci cittadini creati a simile opera; nondimeno sempre nel maneggiare quella città si scoprivono
nuove necessità, ed era necessario creare nuovi ordini: come intervenne quando crearono i Censori i
quali furono uno di quegli provvedimenti che aiutarono tenere Roma libera, quel tempo che la visse
in libertà . Perché, diventati arbitri de' costumi di Roma, furono cagione potissima che i Romani
differissono più a corrompersi. Feciono bene nel principio della creazione di tale magistrato uno
errore, creando quello per cinque anni; ma, dipoi non molto tempo, fu corretto dalla prudenza di
Mamerco dittatore, il quale per nuova legge ridusse detto magistrato a diciotto mesi. Il che i
Censori, che vegghiavano ebbero tanto per male, che privarono Mamerco del Senato: la quale cosa
e dalla Plebe e dai Padri fu assai biasimata. E perché la istoria non mostra che Mamerco se ne
potessi difendere, conviene o che lo istorico sia difettivo, o gli ordini di Roma in questa parte non
buoni: perché e' non è bene che una republica sia in modo ordinata, che uno cittadino per
promulgare una legge conforme al vivere libero, ne possa essere, sanza alcuno rimedio, offeso. Ma
tornando al principio di questo discorso, dico che si debbe, per la creazione di questo nuovo
magistrato, considerare che, se quelle città che hanno avuto il principio loro libero, e che per sé
medesimo si è retto, come Roma, hanno difficultà grande a trovare leggi buone per mantenerle
libere; non è maraviglia che quelle città che hanno avuto il principio loro immediate servo, abbino,
non che difficultà, ma impossibilità a ordinarsi mai in modo che le possino vivere civilmente e
quietamente. Come si vede che è intervenuto alla città di Firenze; la quale, per avere avuto il
principio suo sottoposto allo Imperio romano, ed essendo vivuta sempre sotto il governo d'altrui,
stette un tempo abietta, e sanza pensare a sé medesima: dipoi, venuta la occasione di respirare,
cominciò a fare suoi ordini; i quali sendo mescolati con gli antichi, che erano cattivi, non poterono
essere buoni: e così è ita maneggiandosi, per dugento anni che si ha di vera memoria, sanza avere
mai avuto stato, per il quale la possa veramente essere chiamata republica. E queste difficultà, che
sono state in lei, sono state sempre in tutte quelle città che hanno avuto i principii simili a lei. E,
benché molte volte, per suffragi pubblici e liberi, si sia data ampla autorità a pochi cittadini di
potere riformarla; non pertanto non mai l'hanno ordinata a comune utilità, ma sempre a proposito
della parte loro: il che ha fatto, non ordine, ma maggiore disordine in quella città. E per venire a
qualche esemplo particulare, dico come, intra le altre cose che si hanno a considerare da uno
ordinatore d'una republica è esaminare nelle mani di quali uomini ei ponga l'autorità del sangue
contro de' suoi cittadini. Questo era bene ordinato in Roma, perché e' si poteva appellare al Popolo
ordinariamente: e se pure fosse occorso cosa importante, dove il differire la esecuzione mediante
l'appellagione fusse pericoloso, avevano il refugio del Dittatore, il quale eseguiva immediate; al
quale rimedio non refuggivano mai, se non per necessità. Ma Firenze, e le altre città nate nel modo
di lei, sendo serve, avevano questa autorità collocata in uno forestiero, il quale, mandato dal
principe, faceva tale ufficio. Quando dipoi vennono in libertà, mantennono questa autorità in uno
forestiero, il quale chiamavono capitano: il che, per potere essere facilmente corrotto da' cittadini
potenti, era cosa perniziosissima. Ma dipoi, mutandosi per la mutazione degli stati questo ordine,
crearono otto cittadini che facessino l'uffizio di quel capitano. El quale ordine, di cattivo, diventò
pessimo, per le ragioni che altre volte sono dette; che i pochi furono sempre ministri de' pochi, e de'
più potenti. Da che si è guardata la città di Vinegia; la quale ha dieci cittadini, che, sanza appello,
possono punire ogni cittadino. E perché e' non basterebbono a punire i potenti, ancora che ne
avessino autorità, vi hanno constituito la Quarantia: e di più, hanno voluto che il Consiglio de'
Pregai, che è il Consiglio maggiore, possa gastigargli; in modo che, non vi mancando lo accusatore,
non vi manca il giudice a tenere gli uomini potenti a freno. Non è adunque maraviglia, veggendo
come in Roma, ordinata da sé medesima e da tanti uomini prudenti, surgevano ogni dì nuove
cagioni per le quali si aveva a fare nuovi ordini in favore del viver libero; se nell'altre città, che
hanno più disordinato principio, vi surgano tante difficultà, che le non si possino riordinarsi mai.
<B>50</B>
<B>Non debba uno consiglio </B>
<B>o uno magistrato potere fermare le azioni </B>
<B>delle città. </B>
Erano consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnato e Gneo Giulio Mento, i quali, sendo disuniti,
avevono ferme tutte le azioni di quella Republica. Il che veggendo il Senato, gli confortava a creare
il Dittatore, per fare quello che per le discordie loro non potevon fare. Ma i Consoli, discordando in
ogni altra cosa, solo in questo erano d'accordo, di non volere creare il Dittatore. Tanto che il Senato,
non avendo altro rimedio, ricorse allo aiuto de' Tribuni; i quali, con l'autorità del Senato, sforzarono
i Consoli a ubbidire. Dove si ha a notare, in prima, la utilità del Tribunato; il quale non era solo
utile a frenare l'ambizione che i potenti usavano contro alla Plebe, ma quella ancora ch'egli usavano
infra loro: l'altra, che mai si debbe ordinare in una città, che i pochi possino tenere alcuna
diliberazione di quelle che ordinariamente sono necessarie a mantenere la republica. Verbigrazia, se
tu dài una autorità a uno consiglio di fare una distribuzione di onori e d'utile, o ad uno magistrato di
amministrare una faccenda; conviene o imporgli una necessità perché ci l'abbia a fare in ogni modo,
o ordinare, quando non la voglia fare egli, che la possa e debba fare uno altro: altrimenti, questo
ordine sarebbe difettivo e pericoloso; come si vedeva che era in Roma, se alla ostinazione di quegli
Consoli non si poteva opporre l'autorità de' Tribuni. Nella Republica viniziana il Consiglio grande
distribuisce gli onori e gli utili: occorreva alle volte che l'universalità, per isdegno o per qualche
falsa persuasione, non creava i successori a' magistrati della città, ed a quelli che fuori
amministravano lo imperio loro. Il che era disordine grandissimo: perché in un tratto, e le terre
suddite e la città propria mancavano de' suoi legittimi giudici, né si poteva ottenere cosa alcuna, se
quella universalità di quel Consiglio o non si soddisfaceva o non si sgannava. Ed avrebbe ridotta
questo inconveniente quella città a mal termine, se dagli cittadini prudenti non vi si fusse
proveduto: i quali, presa occasione conveniente, fecero una legge, che tutti i magistrati che sono o
fusseno dentro e fuori della città, mai vacassero, se non quando fussono fatti gli scambi e i
successori loro. E così si tolse la commodità a quel Consiglio di potere, con pericolo della
republica, fermare le azioni publiche.
<B>51</B>
<B>Una republica o uno principe </B>
<B>debbe mostrare di fare per liberalità </B>
<B>quello a che la necessità lo constringe. </B>
Gli uomini prudenti si fanno grado delle cose sempre e in ogni loro azione, ancora che la necessità
gli constringesse a farle in ogni modo. Questa prudenza fu usata bene dal Senato romano, quando ei
diliberò, che si desse il soldo del publico agli uomini che militavano, essendo consueti militare del
loro proprio. Ma veggendo il Senato come in quel modo non si poteva fare lungamente guerra, e per
questo non potendo né assediare terre né condurre gli eserciti discosto; e giudicando essere
necessario potere fare l'uno e l'altro, deliberò che si dessono detti stipendi: ma lo feciono in modo
che si fecero grado di quello a che la necessità gli constringeva. E fu tanto accetto alla plebe questo
presente, che Roma andò sottosopra per l'allegrezza, parendole uno beneficio grande, quale mai
speravono di avere, e quale mai per loro medesimi arebbono cerco. E benché i Tribuni
s'ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando come ella era cosa che aggravava, non
alleggeriva, la plebe, sendo necessario porre i tributi per pagare questo soldo: nientedimeno non
potevano fare tanto che la plebe non lo avesse accetto: il che fu ancora augumentato dal Senato per
il modo che distribuivano i tributi, perché i più gravi e i maggiori furono quelli ch'ei posano alla
Nobilità, e gli primi che furono pagati.
<B>52</B>
<B>A reprimere la insolenzia d'uno che surga </B>
<B>in una republica potente, </B>
<B>non vi è più sicuro e meno scandoloso </B>
<B>modo, che preoccuparli quelle vie </B>
<B>per le quali viene a quella potenza. </B>
Vedesi, per il soprascritto discorso, quanto credito acquistasse la Nobilità con la plebe, per le
dimostrazioni lette in beneficio suo, sì del soldo ordinato, sì ancora del modo del porre i tributi. Nel
quale ordine se la Nobilità si fosse mantenuta, si sarebbe levato via ogni tumulto in quella città, e
sarebbesi tolto ai Tribuni quel credito che gli avevano con la plebe, e, per consequente, quella
autorità. E veramente, non si può in una republica, e massime in quelle che sono corrotte, con
miglior modo, meno scandoloso e più facile, opporsi all'ambizione di alcuno cittadino, che
preoccupandogli quelle vie, per le quali si vede che esso cammina per arrivare al grado che disegna.
Il quale modo se fusse stato usato contro a Cosimo de' Medici, sarebbe stato miglior partito assai
per gli suoi avversari, che cacciarlo da Firenze: perché, se quegli cittadini che gareggiavano seco
avessero preso lo stile suo, di favorire il popolo, gli venivano, sanza tumulto e sanza violenza, a
trarre di mano quelle armi di che egli si valeva più. Piero Soderini si aveva fatto riputazione nella
città di Firenze con questo solo, di favorire l'universale; il che nello universale gli dava riputazione,
come amatore della libertà della città. E veramente, a quegli cittadini che portavano invidia alla
grandezza sua, era molto più facile, ed era cosa molto più onesta, meno pericolosa, e meno dannosa
per la republica, preoccupargli quelle vie con le quali si faceva grande, che volere contrapporsegli,
acciocché con la rovina sua rovinassi tutto il restante della republica. Perché, se gli avessero levato
di mano quelle armi con le quali si faceva gagliardo (il che potevono fare facilmente), arebbono
potuto in tutti i consigli e in tutte le diliberazioni publiche opporsegli sanza sospetto e sanza rispetto
alcuno. E se alcuno replicasse che, se i cittadini che odiavano Piero, feciono errore a non gli
preoccupare le vie con le quali ei si guadagnava riputazione nel popolo, Piero ancora venne a fare
errore, a non preoccupare quelle vie per le quali quelli suoi avversari lo facevono temere. Di che
Piero merita scusa, sì perché gli era difficile il farlo, sì perché le non erano oneste a lui; imperocché
le vie con le quali era offeso, erano il favorire i Medici; con li quali favori essi lo battevano, ed alla
fine lo rovinarono. Non poteva, pertanto, Piero onestamente pigliare questa parte, per non potere
distruggere con buona fama quella libertà , alla quale egli era stato preposto guardia: dipoi, non
potendo questi favori farsi segreti e a un tratto, erano per Piero pericolosissimi; perché comunche ei
si fusse scoperto amico ai Medici, sarebbe diventato sospetto ed odioso al popolo: donde ai nimici
suoi nasceva molto più commodità di opprimerlo, che non avevano prima.
Debbono, pertanto, gli uomini in ogni partito considerare i difetti ed i pericoli di quello, e non gli
prendere, quando vi sia più del pericoloso che dell'utile; nonostante che ne fussi stata data sentenzia
conforme alla diliberazione loro. Perché, faccendo altrimenti, in questo caso interverrebbe a quelli
come intervenne a Tullio; il quale, volendo tôrre i favori a Marc'Antonio, gliene accrebbe. Perché,
sendo Marc'Antonio stato giudicato inimico del Senato, ed avendo quello grande esercito insieme
adunato, in buona parte, de' soldati che avevano seguitato le parte di Cesare; Tullio, per torgli questi
soldati, confortò il Senato a dare riputazione ad Ottaviano, e mandarlo con Irzio e Pansa consoli
contro a Marc'Antonio: allegando, che, subito che i soldati che seguivano Marc'Antonio, sentissero
il nome di Ottaviano nipote di Cesare, e che si faceva chiamare Cesare, lascerebbono quello, e si
accosterebbono a costui; e così restato Marc'Antonio ignudo di favori, sarebbe facile lo opprimerlo.
La quale cosa riuscì tutta al contrario; perché Marc'Antonio si guadagnò Ottaviano; e, lasciato
Tullio e il Senato, si accostò a lui. La quale cosa fu al tutto la distruzione della parte degli ottimati.
Il che era facile a conietturare: né si doveva credere quel che si persuase Tullio, ma tener sempre
conto di quel nome che con tanta gloria aveva spenti i nimici suoi, ed acquistatosi il principato in
Roma; né si doveva credere mai potere, o da suoi eredi o da suoi fautori, avere cosa che fosse
conforme al nome libero.
<B>53</B>
<B>Il popolo molte volte disidera </B>
<B>la rovina sua, ingannato da una falsa </B>
<B>spezie di beni: e come le grandi speranze </B>
<B>e gagliarde promesse facilmente </B>
<B>lo muovono. </B>
Espugnata che fu la città de' Veienti, entrò nel popolo romano un'opinione, che fosse cosa utile per
la città di Roma, che la metà de' Romani andasse ad abitare a Veio; argomentando che, per essere
quella città ricca di contado, piena di edificii e propinqua a Roma, si poteva arricchire la metà de'
cittadini romani, e non turbare per la propinquità del sito nessuna azione civile. La quale cosa parve
al Senato ed a' più savi Romani tanto inutile e tanto dannosa, che liberamente dicevano, essere più
tosto per patire la morte che consentire a una tale diliberazione. In modo che, venendo questa cosa
in disputa, si accese tanto la plebe contro al Senato, che si sarebbe venuto alle armi ed al sangue, se
il Senato non si fusse fatto scudo di alcuni vecchi ed estimati cittadini, la riverenza de' quali frenò la
plebe, che la non procedé più avanti con la sua insolenzia. Qui si hanno a notare due cose. La prima
che il popolo molte volte, ingannato da una falsa immagine di bene, disidera la rovina sua; e se non
gli è fatto capace, come quello sia male, e quale sia il bene, da alcuno in chi esso abbia fede, si porta
in le republiche infiniti pericoli e danni. E quando la sorte fa che il popolo non abbi fede in alcuno,
come qualche volta occorre, sendo stato ingannato per lo addietro o dalle cose o dagli uomini, si
viene alla rovina, di necessità. E Dante dice a questo proposito, nel discorso suo che fa De
Monarchia, che il popolo molte volte grida Viva la sua morte! e Muoia la sua vita! Da questa
incredulità nasce che qualche volta in le republiche i buoni partiti non si pigliono: come di sopra si
disse de' Viniziani, quando, assaltati da tanti inimici, non poterono prendere partito di
guadagnarsene alcuno con la restituzione delle cose tolte ad altri (per le quali era mosso loro la
guerra, e fatta la congiura de' principi loro contro), avanti che la rovina venisse.
Pertanto, considerando quello che è facile o quello che è difficile persuadere a uno popolo, si può
fare questa distinzione: o quel che tu hai a persuadere rappresenta in prima fronte guadagno, o
perdita; o veramente ci pare partito animoso, o vile. E quando nelle cose che si mettono innanzi al
popolo, si vede guadagno, ancora che vi sia nascosto sotto perdita; e quando e' pare animoso,
ancora che vi sia nascosto sotto la rovina della republica, sempre sarà facile persuaderlo alla
moltitudine: e così fia sempre difficile persuadere quegli partiti dove apparisse o viltà o perdita,
ancora che vi fusse nascosto sotto salute e guadagno. Questo che io ho detto, si conferma con
infiniti esempli, romani e forestieri, moderni ed antichi. Perché da questo nacque la malvagia
opinione che surse, in Roma, di Fabio Massimo, il quale non poteva persuadere al Popolo romano,
che fusse utile a quella Republica procedere lentamente in quella guerra, e sostenere sanza
azzuffarsi l'impeto d'Annibale; perché quel popolo giudicava questo partito vile, e non vi vedeva
dentro quella utilità vi era; né Fabio aveva ragioni bastanti a dimostrarla loro: e tanto sono i popoli
accecati in queste opinioni gagliarde, che, benché il Popolo romano avesse fatto quello errore di
dare autorità al Maestro de' cavagli di Fabio, di potersi azzuffare, ancora che Fabio non volesse; e
che per tale autorità il campo romano fusse per essere rotto, se Fabio con la sua prudenza non vi
rimediava, non gli bastò questa isperienza, che fece di poi consule Varrone, non per altri suoi meriti
che per avere, per tutte le piazze e tutti i luoghi publici di Roma, promesso di rompere Annibale,
qualunque volta gliene fusse data autorità. Di che ne nacque la zuffa e la rotta di Canne, e presso
che la rovina di Roma. Io voglio addurre, a questo proposito, ancora uno altro esemplo romano. Era
stato Annibale in Italia otto o dieci anni, aveva ripieno di occisione de' Romani tutta questa
provincia, quando venne in Senato Marco Centenio Penula, uomo vilissimo (nondimanco aveva
avuto qualche grado nella milizia), ed offersesi, che, se gli davano autorità di potere fare esercito
d'uomini volontari in qualunque luogo volesse in Italia, ei darebbe loro, in brevissimo tempo, preso
o morto Annibale. Al Senato parve la domanda di costui temeraria; nondimeno, ei, pensando, che
s'ella se gli negasse e nel popolo si fusse dipoi saputa la sua chiesta, che non ne nascesse qualche
tumulto, invidia e mal grado contro all'ordine senatorio, gliene concessono: volendo più tosto
mettere a pericolo tutti coloro che lo seguitassono, che fare surgere nuovi sdegni nel popolo;
sapendo quanto simile partito fusse per essere accetto, e quanto fusse difficile il dissuaderlo. Andò,
adunque, costui con una moltitudine inordinata ed incomposta a trovare Annibale; e non gli fu
prima giunto all'incontro, che fu, con tutti quegli che lo seguitarono, rotto e morto.
In Grecia, nella città di Atene, non potette mai Nicia, uomo gravissimo e prudentissimo, persuadere
a quel Popolo che non fusse bene andare a assaltare Sicilia; talché, presa quella diliberazione contro
alla voglia de' savi, ne seguì al tutto la rovina di Atene. Scipione, quando fu fatto consolo, e che
desiderava la provincia di Africa, promettendo al tutto la rovina di Cartagine, a che non si
accordando il Senato per la sentenzia di Fabio Massimo, minacciò di proporla nel Popolo, come
quello che conosceva benissimo quanto simili diliberazioni piaccino a' popoli.
Potrebbesi a questo proposito dare esempli della nostra città; come fu quando messere Ercole
Bentivogli governatore delle genti fiorentine, insieme con Antonio Giacomini, poiché ebbono rotto
Bartolommeo d'Alviano a San Vincenti andarono a campo a Pisa la quale impresa fu diliberata dal
popolo in su le promesse gagliarde di messere Ercole, ancora che molti savi cittadini la
biasimassero: nondimeno non vi ebbono rimedio, spinti da quella universale volontà, la quale era
fondata in su le promesse gagliarde del governatore. Dico, adunque, come e' non è la più facile via a
fare rovinare una republica dove il popolo abbia autorità, che metterla in imprese gagliarde; perché,
dove il popolo sia di alcuno momento, sempre fiano accettate, né vi arà, chi sarà d'altra opinione,
alcuno rimedio. Ma se di questo nasce la rovina della città, ne nasce ancora, e più spesso, la rovina
particulare de' cittadini che sono preposti a simili imprese: perché, avendosi il popolo presupposto
la vittoria, come ei viene la perdita, non ne accusa né la fortuna né la impotenzia di chi ha
governato, ma la malvagità e ignoranza sua; e quello, il più delle volte, o ammazza o imprigiona o
confina: come intervenne a infiniti capitani Cartaginesi ed a molti Ateniesi. Né giova loro alcuna
vittoria che per lo addietro avessero avuta, perché tutto la presente perdita cancella: come
intervenne ad Antonio Giacomini nostro, il quale, non avendo espugnata Pisa, come il popolo si
aveva presupposto ed egli promesso, venne in tanta disgrazia popolare, che, non ostante infinite sue
buone opere passate, visse più per umanità di coloro che ne avevano autorità, che per alcuna altra
cagione che nel popolo lo difendesse.
<B>54</B>
<B>Quanta autorità abbi uno uomo grave </B>
<B>a frenare una moltitudine concitata. </B>
Il secondo notabile sopra il testo nel superiore capitolo allegato, è, che veruna cosa è tanto atta a
frenare una moltitudine concitata, quanto è la riverenzia di qualche uomo grave e di autorità, che se
le faccia incontro; né sanza cagione dice Virgilio:
Tum pietate gravem ac meritis si forte virum quem
Conspexere, silent, arrectisque auribus adstant.
Per tanto, quello che è preposto a uno esercito, o quello che si trova in una città, dove nascesse
tumulto debba rappresentarsi in su quello con maggiore grazia e più onorevolmente che può,
mettendosi intorno le insegne di quello grado che tiene, per farsi più riverendo. Era, pochi anni
sono, Firenze divisa in due fazioni, Fratesca ed Arrabbiata, che così si chiamavano; e venendo
all'armi, ed essendo superati i Frateschi, intra i quali era Pagolantonio Soderini, assai in quegli
tempi riputato cittadino, ed andandogli in quelli tumulti il popolo armato a casa per saccheggiarla;
messere Francesco suo fratello, allora vescovo di Volterra, ed oggi cardinale, si trovava a sorte in
casa; il quale, subito sentito il romore e veduta la turba, messosi i più onorevoli panni indosso, e di
sopra il roccetto episcopale, si fece incontro a quegli armati, e con la presenzia e con le parole gli
fermò; la quale cosa fu per tutta la città per molti giorni notata e celebrata. Conchiudo, adunque,
come e' non è il più fermo né il più necessario rimedio a frenare una moltitudine concitata, che la
presenzia d'uno uomo che per presenzia paia e sia riverendo. Vedesi, adunque, per tornare al
preallegato testo, con quanta ostinazione la plebe romana accettava quel partito d'andare a Veio,
perché lo giudicava utile, né vi conosceva, sotto, il danno vi era; e come, nascendone assai tumulti,
ne sarebbe nati scandoli, se il Senato con uomini gravi e pieni di riverenza non avesse frenato il loro
furore.
<B>55</B>
<B>Quanto facilmente si conduchino </B>
<B>le cose in quella città dove la moltitudine </B>
<B>non è corrotta: e che, dove è equalità, </B>
<B>non si può fare principato; </B>
<B>e dove la non è, non si può </B>
<B>fare republica. </B>
Ancora che di sopra si sia discorso assai quello è da temere o sperare delle cittadi corrotte,
nondimeno non mi pare fuori di proposito considerare una diliberazione del Senato circa il voto che
Cammillo aveva fatto di dare la decima parte a Apolline della preda de' Veienti: la quale preda
sendo venuta nelle mani della Plebe romana, né se ne potendo altrimenti rivedere conto, fece il
Senato uno editto, che ciascuno dovessi rappresentare in publico la decima parte di quello ch'egli
aveva predato. E benché tale diliberazione non avesse luogo, avendo dipoi il Senato preso altro
modo, e per altra via sodisfatto a Apolline, in sodisfazione della plebe; nondimeno si vede per tale
diliberazione quanto quel Senato confidava nella bontà di quella, e come ei giudicava che nessuno
fusse per non rappresentare appunto tutto quello che per tale editto gli era comandato. E dall'altra
parte si vede come la plebe non pensò di fraudare in alcuna parte lo editto con il dare meno che non
doveva, ma di liberarsi di quello con il mostrarne aperte indegnazioni. Questo esemplo, con molti
altri che di sopra si sono addotti, mostrano quanta bontà e quanta religione fusse in quel popolo, e
quanto bene fusse da sperare di lui. E veramente, dove non è questa bontà, non si può sperare nulla
di bene; come non si può sperare nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte: come è la
Italia sopra tutte l'altre, ed ancora la Francia e la Spagna di tale corrozione ritengono parte. E se in
quelle provincie non si vede tanti disordini quanti nascono in Italia ogni dì , diriva non tanto dalla
bontà de' popoli, la quale in buona parte è mancata, quanto dallo avere uno re che gli mantiene
uniti, non solamente per la virtù sua, ma per l'ordine di quegli regni, che ancora non sono guasti.
Vedesi bene, nella provincia della Magna, questa bontà e questa religione ancora in quelli popoli
essere grande; la quale fa che molte republiche vi vivono libere, ed in modo osservono le loro leggi
che nessuno di fuori né di dentro ardisce occuparle. E che e' sia vero che, in loro, regni buona parte
di quella antica bontà, io ne voglio dare uno esemplo simile a questo, detto di sopra, del Senato e
della plebe romana. Usono quelle republiche, quando gli occorre loro bisogno di avere a spendere
alcuna quantità di danari per conto publico, che quegli magistrati o consigli che ne hanno autorità,
ponghino a tutti gli abitanti della città uno per cento, o due, di quello che ciascuno ha di valsente. E
fatta tale diliberazione, secondo l'ordine della terra si rappresenta ciascuno dinanzi agli riscotitori di
tale imposta; e, preso prima il giuramento di pagare la conveniente somma, getta in una cassa a ciò
diputata quello che secondo la conscienza sua gli pare dovere pagare: del quale pagamento non è
testimone alcuno, se non quello che paga. Donde si può conietturare quanta bontà e quanta religione
sia ancora in quegli uomini. E debbesi stimare che ciascuno paghi la vera somma: perché, quando la
non si pagasse, non gitterebbe quella imposizione quella quantità che loro disegnassero secondo le
antiche che fossino usitate riscuotersi, e non gittando, si conoscerebbe la fraude: e conoscendo si
arebbe preso altro modo che questo. La quale bontà è tanto più da ammirare in questi tempi, quanto
ella è più rada: anzi si vede essere rimasa solo in quella provincia.
Il che nasce da dua cose: l'una, non avere avute conversazioni grandi con i vicini; perché né quelli
sono iti a casa loro, né essi sono iti a casa altrui, perché sono stati contenti di quelli beni, vivere di
quelli cibi, vestire di quelle lane, che dà il paese; d'onde è stata tolta via la cagione d'ogni
conversazione, ed il principio d'ogni corruttela; perché non hanno possuto pigliare i costumi, né
franciosi, né spagnuoli, né italiani; le quali nazioni tutte insieme sono la corruttela del mondo.
L'altra cagione è, che quelle republiche dove si è mantenuto il vivere politico ed incorrotto, non
sopportono che alcuno loro cittadino né sia né viva a uso di gentiluomo: anzi mantengono intra loro
una pari equalità, ed a quelli signori e gentiluomini, che sono in quella provincia, sono inimicissimi;
e se per caso alcuni pervengono loro nelle mani, come principii di corruttele e cagione d'ogni
scandolo, gli ammazzono. E per chiarire questo nome di gentiluomini quale e' sia, dico che
gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni
abbondantemente, sanza avere cura alcuna o di coltivazione o di altra necessaria fatica a vivere.
Questi tali sono perniziosi in ogni republica ed in ogni provincia, ma più perniziosi sono quelli che,
oltre alle predette fortune, comandano a castella, ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste
due spezie di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, Terra di Roma, la Romagna e la Lombardia.
Di qui nasce che in quelle provincie non è mai surta alcuna republica né alcuno vivere politico;
perché tali generazioni di uomini sono al tutto inimici d'ogni civilità. Ed a volere in provincie fatte
in simil modo introdurre una republica, non sarebbe possibile: ma a volerle riordinare, se alcuno ne
fusse arbitro, non arebbe altra via che farvi uno regno. La ragione è questa che, dove è tanto la
materia corrotta che le leggi non bastano a frenarla, vi bisogna ordinare insieme con quelle maggior
forza; la quale è una mano regia, che con la potenza assoluta ed eccessiva ponga freno alla
eccessiva ambizione e corruttela de' potenti. Verificasi questa ragione con lo esemplo di Toscana:
dove si vede in poco spazio di terreno state lungamente tre republiche, Firenze, Siena e Lucca; e le
altre città di quella provincia essere in modo serve, che, con lo animo e con l'ordine, si vede o che le
mantengono o che le vorrebbono mantenere la loro libertà. Tutto è nato per non essere in quella
provincia alcuno signore di castella, e nessuno o pochissimi gentiluomini; ma esservi tanta equalità,
che facilmente da uno uomo prudente, e che delle antiche civilità avesse cognizione, vi
s'introdurrebbe uno vivere civile. Ma lo infortunio suo è stato tanto grande, che infino a questi
tempi non si è abattuta a alcuno uomo che lo abbia possuto o saputo fare.
Trassi adunque di questo discorso questa conclusione: che colui che vuole fare dove sono assai
gentiluomini una republica, non la può fare se prima non gli spegne tutti: e che colui che, dov'è
assai equalità, vuole fare uno regno o uno principato, non lo potrà mai fare se non trae di quella
equalità molti d'animo ambizioso ed inquieto, e quelli fa gentiluomini in fatto, e non in nome,
donando loro castella e possessioni, e dando loro favore di sustanze e di uomini; acciocché, posto in
mezzo di loro, mediante quegli mantenga la sua potenza; ed essi, mediante quello, la loro
ambizione; e gli altri siano constretti a sopportare quel giogo che la forza, e non altro mai, può fare
sopportare loro. Ed essendo per questa via proporzione da chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi
gli uomini ciascuno negli ordini loro. E perché il fare d'una provincia atta a essere regno una
republica, e d'una atta a essere republica farne uno regno, è materia da uno uomo che per cervello e
per autorità sia raro: sono stati molti che lo hanno voluto fare e pochi che lo abbino saputo
condurre. Perché la grandezza della cosa, parte sbigottisce gli uomini, parte in modo gl'impedisce,
che ne' principii primi mancano.
Credo che a questa mia opinione, che dove sono gentiluomini non si possa ordinare republica, parrà
contraria la esperienza della Republica viniziana, nella quale non possono avere alcuno grado se
non coloro che sono gentiluomini. A che si risponde, come questo esemplo non ci fa alcuna
oppugnazione, perché i gentiluomini in quella Republica sono più in nome che in fatto; perché loro
non hanno grandi entrate di possessioni, sendo le loro ricchezze grandi fondate in sulla mercanzia e
cose mobili, e di più, nessuno di loro tiene castella, o ha alcuna iurisdizione sopra gli uomini: ma
quel nome di gentiluomo in loro è nome di degnità e di riputazione, sanza essere fondato sopra
alcuna di quelle cose che fa che nell'altre città si chiamano i gentiluomini. E come le altre
republiche hanno tutte le loro divisioni sotto vari nomi, così Vinegia si divide in gentiluomini e
popolari: e vogliono che quegli abbino, ovvero possino avere, tutti gli onori; quelli altri ne siano al
tutto esclusi. Il che non fa disordine in quella terra, per le ragioni altra volta dette. Constituisca,
adunque, una republica colui dove è, o è fatta, una grande equalità; ed all'incontro ordini un
principato dove è grande inequalità: altrimenti farà cosa sanza proporzione e poco durabile.
<B>56</B>
<B>Innanzi che seguino i grandi accidenti </B>
<B>in una città o in una provincia, </B>
<B>vengono segni che gli pronosticono, </B>
<B>o uomini che gli predicano. </B>
Donde ei si nasca io non so, ma ei si vede per gli antichi e per gli moderni esempli, che mai non
venne alcuno grave accidente in una città o in una provincia, che non sia stato, o da indovini o da
rivelazioni o da prodigi o da altri segni celesti, predetto. E per non mi discostare da casa nel provare
questo, sa ciascuno quanto da frate Girolamo Savonerola fosse predetta innanzi la venuta del re
Carlo VIII di Francia in Italia; e come, oltre a di questo, per tutta Toscana si disse essere sentite in
aria e vedute genti d'armi, sopra Arezzo, che si azzuffavano insieme. Sa ciascuno, oltre a questo,
come, avanti alla morte di Lorenzo de' Medici vecchio, fu percosso il duomo nella sua più alta parte
con una saetta celeste, con rovina grandissima di quello edifizio. Sa ciascuno ancora, come, poco
innanzi che Piero Soderini, quale era stato fatto gonfalonieri a vita dal popolo fiorentino, fosse
cacciato e privo del suo grado, fu il palazzo medesimamente da uno fulgure percosso. Potrebbonsi,
oltre a di questo, addurre più esempli i quali, per fuggire il tedio, lascerò. Narrerò solo quello che
Tito Livio dice, innanzi alla venuta de' Franciosi a Roma: cioè, come uno Marco Cedicio plebeio
riferì al Senato avere udito di mezza notte, passando per la Via nuova, una voce, maggiore che
umana, la quale lo ammuniva che riferissi a' magistrati come e' Franciosi venivano a Roma. La
cagione di questo credo sia da essere discorsa e interpretata da uomo che abbi notizia delle cose
naturali e soprannaturali: il che non abbiamo noi. Pure, potrebbe essere che, sendo questo aere,
come vuole alcuno filosofo, pieno di intelligenze, le quali per naturali virtù preveggendo le cose
future, ed avendo compassione agli uomini, acciò si possino preparare alle difese, gli avvertiscono
con simili segni. Pure, comunque e' si sia, si vede così essere la verità; e che sempre dopo tali
accidenti sopravvengono cose istraordinarie e nuove alle provincie.
<B>57</B>
<B>La Plebe insieme è gagliarda, </B>
<B>di per sé è debole. </B>
Erano molti Romani, sendo seguita per la passata dei Franciosi la rovina della loro patria, andati ad
abitare a Veio, contro la constituzione ed ordine del Senato: il quale, per rimediare a questo
disordine, comandò per i suoi editti publici che ciascuno, infra certo tempo, e sotto certe pene,
tornasse a abitare a Roma. De' quali editti, da prima per coloro contro a chi e' venivano, si fu fatto
beffe; dipoi, quando si appressò il tempo dello ubbidire, tutti ubbidirono. E Tito Livio dice queste
parole «Ex ferocibus universis singuli metu suo obedientes fuere». E veramente, non si può
mostrare meglio la natura d'una moltitudine in questa parte, che si dimostri in questo testo. Perché
la moltitudine è audace nel parlare, molte volte contro alle diliberazioni del loro principe; dipoi,
come ei veggono la pena in viso, non si fidando l'uno dell'altro, corrono ad ubbidire. Talché si vede
certo che, di quel che si dica uno popolo circa la buona o mala disposizione sua, si debba tenere non
gran conto, quando tu sia ordinato in modo da poterlo mantenere, s'egli è bene disposto; s'egli è
male disposto, da potere provedere che non ti offenda. Questo s'intende per quelle male disposizioni
che hanno i popoli, nate da qualunque altra cagione che o per avere perduto la libertà o il loro
principe stato amato da loro e che ancora sia vivo: imperocché le male disposizioni che nascono da
queste cagioni sono sopra ogni cosa formidabili, e che hanno bisogno di grandi rimedi a frenarle:
l'altre sue indisposizioni fiano facili, quando e' non abbia capi a chi rifuggire. Perché non ci è cosa,
dall'un canto, più formidabile che una moltitudine sciolta e sanza capo; e, dall'altra parte, non è cosa
più debole: perché, quantunque ella abbia l'armi in mano, fia facile ridurla, purché tu abbi ridotto da
poter fuggire il primo empito; perché quando gli animi sono un poco raffreddi, e che ciascuno vede
di aversi a tornare a casa sua, cominciano a dubitare di loro medesimi, e pensare alla salute loro o
col fuggirsi o con l'accordarsi. Però una moltitudine così concitata, volendo fuggire questi pericoli,
ha subito a fare infra sé medesima uno capo che la corregga, tenghila unita e pensi alla sua difesa;
come fece la plebe romana, quando, dopo la morte di Virginia, si partì da Roma, e per salvarsi
feciono infra loro venti Tribuni: e non faccendo questo, interviene loro sempre quel che dice Tito
Livio nelle soprascritte parole che tutti insieme sono gagliardi, e, quando ciascuno poi comincia a
pensare al proprio pericolo, diventa vile e debole.
<B>58</B>
<B>La moltitudine è più savia </B>
<B>e più costante che uno principe. </B>
Nessuna cosa essere più vana e più incostante che la moltitudine, così Tito Livio nostro, come tutti
gli altri istorici, affermano. Perché spesso occorre, nel narrare le azioni degli uomini, vedere la
moltitudine avere condannato alcuno a morte, e quel medesimo dipoi pianto e sommamente
desiderato: come si vede aver fatto il popolo romano, di Manlio Capitolino, il quale avendo
condannato a morte, sommamente dipoi desiderava quello. E le parole dello autore sono queste:
«Populum brevi, posteaquam ab eo periculum nullum erat, desiderium eius tenuit». Ed altrove,
quando mostra gli accidenti che nacquono in Siracusa dopo la morte di Girolamo nipote di Ierone,
dice: «Haec natura multitudinis est: aut humiliter servit, aut superbe dominatur». Io non so se io mi
prenderò una provincia dura e piena di tanta difficultà, che mi convenga o abbandonarla con
vergogna, o seguirla con carico; volendo difendere una cosa, la quale, come ho detto, da tutti gli
scrittori è accusata. Ma, comunque si sia, io non giudico né giudicherò mai essere difetto difendere
alcuna opinione con le ragioni, sanza volervi usare o l'autorità o la forza. Dico, adunque, come di
quello difetto di che accusano gli scrittori la moltitudine, se ne possono accusare tutti gli uomini
particularmente, e massime i principi; perché ciascuno, che non sia regolato dalle leggi, farebbe
quelli medesimi errori che la moltitudine sciolta. E questo si può conoscere facilmente, perché ei
sono e sono stati assai principi, e de' buoni e de' savi ne sono stati pochi: io dico de' principi che
hanno potuto rompere quel freno che gli può correggere; intra i quali non sono quegli re che
nascevano in Egitto, quando, in quella antichissima antichità, si governava quella provincia con le
leggi; né quegli che nascevano in Sparta; né quegli che a' nostri tempi nascano in Francia; il quale
regno è moderato più dalle leggi che alcuno altro regno di che ne' nostri tempi si abbia notizia. E
questi re che nascono sotto tali constituzioni non sono da mettere in quel numero, donde si abbia a
considerare la natura di ciascuno uomo per sé, e vedere s'egli è simile alla moltitudine; perché a
rincontro si debbe porre una moltitudine medesimamente regolata dalle leggi come sono loro; e si
troverrà in lei essere quella medesima bontà che noi vediamo essere in quelli, e vedrassi quella né
superbamente dominare né umilmente servire: come era il popolo romano, il quale, mentre durò la
Republica incorrotta, non servì mai umilmente né mai dominò superbamente; anzi con li suoi ordini
e magistrati tenne il suo grado onorevolmente. E quando era necessario commuoversi contro a un
potente, lo faceva; come si vide in Manlio, ne' Dieci ed in altri che cercorono opprimerla: e quando
era necessario ubbidire a' Dittatori ed a' Consoli per la salute publica, lo faceva. E se il popolo
romano desiderava Manlio Capitolino morto, non è maraviglia, perché ei desiderava le sue virtù, le
quali erano state tali, che la memoria di esse recava compassione a ciascuno, ed arebbono avuto
forza di fare quel medesimo effetto in un principe, perché la è sentenzia di tutti gli scrittori, come la
virtù si lauda e si ammira ancora negli inimici suoi: e se Manlio, intra tanto desiderio, fusse
risuscitato, il popolo di Roma arebbe dato di lui il medesimo giudizio, come ei fece, tratto che lo
ebbe di prigione, che poco di poi lo condannò a morte; nonostante che si vegga de' principi, tenuti
savi, i quali hanno fatto morire qualche persona, e poi sommamente desideratola: come Alessandro,
Clito ed altri suoi amici; ed Erode, Marianne. Ma quello che lo istorico nostro dice della natura
della moltitudine, non dice di quella che è regolata dalle leggi, come era la romana; ma della sciolta,
come era la siragusana: la quale fece quegli errori che fanno gli uomini infuriati e sciolti, come fece
Alessandro Magno, ed Erode, ne' casi detti. Però non è più da incolpare la natura della moltitudine
che de' principi, perché tutti equalmente errano, quando tutti sanza rispetto possono errare. Di che,
oltre a quel che ho detto, ci sono assai esempli, ed intra gl'imperadori romani, ed intra gli altri
tiranni e principi; dove si vede tanta incostanzia e tanta variazione di vita, quanta mai non si
trovasse in alcuna moltitudine.
Conchiudo adunque, contro alla commune opinione; la quale dice come i popoli, quando sono
principi, sono varii, mutabili ed ingrati; affermando che in loro non sono altrimenti questi peccati
che siano ne' principi particulari. Ed accusando alcuno i popoli ed i principi insieme, potrebbe dire
il vero; ma traendone i principi, s'inganna: perché un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà
stabile, prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che un principe, eziandio stimato
savio: e dall'altra parte, un principe, sciolto dalle leggi, sarà ingrato, vario ed imprudente più che un
popolo. E che la variazione del procedere loro nasce non dalla natura diversa, perché in tutti è a un
modo, e, se vi è vantaggio di bene, è nel popolo; ma dallo avere più o meno rispetto alle leggi,
dentro alle quali l'uno e l'altro vive. E chi considererà il popolo romano, lo vedrà essere stato per
quattrocento anni inimico del nome regio, ed amatore della gloria e del bene commune della sua
patria; vedrà tanti esempli usati da lui, che testimoniano l'una cosa e l'altra. E se alcuno mi allegasse
la ingratitudine ch'egli usò contra a Scipione, rispondo quello che di sopra lungamente si discorse in
questa materia, dove si mostrò i popoli essere meno ingrati de' principi. Ma quanto alla prudenzia
ed alla stabilità, dico, come un popolo è più prudente, più stabile e di migliore giudizio che un
principe. E non sanza cagione si assomiglia la voce d'un popolo a quella di Dio: perché si vede una
opinione universale fare effetti maravigliosi ne' pronostichi suoi; talché pare che per occulta virtù ei
prevegga il suo male ed il suo bene. Quanto al giudicare le cose, si vede radissime volte, quando
egli ode duo concionanti che tendino in diverse parti, quando ei sono di equale virtù, che non pigli
la opinione migliore, e che non sia capace di quella verità che egli ode. E se nelle cose gagliarde, o
che paiano utili, come di sopra si dice, egli erra; molte volte erra ancora un principe nelle sue
proprie passioni, le quali sono molte più che quelle de' popoli. Vedesi ancora, nelle sue elezioni ai
magistrati, fare, di lunga, migliore elezione che un principe, né mai si persuaderà a un popolo, che
sia bene tirare alle degnità uno uomo infame e di corrotti costumi: il che facilmente e per mille vie
si persuade a un principe. Vedesi uno popolo cominciare ad avere in orrore una cosa, e molti secoli
stare in quella opinione: il che non si vede in un principe. E dell'una e dell'altra di queste due cose
voglio mi basti per testimone il popolo romano: il quale in tante centinaia d'anni, in tante elezioni di
Consoli e di Tribuni, non fece quattro elezioni di che quello si avesse a pentire. Ed ebbe, come ho
detto, tanto in odio il nome regio, che nessuno obligo di alcuno suo cittadino, che tentasse quel
nome, poté fargli fuggire le debite pene. Vedesi, oltra di questo, le città, dove i popoli sono principi,
fare in brevissimo tempo augumenti eccessivi, e molto maggiori che quelle che sempre sono state
sotto uno principe: come fece Roma dopo la cacciata de' re, ed Atene da poi che la si liberò da
Pisistrato. Il che non può nascere da altro, se non che sono migliori governi quegli de' popoli che
quegli de' principi. Né voglio che si opponga a questa mia opinione tutto quello che lo istorico
nostro ne dice nel preallegato testo, ed in qualunque altro; perché, se si discorreranno tutti i
disordini de' popoli, tutti i disordini de' principi, tutte le glorie de' popoli e tutte quelle de' principi,
si vedrà il popolo di bontà e di gloria essere, di lunga, superiore. E se i principi sono superiori a'
popoli nello ordinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi; i popoli sono tanto
superiori nel mantenere le cose ordinate, ch'egli aggiungono sanza dubbio alla gloria di coloro che
l'ordinano.
Ed insomma, per conchiudere questa materia, dico come hanno durato assai gli stati de' principi,
hanno durato assai gli stati delle republiche, e l'uno e l'altro ha avuto bisogno d'essere regolato dalle
leggi: perché un principe che può fare ciò ch'ei vuole, è pazzo; un popolo che può fare cio che
vuole, non è savio. Se, adunque, si ragionerà d'un principe obligato alle leggi, e d'un popolo
incatenato da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe: se si ragionerà dell'uno e
dell'altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel principe e quelli minori, ed aranno
maggiori rimedi. Però che a un popolo licenzioso e tumultuario, gli può da un uomo buono essere
parlato, e facilmente può essere ridotto nella via buona: a un principe cattivo non è alcuno che possa
parlare né vi è altro rimedio che il ferro. Da che si può fare coniettura della importanza della
malattia dell'uno e dell'altro: ché se a curare la malattia del popolo bastan le parole, ed a quella del
principe bisogna il ferro, non sarà mai alcuno che non giudichi, che, dove bisogna maggior cura,
siano maggiori errori. Quando un popolo è bene sciolto, non si temano le pazzie che quello fa, né si
ha paura del male presente, ma di quel che ne può nascere, potendo nascere, infra tanta confusione,
uno tiranno. Ma ne' principi cattivi interviene il contrario: che si teme il male presente, e nel futuro
si spera; persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita possa fare surgere una libertà. Sì che
vedete la differenza dell'uno e dell'altro, la quale è quanto, dalle cose che sono, a quelle che hanno a
essere. Le crudeltà della moltitudine sono contro a chi ei temano che occupi il bene commune:
quelle d'un principe sono contro a chi ei temano che occupi il bene proprio. Ma la opinione contro
ai popoli nasce perché de' popoli ciascuno dice male sanza paura e liberamente, ancora mentre che
regnano: de' principi si parla sempre con mille paure e mille rispetti. Né mi pare fuor di proposito,
poiché questa materia mi vi tira, disputare, nel seguente capitolo, di quali confederazioni altri si
possa più fidare; o di quelle fatte con una republica, o di quelle fatte con uno principe.
<B>59</B>
<B>Di quale confederazione o lega </B>
<B>altri si può più fidare; o di quella fatta </B>
<B>con una republica, o di quella fatta </B>
<B>con uno principe. </B>
Perché, ciascuno dì, occorre che l'uno principe con l'altro, o l'una republica con l'altra, fanno lega ed
amicizia insieme: ed ancora similmente si contrae confederazione ed accordo intra una republica ed
uno principe: mi pare da esaminare qual fede è più stabile, e di quale si debba tenere più conto, o di
quella d'una republica, o di quella d'uno principe. Io, esaminando tutto, credo che in molti casi ei
sieno simili ed in alcuni vi sia qualche disformità. Credo, per tanto, che gli accordi fatti per forza
non ti saranno né da uno principe né da una republica osservati; credo che, quando la paura dello
stato venga, l'uno e l'altro, per non lo perdere, ti romperà la fede, e ti userà ingratitudine. Demetrio,
quel che fu chiamato espugnatore delle cittadi, aveva fatto agli Ateniesi infiniti beneficii: occorse
dipoi, che, sendo rotto da' suoi inimici, e rifuggendosi in Atene come in città amica ed a lui
obligata, non fu ricevuto da quella: il che gli dolse assai più che non aveva fatto la perdita delle
genti e dello esercito suo. Pompeio, rotto che fu da Cesare in Tessaglia, si rifuggì in Egitto a
Tolomeo, il quale era per lo adietro da lui stato rimesso nel regno; e fu da lui morto. Le quali cose si
vede che ebbero le medesime cagioni: nondimeno fu più umanità usata e meno ingiuria dalla
republica, che dal principe. Dove è, pertanto, la paura, si troverrà in fatto la medesima fede. E se si
troverrà o una republica o uno principe, che, per osservarti la fede, aspetti di rovinare, può nascere
questo ancora da simili cagioni. E quanto al principe, può molto bene occorrere che egli sia amico
d'uno principe potente, che, se bene non ha occasione allora di difenderlo, ei può sperare che col
tempo ei lo ristituisca nel principato suo; o veramente che, avendolo seguito come partigiano, ei
non creda trovare né fede né accordi con il nimico di quello. Di questa sorte sono stati quegli
principi del reame di Napoli, che hanno seguite le parti franciose. E quanto alle republiche, fu di
questa sorte Sagunto in Ispagna, che aspettò la rovina per seguire le parti romane; e di questa
Firenze, per seguire nel 1512 le parti franciose. E credo, computato ogni cosa, che in questi casi,
dove è il pericolo urgente, si troverrà qualche stabilità più nelle republiche, che ne' principi. Perché,
sebbene le republiche avessero quel medesimo animo e quella medesima voglia che uno principe, lo
avere il moto loro tardo, farà che le perranno sempre più a risolversi che il principe, e per questo
perranno più a rompere la fede di lui. Romponsi le confederazioni per lo utile. In questo le
republiche sono, di lunga, più osservanti degli accordi, che i principi. E potrebbesi addurre esempli,
dove uno minimo utile ha fatto rompere la fede a uno principe, e dove una grande utilità non ha
fatto rompere la fede a una republica: come fu quello partito che propose Temistocle agli Ateniesi,
a' quali nella concione disse che aveva uno consiglio da fare alla loro patria grande utilità, ma non
lo poteva dire per non lo scoprire, perché, scoprendolo, si toglieva la occasione del farlo. Onde il
popolo di Atene elesse Aristide, al quale si comunicasse la cosa, e secondo dipoi che paresse a lui
se ne diliberasse: al quale Temistocle mostrò come l'armata di tutta Grecia, ancora che la stesse
sotto la fede loro, era in lato che facilmente si poteva guadagnare o distruggere; il che faceva gli
Ateniesi al tutto arbitri di quella provincia. Donde Aristide riferì al popolo, il partito di Temistocle
essere utilissimo ma disonestissimo: per la quale cosa il popolo al tutto lo ricusò. Il che non arebbe
fatto Filippo Macedone, e gli altri principi che più utile hanno cerco e guadagnato con il rompere la
fede, che con alcuno altro modo. Quanto a rompere i patti per qualche cagione di inosservanzia, di
questo io non parlo, come di cosa ordinaria; ma parlo di quelli che si rompono per cagioni
istraordinarie: dove io credo, per le cose dette, che il popolo facci minori errori che il principe, e per
questo si possa fidar più di lui che del principe.
<B>60</B>
<B>Come il Consolato e qualunque </B>
<B>altro magistrato in Roma </B>
<B>si dava sanza rispetto di età. </B>
Ei si vede per l'ordine della istoria, come la Republica romana, poiché il Consolato venne nella
Plebe, concesse quello ai suoi cittadini sanza rispetto di età o di sangue; ancora che il rispetto della
età mai non fusse in Roma, ma sempre si andò a trovare la virtù, o in giovane o in vecchio che la
fusse. Il che si vede per il testimone di Valerio Corvino, che fu fatto Consolo in ventitré anni: e
Valerio detto, parlando ai suoi soldati, disse come il Consolato era «praemium virtutis, non
sanguinis». La quale cosa se fu bene considerata o no, sarebbe da disputare assai. E quanto al
sangue, fu concesso questo per necessità; e quella necessità che fu in Roma, sarebbe in ogni città
che volesse fare gli effetti che fece Roma, come altra volta si è detto: perché e' non si può dare agli
uomini disagio sanza premio, né si può tôrre loro la speranza di conseguire il premio sanza
pericolo. E però a buona ora convenne che la Plebe avessi speranza di avere il Consolato: e di
questa speranza si nutrì un pezzo sanza averlo; dipoi non bastò la speranza, che e' convenne che si
venisse allo effetto. Ma la città che non adopera la sua plebe a alcuna cosa gloriosa, la può trattare a
suo modo come altrove si disputò: ma quella che vuol fare quel che fe' Roma, non ha a fare questa
distinzione. E dato che così sia, quella del tempo non ha replica anzi è necessaria: perché nello
eleggere uno giovane in un grado che abbi bisogno d'una prudenza di vecchio, conviene,
avendovelo a eleggere la moltitudine, che a quel grado lo facci pervenire qualche sua notabilissima
azione. E quando uno giovane è di tanta virtù, che si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere;
sarebbe cosa dannosissima che la città non se ne potessi valere allora, e che l'avesse a aspettare che
fosse invecchiato con lui quel vigore dell'animo e quella prontezza, della quale in quella età la
patria sua si poteva valere: come si valse Roma di Valerio Corvino, di Scipione e di Pompeio, e di
molti altri, che trionfarono giovanissimi.
<B>LIBRO SECONDO </B>
Laudano sempre gli uomini, ma non sempre ragionevolmente, gli antichi tempi, e gli presenti
accusano: ed in modo sono delle cose passate partigiani, che non solamente celebrano quelle etadi
che da loro sono state, per la memoria che ne hanno lasciata gli scrittori, conosciute; ma quelle
ancora che, sendo già vecchi, si ricordano nella loro giovanezza avere vedute. E quando questa loro
opinione sia falsa, come il più delle volte è, mi persuado varie essere le cagioni che a questo
inganno gli conducono. E la prima credo sia, che delle cose antiche non s'intenda al tutto la verità; e
che di quelle il più delle volte si nasconda quelle cose che recherebbono a quelli tempi infamia; e
quelle altre che possano partorire loro gloria, si rendino magnifiche ed amplissime. Perché il più
degli scrittori in modo alla fortuna de' vincitori ubbidiscano, che, per fare le loro vittorie gloriose,
non solamente accrescano quello che da loro è virtuosamente operato, ma ancora le azioni de'
nimici in modo illustrano, che, qualunque nasce dipoi in qualunque delle due provincie, o nella
vittoriosa o nella vinta, ha cagione di maravigliarsi di quegli uomini e di quelli tempi, ed è forzato
sommamente laudarli ed amarli. Oltra di questo, odiando gli uomini le cose o per timore o per
invidia, vengono ad essere spente due potentissime cagioni dell'odio nelle cose passate, non ti
potendo quelle offendere, e non ti dando cagione d'invidiarle. Ma al contrario interviene di quelle
cose che si maneggiano e veggono; le quali, per la intera cognizione di esse, non ti essendo in
alcuna parte nascoste, e conoscendo in quelle insieme con il bene molte altre cose che ti
dispiacciono, sei forzato giudicarle alle antiche molto inferiori, ancora che, in verità, le presenti
molto più di quelle di gloria e di fama meritassoro: ragionando, non delle cose pertinenti alle arti, le
quali hanno tanta chiarezza in sé, che i tempi possono tôrre o dare loro poco più gloria che per loro
medesime si meritino; ma parlando di quelle pertinenti alla vita e costumi degli uomini, delle quali
non se ne veggono sì chiari testimoni.
Replico, pertanto, essere vera quella consuetudine del laudare e biasimare soprascritta: ma non
essere già sempre vero che si erri nel farlo. Perché qualche volta è necessario che giudichino la
verità; perché, essendo le cose umane sempre in moto, o le salgano, o le scendano. E vedesi una
città o una provincia essere ordinata al vivere politico da qualche uomo eccellente, ed, un tempo,
per la virtù di quello ordinatore, andare sempre in augumento verso il meglio. Chi nasce allora in
tale stato, ed ei laudi più gli antichi tempi che i moderni, s'inganna; ed è causato il suo inganno da
quelle cose che di sopra si sono dette. Ma coloro che nascano dipoi, in quella città o provincia, che
gli è venuto il tempo che la scende verso la parte più ria, allora non s'ingannano. E pensando io
come queste cose procedino, giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo, ed in
quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo buono, di
provincia in provincia: come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variavano
dall'uno all'altro per la variazione de' costumi; ma il mondo restava quel medesimo. Solo vi era
questa differenza, che dove quello aveva prima allogata la sua virtù in Assiria, la collocò in Media,
dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia ed a Roma; e se dopo lo Imperio romano non è
seguito Imperio che sia durato, né dove il mondo abbia ritenuta la sua virtù insieme, si vede
nondimeno essere sparsa in di molte nazioni dove si viveva virtuosamente; come era il regno de'
Franchi, il regno de' Turchi, quel del Soldano; ed oggi i popoli della Magna; e prima quella setta
Saracina che fece tante gran cose, ed occupò tanto mondo, poiché la distrusse lo Imperio romano
orientale. In tutte queste provincie, adunque, poiché i Romani rovinorno, ed in tutte queste sette è
stata quella virtù, ed è ancora in alcuna parte di esse, che si disidera, e che con vera laude si lauda.
E chi nasce in quelle, e lauda i tempi passati più che i presenti, si potrebbe ingannare; ma chi nasce
in Italia ed in Grecia, e non sia diventato o in Italia oltramontano o in Grecia turco, ha ragione di
biasimare i tempi suoi, e laudare gli altri: perché in quelli vi sono assai cose che gli fanno
maravigliosi; in questi non è cosa alcuna che gli ricomperi da ogni estrema miseria, infamia e
vituperio: dove non è osservanza di religione, non di leggi, non di milizia; ma sono maculati d'ogni
ragione bruttura. E tanto sono questi vizi più detestabili, quanto ei sono più in coloro che seggono
pro tribunali, comandano a ciascuno, e vogliono essere adorati.
Ma tornando al ragionamento nostro, dico che se il giudicio degli uomini è corrotto in giudicare
quale sia migliore, o il secolo presente o l'antico, in quelle cose dove per l'antichità e' non ne ha
possuto avere perfetta cognizione come egli ha de' suoi tempi; non doverebbe corrompersi ne'
vecchi nel giudicare i tempi della gioventù e vecchiezza loro avendo quelli e questi equalmente
conosciuti e visti. La quale cosa sarebbe vera, se gli uomini per tutti i tempi della lor vita fossero di
quel medesimo giudizio, ed avessono quegli medesimi appetiti: ma variando quegli ancora che i
tempi non variino, non possono parere agli uomini quelli medesimi, avendo altri appetiti, altri
diletti, altre considerazioni nella vecchiezza, che nella gioventù. Perché, mancando gli uomini,
quando gl'invecchiano, di forze, e crescendo di giudizio e di prudenza, è necessario che quelle cose
che in gioventù parevano loro sopportabili e buone, rieschino poi, invecchiando, insopportabili e
cattive; e dove quegli ne doverrebbono accusare il giudizio loro, ne accusano i tempi. Sendo, oltra
di questo, gli appetiti umani insaziabili, perché, avendo, dalla natura, di potere e volere desiderare
ogni cosa, e, dalla fortuna, di potere conseguitarne poche; ne risulta continuamente una mala
contentezza nelle menti umane, ed uno fastidio delle cose che si posseggono: il che fa biasimare i
presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri; ancora che a fare questo non fussono mossi da
alcuna ragionevole cagione. Non so, adunque, se io meriterò d'essere numerato tra quelli che si
ingannano, se in questi mia discorsi io lauderò troppo i tempi degli antichi Romani, e biasimerò i
nostri. E veramente, se la virtù che allora regnava, ed il vizio che ora regna, non fussino più chiari
che il sole andrei col parlare più rattenuto, dubitando non incorrere in questo inganno di che io
accuso alcuni. Ma essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire
manifestamente quello che io intenderò di quelli e di questi tempi; acciocché gli animi de' giovani
che questi mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e prepararsi ad imitar quegli, qualunque
volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perché gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la
malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché, sendone
molti capaci, alcuno di quelli, più amato dal Cielo, possa operarlo. Ed avendo ne' discorsi del
superior libro, parlato delle diliberazioni fatte da' Romani, pertinenti al di dentro della città, in
questo parleremo di quelle, che 'l Popolo romano fece pertinenti allo augumento dello imperio suo.
<B>1</B>
<B>Quale fu più cagione dello imperio </B>
<B>che acquistarono i romani, o la virtù, </B>
<B>o la fortuna. </B>
Molti hanno avuta opinione, ed in tra' quali Plutarco, gravissimo scrittore, che 'l popolo romano
nello acquistare lo imperio fosse più favorito dalla fortuna che dalla virtù. Ed intra le altre ragioni
che ne adduce, dice che per confessione di quel popolo si dimostra, quello avere riconosciute dalla
fortuna tutte le sue vittorie, avendo quello edificati più templi alla Fortuna che ad alcuno altro iddio.
E pare che a questa opinione si accosti Livio; perché rade volte è che facci parlare ad alcuno
Romano, dove ei racconti della virtù, che non vi aggiunga la fortuna. La qual cosa io non voglio
confessare in alcuno modo, né credo ancora si possa sostenere. Perché, se non si è trovata mai
republica che abbi fatti i profitti che Roma, è nato che non si è trovata mai republica che sia stata
ordinata a potere acquistare come Roma. Perché la virtù degli eserciti gli fecero acquistare lo
imperio; e l'ordine del procedere, ed il modo suo proprio, e trovato dal suo primo latore delle leggi
gli fece mantenere lo acquistato: come di sotto largamente in più discorsi si narrerà. Dicono
costoro, che non avere mai accozzate due potentissime guerre in uno medesimo tempo, fu fortuna e
non virtù del Popolo romano; perché e' non ebbero guerra con i Latini, se non quando egli ebbero,
non tanto battuti i Sanniti, quanto che la guerra fu fatta da' Romani in defensione di quelli; non
combatterono con i Toscani, se prima non ebbero soggiogati i Latini, ed enervati con le spesse rotte
quasi in tutto i Sanniti: che se due di queste potenze intere si fossero, quando erano fresche,
accozzate insieme, senza dubbio si può facilmente conietturare che ne sarebbe seguito la rovina
della romana Republica. Ma, comunque questa cosa nascesse, mai non intervenne che eglino
avessero due potentissime guerre in uno medesimo tempo: anzi parve sempre che, o, nel nascere
dell'una, l'altra si spegnesse, o nello spegnersi dell'una, l'altra nascesse. Il che si può facilmente
vedere per l'ordine delle guerre fatte da loro: perché, lasciando stare quelle che fecero prima che
Roma fosse presa dai Franciosi, si vede che, mentre che combatterno con gli Equi e con i Volsci,
mai, mentre che questi popoli furono potenti, non scesero contro di loro altre genti. Domi costoro,
nacque la guerra contro a' Sanniti; e benché, innanzi che finisse tale guerra, i popoli latini si
ribellassero da' Romani; nondimeno, quando tale ribellione seguì, i Sanniti erano in lega con Roma,
e con i loro eserciti aiutarono i Romani domare la insolenzia latina. I quali domi, risurse la guerra di
Sannio. Battute per molte rotte date a' Sanniti le loro forze, nacque la guerra de' Toscani; la quale
composta, si rilevarono di nuovo i Sanniti per la passata di Pirro in Italia. Il quale come fu ributtato,
e rimandato in Grecia, appiccarono la prima guerra con i Cartaginesi: né prima fu tale guerra finita,
che tutti i Franciosi, e di là e di qua dall'Alpi, congiurarono contro ai Romani; tanto che intra
Populonia e Pisa, dove è oggi la torre a San Vincenti, furono con massima strage superati. Finita
questa guerra, per spazio di venti anni ebbero guerre di non molta importanza; perché non
combatterono con altri che con Liguri, e con quel rimanente de' Franciosi che era in Lombardia. E
così stettero tanto che nacque la seconda guerra cartaginese, la quale per sedici anni tenne occupata
Italia. Finita questa con massima gloria, nacque la guerra macedonica; la quale finita, venne quella
d'Antioco e d'Asia. Dopo la quale vittoria, non restò in tutto il mondo né principe né republica che,
di per sé, o tutti insieme, che si potessero opporre alle forze romane.
Ma innanzi a quella ultima vittoria chi considererà bene l'ordine di queste guerre, ed il modo del
procedere loro, vi vedrà dentro mescolate con la fortuna una virtù e prudenza grandissima. Talché,
chi esaminassi la cagione di tale fortuna, la ritroverebbe facilmente: perché gli è cosa certissima,
che come uno principe e uno popolo viene in tanta riputazione, che ciascuno principe e popolo
vicino abbia di per sé paura ad assaltarlo e ne tema, sempre interverrà che ciascuno d'essi mai lo
assalterà, se non necessitato; in modo che e' sarà quasi come nella elezione di quel potente, fare
guerra con quale di quei sua vicini gli parrà, e gli altri con la sua industria quietare. E' quali, parte
rispetto alla potenza sua, parte ingannati da que' modi ch'egli terrà per adormentargli, si quietano
facilmente; quegli altri potenti, che sono discosto e che non hanno commerzio seco, curano la cosa
come cosa longinqua, e che non appartenga a loro. Nel quale errore stanno tanto che questo
incendio venga loro presso: il quale venuto, non hanno rimedio a spegnerlo se non con le forze
proprie le quali dipoi non bastono, sendo colui diventato potentissimo. Io voglio lasciare andare
come i Sanniti stettero a vedere vincere dal Popolo romano i Volsci e gli Equi; e per non essere
troppo prolisso, mi farò da' Cartaginesi: i quali erano di gran potenza e di grande estimazione,
quando i Romani combattevano co' Sanniti e con i Toscani; perché di già tenevano tutta l'Africa,
tenevano la Sardigna e la Sicilia, avevano dominio in parte della Spagna. La quale potenza loro,
insieme con lo essere discosto ne' confini dal popolo romano, fece che non pensarono mai di
assaltare quello, né di soccorrere i Sanniti ed i Toscani: anzi fecero come si fa nelle cose che
crescano più tosto in loro favore, collegandosi con quegli e cercando l'amicizia loro. Né si
avviddono prima dello errore fatto, che i Romani, domi tutti i popoli mezzi in fra loro ed i
Cartaginesi, cominciarono a combattere insieme dello imperio di Sicilia e di Spagna. Intervenne
questo medesimo a' Franciosi che a' Cartaginesi, e così a Filippo re de' Macedoni, e a Antioco; e
ciascuno di loro credea, mentre che il Popolo romano era occupato con l'altro, che quello altro lo
superasse, ed essere a tempo, o con pace o con guerra, difendersi da lui. In modo che io credo che la
fortuna che ebbero in questa parte i Romani, l'arebbono tutti quegli principi che procedessono come
i Romani, e fossero della medesima virtù che loro.
Sarebbeci da mostrare a questo proposito il modo tenuto dal Popolo romano nello entrare nelle
provincie d'altrui, se nel nostro trattato de' Principati non ne avessimo parlato a lungo: perché, in
quello, questa materia è diffusamente disputata. Dirò solo questo lievemente, come sempre
s'ingegnarono avere nelle provincie nuove qualche amico che fussi scala o porta a salirvi o entrarvi,
o mezzo a tenerla: come si vede che per il mezzo de' Capuani entrarono in Sannio, de' Camertini in
Toscana, de' Mamertini in Sicilia, de' Saguntini in Spagna, di Massinissa in Africa, degli Etoli in
Grecia, di Eumene ed altri principi in Asia, de' Massiliensi e delli Edui in Francia. E così non
mancorono mai di simili appoggi, per potere facilitare le imprese loro, e nello acquistare le
provincie e nel tenerle. Il che quegli popoli che osserveranno, vedranno avere meno bisogno della
fortuna, che quelli che ne saranno non buoni osservatori. E perché ciascuno possa meglio
conoscere, quanto possa più la virtù che la fortuna loro ad acquistare quello imperio, noi
discorrereno, nel seguente capitolo, di che qualità furono quelli popoli con e' quali egli ebbero a
combattere, e quanto erano ostinati a difendere la loro libertà.
<B>2</B>
<B>Con quali popoli i Romani </B>
<B>ebbero a combattere, </B>
<B>e come ostinatamente quegli difendevono </B>
<B>la loro libertà. </B>
Nessuna cosa fe' più faticoso a' Romani superare i popoli d'intorno e parte delle provincie discosto,
quanto lo amore che in quelli tempi molti popoli avevano alla libertà, la quale tanto ostinatamente
difendevano, che mai se non da una eccessiva virtù sarebbono stati soggiogati. Perché, per molti
esempli si conosce a quali pericoli si mettessono per mantenere o ricuperare quella; quali vendette
ei facessono contro a coloro che l'avessero loro occupata. Conoscesi ancora nella lezione delle
istorie, quali danni i popoli e le città ricevino per la servitù. E dove in questi tempi ci è solo una
provincia, la quale si possa dire che abbi in sé città libere, ne' tempi antichi in tutte le provincie
erano assai popoli liberissimi. Vedesi come in quelli tempi de' quali noi parliamo al presente, in
Italia, dall'Alpi che dividono ora la Toscana da Lombardia, infino alla punta d'Italia, erano tutti
popoli liberi; come erano i Toscani, i Romani, i Sanniti, e molti altri popoli che in quel resto d'Italia
abitavano. Né si ragiona mai che vi fusse alcuno re, fuora di quegli che regnorono in Roma, e
Porsenna re di Toscana; la stirpe del quale come si estinguesse, non ne parla la istoria. Ma si vede
bene, come in quegli tempi che i Romani andarono a campo a Veio, la Toscana era libera: e tanto si
godeva della sua libertà, e tanto odiava il nome del principe, che, avendo fatto i Veienti per loro
difensione uno re in Veio, e domandando aiuto a' Toscani contro a' Romani, quegli, dopo molte
consulte fatte, deliberarono di non dare aiuto a' Veienti, infino a tanto che vivessono sotto il re;
giudicando non essere bene difendere la patria di coloro che l'avevano di già sottomessa a altrui. E
facil cosa è conoscere donde nasca ne' popoli questa affezione del vivere libero; perché si vede per
esperienza, le cittadi non avere mai ampliato nè di dominio né di ricchezza, se non mentre sono
state in libertà. E veramente maravigliosa cosa è a considerare, a quanta grandezza venne Atene per
spazio di cento anni, poiché la si liberò dalla tirannide di Pisistrato. Ma sopra tutto
maravigliosissima è a considerare a quanta grandezza venne Roma, poiché la si liberò da' suoi Re.
La ragione è facile a intendere; perché non il bene particulare, ma il bene comune è quello che fa
grandi le città. E senza dubbio, questo bene comune non è osservato se non nelle republiche; perché
tutto quello che fa a proposito suo, si esequisce; e quantunque e' torni in danno di questo o di quello
privato, e' sono tanti quegli per chi detto bene fa, che lo possono tirare innanzi contro alla
disposizione di quegli pochi che ne fussono oppressi. Al contrario interviene quando vi è uno
principe; dove il più delle volte quello che fa per lui, offende la città; e quello che fa per la città,
offende lui. Dimodoché, subito che nasce una tirannide sopra uno vivere libero, il manco male che
ne resulti a quelle città è non andare più innanzi, né crescere più in potenza o in ricchezze; ma il più
delle volte, anzi sempre, interviene loro, che le tornano indietro. E se la sorte facesse che vi
surgesse uno tiranno virtuoso il quale per animo e per virtù d'arme ampliasse il dominio suo, non ne
risulterebbe alcuna utilità a quella republica, ma a lui proprio: perché e' non può onorare nessuno di
quegli cittadini che siano valenti e buoni, che egli tiranneggia, non volendo avere ad avere sospetto
di loro. Non può ancora le città che esso acquista, sottometterle o farle tributarie a quella città di
che egli è tiranno: perché il farla potente non fa per lui; ma per lui fa tenere lo stato disgiunto, e che
ciascuna terra e ciascuna provincia riconosca lui. Talché, de' suoi acquisti, solo egli ne profitta, e
non la sua patria. E chi volessi confermare questa opinione con infinite altre ragioni, legga
Senofonte nel suo trattato che fa <I>De Tyrannide</I>. Non è maraviglia, adunque, che gli antichi
popoli con tanto odio perseguitassono i tiranni ed amassino il vivere libero, e che il nome della
libertà fusse tanto stimato da loro: come intervenne quando Girolamo, nipote di Ierone siracusano,
fu morto in Siracusa, che, venendo le novelle della sua morte in nel suo esercito, che non era molto
lontano da Siracusa, cominciò prima a tumultuare, e pigliare l'armi contro agli ucciditori di quello;
ma come ei sentì che in Siracusa si gridava libertà, allettato da quel nome, si quietò tutto, pose giù
l'ira, contro a' tirannicidi, e pensò come in quella città si potessi ordinare uno vivere libero. Non è
maraviglia ancora, che e' popoli faccino vendette istraordinarie contro a quegli che gli hanno
occupata la libertà. Di che ci sono stati assai esempli, de' quali ne intendo referire solo uno, seguito
in Corcira, città di Grecia, ne' tempi della guerra peloponnesiaca; dove, sendo divisa quella
provincia in due parti, delle quali l'una seguitava gli Ateniesi l'altra gli Spartani, ne nasceva che di
molte città, che erano infra loro divise, l'una parte seguiva l'amicizia di Sparta, l'altra di Atene: ed
essendo occorso che nella detta città prevalessono i nobili, e togliessono la libertà al popolo, i
popolari per mezzo degli Ateniesi ripresero le forze, e, posto le mani addosso a tutta la Nobilità, gli
rinchiusero in una prigione capace di tutti loro; donde gli traevono a otto o dieci per volta, sotto
titolo di mandargli in esilio in diverse parti, e quegli con molti crudeli esempli facevano morire. Di
che sendosi, quelli che restavano, accorti, deliberarono in quanto era a loro possibile, fuggire quella
morte ignominiosa: ed armatisi di quello potevano, combattendo con quelli che vi volevano entrare,
la entrata della prigione difendevano; di modo che il popolo, a questo romore fatto uno concorso,
scoperse la parte superiore di quel luogo, e quegli con quelle rovine suffocò. Seguirono ancora in
detta provincia molti altri simili casi orrendi e notabili; talché si vede essere vero che con maggiore
impeto si vendica una libertà che ti è suta tolta, che quella che ti è voluta tôrre.
Pensando dunque donde possa nascere, che, in quegli tempi antichi, i popoli fossero più amatori
della libertà che in questi; credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco
forti: la quale credo sia la diversità della educazione nostra dall'antica. Perché, avendoci la nostra
religione mostro la verità e la vera via, ci fa stimare meno l'onore del mondo: onde i Gentili,
stimandolo assai, ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni loro più feroci. Il che
si può considerare da molte loro constituzioni, cominciandosi dalla magnificenza de' sacrifizi loro,
alla umiltà de' nostri; dove è qualche pompa più delicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o
gagliarda. Qui non mancava la pompa né la magnificenza delle cerimonie, ma vi si aggiugneva
l'azione del sacrificio pieno di sangue e di ferocità, ammazzandovisi moltitudine d'animali; il quale
aspetto, sendo terribile, rendeva gli uomini simili a lui. La religione antica, oltre a di questo, non
beatificava se non uomini pieni di mondana gloria; come erano capitani di eserciti e principi di
republiche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi, che gli attivi. Ha
dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane: quell'altra lo
poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo, ed in tutte le altre cose atte a fare gli
uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a
patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il
mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare,
veggendo come l'università degli uomini, per andarne in Paradiso, pensa più a sopportare le sue
battiture che a vendicarle. E benché paia che si sia effeminato il mondo, e disarmato il Cielo, nasce
più sanza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l'ozio,
e non secondo la virtù. Perché, se considerassono come la ci permette la esaltazione e la difesa della
patria, vedrebbono come la vuole che noi l'amiamo ed onoriamo, e prepariamoci a essere tali che
noi la possiamo difendere. Fanno adunque queste educazioni, e sì false interpretazioni, che nel
mondo non si vede tante republiche quante si vedeva anticamente; né, per consequente, si vede ne'
popoli tanto amore alla libertà quanto allora: ancora che io creda più tosto essere cagione di questo,
che lo Imperio romano con le sue arme e sua grandezza spense tutte le republiche e tutti e' viveri
civili. E benché poi tale Imperio si sia risoluto, non si sono potute le città ancora rimettere insieme
né riordinare alla vita civile, se non in pochissimi luoghi di quello Imperio. Pure, comunque si
fusse, i Romani in ogni minima parte del mondo trovarono una congiura di republiche armatissime
ed ostinatissime alla difesa della libertà loro. Il che mostra che il popolo romano sanza una rara ed
estrema virtù mai non le arebbe potute superare.
E per darne esemplo di qualche membro, voglio mi basti lo esemplo de' Sanniti: i quali pare cosa
mirabile, e Tito Livio lo confessa, che fussero sì potenti, e l'arme loro sì valide, che potessono
infino al tempo di Papirio Cursore consolo, figliuolo del primo Papirio, resistere a' Romani (che fu
uno spazio di quarantasei anni), dopo tante rotte, rovine di terre, e tante strage ricevute nel paese
loro; massime veduto ora quel paese, dove erano tante cittadi e tanti uomini, essere quasi che
disabitato; ed allora vi era tanto ordine e tanta forza, che gli era insuperabile, se da una virtù romana
non fosse stato assaltato. E facil cosa è considerare donde nasceva quello ordine, e donde proceda
questo disordine; perché tutto viene dal vivere libero allora, ed ora dal vivere servo. Perché tutte le
terre e le provincie che vivono libere in ogni parte, come di sopra dissi, fanno profitti grandissimi.
Perché quivi si vede maggiori popoli, per essere e' connubi più liberi, più desiderabili dagli uomini:
perché ciascuno procrea volentieri quegli figliuoli che crede potere nutrire, non dubitando che il
patrimonio gli sia tolto; e ch'ei conosce non solamente che nascono liberi e non schiavi, ma ch'ei
possono mediante la virtù loro diventare principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggiore
numero, e quelle che vengono dalla cultura, e quelle che vengono dalle arti. Perché ciascuno
volentieri multiplica in quella cosa, e cerca di acquistare quei beni, che crede, acquistati, potersi
godere. Onde ne nasce che gli uomini a gara pensono a' privati e publici commodi; e l'uno e l'altro
viene maravigliosamente a crescere. Il contrario di tutte queste cose segue in quegli paesi che
vivono servi; e tanto più scemono dal consueto bene, quanto più è dura la servitù. E di tutte le
servitù dure, quella è durissima che ti sottomette a una republica: l'una, perché la è più durabile, e
manco si può sperare d'uscirne; l'altra, perché il fine della republica è enervare ed indebolire, per
accrescere il corpo suo, tutti gli altri corpi. Il che non fa uno principe che ti sottometta, quando quel
principe non sia qualche principe barbaro, destruttore de' paesi e dissipatore di tutte le civiltà degli
uomini, come sono i principi orientali. Ma s'egli ha in sé ordini umani ed ordinari, il più delle volte
ama le città sue suggette equalmente, ed a loro lascia l'arti tutte, e quasi tutti gli ordini antichi.
Talché, se le non possono crescere come libere, elle non rovinano anche come schiave;
intendendosi della servitù in quale vengono le città servendo a un forestiero, perché di quelle d'uno
loro cittadino ne parlai di sopra. Chi considererà, adunque, tutto quello che si è detto, non si
maraviglierà della potenza che i Sanniti avevano, sendo liberi, e della debolezza in che e' vennono
poi, servendo: e Tito Livio ne fa fede in più luoghi, e massime nella guerra di Annibale, dove e'
mostra che, sendo i Sanniti oppressi da una legione di uomini che era in Nola, mandarono oratori ad
Annibale, a pregarlo che gli soccorressi; i quali, nel parlare loro, dissono, che avevano per cento
anni combattuto con i Romani con i propri loro soldati e propri loro capitani, e molte volte aveano
sostenuto dua eserciti consolari e dua consoli, e che allora a tanta bassezza erano venuti, che non si
potevano a pena difendere da una piccola legione romana che era in Nola.
<B>3</B>
<B>Roma divenne gran città </B>
<B>rovinando le città circunvicine, </B>
<B>e ricevendo i forestieri facilmente </B>
<B>a' suoi onori. </B>
«Crescit interea Roma Albae ruinis». Quegli che disegnono che una città faccia grande imperio, si
debbono con ogni industria ingegnare di farla piena di abitatori; perché, sanza questa abbondanza di
uomini, mai non riuscirà di fare grande una città. Questo si fa in due modi: per amore e per forza.
Per amore, tenendo le vie aperte e sicure a' forestieri che disegnassono venire ad abitare in quella,
acciocché ciascuno vi abiti volentieri: per forza, disfacendo le città vicine, e mandando gli abitatori
di quelle ad abitare nella tua città. Il che fu in tanto osservato da Roma, che, nel tempo del sesto re,
in Roma abitavano ottantamila uomini da portare arme. Perché i Romani vollono fare ad uso del
buono cultivatore; il quale, perché una pianta ingrossi, e possa produrre e maturare i frutti suoi, gli
taglia i primi rami che la mette, acciocché, rimasa quella virtù nel piede di quella pianta, possano
col tempo nascervi più verdi e più fruttiferi. E che questo modo, tenuto per ampliare e fare imperio,
fusse necessario e buono lo dimostra lo esemplo di Sparta e di Atene: le quali essendo dua
republiche armatissime, ed ordinate di ottime leggi, nondimeno non si condussono alla grandezza
dello Imperio romano; e Roma pareva più tumultuaria, e non tanto bene ordinata come quelle. Di
che non se ne può addurre altra cagione, che la preallegata: perché Roma, per avere ingrossato per
quelle due vie il corpo della sua città, potette di già mettere in arme dugentottantamila uomini; e
Sparta ed Atene non passarono mai ventimila per ciascuna. Il che nacque, non da essere il sito di
Roma più benigno che quello di coloro, ma solamente da diverso modo di procedere. Perché
Licurgo, fondatore della republica spartana, considerando nessuna cosa potere più facilmente
risolvere le sue leggi che la commistione di nuovi abitatori, fece ogni cosa perché i forestieri non
avessono a conversarvi: ed oltre a non gli ricevere ne' matrimoni, alla civilità, ed alle altre
conversazioni che fanno convenire gli uomini insieme, ordinò che in quella sua republica si
spendesse monete di cuoio, per tor via a ciascuno il disiderio di venirvi per portarvi mercanzie, o
portarvi alcuna arte; di qualità che quella città non potette mai ingrossare di abitatori. E perché tutte
le azioni nostre imitano la natura, non è possibile né naturale che uno pedale sottile sostenga uno
ramo grosso. Però una republica piccola non può occupare città né regni che sieno più validi né più
grossi di lei; e, se pure gli occupa, gl'interviene come a quello albero che avesse più grosso il ramo
che il piede, che, sostenendolo con fatica, ogni piccol vento lo fiacca: come si vide che intervenne a
Sparta; la quale avendo occupate tutte le città di Grecia, non prima se gli ribellò Tebe, che tutte le
altre città se gli ribellarono, e rimase il pedale solo sanza rami. Il che non potette intervenire a
Roma, avendo il piè sì grosso, che qualunque ramo poteva facilmente sostenere. Questo modo
adunque di procedere, insieme con gli altri che di sotto si diranno, fece Roma grande e
potentissima. Il che dimostra Tito Livio in due parole, quando disse: «Crescit interea Roma Albae
ruinis».
<B>4 </B>
<B>Le republiche hanno tenuti </B>
<B>tre modi circa lo ampliare. </B>
Chi ha osservato le antiche istorie, trova come le republiche hanno tenuti tre modi circa lo ampliare.
L'uno è stato quello che osservarono i Toscani antichi, di essere una lega di più republiche insieme,
dove non sia alcuna che avanzi l'altra né di autorità né di grado; e, nello acquistare, farsi l'altre città
compagne, in simil modo come in questo tempo fanno i Svizzeri, e come ne' tempi antichi fecero in
Grecia gli Achei e gli Etoli. E perché i Romani feciono assai guerra co' Toscani, per mostrare
meglio le qualità di questo primo modo, mi distenderò in dare notizia di loro particularmente. In
Italia, innanzi allo Imperio romano, furono i Toscani per mare e per terra potentissimi: e benché
delle cose loro non ce ne sia particulare istoria, pure c'è qualche poco di memoria, e qualche segno
della grandezza loro; e si sa come e' mandarono una colonia in su 'l mare di sopra, la quale
chiamarono Adria, che fu sì nobile, che la dette nome a quel mare che ancora i Latini chiamono
Adriatico. Intendesi ancora, come le loro armi furono ubbidite dal Tevere per infino a piè delle Alpi
che ora cingono il grosso di Italia; non ostante che, dugento anni innanzi che i Romani crescessono
in molte forze, detti Toscani perderono lo imperio di quel paese che oggi si chiama la Lombardia; la
quale provincia fu occupata da' Franciosi: i quali, mossi o da necessità o dalla dolcezza dei frutti, e
massime del vino vennono in Italia sotto Belloveso loro duca; e rotti e cacciati i provinciali, si
posono in quello luogo, dove edificarono di molte cittadi, e quella provincia chiamarono Gallia, dal
nome che tenevano allora; la quale tennono fino che da' Romani fussero domi. Vivevono, adunque,
i Toscani con quella equalità, e procedevano nello ampliare in quel primo modo che di sopra si
dice: e furono dodici città, tra le quali era Chiusi, Veio, Arezzo, Fiesole, Volterra, e simili: i quali
per via di lega governavano lo Imperio loro; né poterono uscire d'Italia con gli acquisti; e di quella
ancora rimase intatta gran parte, per le cagioni che di sotto si diranno. L'altro modo è farsi
compagni: non tanto però che non ti rimanga il grado del comandare, la sedia dello Imperio, ed il
titolo delle imprese: il quale modo fu osservato da' Romani. Il terzo modo è farsi immediate sudditi,
e non compagni; come fecero gli Spartani e gli Ateniesi. De' quali tre modi, questo ultimo è al tutto
inutile; come si vide ch'ei fu nelle soprascritte due republiche: le quali non rovinarono per altro, se
non per avere acquistato quel dominio che le non potevano tenere. Perché, pigliare cura di avere a
governare città con violenza, massime quelle che fussono consuete a vivere libere, è una cosa
difficile e faticosa. E se tu non sei armato, e grosso d'armi, non le puoi né comandare né reggere. Ed
a volere essere così fatto, è necessario farsi compagni che ti aiutino, e ingrossare la tua città di
popolo. E perché queste due città non fecero né l'uno né l'altro, il modo di procedere loro fu inutile.
E perché Roma, la quale è nello esemplo del secondo modo, fece l'uno e l'altro, però salse a tanta
eccessiva potenza. E perché la è stata sola a vivere così, è stata ancora sola a diventare tanto
potente: perché, avendosi lei fatti di molti compagni per tutta Italia, i quali in di molte cose con
equali leggi vivevano seco; e, dall'altro canto, come di sopra è detto, sendosi riserbata sempre la
sedia dello Imperio ed il titolo del comandare, questi suoi compagni venivano, che non se ne
avvedevano, con le fatiche e con il sangue loro a soggiogare sé stessi. Perché, come ei
cominciarono a uscire con gli eserciti di Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi suggetti coloro
che, per essere consueti a vivere sotto i re, non si curavano di essere suggetti, ed avendo governatori
romani, ed essendo stati vinti da eserciti con il titolo romano, non riconoscevano per superiore altro
che Roma. Di modo che quegli compagni di Roma che erano in Italia, si trovarono in un tratto cinti
da' sudditi romani, ed oppressi da una grossissima città come era Roma; e quando ei s'avviddono
dello inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi; tanta autorità aveva
presa Roma con le provincie esterne, e tanta forza si trovava in seno, avendo la sua città grossissima
ed armatissima. E benché quelli suoi compagni, per vendicarsi delle ingiurie, le congiurassero
contro, furono in poco tempo perditori della guerra, peggiorando le loro condizioni; perché, di
compagni, diventarono ancora loro sudditi. Questo modo di procedere, come è detto, è stato solo
osservato da' Romani: né può tenere altro modo una republica che voglia ampliare; perché la
esperienza non ce ne ha mostro nessuno più certo o più vero.
Il modo preallegato delle leghe, come viverono i Toscani, gli Achei e gli Etoli e come oggi vivono i
Svizzeri è, dopo a quello de' Romani, il migliore modo; perché, non si potendo con quello ampliare
assai, ne séguita due beni; l'uno, che facilmente non ti tiri guerra a dosso; l'altro, che quel tanto che
tu pigli, lo tieni facilmente. La cagione del non potere ampliare è lo essere una republica disgiunta e
posta in varie sedie: il che fa che difficilmente possono consultare e diliberare. Fa, ancora, che non
sono desiderosi di dominare: perché, essendo molte comunità a participare di quel dominio, non
stimano tanto tale acquisto quanto fa una republica sola, che spera di goderselo tutto. Governonsi,
oltra di questo, per concilio, e conviene che sieno più tardi ad ogni diliberazione, che quelli che
abitono drento a uno medesimo cerchio. Vedesi ancora per sperienza, che simile modo di procedere
ha un termine fisso, il quale non ci è esemplo che mostri che si sia trapassato: e questo è di
aggiugnere a dodici o quattordici comunità; dipoi, non cercare di andare più avanti: perché, sendo
giunti a grado che pare loro potersi difendere da ciascuno, non cercono maggiore dominio; sì
perché la necessità non gli stringe di avere più potenza; sì per non conoscere utile negli acquisti, per
le cagioni dette di sopra. Perché gli arebbono a fare una delle due cose; o a seguitare di farsi
compagni, e questa moltitudine farebbe confusione; o egli arebbono a farsi sudditi, e perché e'
veggono in questo difficultà, e non molto utile nel tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando e' sono
venuti a tanto numero che paia loro vivere sicuri, si voltono a due cose: l'una a ricevere
raccomandati, e pigliare protezioni; e per questi mezzi trarre da ogni parte danari, i quali facilmente
infra loro si possono distribuire: l'altra è militare per altrui, e pigliare soldo da questo e da quel
principe che per sue imprese gli solda; come si vede che fanno oggi i Svizzeri, e come si legge che
facevano i preallegati. Di che n'è testimone Tito Livio, dove dice che, venendo a parlamento Filippo
re di Macedonia con Tito Quinzio Flaminio, e ragionando d'accordo alla presenza d'uno pretore
degli Etoli, e venendo a parole detto pretore con Filippo, gli fu da quello rimproverato la avarizia e
la infidelità dicendo che gli Etoli non si vergognavano militare con uno, e poi mandare loro uomini
ancora a servigio del nimico; talché molte volte intra due contrari eserciti si vedevano le insegne di
Etolia. Conoscesi, pertanto, come questo modo di procedere per leghe, è stato sempre simile, ed ha
fatto simili effetti. Vedesi ancora, che quel modo di fare sudditi è stato sempre debole, ed avere
fatto piccoli profitti; e quando pure egli hanno passato il modo, essere rovinati tosto. E se questo
modo di fare sudditi è inutile nelle republiche armate, in quelle che sono disarmate è inutilissimo:
come sono state ne' nostri tempi le republiche d'Italia. Conoscesi, pertanto, essere vero modo quello
che tennono i Romani, il quale è tanto più mirabile, quanto e' non ce n'era innanzi a Roma esemplo,
e dopo Roma non è stato alcuno che gli abbi imitati. E quanto alle leghe, si trovano solo i Svizzeri e
la lega di Svezia che gli imita. E, come nel fine di questa materia si dirà, tanti ordini osservati da
Roma, così pertinenti alle cose di dentro come a quelle di fuora, non sono ne' presenti nostri tempi
non solamente imitati, ma non n'è tenuto alcuno conto: giudicandoli alcuni non veri, alcuni
impossibili, alcuni non a proposito ed inutili; tanto che, standoci con questa ignoranzia, siamo preda
di qualunque ha voluto correre questa provincia. E quando la imitazione de' Romani paresse
difficile, non doverrebbe parere così quella degli antichi Toscani, massime a' presenti Toscani.
Perché, se quelli non poterono, per le cagioni dette, fare uno Imperio simile a quel di Roma,
poterono acquistare in Italia quella potenza che quel modo del procedere concesse loro. Il che fu,
per un gran tempo, sicuro, con somma gloria d'imperio e d'arme, e massime laude di costumi e di
religione. La quale potenza e gloria fu prima diminuita da' Franciosi, dipoi spenta da' Romani: e fu
tanto spenta, che, ancora che, dumila anni fa, la potenza de' Toscani fusse grande, al presente non ce
n'è quasi memoria. La quale cosa mi ha fatto pensare donde nasca questa oblivione delle cose: come
nel seguente capitolo si discorrerà.
<B>5 </B>
<B>Che la variazione delle sètte </B>
<B>e delle lingue, insieme con l'accidente </B>
<B>de' diluvii o della peste, spegne </B>
<B>le memorie delle cose. </B>
A quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno, credo che si potesse replicare che,
se tanta antichità fusse vera, e' sarebbe ragionevole che ci fussi memoria di più che cinquemila anni;
quando e' non si vedesse come queste memorie de' tempi per diverse cagioni si spengano: delle
quali, parte vengono dagli uomini, parte dal cielo. Quelle che vengono dagli uomini sono le
variazioni delle sètte e delle lingue. Perché, quando e' surge una setta nuova, cioè una religione
nuova, il primo studio suo è, per darsi riputazione, estinguere la vecchia; e, quando gli occorre che
gli ordinatori della nuova setta siano di lingua diversa, la spengono facilmente. La quale cosa si
conosce considerando e' modi che ha tenuti la setta Cristiana contro alla Gentile; la quale ha
cancellati tutti gli ordini, tutte le cerimonie di quella, e spenta ogni memoria di quella antica
teologia. Vero è che non gli è riuscito spegnere in tutto la notizia delle cose fatte dagli uomini
eccellenti di quella: il che è nato per avere quella mantenuta la lingua latina; il che feciono
forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con essa. Perché, se l'avessono potuta scrivere
con nuova lingua, considerato le altre persecuzioni gli feciono, non ci sarebbe ricordo alcuno delle
cose passate. E chi legge i modi tenuti da San Gregorio, e dagli altri capi della religione cristiana,
vedrà con quanta ostinazione e' perseguitarono tutte le memorie antiche, ardendo le opere de' poeti
e degli istorici, ruinando le imagini e guastando ogni altra cosa che rendesse alcun segno della
antichità. Talché, se a questa persecuzione egli avessono aggiunto una nuova lingua, si sarebbe
veduto in brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. È da credere, pertanto, che quello che ha voluto
fare la setta Cristiana contro alla setta Gentile, la Gentile abbia fatto contro a quella che era innanzi
a lei. E perché queste sètte in cinque o in seimila anni variano due o tre volte, si perde la memoria
delle cose fatte innanzi a quel tempo; e se pure ne resta alcun segno, si considera come cosa
favolosa, e non è prestato loro fede: come interviene alla istoria di Diodoro Siculo, che, benché e'
renda ragione di quaranta o cinquantamila anni, nondimeno è riputato, come io credo, che sia cosa
mendace.
Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la umana generazione, e
riducano a pochi gli abitatori di parte del mondo. E questo viene o per peste o per fame o per una
inondazione d'acque: e la più importante è questa ultima, sì perché la è più universale, sì perché
quegli che si salvono sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali, non avendo notizia di alcuna
antichità, non la possono lasciare a' posteri. E se infra loro si salvasse alcuno che ne avessi notizia,
per farsi riputazione e nome, la nasconde, e la perverte a suo modo; talché ne resta solo a'
successori quanto ei ne ha voluto scrivere, e non altro. E che queste inondazioni, peste e fami
venghino, non credo sia da dubitarne; sì perché ne sono piene tutte le istorie, sì perché si vede
questo effetto della oblivione delle cose, sì perché e' pare ragionevole ch'e' sia: perché la natura,
come ne' corpi semplici, quando e' vi è ragunato assai materia superflua, muove per sé medesima
molte volte, e fa una purgazione, la quale è salute di quel corpo; così interviene in questo corpo
misto della umana generazione, che, quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori, in modo che
non possono vivervi, né possono andare altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi; e quando
la astuzia e la malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si
purghi per uno de' tre modi; acciocché gli uomini, sendo divenuti pochi e battuti, vivino più
comodamente, e diventino migliori. Era dunque, come di sopra è detto, già la Toscana potente,
piena di religione e di virtù, aveva i suoi costumi e la sua lingua patria: il che tutto è suto spento
dalla potenza romana. Talché, come si è detto, di lei ne rimane solo la memoria del nome.
<B>6</B>
<B>Come i Romani procedevano </B>
<B>nel fare la guerra. </B>
Avendo discorso come i Romani procedevano nello ampliare, discorrereno ora come e'
procedevano nel fare la guerra; ed in ogni loro azione si vedrà con quanta prudenzia ei deviarono
dal modo universale degli altri, per facilitarsi la via a venire a una suprema grandezza. La
intenzione di chi fa guerra per elezione, o vero per ambizione, è acquistare e mantenere lo
acquistato; e procedere in modo con essa, che l'arricchisca e non impoverisca il paese e la patria
sua. È necessario dunque, e nello acquistare e nel mantenere, pensare di non spendere; anzi fare
ogni cosa con utilità del publico suo. Chi vuole fare tutte queste cose, conviene che tenga lo stile e
modo romano: il quale fu in prima di fare le guerre, come dicano i Franciosi, corte e grosse; perché,
venendo in campagna con eserciti grossi, tutte le guerre che gli ebbono con i Latini, Sanniti e
Toscani, le spedirano in brevissimo tempo. E se si noteranno tutte quelle che feciono dal principio
di Roma infino alla ossidione de' Veienti, tutte si vedranno ispedite, quale in sei, quale in dieci,
quale in venti dì. Perché l'uso loro era questo: subito che era scoperta la guerra, egli uscivano fuora
con gli eserciti allo incontro del nimico, e subito facevano la giornata. La quale vinta, i nimici,
perché non fosse guasto loro il contado affatto venivano alle condizioni ed i Romani gli
condannavano in terreni: i quali terreni gli convertivano in privati commodi o gli consegnavano ad
una colonia; la quale posta in su le frontiere di coloro veniva ad essere guardia de' confini romani,
con utile di essi coloni, che avevano quegli campi, e con utile del publico di Roma, che sanza spesa
teneva quella guardia. Né poteva questo modo essere più sicuro, o più forte, o più utile: perché
mentre che i nimici non erano in su i campi, quella guardia bastava: come e' fossono usciti fuori
grossi per opprimere quella colonia, ancora i Romani uscivano fuori grossi, e venivano a giornata
con quegli, e fatta e vinta la giornata, imponendo loro più grave condizione, si tornavano in casa.
Così venivano ad acquistare di mano in mano riputazione sopra di loro, e forze in sé medesimi. E
questo modo vennono tenendo infino che mutarono modo di procedere in guerra: il che fu dopo la
ossidione de' Veienti; dove, per potere fare guerra lungamente, gli ordinarono di pagare i soldati,
che prima, per non essere necessario, essendo le guerre brevi, non gli pagavano. E benché i Romani
dessino il soldo, e che per virtù di questo ei potessono fare le guerre più lunghe, e per farle più
discosto la necessità gli tenesse più in su' campi; nondimeno non variarono mai dal primo ordine di
finirle presto, secondo il luogo ed il tempo; né variarono mai dal mandare le colonie. Perché nel
primo ordine gli tenne, circa il fare le guerre brevi oltra a il loro naturale uso, l'ambizione de'
Consoli; i quali avendo a stare uno anno e di quello anno sei mesi alle stanze, volevano finire la
guerra per trionfare. Nel mandare le colonie gli tenne l'utile e la commodità grande che ne risultava.
Variarono bene alquanto circa le prede, delle quali non erano così liberali come erano stati prima; sì
perché e' non pareva loro tanto necessario, avendo i soldati lo stipendio; sì perché, essendo le prede
maggiori, disegnavano d'ingrassare di quelle in modo il publico che non fussono constretti a fare le
imprese con tributi della città. Il quale ordine in poco tempo fece il loro erario ricchissimo. Questi
dua modi, adunque, e circa il distribuire la preda, e circa il mandare le colonie, feciono che Roma
arricchiva della guerra; dove gli altri principi e republiche non savie ne impoveriscono. E si ridusse
la cosa in termine, che a uno Consolo non pareva potere trionfare, se non portava col suo trionfo
assai oro ed argento, e d'ogni altra sorta preda, nello erario. Così i Romani, con i soprascritti
termini, e con il finire le guerre presto, sendo valenti con lunghezza straccare i nimici, e con le rotte
e con le scorrerie e con accordi a loro vantaggi, diventarono sempre più ricchi e più potenti.
<B>7</B>
<B>Quanto terreno i Romani </B>
<B>davano per colono. </B>
Quanto terreno i Romani distribuissono per colono, credo sia difficile trovarne la verità. Perché io
credo ne dessino più o manco, secondo i luoghi dove e' mandavano le colonie. Giudicasi che ad
ogni modo ed in ogni luogo la distribuzione fussi parca: prima, per potere mandare più uomini,
sendo quelli diputati per guardia di quel paese; dipoi perché, vivendo loro poveri a casa, non era
ragionevole che volessono che i loro uomini abbondassino troppo fuora. E Tito Livio dice come,
preso Veio, e' vi mandarono una colonia, e distribuirono a ciascuno tre iugeri e sètte once di terra;
che sono, al modo nostro.... Perché, oltre alle cose soprascritte, e'giudicavano che non lo assai
terreno, ma il bene cultivato, bastasse. È necessario bene, che tutta la colonia abbi campi publici
dove ciascuno possa pascere il suo bestiame, e selve dove prendere del legname per ardere; sanza le
quali cose non può una colonia ordinarsi.
<B>8</B>
<B>La cagione perché i popoli si partono </B>
<B>da' luoghi patrii, ed inondano </B>
<B>il paese altrui. </B>
Poiché di sopra si è ragionato del modo nel procedere nella guerra osservato da' Romani, e come i
Toscani furono assaltati da' Franciosi, non mi pare alieno dalla materia discorrere, come le si fanno
di dua generazioni guerre. L'una è fatta per ambizione de' principi o delle republiche, che cercano di
propagare lo imperio; come furono le guerre che fece Alessandro Magno, e quelle che fecero i
Romani, e quelle che fanno, ciascuno dì, l'una potenza con l'altra. Le quali guerre sono pericolose,
ma non cacciano al tutto gli abitatori d'una provincia; perché e' basta, al vincitore, solo la
ubbidienza de' popoli, e il più delle volte gli lascia vivere con le loro leggi, e sempre con le loro
case, e ne' loro beni. L'altra generazione di guerra è quando uno popolo intero con tutte le sue
famiglie si lieva d'uno luogo, necessitato o dalla fame o dalla guerra, e va a cercare nuova sede e
nuova provincia; non per comandarla, come quegli di sopra, ma per possederla tutta
particularmente, e cacciarne o ammazzare gli abitatori antichi di quella. Questa guerra è
crudelissima e paventosissima. E di queste guerre ragiona Sallustio nel fine dell'Iugurtino, quando
dice che, vinto Iugurta, si sentì il moto de' Franciosi che venivano in Italia: dove ei dice che il
Popolo romano con tutte le altre genti combatté solamente per chi dovesse comandare, ma con i
Franciosi combatté sempre per la salute di ciascuno. Perché a un principe o a una republica, che
assalta una provincia, basta spegnere solo coloro che comandano; ma a queste populazioni conviene
spegnere ciascuno, perché vogliono vivere di quello che altri viveva. I Romani ebbero tre di queste
guerre pericolosissime. La prima fu quella quando Roma fu presa, la quale fu occupata da quei
Franciosi che avevano tolto, come di sopra si disse, la Lombardia a' Toscani, e fattone loro sedia;
della quale Tito Livio ne allega due cagioni: la prima, come di sopra si disse, che furono allettati
dalla dolcezza delle frutte e del vino d'Italia, delle quali mancavano in Francia; la seconda che,
essendo quel regno francioso multiplicato in tanto di uomini, che non vi si potevono più nutrire,
giudicarono i principi di quelli luoghi, che e' fusse necessario che una parte di loro andasse a
cercare nuova terra, e, fatta tale deliberazione, elessono, per capitani di quegli che si avevano a
partire, Belloveso e Sicoveso, duoi re de' Franciosi: de' quali Belloveso venne in Italia, e Sicoveso
passò in Ispagna. Dalla passata del quale Belloveso nacque la occupazione di Lombardia, e di
quindi la guerra che prima i Franciosi fecero a Roma. Dopo questa, fu quella che fecero dopo la
prima guerra cartaginese, quando intra Piombino e Pisa ammazzarono più che dugentomila
Franciosi. La terza, fu quando i Tedeschi e' Cimbri vennero in Italia: i quali, avendo vinti più
eserciti romani, furono vinti da Mario. Vinsero adunque i Romani queste tre guerre pericolosissime.
Né era necessario minore virtù a vincerle, perché si vide poi, come la virtù romana mancò e che
quelle armi perderono il loro antico valore, fu quello imperio destrutto da simili popoli: i quali
furono Gotti, Vandali, e simili, che occuparono tutto lo Imperio occidentale.
Escono tali popoli de' paesi loro, come di sopra si disse, cacciati dalla necessità: e la necessità nasce
o dalla fame, o da una guerra ed oppressione che ne' paesi propri è loro fatta: talché e' son constretti
cercare nuove terre. E questi tali, o e' sono gran numero; ed allora con violenza entrano ne' paesi
d'altrui, ammazzano gli abitatori, posseggono i loro beni, fanno uno nuovo regno, mutano il nome
della provincia: come fece Moisè, e quelli popoli che occuparono lo Imperio romano. Perché questi
nomi nuovi che sono nella Italia e nelle altre provincie, non nascono da altro che da essere state
nomate così da nuovi occupatori: come è la Lombardia, che si chiamava Gallia Cisalpina: la Francia
si chiamava Gallia Transalpina, ed ora è nominata da' Franchi, che così si chiamavono quelli popoli
che la occuparono: la Schiavonia si chiamava Illiria; l'Ungheria, Pannonia; l'Inghilterra, Britannia; e
molte altre provincie che hanno mutato nome, le quali sarebbe tedioso raccontare. Moisè ancora
chiamò Giudea quella parte di Soria occupata da lui. E perché io ho detto, di sopra, che qualche
volta tali popoli sono cacciati dalla propria sede per guerra, donde sono constretti cercare nuove
terre; ne voglio addurre lo esemplo de' Maurusii, popoli anticamente in Soria: i quali, sentendo
venire i popoli ebraici, e giudicando non potere loro resistere, pensarono essere meglio salvare loro
medesimi, e lasciare il paese proprio, che, per volere salvare quello, perdere ancora loro; e levatisi
con loro famiglie, se ne andarono in Africa, dove posero la loro sedia, cacciando via quelli abitatori
che in quegli luoghi trovarono. E così quegli che non avevano potuto difendere il loro paese,
potettono occupare quello d'altrui. E Procopio, che scrive la guerra che fece Belisario coi Vandali,
occupatori della Africa, riferisce avere letto lettere scritte in certe colonne, ne' luoghi dove questi
Maurusii abitavano, le quali dicevano: «Nos Maurusii, qui fugimus a facie Jesu latronis filii
Navae». Dove apparisce la cagione della partita loro di Soria. Sono, pertanto, questi popoli
formidolosissimi, sendo cacciati da una ultima necessità; e se e' non riscontrano buone armi, non
mai saranno sostenuti. Ma quando quegli che sono costretti abbandonare la loro patria non sono
molti, non sono sì pericolosi come quelli popoli di chi si è ragionato; perché non possono usare
tanta violenza, ma conviene loro con arte occupare qualche luogo, e, occupatolo, mantenervisi per
via d'amici e di confederati: come si vede che fece Enea, Didone, i Massiliesi e simili; i quali tutti,
per consentimento de' vicini, dov'e' posono, poterono mantenervisi. Escono i popoli grossi, e sono
usciti quasi tutti, de' paesi di Scizia; luoghi freddi e poveri: dove, per essere assai uomini, ed il
paese di qualità da non gli potere nutrire, sono forzati uscirne, avendo molte cose che gli cacciono,
e nessuna che gli ritenga. E se, da cinquecento anni in qua, non è occorso che alcuni di questi popoli
abbiano inondato alcuno paese, è nato per più cagioni. La prima, la grande evacuazione che fece
quel paese nella declinazione dello Imperio, donde uscirono più di trenta popoli. La seconda è che
la Magna e l'Ungheria, donde ancora uscivano di queste genti hanno ora il loro paese bonificato in
modo che vi possono vivere agiatamente; talché non sono necessitati di mutare luogo. Dall'altra
parte, sendo loro uomini bellicosissimi, sono come uno bastione a tenere che gli Sciti, i quali con
loro confinano, non presumino di potere vincergli o passarli. E spesse volte occorrono movimenti
grandissimi de' Tartari che sono dipoi dagli Ungheri e da quelli di Polonia sostenuti; e spesso si
gloriano, che, se non fussono l'armi loro, la Italia e la Chiesa arebbe molte volte sentito il peso degli
eserciti tartari. E questo voglio basti quanto ai prefati popoli.
<B>9</B>
<B>Quali cagioni comunemente faccino</B>
<B>nascere le guerre intra i potenti. </B>
La cagione che fece nascere guerra intra i Romani ed i Sanniti, che erano stati in lega gran tempo, è
una cagione comune che nasce infra tutti i principati potenti. La quale cagione o la viene a caso o la
è fatta nascere da colui che disidera muovere la guerra. Quella che nacque intra i Romani ed i
Sanniti fu a caso; perché la intenzione de' Sanniti non fu, movendo guerra a' Sidicini, e dipoi ai
Campani, muoverla ai Romani. Ma, sendo i Campani oppressati, e ricorrendo a Roma fuora della
opinione de' Romani e de' Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani ai Romani, come cosa loro
defendergli, e pigliare quella guerra che a loro parve non potere con loro onore fuggire. Perché e'
pareva bene ai Romani ragionevole non potere difendere i Campani come amici, contro a' Sanniti
amici, ma pareva ben loro vergogna non gli difendere come sudditi ovvero raccomandati;
giudicando, quando e' non avessino presa tale difesa, tôrre la via a tutti quegli che disegnassino
venire sotto la potestà loro. Perché, avendo Roma per fine lo imperio e la gloria, e non la quiete,
non poteva ricusare questa impresa. Questa medesima cagione dette principio alla prima guerra
contro ai Cartaginesi, per la defensione che i Romani presono de' Messinesi in Sicilia: la quale fu
ancora a caso. Ma non fu già a caso, dipoi, la seconda guerra che nacque infra loro; perché
Annibale capitano cartaginese assaltò i Saguntini amici de' Romani in Ispagna, non per offendere
quelli, ma per muovere l'armi romane, ed avere occasione di combatterli, e passare in Italia. Questo
modo nello appiccare nuove guerre è stato sempre consueto intra i potenti, e che si hanno, e della
fede e d'altro, qualche rispetto. Perché, se io voglio fare guerra con uno principe, ed infra noi siano
fermi capitoli per un gran tempo osservati, con altra giustificazione e con altro colore assalterò io
uno suo amico che lui proprio; sappiendo, massime, che, nello assaltare lo amico, o ei si risentirà,
ed io arò lo intento mio di farli guerra, o, non si risentendo, si scoprirà la debolezza o la infidelità
sua, di non difendere uno suo raccomandato. E l'una e l'altra di queste due cose è per tôrli
riputazione, e per fare più facili i disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per la dedizione de'
Campani, circa al muovere guerra, quanto di sopra si è detto; e di più, quale rimedio abbia una città
che non si possa per sé stessa difendere, e vogliasi difendere in ogni modo da quello che l'assalta: il
quale è darsi liberamente a quello che tu disegni che ti difenda, come feciono i Capovani a' Romani,
e i Fiorentini a il re Ruberto di Napoli: il quale non gli volendo difendere come amici, gli difese poi
come sudditi contro alle forze di Castruccio da Lucca, che gli opprimeva.
<B>10</B>
<B>I danari non sono il nervo della guerra, </B>
<B>secondo che è la comune opinione. </B>
Perché ciascuno può cominciare una guerra a sua posta, ma non finirla, debbe uno principe, avanti
che prenda una impresa, misurare le forze sue, e secondo quelle governarsi. Ma debbe avere tanta
prudenza, che delle sue forze ei non s'inganni; ed ogni volta s'ingannerà, quando le misuri o dai
danari, o dal sito, o dalla benivolenza degli uomini, mancando, dall'altra parte, d'armi proprie.
Perché le cose predette ti accrescono bene le forze, ma ben non te le danno; e per sé medesime sono
nulla; e non giovono alcuna cosa sanza l'armi fedeli. Perché i danari assai non ti bastano sanza
quelle; non ti giova la fortezza del paese e la fede e benivolenza degli uomini non dura, perché
questi non ti possono essere fedeli, non gli potendo difendere. Ogni monte, ogni lago, ogni luogo
inaccessibile diventa piano, dove i forti difensori mancano. I danari ancora, non solo non ti
difendono, ma ti fanno predare più presto. Né può essere più falsa quella comune opinione che dice,
che i danari sono il nervo della guerra. La quale sentenza è detta da Quinto Curzio nella guerra che
fu intra Antipatro macedone e il re spartano: dove narra, che, per difetto di danari, il re di Sparta fu
necessitato azzuffarsi, e fu rotto; ché se ei differiva la zuffa pochi giorni, veniva la nuova in Grecia
della morte di Alessandro, donde ei sarebbe rimaso vincitore sanza combattere: ma, mancandogli i
danari, e dubitando che lo esercito suo per difetto di quegli non lo abbandonasse, fu constretto
tentare la fortuna della zuffa: talché Quinto Curzio per questa cagione afferma, i danari essere il
nervo della guerra. La quale sentenza è allegata ogni giorno, e da' principi, non tanto prudenti che
basti, seguitata. Perché, fondatisi sopra quella, credono che basti loro, a difendersi, avere tesoro
assai, e non pensano che se il tesoro bastasse a vincere, che Dario arebbe vinto Alessandro; i Greci
arebbono vinto i Romani; ne' nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti i Svizzeri; e pochi giorni sono,
il Papa ed i Fiorentini insieme non arebbono avuta difficultà in vincere Francesco Maria, nipote di
papa Iulio II, nella guerra di Urbino. Ma tutti i soprannominati furono vinti da coloro che non il
danaio ma i buoni soldati stimano essere il nervo della guerra. Intra le altre cose che Creso re de'
Lidii mostrò a Solone ateniese, fu uno tesoro innumerabile, e domandando quel che gli pareva della
potenza sua, gli rispose Solone, che per quello e' non lo giudicava più potente; perché la guerra si
faceva con il ferro e non con l'oro, e che poteva venire uno che avessi più ferro di lui, e torgliene.
Oltre a di questo, quando, dopo la morte di Alessandro Magno, una moltitudine di Franciosi passò
in Grecia, e poi in Asia, e, mandando i Franciosi oratori a il re di Macedonia per trattare certo
accordo; quel re, per mostrare la potenza sua e per sbigottirli, mostrò loro oro ed ariento assai:
donde quelli Franciosi, che di già avevano come ferma la pace, la ruppono; tanto desiderio in loro
crebbe di torgli quell'oro: e così fu quel re spogliato per quella cosa che egli aveva per sua difesa
accumulata. I Viniziani, pochi anni sono, avendo ancora lo erario loro pieno di tesoro, perderno
tutto lo stato, sanza potere essere difesi da quello.
Dico pertanto, non l'oro, come grida la comune opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni
soldati: perché l'oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono bene
sufficienti a trovare l'oro. Ai Romani, s'eglino avessoro voluto fare la guerra più con i danari che
con il ferro, non sarebbe bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato le grandi imprese che
feciono, e le difficultà che vi ebbono dentro. Ma, faccendo le loro guerre con il ferro, non patirono
mai carestia dell'oro, perché da quegli che gli temevano era portato loro infino ne' campi. E se quel
re spartano per carestia di danari ebbe a tentare la fortuna della zuffa, intervenne a lui quello, per
conto de' danari, che molte volte è intervenuto per altre cagioni: perché si è veduto che, mancando a
uno esercito le vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di fame o azzuffarsi, si piglia il partito
sempre di azzuffarsi, per essere più onorevole, e dove la fortuna ti può in qualche modo favorire.
Ancora è intervenuto molte volte, che, veggendo uno capitano al suo esercito inimico venire
soccorso, gli conviene o azzuffarsi con quello e tentare la fortuna della zuffa; o, aspettando ch'egli
ingrossi, avere a combattere in ogni modo, con mille suoi disavvantaggi. Ancora si è visto (come
intervenne a Asdrubale, quando nella Marca fu assaltato da Claudio Nerone, insieme con l'altro
console romano) che un capitano, necessitato o a fuggirsi o a combattere, come sempre elegge il
combattere; parendogli in questo partito, ancora che dubbiosissimo, potere vincere; ed in quello
altro avere a perdere in ogni modo. Sono, adunque, molte necessitadi che fanno a un capitano fuor
della sua intenzione pigliare partito di azzuffarsi, intra le quali qualche volta può essere la carestia
de' danari; né per questo si debbono i danari giudicare essere il nervo della guerra, più che le altre
cose che inducano gli uomini a simile necessità. Non è, adunque, replicandolo di nuovo, l'oro il
nervo della guerra, ma i buoni soldati. Son bene necessari i danari in secondo luogo, ma è una
necessità che i soldati buoni per sé medesimi la vincono; perché è impossibile che ai buoni soldati
manchino i danari, come che i danari per loro medesimi trovino i buoni soldati. Mostra, questo che
noi diciamo essere vero, ogni istoria in mille luoghi; non ostante che Pericle consigliasse gli
Ateniesi a fare guerra con tutto il Peloponnesso, mostrando ch'e' potevano vincere quella guerra con
la industria e con la forza del danaio. E benché in tale guerra gli Ateniesi prosperassino qualche
volta, in ultimo la perderono; e valson più il consiglio e li buoni soldati di Sparta, che la industria ed
il danaio di Atene. Ma Tito Livio è di questa opinione più vero testimone che alcuno altro, dove,
discorrendo se Alessandro Magno fussi venuto in Italia, s'egli avesse vinto i Romani, mostra essere
tre cose necessarie nella guerra; assai soldati e buoni, capitani prudenti, e buona fortuna: dove,
esaminando quali o i Romani o Alessandro prevalessero in queste cose, fa dipoi la sua conclusione
sanza ricordare mai i danari. Doverono i Capovani, quando furono richiesti da' Sidicini che
prendessono l'armi per loro contro ai Sanniti, misurare la potenza loro dai danari, e non da' soldati:
perché, preso ch'egli ebbero partito di aiutargli, dopo due rotte furono constretti farsi tributari de'
Romani, se si vollono salvare.
<B>11</B>
<B>Non è partito prudente fare amicizia </B>
<B>con uno principe che abbia più opinione </B>
<B>che forze. </B>
Volendo Tito Livio mostrare lo errore de' Sidicini a fidarsi dello aiuto de' Campani, e lo errore de'
Campani a credere potergli difendere, non lo potrebbe dire con più vive parole, dicendo: «Campani
magis nomen in auxilium Sidicinorum, quam vires ad praesidium attulerunt». Dove si debbe notare
che le leghe che si fanno coi principi, che non abbino o commodità di aiutarti per la distanza del
sito, o forze da farlo per suo disordine o altra sua cagione, arrecono più fama che aiuto a coloro che
se ne fidano: come intervenne, ne' dì nostri, ai Fiorentini, quando, nel 1479, il Papa ed il re di
Napoli gli assaltarono: ché, essendo amici del re di Francia, trassono di quella amicizia «magis
nomen, quam praesidium», come interverrebbe ancora a quel principe, che, confidatosi di
Massimiliano imperadore, facesse qualche impresa; perché questa è una di quelle amicizie che
arrecherebbe a chi la facesse «magis nomen, quam praesidium», come si dice, in questo testo, che
arrecò quella de' Capovani a' Sidicini. Errarono, adunque, in questa parte i Capovani, per parere
loro avere più forze che non avevano. E così fa la poca prudenzia degli uomini, qualche volta, che,
non sappiendo né potendo difendere sé medesimi, vogliono prendere impresa di difendere altrui:
come fecero ancora i Tarentini, i quali, sendo gli eserciti romani allo incontro dello esercito
Sannite, mandarono ambasciadori al Console romano, a fargli intendere come ei volevano pace
intra quegli due popoli, e come erano per fare guerra contro a quello che dalla pace si discostasse;
talché il Console, ridendosi di questa proposta, alla presenza di detti ambasciadori fece sonare a
battaglia, ed al suo esercito comandò che andasse a trovare il nimico, mostrando ai Tarentini, con la
opera e non con le parole, di che risposta essi erano degni.
Ed avendo nel presente capitolo ragionato de' partiti che pigliono i principi, al contrario, per la
difesa d'altrui, voglio, nel seguente, parlare di quegli che si pigliano per la difesa propria.
<B>12</B>
<B>S'egli è meglio, temendo di essere </B>
<B>assaltato, inferire o aspettare la guerra. </B>
Io ho sentito da uomini, assai pratichi nelle cose della guerra, qualche volta disputare, se sono dua
principi quasi di equali forze, e quello più gagliardo abbi bandito la guerra contro a quell'altro,
quale sia migliore partito per l'altro, o aspettare il nimico dentro a' confini suoi, o andarlo a trovare
in casa ed assaltare lui: e ne ho sentito addurre ragioni da ogni parte. E chi difende lo andare
assaltare altri, ne allega il consiglio che Creso dette a Ciro, quando, arrivato in su' confini de'
Massageti per fare loro guerra, la loro regina Tamiri gli mandò a dire, che eleggessi quale de' due
partiti volesse; o entrare nel regno suo, dove ella lo aspetterebbe; o volesse che ella venisse a
trovare lui. E venuta la cosa in discettazione, Creso, contro alla opinione degli altri, disse che si
andasse a trovare lei; allegando che, s'egli la vincesse discosto a il suo regno, che non le torrebbe il
regno, perché ella arebbe tempo a rifarsi, ma se la vincesse dentro ai suoi confini, potrebbe seguirla
in su la fuga, e, non le dando spazio a rifarsi, torle lo stato. Allegane ancora il consiglio che dette
Annibale ad Antioco, quando quel re disegnava fare guerra ai Romani: dove ei mostra come i
Romani non si potevano vincere se non in Italia, perché quivi altrui si poteva valere delle armi e
delle ricchezze e degli amici loro; ma chi gli combatteva fuora d'Italia, e lasciava loro la Italia
libera, lasciava loro quella fonte che mai le manca vita a somministrare forze dove bisogna; e
conchiuse che ai Romani si poteva prima tôrre Roma che lo imperio, e prima la Italia che le altre
provincie. Allega ancora Agatocle che, non potendo sostenere la guerra di casa, assaltò i
Cartaginesi che gliene facevano, e gli ridusse a domandare pace. Allega Scipione che, per levare la
guerra di Italia, assaltò la Africa.
Chi parla al contrario, dice che chi vuole fare capitare male uno inimico, lo discosti da casa.
Allegane gli Ateniesi, che, mentre che feciono la guerra commoda alla casa loro, restarono
superiori; e come si discostarono, ed andarono con gli eserciti in Sicilia, perderono la libertà. Allega
le favole poetiche, dove si mostra che Anteo, re di Libia, assaltato da Ercole Egizio, fu insuperabile
mentre che lo aspettò dentro a' confini del suo regno; ma, come ei se ne discostò per astuzia di
Ercole, perdé lo stato e la vita. Onde è dato luogo alla favola che Anteo, sendo in terra, ripigliava le
forze da sua madre, che era la Terra, e che Ercole, avvedutosi di questo, lo levò in alto, e discostollo
dalla terra. Allegane ancora i giudicii moderni. Ciascuno sa come Ferrando re di Napoli fu ne' suoi
tempi tenuto uno savissimo principe: e venendo la fama, due anni davanti la sua morte, come il re di
Francia Carlo VIII voleva venire a assaltarlo, avendo fatte assai preparazioni, ammalò; e, venendo a
morte, intra gli altri ricordi che lasciò a Alfonso suo figliuolo, fu ch'egli aspettasse il nimico dentro
a il regno; e per cosa del mondo non traesse forze fuora dello stato suo, ma lo aspettasse dentro a'
suoi confini tutto intero: il che non fu osservato da quello; ma, mandato uno esercito in Romagna,
sanza combattere perdé quello e lo stato.
Le ragioni che, oltre alle cose dette, da ogni parte si adducono, sono: che chi assalta viene con
maggiore animo che chi aspetta, il che fa più confidente lo esercito: toglie, oltre a di questo, molte
commodità al nimico di potersi valere delle sue cose, non si potendo valere di que' sudditi che siano
saccheggiati; e, per avere il nimico in casa, è constretto il signore avere più rispetto a trarne da loro
danari ed affaticargli: sicché ei viene a seccare quella fonte, come disse Annibale, che fa che colui
può sostenere la guerra. Oltra di questo, i suoi soldati, per trovarsi nel paese d'altrui, sono più
necessitati a combattere; e quella necessità fa virtù, come più volte abbiamo detto. Dall'altra parte si
dice: come, aspettando il nimico, si aspetta con assai vantaggio, perché, sanza disagio alcuno, tu
puoi dare a quello molti disagi di vettovaglie, e d'ogni altra cosa che abbia bisogno uno esercito:
puoi meglio impedirgli i disegni suoi, per la notizia del paese che tu hai più di lui: puoi con più
forze incontrarlo, per poterle facilmente tutte unire, ma non potere già tutte discostarle da casa:
puoi, sendo rotto, rifarti facilmente; sì perché del tuo esercito se ne salverà assai, per avere i rifugi
propinqui; sì perché il supplimento non ha a venire discosto: tanto che tu vieni ad arristiare tutte le
forze, e non tutta la fortuna; e, discostandoti, arrischi tutta la fortuna, e non tutte le forze. Ed alcuni
sono stati che, per indebolire meglio il suo nimico, lo lasciono entrare parecchi giornate in su il
paese loro, e pigliare assai terre; acciò che, lasciando i presidii in tutte, indebolisca il suo esercito, e
possinlo dipoi combattere più facilmente.
Ma, per dire ora io quello che io ne intendo, io credo che si abbia a fare questa distinzione: o io ho il
mio paese armato, come i Romani, o come hanno i Svizzeri, o io l'ho disarmato, come avevano i
Cartaginesi, o come l'hanno il re di Francia e gli Italiani. In questo caso, si debbe tenere il nimico
discosto a casa; perché, sendo la tua virtù nel danaio e non negli uomini, qualunque volta ti è
impedita la via di quello, tu sei spacciato; né cosa veruna te lo impedisce quanto la guerra di casa.
In esempli ci sono i Cartaginesi; i quali, mentre che ebbono la casa loro libera, potettono con le
rendite fare guerra con i Romani; e quando l'avevano assaltata, non potevano resistere ad Agatocle.
I Fiorentini non avevano rimedio alcuno con Castruccio signore di Lucca, perché ei faceva loro la
guerra in casa; tanto che gli ebbero a darsi, per essere difesi, al re Ruberto di Napoli. Ma, morto
Castruccio, quelli medesimi Fiorentini ebbono animo di assaltare il duca di Milano in casa, ed
operare di torgli il regno: tanta virtù mostrarono nelle guerre longinque, e tanta viltà nelle
propinque. Ma quando i regni sono armati, come era armata Roma e come sono i Svizzeri, sono più
difficili a vincere quanto più ti appressi loro: perché questi corpi possono unire più forze a resistere
a uno impeto, che non possono ad assaltare altrui. Né mi muove in questo caso l'autorità d'Annibale,
perché la passione e l'utile suo gli faceva così dire a Antioco. Perché, se i Romani avessono avute in
tanto spazio di tempo quelle tre rotte in Francia ch'egli ebbero in Italia da Annibale, sanza dubbio
erano spacciati: perché non si sarebbono valuti de' residui degli eserciti, come si valsono in Italia;
non arebbono avuto, a rifarsi, quelle commodità; né potevono con quelle forze resistere al nimico,
che poterono. Non si truova, per assaltare una provincia, che loro mandassino mai fuora eserciti che
passassino cinquantamila persone; ma per difendere la casa ne missero in arme contro ai Franciosi,
dopo la prima guerra punica, diciotto centinaia di migliaia. Né arebbono potuto poi rompere quegli
in Lombardia, come gli ruppono in Toscana; perché contro a tanto numero di inimici non arebbono
potuto condurre tante forze sì discosto, né combattergli con quella commodità. I Cimbri ruppono
uno esercito romano nella Magna, né vi ebbono i Romani rimedio. Ma come gli arrivarono in Italia,
e che ei poterono mettere tutte le loro forze insieme, gli spacciarono. I Svizzeri è facile vincergli
fuori di casa, dove ei non possono mandare più che un trenta o quarantamila uomini; ma vincergli
in casa, dove ei ne possono raccozzare centomila, è difficilissimo. Conchiuggo adunque, di nuovo,
che quel principe che ha i suoi popoli armati ed ordinati alla guerra, aspetti sempre in casa una
guerra potente e pericolosa, e non la vadia a rincontrare: ma quello che ha i suoi sudditi disarmati,
ed il paese inusitato alla guerra, se le discosti sempre da casa il più che può. E così l'uno e l'altro,
ciascuno nel suo grado si difenderà meglio.
<B>13</B>
<B>Che si viene di bassa a gran fortuna </B>
<B>più con la fraude; che con la forza. </B>
Io stimo essere cosa verissima che rado, o non mai, intervenga che gli uomini di piccola fortuna
venghino a gradi grandi, sanza la forza e sanza la fraude; pure che quel grado al quale altri è
pervenuto non li sia o donato o lasciato per eredità. Né credo si truovi mai che la forza sola basti,
ma si troverrà bene che la fraude sola basterà: come chiaro vedrà colui che leggerà la vita di Filippo
di Macedonia, quella di Agatocle siciliano, e di molti altri simili, che d'infima ovvero di bassa
fortuna, sono pervenuti o a regno o a imperii grandissimi. Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro,
questa necessità dello ingannare, considerato che la prima ispedizione che fe' fare a Ciro contro al
re di Armenia è piena di fraude, e come con inganno, e non con forza, gli fe' occupare il suo regno;
e non conchiude altro, per tale azione, se non che a un principe che voglia fare gran cose, è
necessario imparare a ingannare. Fegli ingannare, oltra di questo, Ciassare, re de' Medii, suo zio
materno, in più modi; sanza la quale fraude mostra che Ciro non poteva pervenire a quella
grandezza che venne. Né credo che si truovi mai alcuno, costituto in bassa fortuna, pervenuto a
grande imperio solo con la forza aperta ed ingenuamente, ma sì bene solo con la fraude: come fece
Giovan Galeazzo per tôrre lo stato e lo imperio di Lombardia a messer Bernabò suo zio. E quel che
sono necessitati fare i principi ne' principii degli augumenti loro, sono ancora necessitate a fare le
republiche, infino che le siano diventate potenti, e che basti la forza sola. E perché Roma tenne in
ogni parte, o per sorte o per elezione, tutti i modi necessari a venire a grandezza, non mancò ancora
di questo. Né poté usare, nel principio, il maggiore inganno, che pigliare il modo, discorso di sopra
da noi, di farsi compagni; perché sotto questo nome se gli fece servi: come furono i Latini, ed altri
popoli a lo intorno. Perché prima si valse dell'armi loro in domare i popoli convicini, e pigliare la
riputazione dello stato; dipoi, domatogli, venne in tanto augumento, che la poteva battere ciascuno.
Ed i Latini non si avvidono mai, di essere al tutto servi, se non poi che vidono dare due rotte ai
Sanniti, e constrettigli ad accordo. La quale vittoria, come ella accrebbe gran riputazione ai Romani
co' principi longinqui, che mediante quella sentirono il nome romano, e non l'armi, così generò
invidia e sospetto in quelli che vedevano e sentivano l'armi, intra i quali furono i Latini. E tanto poté
questa invidia e questo timore, che non solo i Latini ma le colonie che essi avevano in Lazio,
insieme con i Campani, stati poco innanzi difesi, congiurarono contro a il nome romano. E mossono
questa guerra i Latini nel modo che si dice di sopra che si muovono la maggior parte delle guerre,
assaltando non i Romani, ma difendendo i Sidicini contro ai Sanniti; a' quali i Sanniti facevano
guerra con licenza de' Romani. E che sia vero che i Latini si movessono per avere conosciuto
questo inganno, lo dimostra Tito Livio nella bocca di Annio Setino pretore latino, il quale nel
concilio loro disse queste parole: «Nam si etiam nunc sub umbra foederis aequi servitutem pati
possumus etc.». Vedesi pertanto i Romani ne' primi augumenti loro non essere mancati etiam della
fraude; la quale fu sempre necessaria a usare a coloro che di piccoli principii vogliono a sublimi
gradi salire: la quale è meno vituperabile quanto è più coperta, come fu questa de' Romani.
<B>14</B>
<B>Ingannansi molte volte gli uomini, </B>
<B>credendo con la umiltà </B>
<B>vincere la superbia. </B>
Vedesi molte volte come l'umiltà non solamente non giova ma nuoce, massimamente usandola con
gli uomini insolenti, che, o per invidia o per altra cagione, hanno concetto odio teco. Di che ne fa
fede lo istorico nostro in questa cagione di guerra intra i Romani e i Latini. Perché, dolendosi i
Sanniti con i Romani che i Latini gli avevano assaltati, i Romani non vollono proibire ai Latini tale
guerra, disiderando non gli irritare: il che non solamente non gli irritò ma gli fece diventare più
animosi contro a loro, e si scopersono più presto inimici. Di che ne fanno fede le parole usate dal
prefato Annio pretore latino nel medesimo concilio, dov'e' dice: «Tentastis patientiam negando
militem: quis dubitat exarsisse eos? Pertulerunt tamen hunc dolorem. Exercitus nos parare adversus
Samnites, foederatos suos, audierunt, nec moverunt se ab urbe. Unde haec illis tanta modestia, nisi
conscientia virium, et nostrarum et suarum?». Conoscesi, pertanto, chiarissimo per questo testo,
quanto la pazienza de' Romani accrebbe l'arroganza de' Latini. E però, mai un principe debbe volere
mancare del grado suo, e non debbe mai lasciare alcuna cosa d'accordo, volendola lasciare
onorevolmente, se non quando e' la può, o ei si crede che la possa tenere: perché gli è meglio, quasi
sempre, sendosi condotta la cosa in termine che tu non la possa lasciare nel modo detto, lasciarsela
tôrre con le forze, che con la paura delle forze. Perché, se tu la lasci con la paura, lo fai per levarti la
guerra, ed il più delle volte non te la lievi: perché colui a chi tu arai con una viltà scoperta concesso
quella, non istarà saldo, ma ti vorrà tôrre delle altre cose, e si accenderà più contro a di te,
stimandoti meno; e, dall'altra parte, in tuo favore troverrai i difensori più freddi, parendo loro che tu
sia o debole o vile: ma se tu, subito scoperta la voglia dello avversario, prepari le forze, ancora che
le siano inferiori a lui, quello ti comincerà a stimare; stimanti più gli altri principi allo intorno; e a
tale viene voglia di aiutarti, sendo in su l'armi, che, abbandonandoti, non ti aiuterebbe mai. Questo
s'intende quando tu abbia uno inimico; ma quando ne avessi più, rendere delle cose che tu
possedessi a alcuno di loro per riguadagnarselo, ancora che fussi di già scoperta la guerra, e per
ismembrarlo dagli altri confederati tuoi nimici, fia sempre partito prudente.
<B>15</B>
<B>Gli stati deboli </B>
<B>sempre fiano ambigui nel risolversi: </B>
<B>e sempre le diliberazioni lente </B>
<B>sono nocive. </B>
In questa medesima materia, ed in questi medesimi principii di guerra intra i Latini ed i Romani, si
può notare come in ogni consulta è bene venire allo individuo di quello che si ha a diliberare, e non
stare sempre in ambiguo né in su lo incerto della cosa. Il che si vede manifesto nella consulta che
feciono i Latini, quando ei pensavano alienarsi dai Romani. Perché, avendo i Romani presentito
questo cattivo umore che ne' popoli latini era entrato, per certificarsi della cosa, e per veder se
potevano sanza mettere mano alle armi riguadagnarsi quegli popoli, fecero loro intendere, come e'
mandassono a Roma otto cittadini perché avevano a consultare con loro. I Latini, inteso questo, ed
avendo coscienza di molte cose fatte contro alla voglia de' Romani, fecioro concilio per ordinare chi
dovesse ire a Roma e darli commissione di quello ch'egli avesse a dire. E stando nel concilio in
questa disputa, Annio loro pretore disse queste parole: «Ad summam rerum nostrarum pertinere
arbitror, ut cogitetis magis, quid agendum nobis, quam quid loquendum sit. Facile erit, explicatis
consiliis, accommodare rebus verba». Sono, sanza dubbio, queste parole verissime e debbono
essere da ogni principe e da ogni republica gustate: perché, nella ambiguità e nella incertitudine di
quello che altri voglia fare, non si sanno accomodare le parole, ma, fermo una volta l'animo, e
diliberato quello sia da esequire, è facil cosa trovarvi le parole. Io ho notata questa parte più
volentieri, quanto io ho molte volte conosciuto tale ambiguità avere nociuto alle publiche azioni,
con danno e con vergogna della republica nostra. E sempre mal avverrà che ne' partiti dubbi e dove
bisogna animo a diliberargli, sarà questa ambiguità, quando abbiano a essere consigliati e diliberati
da uomini deboli.
Non sono meno nocive ancora le diliberazioni lente e tarde, che le ambigue; massime quelle che si
hanno a diliberare in favore di alcuno amico; perché con la lentezza loro non si aiuta persona, e
nuocesi a sé medesimo. Queste diliberazioni così fatte procedono o da debolezza d'animo e di forze,
o da malignità di coloro che hanno a diliberare i quali, mossi dalla passione propria di volere
rovinare lo stato o adempiere qualche altro loro disiderio, non lasciano seguire la diliberazione, ma
la impediscono e la attraversono. Perché i buoni cittadini, ancora che vegghino una foga popolare
voltarsi alla parte perniziosa, mai impediranno il diliberare, massime di quelle cose che non
aspettano tempo. Morto che fu Girolamo tiranno in Siragusa, essendo la guerra grande intra i
Cartaginesi ed i Romani, vennono i Siracusani in disputa se dovevano seguire l'amicizia romana o
la cartaginese. E tanto era lo ardore delle parti, che la cosa stava ambigua, né se ne prendeva alcuno
partito: insino a tanto che Apollonide, uno de' primi in Siracusa, con una sua orazione piena di
prudenza, mostrò come e' non era da biasimare chi teneva la opinione di aderirsi ai Romani, né
quelli che volevano seguire la parte cartaginese; ma era bene da detestare quella ambiguità e tardità
di pigliare il partito, perché vedeva al tutto in tale ambiguità la rovina della republica; ma preso che
si fussi il partito, qualunque si fusse, si poteva sperare qualche bene. Né potrebbe mostrare più Tito
Livio, che si faccia in questa parte, il danno che si tira dietro lo stare sospeso. Dimostralo ancora in
questo caso de' Latini: poiché, essendo i Lavinii ricerchi da loro d'aiuto contro ai Romani,
differirono tanto a diliberarlo, che, quando eglino erano usciti appunto fuora della porta con le genti
per dare loro soccorso, venne la nuova i Latini essere rotti. Donde Milionio loro pretore disse: -
Questo poco della via ci costerà assai col Popolo romano -. Perché, se si diliberavano prima, o di
aiutare o di non aiutare i Latini, non li aiutando, ei non irritavano i Romani; aiutandogli, essendo lo
aiuto in tempo, potevono con la aggiunta delle loro forze fargli vincere; ma differendo, venivano a
perdere in ogni modo, come intervenne loro. E se i Fiorentini avessono notato questo testo, non
arebbono avuto co' Franciosi né tanti danni né tante noie quante ebbono nella passata che il re Luigi
di Francia XII fece in Italia contro a Lodovico duca di Milano. Perché, trattando il re tale passata,
ricercò i Fiorentini d'accordo: e gli oratori, che erano appresso al re, accordarono con lui che si
stessino neutrali, e che il re venendo in Italia gli avesse a mantenere nello stato e ricevere in
protezione: e dette tempo un mese alla città a ratificarlo. Fu differita tale ratificazione da chi per
poca prudenza favoriva le cose di Lodovico: intanto che, il re già sendo in su la vittoria, e volendo
poi i Fiorentini ratificare, non fu la ratificazione accettata; come quello che conobbe i Fiorentini
essere venuti forzati e non voluntari nella amicizia sua. Il che costò alla città di Firenze assai danari,
e fu per perdere lo stato: come poi altra volta per simile causa le intervenne. E tanto più fu
dannabile quel partito, perché non si servì ancora a il duca Lodovico; il quale, se avesse vinto,
arebbe mostri molti più segni d'inimicizia contro ai Fiorentini, che non fece il re. E benché del male
che nasce, alle republiche, di questa debolezza, se ne sia di sopra in uno altro capitolo discorso,
nondimeno, avendone di nuovo occasione per uno nuovo accidente, ho voluto replicarne
parendomi, massime, materia che debba essere dalle republiche, simili alla nostra, notata.
<B>16</B>
<B>Quanto i soldati de' nostri tempi </B>
<B>si disformino dagli antichi ordini. </B>
La più importante giornata che fu mai fatta in alcuna guerra con alcuna nazione dal Popolo romano,
fu questa che ei fece con i popoli latini, nel consolato di Torquato e di Decio. Perché ogni ragione
vuole che, così come i Latini per averla perduta diventarono servi, così sarebbero stati servi i
Romani, quando non l'avessino vinta. E di questa opinione è Tito Livio; perché in ogni parte fa gli
eserciti pari di ordine, di virtù, d'ostinazione e di numero: solo vi fa differenza, che i capi dello
esercito romano furono più virtuosi che quelli dello esercito latino. Vedesi ancora come nel
maneggio di questa giornata nacquono due accidenti, non prima nati, e che dipoi hanno radi
esempli: che, di due Consoli, per tenere fermi gli animi de' soldati, ed ubbidienti a' comandamenti
loro, e diliberati al combattere l'uno ammazzò sé stesso, e l'altro il figliuolo. La parità, che Tito
Livio dice essere in questi eserciti, era che, per avere militato gran tempo insieme, erano pari di
lingua, d'ordine e d'armi: perché nello ordinare la zuffa tenevano uno modo medesimo; e gli ordini
e i capi degli ordini avevano i medesimi nomi. Era dunque necessario, sendo di pari forze e di pari
virtù, che nascesse qualche cosa istraordinaria, che fermasse e facesse più ostinati gli animi dell'uno
che dell'altro: nella quale ostinazione consiste, come altre volte si è detto, la vittoria; perché, mentre
che la dura ne' petti di quelli che combattono, mai non dànno volta gli eserciti. E perché la durasse
più ne' petti de' Romani che de' Latini, parte la sorte, parte la virtù de' Consoli fece nascere che
Torquato ebbe a ammazzare il figliuolo, e Decio sé stesso. Mostra Tito Livio, nel mostrare questa
parità di forze, tutto l'ordine che tenevono i Romani nelli eserciti e nelle zuffe. Il quale esplicando
egli largamente, non replicherò altrimenti; ma solo discorrerò quello che io vi giudico notabile, e
quello che, per essere negletto da tutti i capitani di questi tempi, ha fatto, negli eserciti e nelle zuffe,
di molti disordini. Dico, adunque, che per il testo di Livio si raccoglie come lo esercito romano
aveva tre divisioni principali, le quali toscanamente si possono chiamare tre schiere; e nominavano
la prima astati, la seconda principi, la terza triari: e ciascuna di queste aveva i suoi cavagli. Nello
ordinare una zuffa, ei mettevano gli astati innanzi; nel secondo luogo, per ritto, dietro alle spalle di
quelli, ponevano i principi; nel terzo, pure nel medesimo filo, collocavano i triari. I cavagli di tutti
questi ordini gli ponevano a destra ed a sinistra di queste tre battaglie; le stiere de' quali cavagli,
dalla forma loro, e dal luogo, si chiamavano «ala perché parevano come due alie di quel corpo.
Ordinavono la prima stiera, degli astati, che era nella fronte, serrata in modo insieme, che la potesse
spignere e sostenere il nimico. La seconda stiera, de' principi, perché non era la prima a combattere,
ma bene le conveniva soccorrere alla prima quando fussi battuta o urtata, non la facevano stretta,
ma mantenevano i suoi ordini radi, e di qualità che la potessi ricevere in sé, sanza disordinarsi, la
prima, qualunque volta, spinta dal nimico, fusse necessitata ritirarsi. La terza stiera, de' triari, aveva
ancora gli ordini più radi che la seconda, per potere ricevere in sé, bisognando, le due prime stiere,
de' principi e degli astati. Collocate, dunque, queste stiere in questa forma, appiccavano la zuffa: e,
se gli astati erano sforzati o vinti, si ritiravano nella radità degli ordini de' principi; e, tutti uniti
insieme, fatto di due stiere uno corpo, rappiccavano la zuffa: se questi ancora erano ributtati,
sforzati si ritiravano tutti nella rarità degli ordini de' triari; e tutt'a tre le stiere, diventate uno corpo,
rinnovavano la zuffa: dove essendo superati, per non avere più da rifarsi, perdevono la giornata. E
perché ogni volta che questa ultima stiera de' triari si adoperava, lo esercito era in pericolo, ne
nacque quel proverbio: «Res redacta est ad triarios», che, a uso toscano, vuole dire:«Noi abbiamo
messa l'ultima posta». I capitani de' nostri tempi, come egli hanno abbandonati tutti gli altri ordini, e
della antica disciplina non ne osservano parte alcuna, così hanno abbandonata questa parte, la quale
non è di poca importanza: perché chi si ordina di potersi rifare nelle giornate tre volte, ha ad avere
tre volte inimica la fortuna a volere perdere, ed ha ad avere per iscontro una virtù che sia atta tre
volte a vincerlo. Ma chi non sta se non in sul primo urto, come stanno oggi tutti gli eserciti cristiani,
può facilmente perdere; perché ogni disordine, ogni mezzana virtù gli può tôrre la vittoria. Quello
che fa agli eserciti nostri mancare di potersi rifare tre volte, è lo avere perduto il modo di ricevere
l'una stiera nell'altra. Il che nasce perché al presente s'ordinano le giornate con uno di questi due
disordini: o ei mettono le loro stiere a spalle l'una dell'altra, e fanno la loro battaglia, larga per
traverso, e sottile per diritto; il che la fa più debole, per avere poco dal petto alle stiene. E quando
pure, per farla più forte, ei riducano le stiere per il verso de' Romani, se la prima fronte è rotta, non
avendo ordine di essere ricevuta dalla seconda, s'ingarbugliano insieme tutte, e rompano sé
medesime: perché, se quella dinanzi è spinta, ella urta la seconda; se la seconda si vuole fare
innanzi, ella è impedita dalla prima: donde che, urtando la prima la seconda, e la seconda la terza,
ne nasce tanta confusione, che spesso un minimo accidente rovina uno esercito. Gli eserciti
spagnuoli e franciosi nella zuffa di Ravenna, dove morì monsignor de Fois capitano delle genti di
Francia (la quale fu, secondo i nostri tempi, assai bene combattuta giornata), s'ordinarono con l'uno
de' soprascritti modi; cioè che l'uno e l'altro esercito venne con tutte le sue genti ordinate a spalle: in
modo che non venivano avere né l'uno né l'altro se non una fronte, ed erano assai più per il traverso
che per il diritto. E questo avviene loro sempre, dove egli hanno la campagna grande, come gli
avevano a Ravenna: perché, conoscendo il disordine che fanno nel ritirarsi, mettendosi per un filo,
lo fuggono, quando ei possono, col fare la fronte larga, come è detto; ma quando il paese gli
ristrigne, si stanno nel disordine soprascritto, sanza pensare al rimedio. Con questo medesimo
disordine cavalcano per il paese inimico, o se ei predano, o se fanno altro maneggio di guerra. Ed a
Santo Regolo in quel di Pisa, ed altrove, dove i Fiorentini furono rotti da' Pisani ne' tempi della
guerra che fu tra i Fiorentini e quella città, per la sua ribellione dopo la passata di Carlo re di
Francia in Italia, non nacque tale rovina d'altronde che dalla cavalleria amica; la quale, sendo
davanti e ributtata da' nimici, percosse nella fanteria fiorentina, e quella ruppe: donde tutto il
restante delle genti dierono volta: e messer Ciriaco dal Borgo, capo antico delle fanterie fiorentine,
ha affermato alla presenza mia molte volte, non essere mai stato rotto se non dalla cavalleria degli
amici. I Svizzeri, che sono i maestri delle moderne guerre, quando ei militano con i Franciosi, sopra
tutte le cose hanno cura di mettersi in lato, che la cavalleria amica, se fusse ributtata, non gli urti. E
benché queste cose paiano facili ad intendere, e facilissime a farsi, nondimeno non si è trovato
ancora alcuno de' nostri contemporanei capitani, che gli antichi ordini imiti, e i moderni corregga. E
benché gli abbino ancora loro tripartito lo esercito, chiamando l'una parte antiguardo, l'altra
battaglia, e l'altra retroguardo; non se ne servono ad altro che a comandarli nelli alloggiamenti, ma
nello adoperargli, rade volte è, come di sopra è detto, che a tutti questi corpi non faccino correre
una medesima fortuna.
E perché molti, per scusarne la ignoranza loro, allegano che la violenza delle artiglierie non patisce
che in questi tempi si usino molti ordini de gli antichi, voglio disputare nel seguente capitolo questa
materia, e vo' esaminare se le artiglierie impediscano che non si possa usare l'antica virtù.
<B>17</B>
<B>Quanto si debbino stimare dagli eserciti </B>
<B>ne' presenti tempi le artiglierie;</B>
<B>e se quella opinione, </B>
<B>che se ne ha in universale, è vera. </B>
Considerando io, oltre alle cose soprascritte, quante zuffe campali (chiamate ne' nostri tempi, con
vocabolo francioso, giornate, e, dagli Italiani, fatti d'arme) furono fatte da' Romani in diversi tempi,
mi è venuto in considerazione la opinione universale di molti, che vuole che, se in quegli tempi
fussono state le artiglierie, non sarebbe stato lecito ai Romani, né sì facile, pigliare le provincie,
farsi tributari i popoli, come ei fecero; né arebbono in alcuno modo fatto sì gagliardi acquisti.
Dicono ancora, che, mediante questi instrumenti de' fuochi, gli uomini non possono usare né
mostrare la virtù loro, come ei potevano anticamente. E soggiungano una terza cosa: che si viene
con più difficultà alle giornate che non si veniva allora, né vi si può tenere dentro quegli ordini di
quegli tempi; talché la guerra si ridurrà col tempo in su le artiglierie. E giudicando non fuora di
proposito disputare se tali opinioni sono vere, e quanto le artiglierie abbino accresciuto o diminuito
di forze agli eserciti, e se le tolgano o danno occasione ai buoni capitani di operare virtuosamente,
comincerò a parlare quanto alla prima loro opinione: che gli eserciti antichi romani non arebbano
fatto gli acquisti che feciono, se le artiglierie fussono state. Sopra che, rispondendo, dico come e' si
fa guerra o per difendersi o per offendere; donde si ha prima a esaminare a quale di questi due modi
di guerra le faccino più utile o più danno. E benché sia che dire da ogni parte, nondimeno io credo
che sanza comparazione faccino più danno a chi si difende, che a chi offende. La ragione che io ne
dico è, che quel che si difende, o egli è dentro a una terra, o egli è in su i campi dentro a uno
steccato. S'egli è dentro a una terra, o questa terra è piccola, come sono la maggior parte delle
fortezze, o la è grande: nel primo caso, chi si difende è al tutto perduto, perché l'impeto delle
artiglierie è tale che non truova muro, ancoraché grossissimo, che in pochi giorni ei non abbatta; e
se chi è dentro non ha buoni spazi da ritirarsi e con fossi e con ripari, si perde; né può sostenere
l'impeto del nimico che volessi dipoi entrare per la rottura del muro, né a questo gli giova artiglieria
che avessi: perché questa è una massima, che dove gli uomini in frotta e con impeto possono
andare, le artiglierie non gli sostengono. Però i furori oltramontani nella difesa delle terre non sono
sostenuti: son bene sostenuti gli assalti italiani, i quali, non in frotta ma spicciolati, si conducano
alle battaglie, le quali loro, per nome molto proprio, chiamano scaramucce. E questi che vanno con
questo disordine e questa freddezza a una rottura d'un muro dove siano artiglierie, vanno a una
manifesta morte, e contro a loro le artiglierie vagliano: ma quegli che in frotta condensati, e che
l'uno spinge l'altro, vengono a una rottura, se non sono sostenuti o da fossi o da ripari, entrono in
ogni luogo, e le artiglierie non gli tengono; e, se ne muore qualcuno, non possono essere tanti che
gl'impedischino la vittoria.
Questo, essere vero, si è conosciuto in molte espugnazioni fatte dagli oltramontani in Italia, e
massime in quella di Brescia: perché, sendosi quella terra ribellata da' Franciosi, e tenendosi ancora
per il re di Francia la fortezza, avevano i Viniziani, per sostenere l'impeto che da quella potesse
venire nella terra, munita tutta la strada d'artiglierie, che dalla fortezza alla città scendeva, e postene
a fronte e ne' fianchi, ed in ogni altro luogo opportuno. Delle quali monsignor di Fois non fece
alcuno conto; anzi, quello con il suo squadrone, disceso a piede, passando per il mezzo di quelle,
occupò la città, né per quelle si sentì ch'egli avesse ricevuto alcuno memorabile danno. Talché, chi
si difende in una terra piccola, come è detto, e truovisi le mura in terra, e non abbia spazio da
ritirarsi con i ripari e con fossi ed abbiasi a fidare in su le artiglierie, si perde subito. Se tu difendi
una terra grande, e che tu abbia commodità di ritirarti, sono nondimanco sanza comparazione più
utili le artiglierie a chi è di fuori, che a chi è dentro. Prima, perché, a volere che una artiglieria
nuoca a quegli che sono di fuora, tu se' necessitato levarti con essa dal piano della terra; perché,
stando in sul piano, ogni poco d'argine e di riparo che il nimico faccia, rimane sicuro, e tu non gli
puoi nuocere. Tanto che, avendoti a alzare, e tirarti in sul corridoio delle mura, o in qualunque
modo levarti da terra, tu ti tiri dietro due difficultà: la prima, che tu non puoi condurvi artiglierie
della grossezza e della potenza che può trarre colui di fuora, non si potendo ne' piccoli spazii
maneggiare le cose grandi: l'altra è, quando bene tu ve le potessi condurre, tu non puoi fare quegli
ripari fedeli e sicuri, per salvare detta artiglieria, che possono fare quegli di fuori, essendo in sul
terreno, ed avendo quelle commodità e quello spazio che loro medesimi vogliono: talmenteché, gli
è impossibile, a chi difende una terra, tenere le artiglierie ne' luoghi alti, quando quegli che sono di
fuori abbino assai artiglierie e potente; e se egli hanno a venire con essa ne' luoghi bassi, ella
diventa in buona parte inutile, come è detto. Talché la difesa della città si ha a ridurre a difenderla
con le braccia, come anticamente si faceva, e con l'artiglieria minuta: di che se si trae un poco di
utilità, rispetto a questa artiglieria minuta, se ne cava incommodità che contrappesa alla commodità
dell'artiglieria; perché, rispetto a quella, si riducano le mura delle terre, basse e quasi sotterrate ne'
fossi: talché, come si viene alla battaglia di mano, o per essere battute le mura o per essere ripieni i
fossi, ha, chi è dentro, molti più disavvantaggi che non aveva allora. E però, come di sopra si disse,
giovano questi instrumenti molto più a chi campeggia le terre, che a chi è campeggiato. Quanto alla
terza cosa, di ridursi in un campo dentro a uno steccato, per non fare giornata se non a tua comodità
o vantaggio, dico che in questa parte tu non hai più rimedio, ordinariamente, a difenderti di non
combattere, che si avessono gli antichi; e qualche volta, per conto delle artiglierie, hai maggiore
disavvantaggio. Perché, se il nimico ti giugne addosso, ed abbia un poco di vantaggio del paese,
come può facilmente intervenire, e truovisi più alto di te; o che nello arrivare suo tu non abbia
ancora fatti i tuoi argini, e copertoti bene con quegli; subito, e sanza che tu abbia alcun rimedio, ti
disalloggia, e sei forzato uscire delle fortezze tue, e venire alla zuffa. Il che intervenne agli
Spagnuoli nella giornata di Ravenna; i quali essendosi muniti tra 'l fiume del Ronco ed uno argine,
per non lo avere tirato tanto alto che bastasse, e per avere i Franciosi un poco il vantaggio del
terreno, furono costretti dalle artiglierie uscire delle fortezze loro, e venire alla zuffa. Ma dato,
come il più delle volte debbe essere, che il luogo che tu avessi preso con il campo fosse più
eminente che gli altri all'incontro, e che gli argini fussono buoni e sicuri, talché, mediante il sito e
l'altre tue preparazioni il nimico non ardisse d'assaltarti; si verrà in questo caso a quegli modi che
anticamente si veniva, quando uno era con il suo esercito in lato da non potere essere offeso: i quali
sono, correre il paese, pigliare o campeggiare le terre tue amiche, impedirti le vettovaglie, tanto che
tu sarai forzato da qualche necessità a disalloggiare, e venire a giornata; dove le artiglierie, come di
sotto si dirà, non operano molto. Considerato, adunque, di quali ragioni guerre feciono i Romani, e
veggendo come ei feciono quasi tutte le loro guerre per offendere altrui e non per difendere loro, si
vedrà, quando siano vere le cose dette di sopra, come quelli arebbono avuto più vantaggio, e più
presto arebbono fatto i loro acquisti, se le fossono state in quelli tempi.
Quanto alla seconda cosa, che gli uomini non possono mostrare la virtù loro, come ei potevano
anticamente, mediante l'artiglieria; dico ch'egli è vero, che, dove gli uomini spicciolati si hanno a
mostrare, che ei portano più pericoli che allora, quando avessono a scalare una terra, o fare simili
assalti, dove gli uomini non ristretti insieme ma di per sé l'uno dall'altro avessono a comparire. È
vero ancora, che gli capitani e capi degli eserciti stanno sottoposti più a il pericolo della morte che
allora, potendo essere aggiunti con le artiglierie in ogni luogo; né giova loro lo essere nelle ultime
squadre, e muniti di uomini fortissimi. Nondimeno si vede che l'uno e l'altro di questi dua pericoli
fanno rade volte danni istraordinari: perché le terre munite bene non si scalano, né si va con assalti
deboli ad assaltarle; ma, a volerle espugnare, si riduce la cosa a una ossidione, come anticamente si
faceva. Ed in quelle che pure per assalto si espugnano, non sono molto maggiori i pericoli che
allora: perché non mancavano anche in quel tempo, a chi difendeva le terre, cose da trarre; le quali,
se non erano così furiose, facevano, quanto allo ammazzare gli uomini, il simile effetto. Quanto alla
morte de' capitani e condottieri, ce ne sono, in ventiquattro anni che sono state le guerre ne'
prossimi tempi in Italia, meno esempli che non era in dieci anni di tempo appresso agli antichi.
Perché, dal conte Lodovico della Mirandola, che morì a Ferrara quando i Viniziani, pochi anni
sono, assaltarono quello stato, ed il Duca di Nemors, che morì alla Cirignuola, in fuori, non è
occorso che d'artiglierie ne sia morto alcuno; perché monsignore di Fois a Ravenna morì di ferro, e
non di fuoco. Tanto che, se gli uomini non dimostrano particularmente la loro virtù, nasce, non
dalle artiglierie, ma dai cattivi ordini e dalla debolezza degli eserciti; i quali, mancando di virtù nel
tutto, non la possono mostrare nella parte.
Quanto alla terza cosa detta da costoro, che non si possa venire alle mani, e che la guerra si
condurrà tutta in su l'artiglierie, dico questa opinione essere al tutto falsa; e così fia sempre tenuta
da coloro che secondo l'antica virtù vorranno adoperare gli eserciti loro. Perché, chi vuole fare uno
esercito buono, gli conviene, con esercizi o fitti o veri, assuefare gli uomini sua ad accostarsi al
nimico, e venire con lui al menare della spada ed a pigliarsi per il petto; e si debbe fondare più in su
le fanterie che in su' cavagli, per le ragioni che di sotto si diranno. E quando si fondi in su i fanti ed
in su i modi predetti, diventono al tutto le artiglierie inutili; perché con più facilità le fanterie, nello
accostarsi al nimico, possono fuggire il colpo delle artiglierie, che non potevano anticamente
fuggire l'impeto degli elefanti, de' carri falcati, e d'altri riscontri inusitati, che le fanterie romane
riscontrarono; contro ai quali sempre trovarono il rimedio: e tanto più facilmente lo arebbono
trovato contro a queste, quanto egli è più breve il tempo nel quale le artiglierie ti possano nuocere,
che non era quello nel quale potevano nuocere gli elefanti ed i carri. Perché quegli nel mezzo della
zuffa ti disordinavano, queste, solo innanzi alla zuffa, t'impediscano: il quale impedimento
facilmente le fanterie fuggono, o con andare coperte dalla natura del sito, o con abbassarsi in su la
terra quando le tirano. Il che anche, per isperienza, si è visto non essere necessario, massime per
difendersi dalle artiglierie grosse; le quali non si possono in modo bilanciare, o che, se le vanno
alto, le non ti trovino, o che, se le vanno basso, le non ti arrivino. Venuti poi gli eserciti alle mani,
questo è chiaro più che la luce, che né le grosse né le piccole ti possono offendere: perché, se quello
che ha l'artiglierie è davanti, diventa tuo prigione; s'egli è dietro, egli offende prima l'amico che te;
a spalle ancora non ti può ferire in modo che tu non lo possa ire a trovare, e ne viene a seguitare lo
effetto detto. Né questo ha molta disputa; perché se ne è visto l'esemplo de' Svizzeri, i quali a
Novara nel 1513, sanza artiglierie e sanza cavagli, andarono a trovare lo esercito francioso, munito
d'artiglierie, dentro alle fortezze sue, e lo roppono sanza avere alcuno impedimento da quelle. E la
ragione è, oltre alle cose dette di sopra, che l'artiglieria ha bisogno di essere guardata, a volere che
la operi, o da mura o da fossi o da argini; e come le mancherà una di queste guardie, ella è prigione,
o la diventa inutile: come le interviene quando la si ha a difendere con gli uomini; il che le
interviene nelle giornate e zuffe campali. Per fianco le non si possono adoperare, se non in quel
modo che adoperavano gli antichi gli instrumenti da trarre; che gli mettevano fuori delle squadre,
perché ei combattessono fuori degli ordini; ed ogni volta che o da cavalleria o da altri erano spinti,
il rifugio loro era dietro alle legioni. Chi altrimenti ne fa conto, non la intende bene, e fidasi sopra
una cosa che facilmente lo può ingannare. E se il Turco, mediante l'artiglieria, contro al Sofi ed il
Soldano ha avuto vittoria, è nato non per altra virtù di quella che per lo spavento che lo inusitato
romore messe nella cavalleria loro.
Conchiuggo pertanto, venendo al fine di questo discorso, l'artiglieria essere utile in uno esercito
quando vi sia mescolata l'antica virtù; ma, sanza quella, contro a uno esercito virtuoso è
inutilissima.
<B>18</B>
<B>Come per l'autorità de' Romani, </B>
<B>e per lo esemplo della antica milizia, </B>
<B>si debba stimare più le fanterie </B>
<B>che i cavagli. </B>
E' si può per molte ragioni e per molti esempli dimostrare chiaramente, quanto i Romani in tutte le
militari azioni estimassono più la milizia a piede che a cavallo, e sopra quella fondassino tutti i
disegni delle forze loro: come si vede per molti esempli, ed infra gli altri, quando si azzuffarono con
i Latini appresso al lago Regillo; dove essendo già inclinato lo esercito romano, per soccorrere ai
suoi, fecero discendere, degli uomini a cavallo, a piede, e per quella via, rinnovata la zuffa, ebbono
la vittoria. Dove si vede manifestamente, i Romani avere più confidato in loro sendo a piede, che
mantenendoli a cavallo. Questo medesimo termine usarono in molte altre zuffe, e sempre lo
trovarono ottimo rimedio alli loro pericoli.
Né si opponga a questo la opinione d'Annibale, il quale, veggendo in la giornata di Canne che i
Consoli avevano fatto discendere a piè li loro cavalieri, facendosi beffe di simile partito, disse:
«Quam mallem vinctos mihi traderent equites!», cioè: - Io arei più caro che me gli dessino legati -.
La quale opinione, ancoraché la sia stata in bocca d'un uomo eccellentissimo, nondimanco, se si ha
ad ire dietro alla autorità, si debbe più credere a una Republica romana, e a tanti capitani
eccellentissimi che furono in quella, che a uno solo Annibale. Ancoraché, sanza le autorità, ce ne
sia ragioni manifeste: perché l'uomo a piede può andare in di molti luoghi, dove non può andare il
cavallo; puossi insegnarli servare l'ordine, e, turbato che fussi, come e' lo abbia a riassumere: a'
cavagli è difficile fare servare l'ordine, ed impossibile, turbati che sono, riordinargli. Oltre a questo,
si truova, come negli uomini, de' cavagli che hanno poco animo, e di quegli che ne hanno assai: e
molte volte interviene che un cavallo animoso è cavalcato da un uomo vile, e uno cavallo vile da
uno animoso; ed in qualunque modo che segua questa disparità, ne nasce inutilità e disordine.
Possono le fanterie, ordinate, facilmente rompere i cavagli, e difficilmente essere rotte da quegli. La
quale opinione è corroborata, oltre a molti esempli antichi e moderni, dalla autorità di coloro che
danno delle cose civili regola: dove ei mostrano come in prima le guerre si cominciarono a fare con
i cavagli, perché non era ancora l'ordine delle fanterie; ma come queste si ordinarono, si conobbe
subito quanto loro erano più utili che quelli. Non è per questo però che i cavagli non siano
necessarii negli eserciti, e per fare scoperte, per iscorrere e predare i paesi, per seguitare i nimici
quando ei sono in fuga, e per essere ancora in parte una opposizione ai cavagli degli avversari: ma il
fondamento e il nervo dello esercito, e quello che si debbe più stimare, debbano essere le fanterie.
Ed infra i peccati de' principi italiani, che hanno fatto Italia serva de' forestieri, non ci è il maggiore
che avere tenuto poco conto di questo ordine, ed avere volto tutta la sua cura alla milizia a cavallo.
Il quale disordine è nato per la malignità de' capi, e per la ignoranza di coloro che tenevano stato.
Perché, essendosi ridotta la milizia italiana da' venticinque anni indietro, in uomini che non avevano
stato, ma erano come capitani di ventura, pensarono subito come potessero mantenersi la
riputazione, stando armati loro e disarmati i principi. E perché uno numero grosso di fanti non
poteva loro essere continovamente pagato, e non avendo sudditi da potere valersene, ed uno piccol
numero non dava loro riputazione, si volsono a tenere cavagli: perché dugento o trecento cavagli
che erano pagati ad uno condottiere, lo mantenevano riputato, ed il pagamento non era tale, che
dagli uomini che tenevono stato non potesse essere adempiuto. E perché questo seguisse più
facilmente, e per mantenersi più in riputazione, levarono tutta l'affezione e la riputazione da' fanti, e
ridussonla in quelli loro cavagli: e in tanto crebbono in questo disordine, che in qualunque
grossissimo esercito era una minima parte di fanteria. La quale usanza fece in modo debole, insieme
con molti altri disordini che si mescolarono con quella, questa milizia italiana, che questa provincia
è stata facilmente calpesta da tutti gli oltramontani. Mostrasi più apertamente questo errore, di
stimare più i cavagli che le fanterie, per uno altro esemplo romano. Erano i Romani a campo a Sora,
ed essendo uscito fuori della terra una turma di cavagli per assaltare il campo, se gli fece allo
incontro il Maestro de' cavagli romano con la sua cavalleria; e datosi di petto, la sorte dette che nel
primo scontro i capi dell'uno e dell'altro esercito morirono; e restati gli altri sanza governo, e
durando nondimeno la zuffa, i Romani, per superare più facilmente il nimico, scesono a piede, e
constrinsono i cavalieri inimici, se si vollono difendere, a fare il simile: e, con tutto questo, i
Romani ne riportarono la vittoria. Non può essere questo esemplo maggiore in dimostrare quanto
sia più virtù nelle fanterie che ne' cavagli: perché, se nelle altre fazioni i Consoli facevano
discendere i cavalieri romani, era per soccorrere alle fanterie che pativano, e che avevano bisogno
di aiuto; ma in questo luogo e' discesono, non per soccorrere alle fanterie né per combattere con
uomini a piè de' nimici, ma combattendo a cavallo, con cavagli, giudicarono, non potendo
superargli a cavallo, potere, scendendo, più facilmente vincergli. Io voglio adunque conchiudere,
che una fanteria ordinata non possa sanza grandissima difficultà essere superata se non da un'altra
fanteria. Crasso e Marc'Antonio romani corsono per il dominio de' Parti molte giornate con
pochissimi cavagli ed assai fanteria, ed allo incontro avevano innumerabili cavagli de' Parti. Crasso
vi rimase, con parte dello esercito, morto; Marc'Antonio virtuosamente si salvò. Nondimanco in
queste azioni romane si vide quanto le fanterie prevalevano ai cavagli: perché, essendo in uno paese
largo, dove i monti sono radi, i fiumi radissimi, le marine longinque, e discosto da ogni commodità,
nondimanco Marc'Antonio, al giudicio de' Parti medesimi, virtuosissimamente si salvò; né mai
ebbeno ardire tutta la cavalleria partica tentare gli ordini dello esercito suo. Se Crasso vi rimase, chi
leggerà bene le sue azioni vedrà come e' vi fu piuttosto ingannato che sforzato: né mai, in tutti i suoi
disordini, i Parti ardirono d'urtarlo; anzi, sempre andando costeggiandolo, impedendogli le
vettovaglie, e promettendogli e non gli osservando, lo condussono a una estrema miseria.
Io crederei avere a durare più fatica in persuadere quanto la virtù delle fanterie è più potente che
quella de' cavalli se non ci fossono assai moderni esempli che ne rendano testimonianza pienissima.
E' si è veduto novemila Svizzeri a Novara, da noi di sopra allegata, andare a affrontare diecimila
cavagli ed altrettanti fanti, e vincergli: perché i cavagli non gli potevano offendere: i fanti, per
essere gente in buona parte guascona e male ordinata, la stimavano poco. Videsi di poi ventiseimila
Svizzeri andare a trovare sopra a Milano Francesco re di Francia, che aveva seco ventimila cavagli,
quarantamila fanti, e cento carra d'artiglierie; e se non vinsono la giornata come a Novara, ei la
combatterono dua giorni virtuosamente e dipoi, rotti ch'ei furono, la metà di loro si salvarono.
Presunse Marco Regolo Attilio, non solo con la fanteria sua sostenere i cavagli, ma gli elefanti; e se
il disegno non gli riuscì, non fu però che la virtù della sua fanteria non fosse tanta, ch' e' non
confidasse tanto in lei che credesse superare quella difficultà. Replico, pertanto, che, a volere
superare i fanti ordinati, è necessario opporre loro fanti meglio ordinati di quegli: altrimenti, si va a
una perdita manifesta. Ne' tempi di Filippo Visconti, duca di Milano, scesono in Lombardia circa
sedicimila Svizzeri: donde quel Duca, avendo per suo capitano allora il Carmignuola, lo mandò con
circa mille cavagli e pochi fanti all'incontro loro. Costui, non sappiendo l'ordine del combattere
loro, ne andò a incontrarli con i suoi cavagli, presumendo poterli subito rompere. Ma trovatigli
immobili, avendo perduti molti de' suoi uomini, si ritirò: ed essendo valentissimo uomo, e
sappiendo negli accidenti nuovi pigliare nuovi partiti, rifattosi di gente gli andò a trovare; e, venuto
loro all'incontro, fece smontare a piè tutte le sue genti d'armi, e, fatto testa di quelle alle sue
fanterie, andò ad investire i Svizzeri. I quali non ebbono alcuno rimedio: perché, sendo le genti
d'armi del Carmignuola a piè e bene armate, poterono facilmente entrare intra gli ordini de'
Svizzeri, sanza patire alcuna lesione ed entrati tra quegli poterono facilmente offenderli: talché di
tutto il numero di quegli, ne rimase quella parte viva, che per umanità del Carmignuola fu
conservata.
Io credo che molti conoschino questa differenzia di virtù che è intra l'uno e l'altro di questi ordini:
ma è tanta la infelicità di questi tempi, che né gli esempli antichi né i moderni né la confessione
dello errore è sufficiente a fare che i moderni principi si ravvegghino; e pensino che, a volere
rendere riputazione alla milizia d'una provincia o d'uno stato, sia necessario risuscitare questi
ordini, tenergli appresso, dare loro riputazione, dare loro vita, acciocché a lui e vita e riputazione
rendino. E come ei deviano da questi modi, così deviano dagli altri modi, detti di sopra: onde ne
nasce che gli acquisti sono a danno, non a grandezza, d'uno stato; come di sotto si dirà.
<B>19</B>
<B>Che gli acquisti nelle republiche </B>
<B>non bene ordinate, </B>
<B>e che secondo la romana virtù </B>
<B>non procedano, sono a ruina, </B>
<B>non ad esaltazione di esse. </B>
Queste contrarie opinioni alla verità fondate in su i mali esempli che da questi nostri corrotti secoli
sono stati introdotti, fanno che gli uomini non pensono a deviare dai consueti modi. Quando si
sarebbe potuto persuadere uno Italiano, da trenta anni in dietro che diecimila fanti potessono
assaltare in un piano diecimila cavagli ed altrettanti fanti, e con quelli non solamente combattere ma
vincergli, come si vide per lo esemplo da noi più volte allegato, a Novara? E benché le istorie ne
siano piene, tamen non ci arebbero prestato fede; e se ci avessero prestato fede, arebbero detto che
in questi tempi s'arma meglio, e che una squadra di uomini d'arme sarebbe atta ad urtare uno
scoglio, non che una fanteria: e così con queste false scuse corrompevano il giudizio loro; né
arebbero considerato che Lucullo con pochi fanti ruppe cento cinquantamila cavalli di Tigrane, e
che fra quelli cavalieri era una sorte di cavalleria simile al tutto agli uomini d'arme nostri: e così,
come questa fallacia è stata scoperta dallo esemplo delle genti oltramontane. E come e' si vede, per
quello, essere vero, quanto alla fanteria, quello che nelle istorie si narra, così doverrebbero credere
essere veri e utili tutti gli altri ordini antichi. E quando questo fusse creduto, le republiche ed i
principi errerebbero meno; sariano più forti a opporsi a uno impeto che venisse loro addosso; non
spererebbero nella fuga; e quegli che avessono nelle mani uno vivere civile, lo saperebbono meglio
indirizzare, o per la via dello ampliare, o per la via del mantenere; e crederebbono che lo accrescere
la città sua di abitatori, farsi compagni e non sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati,
fare capitale delle prede, domare il nimico con le scorrerie e con le giornate e non con le ossidioni,
tenere ricco il publico, povero il privato, mantenere con sommo studio gli esercizi militari, fusse la
vera via a fare grande una republica, e ad acquistare imperio. E quando questo modo dello ampliare
non gli piacessi, penserebbe che gli acquisti per ogni altra via sono la rovina delle republiche, e
porrebbe freno a ogni ambizione; regolando bene la sua città dentro con le leggi e co' costumi,
proibendole lo acquistare, e solo pensando a difendersi, e le difese tenere ordinate bene: come fanno
le republiche della Magna, le quali in questi modi vivano e sono vivute libere un tempo.
Nondimeno, come altra volta dissi quando discorsi la differenza che era, da ordinarsi per acquistare
e ordinarsi per mantenere; è impossibile che ad una republica riesca lo stare quieta, e godersi la sua
libertà e gli pochi confini: perché, se lei non molesterà altrui, sarà molestata ella; e dallo essere
molestata le nascerà la voglia e la necessità dello acquistare; e quando non avessi il nimico fuora, lo
troverrebbe in casa: come pare necessario intervenga a tutte le gran cittadi. E se le republiche della
Magna possono vivere loro in quel modo, ed hanno potuto durare un tempo, nasce da certe
condizioni che sono in quel paese, le quali non sono altrove, sanza le quali non potrebbero tenere
simile modo di vivere.
Era quella parte della Magna di che io parlo, sottoposta allo Imperio romano come la Francia e la
Spagna: ma venuto dipoi in declinazione e ridottosi il titolo di tale Imperio in quella provincia,
cominciarono quelle città più potenti, secondo la viltà o necessità degl'imperadori, a farsi libere,
ricomperandosi dallo Imperio, con riservargli un piccol censo annuario; tanto che, a poco a poco,
tutte quelle città che erano immediate dello imperadore, e non erano suggette d'alcuno principe, si
sono in simil modo ricomperate. Occorse, in questi medesimi tempi che queste città si
ricomperavano, che certe comunità sottoposte al duca di Austria si ribellarono da lui; tra le quali fu
Filiborg, e i Svizzeri, e simili; le quali prosperando nel principio, pigliarono a poco a poco tanto
augumento, che, non che e' siano tornati sotto il giogo di Austria, sono in timore a tutti i loro vicini:
e questi sono quegli che si chiamano i Svizzeri. È, adunque, questa provincia compartita in
Svizzeri, republiche che chiamano terre franche, principi, ed imperadore. E la cagione che, intra
tante diversità di vivere, non vi nascano, o, se le vi nascano, non vi durano molto le guerre, è quel
segno dello imperadore; il quale, avvenga che non abbi forze, nondimeno ha infra loro tanta
riputazione ch'egli è un loro conciliatore, e con l'autorità sua, interponendosi come mezzano, spegne
subito ogni scandolo. E le maggiori e le più lunghe guerre vi siano state, sono quelle che sono
seguite intra i Svizzeri ed il duca d'Austria: e benché da molti anni in qua lo imperadore ed il duca
d'Austria sia una medesima cosa, non pertanto non ha mai possuto superare l'audacia de' Svizzeri;
dove non è stato mai modo d'accordo, se non per forza. Né il resto della Magna gli ha porti molti
aiuti; sì perché le comunità non sanno offendere chi vuole vivere libero come loro; sì perché quelli
principi, parte non possono, per essere poveri, parte non vogliono, per avere invidia alla potenza
sua. Possono vivere, adunque, quelle comunità contente del piccolo loro dominio, per non avere
cagione, rispetto all'autorità imperiale, di disiderarlo maggiore: possono vivere unite dentro alle
mura loro, per avere il nimico propinquo, e che piglierebbe le occasioni di occuparle, qualunque
volta le discordassono. Ché , se quella provincia fusse condizionata altrimenti, converrebbe loro
cercare di ampliare e rompere quella loro quiete. E perché altrove non sono tali condizioni, non si
può prendere questo modo di vivere; e bisogna o ampliare per via di leghe, o ampliare come i
Romani. E chi si governa altrimenti, cerca non la sua vita, ma la sua morte e rovina: perché in mille
modi e per molte cagioni gli acquisti sono dannosi; perché gli sta molto bene, insieme acquistare
imperio e non forze; e chi acquista imperio e non forze insieme, conviene che rovini. Non può
acquistare forze chi impoverisce nelle guerre, ancora che sia vittorioso, che ei mette più che non
trae degli acquisti: come hanno fatto i Viniziani ed i Fiorentini, i quali sono stati molto più deboli,
quando l'uno aveva la Lombardia e l'altro la Toscana, che non erano quando l'uno era contento del
mare, e l'altro di sei miglia di confini.
Perché tutto è nato da avere voluto acquistare e non avere saputo pigliare il modo: e tanto più
meritano biasimo, quanto eglino hanno meno scusa, avendo veduto il modo hanno tenuto i Romani,
ed avendo potuto seguitare il loro esemplo, quando i Romani, sanza alcuno esemplo, per la
prudenza loro, da loro medesimi lo seppono trovare. Fanno, oltra di questo, gli acquisti qualche
volta non mediocre danno ad ogni bene ordinata republica, quando e' si acquista una città o una
provincia piena di delizie, dove si può pigliare di quegli costumi per la conversazione che si ha con
quegli: come intervenne a Roma, prima, nello acquisto di Capova, e dipoi, a Annibale. E se Capova
fusse stata più longinqua dalla città, che lo errore de' soldati non avesse avuto il rimedio propinquo,
o che Roma fusse stata in alcuna parte corrotta, era, sanza dubbio, quello acquisto la rovina della
romana Repubblica. E Tito Livio fa fede di questo con queste parole: «Iam tunc minime salubris
militari disciplinae Capua, instrumentum omnium voluptatum, delinitos militum animos avertit a
memoria patriae». E veramente, simili città o provincie si vendicano contro al vincitore sanza zuffa
e sanza sangue; perché, riempiendogli de' suoi tristi costumi, gli espongono a essere vinti da
qualunque gli assalti. E Iuvenale non potrebbe meglio, nelle sue satire, avere considerata questa
parte, dicendo che ne' petti romani per gli acquisti delle terre peregrine erano entrati i costumi
peregrini; ed in cambio di parsimonia e d'altre eccellentissime virtù, «gula et luxuria incubuit,
victumque ulciscitur orbem». Se, adunque, lo acquistare fu per essere pernizioso a' Romani ne'
tempi che quegli con tanta prudenzia e tanta virtù procedevono, che sarà adunque a quegli che
discosto dai modi loro procedono? e che, oltre agli altri errori che fanno, di che se n'è di sopra
discorso assai, si vagliano de' soldati o mercenari o ausiliari? Donde ne risulta loro spesso quelli
danni di che nel seguente capitolo si farà menzione.
<B>20</B>
<B>Quale pericolo porti quel principe </B>
<B>o quella republica che si vale </B>
<B>della milizia ausiliare o mercenaria. </B>
Se io non avessi lungamente trattato, in altra mia opera, quanto sia inutile la milizia mercenaria ed
ausiliare, e quanto utile la propria, io mi stenderei in questo discorso assai più che non farò; ma
avendone altrove parlato a lungo, sarò, in questa parte, brieve. Né mi è paruto in tutto da passarla,
avendo trovato in Tito Livio, quanto a' soldati ausiliari, sì largo esemplo; perché i soldati ausiliari
sono quegli che un principe o una republica manda, capitanati e pagati da lei, in tuo aiuto. E
venendo al testo di Livio, dico che, avendo i Romani, in due diversi luoghi, rotti due eserciti de'
Sanniti con gli eserciti loro, i quali avevano mandati al soccorso de' Capovani; e per questo liberi i
Capovani da quella guerra che i Sanniti facevano loro; e volendo ritornare verso Roma, ed a ciò che
i Capovani, spogliati di presidio, non diventassono di nuovo preda de' Sanniti; lasciarono due
legioni nel paese di Capova, che gli difendesse. Le quali legioni marcendo nell'ozio, cominciarono a
dilettarsi in quello; tanto che, dimenticata la patria e la reverenza del Senato, pensarono di prendere
l'armi ed insignorirsi di quel paese che loro con la loro virtù avevano difeso; parendo loro che gli
abitatori non fussono degni di possedere quegli beni che non sapevano difendere. La quale cosa
presentita, fu da' Romani oppressa e corretta: come, dove noi parleremo delle congiure, largamente
si mosterrà. Dico pertanto, di nuovo, come di tutte l'altre qualità de' soldati, gli ausiliari sono i più
dannosi: perché in essi quel principe o quella repubblica che gli adopera in suo aiuto, non ha
autorità alcuna, ma vi ha solo l'autorità colui che gli manda. Perché gli soldati ausiliarii sono quegli
che ti sono mandati da uno principe, come ho detto, sotto i suoi capitani, sotto sue insegne e pagati
da lui: come fu questo esercito che i Romani mandarono a Capova. Questi tali soldati, vinto
ch'eglino hanno, il più delle volte predano così colui che gli ha condotti, come colui contro a chi e'
sono condotti; e lo fanno o per malignità del principe che gli manda, o per ambizione loro. E benché
la intenzione de' Romani non fusse di rompere l'accordo e le convenzioni avevano fatto co'
Capovani; non per tanto la facilità che pareva a quegli soldati di opprimergli fu tanta, che gli potette
persuadere a pensare di tôrre a' Capovani la terra e lo stato. Potrebbesi di questo dare assai esempli,
ma voglio mi basti questo, e quello de' Regini, a' quali fu tolto la vita e la terra da una legione che i
Romani vi avevano messa in guardia. Debbe, dunque, un principe o una republica pigliare prima
ogni altro partito, che ricorrere a condurre nello stato suo per sua difesa genti ausiliarie, quando al
tutto e' si abbia a fidare sopra quelle; perché ogni patto, ogni convenzione, ancora che dura, ch'egli
arà col nimico gli sarà più leggieri che tale partito. E se si leggeranno bene le cose passate, e
discorrerannosi le presenti, si troverrà, per uno che ne abbi avuto buono fine, infiniti esserne rimasi
ingannati.
Ed un principe o una republica ambiziosa non può avere la maggiore occasione di occupare una
città o una provincia, che essere richiesto che mandi gli eserciti suoi alla difesa di quella. Pertanto,
colui che è tanto ambizioso che, non solamente per difendersi ma per offendere altri, chiama simili
aiuti, cerca d'acquistare quello che non può tenere, e che, da quello che gliene acquista, gli può
facilmente essere tolto. Ma l'ambizione dell'uomo è tanto grande, che, per cavarsi una presente
voglia, non pensa al male che è in breve tempo per risultargliene. Né lo muovono gli antichi
esempli, così in questo come nell'altre cose discorse; perché, se e' fussono mossi da quegli,
vedrebbero come, quanto più si mostra liberalità con i vicini, e di essere più alieno da occupargli,
tanto più si gettono in grembo: come di sotto, per lo esemplo de' Capovani, si dirà.
<B>21</B>
<B>Il primo Pretore ch'e' Romani </B>
<B>mandarono in alcuno luogo, fu a Capova, </B>
<B>dopo quattrocento anni che cominciarono </B>
<B>a fare guerra. </B>
Quanto i Romani, nel modo del procedere loro circa lo acquistare, fossero differenti da quegli che
ne' presenti tempi ampliano la giurisdizione loro, si è assai di sopra discorso; e come e' lasciavano
quelle terre, che non disfacevano, vivere con le leggi loro, eziandio quelle che, non come
compagne, ma come suggette si arrendevano loro; ed in esse non lasciavano alcuno segno d'imperio
per il Popolo romano, ma le obligavano a alcune condizioni, le quali osservando le mantenevano
nello stato e dignità loro. E conoscesi questi modi essere stati osservati infino che gli uscirono
d'Italia, e che cominciarono a indurre i regni e gli stati in provincie.
Di questo ne è chiarissimo esemplo, che il primo Pretore che fussi mandato da loro in alcun luogo,
fu a Capova: il quale vi mandarono, non per loro ambizione, ma perché e' ne furono ricerchi dai
Capovani: i quali, essendo intra loro discordia, giudicarono essere necessario avere dentro nella
città uno cittadino romano che gli riordinasse e riunisse. Da questo esemplo gli Anziati mossi, e
constretti dalla medesima necessità, domandarono, ancora loro, uno Prefetto; e Tito Livio dice, in
su questo accidente, ed in su questo nuovo modo d'imperare «quod jam non solum arma, sed iura
romana pollebant». Vedesi, pertanto, quanto questo modo facilitò lo augumento romano. Perché
quelle città, massime che sono use a vivere libere, o consuete governarsi per sua provinciali, con
altra quiete stanno contente sotto uno dominio che non veggono, ancora ch'egli avesse in sé qualche
gravezza, che sotto quello che veggendo ogni giorno, pare loro che ogni giorno sia rimproverata
loro la servitù. Appresso, ne seguita uno altro bene per il principe: che, non avendo i suoi ministri in
mano i giudicii ed i magistrati che civilmente o criminalmente rendono ragione in quelle cittadi,
non può nascere mai sentenza con carico o infamia del principe: e vengono per questa via a
mancare molte cagioni di calunnia e d'odio verso di quello. E che questo sia il vero, oltre agli
antichi esempli che se ne potrebbero addurre, ce n'è uno esemplo fresco in Italia. Perché, come
ciascuno sa, sendo Genova stata più volte occupata da' Franciosi, sempre quel re, eccetto che ne'
presenti tempi, vi ha mandato uno governatore francioso che in suo nome la governi. Al presente
solo, non per elezione del re, ma perché così ha ordinato la necessità, ha lasciato governarsi quella
città per sé medesima, e da uno governatore genovese. E sanza dubbio, chi ricercasse quali di questi
due modi rechi più sicurtà al re, dello imperio d'essa, e più contentezza a quegli popolari, sanza
dubbio approverebbe questo ultimo modo. Oltre a di questo, gli uomini tanto più ti si gettono in
grembo, quanto più tu pari alieno dallo occupargli; e tanto meno ti temano per conto della loro
libertà, quanto più se' umano e dimestico con loro. Questa dimestichezza e liberalità fece i
Capovani correre a chiedere il Pretore a' Romani: ché se a' Romani si fusse dimostro una minima
voglia di mandarvelo, subito sariano ingelositi, e si sarebbero discostati da loro.
Ma che bisogna ire per gli esempli a Capova ed a Roma, avendone in Firenze ed in Toscana?
Ciascuno sa quanto tempo è che la città di Pistoia venne volontariamente sotto lo imperio
fiorentino. Ciascuno ancora sa quanta inimicizia è stata intra i Fiorentini, e' Pisani, Lucchesi e
Sanesi: e questa diversità di animo non è nata, perché i Pistolesi non prezzino la loro libertà come
gli altri, e non si giudichino da quanto gli altri; ma per essersi i Fiorentini portati con loro sempre
come frategli, e con gli altri come inimici. Questo ha fatto che i Pistolesi sono corsi volontari sotto
lo imperio loro: gli altri hanno fatto e fanno ogni forza per non vi pervenire. E sanza dubbio, se i
Fiorentini o per vie di leghe o di aiuti avessero dimesticati e non insalvatichiti i suoi vicini, a questa
ora, sanza dubbio, e' sarebbero signori di Toscana. Non è per questo che io giudichi che non si
abbia adoperare l'armi e le forze; ma si debbono riservare in ultimo luogo dove e quando gli altri
modi non bastino.
<B>22</B>
<B>Quanto siano false </B>
<B>molte volte le opinioni degli uomini </B>
<B>nel giudicare le cose grandi. </B>
Quanto siano false molte volte le opinioni degli uomini, lo hanno visto e veggono coloro che si
truovono testimoni delle loro diliberazioni: le quali, molte volte, se non sono diliberate da uomini
eccellenti, sono contrarie ad ogni verità. E perché gli eccellenti uomini nelle republiche corrotte, nei
tempi quieti massime, e per invidia e per altre ambiziose cagioni, sono inimicati, si va dietro a
quello che o, da uno comune inganno è giudicato bene, o, da uomini che più presto vogliono i favori
che il bene dello universale, è messo innanzi. Il quale inganno dipoi si scuopre nei tempi avversi, e
per necessità si rifugge a quegli che nei tempi quieti erano come dimenticati: come nel suo luogo in
questa parte appieno si discorrerà. Nascono ancora certi accidenti, dove facilmente sono ingannati
gli uomini che non hanno grande isperienza delle cose, avendo in sé, quello accidente che nasce,
molti verisimili, atti a fare credere quello che gli uomini sopra tale caso si persuadono. Queste cose
si sono dette per quello che Numicio pretore, poiché i Latini furono rotti dai Romani, persuase loro,
e per quello che, pochi anni sono si credeva per molti, quando Francesco I re di Francia venne allo
acquisto di Milano, che era difeso da' Svizzeri. Dico pertanto che, sendo morto Luigi XII, e
succedendo nel regno di Francia Francesco d'Angolem, e desiderando restituire al regno il ducato di
Milano, stato, pochi anni davanti, occupato da' Svizzeri mediante i conforti di Papa Iulio II,
desiderava avere aiuti in Italia che gli facilitassero la impresa; ed oltre a' Viniziani, che Luigi si
aveva riguadagnati, tentava i Fiorentini e papa Leone X; parendogli la sua impresa più facile,
qualunque volta si avesse riguadagnati costoro, per essere genti del re di Spagna in Lombardia, ed
altre forze dello imperadore in Verona. Non cedé Papa Leone alle voglie del re, ma fu persuaso da
quegli che lo consigliavano (secondo si disse) si stesse neutrale, mostrandogli in questo partito
consistere la vittoria certa: perché per la Chiesa non si faceva avere potenti in Italia né il re né i
Svizzeri ma, volendola ridurre nell'antica libertà, era necessario liberarla dalla servitù dell'uno e
dell'altro. E perché vincere l'uno e l'altro, o di per sé o tutti a dua insieme, non era possibile;
conveniva che superassino l'uno l'altro, e che la Chiesa con gli suoi amici urtasse quello, poi, che
rimanesse vincitore. Ed era impossibile trovare migliore occasione che la presente, sendo l'uno e
l'altro in su i campi, ed avendo il Papa le sue forze a ordine da potere rappresentarsi in su i confini
di Lombardia, e propinquo a l'uno e l'altro esercito, sotto colore di volere guardare le cose sue, e
quivi stare tanto che venissono alla giornata, la quale ragionevolmente, sendo l'uno e l'altro esercito
virtuoso, doverrebbe essere sanguinosa per tutte a due le parti, e lasciare in modo debilitato il
vincitore che fusse al Papa facile assaltarlo e romperlo: e così verrebbe con sua gloria a rimanere
signore di Lombardia, ed arbitro di tutta Italia. E quanto questa opinione fusse falsa, si vide per lo
evento della cosa: perché, sendo dopo una lunga zuffa suti superati i Svizzeri, non che le genti del
Papa e di Spagna presumessero assaltare i vincitori, ma si prepararono alla fuga; la quale ancora
non sarebbe loro giovata, se non fusse stato o la umanità o la freddezza del re, che non cercò la
seconda vittoria, ma li bastò fare accordo con la Chiesa.
Ha questa opinione certe ragioni che discosto paiono vere, ma sono al tutto aliene dalla verità.
Perché, rade volte accade che il vincitore perda assai suoi soldati: perché de' vincitori ne muore
nella zuffa, non nella fuga; e nello ardore del combattere, quando gli uomini hanno volto il viso
l'uno all'altro, ne cade pochi, massime perché la dura poco tempo, il più delle volte; e quando pure
durasse assai tempo e de' vincitori ne morisse assai, è tanta la riputazione che si tira dietro la
vittoria, ed il terrore che la porta seco, che di lungi avanza il danno che per la morte de' suoi soldati
avesse sopportato. Talché, se uno esercito il quale, in su la opinione che fusse debilitato, andasse a
trovarlo, si troverrebbe ingannato; se già, e' non fusse lo esercito tale che d'ogni tempo, e innanzi
alla vittoria e poi, potesse combatterlo. In questo caso ei potrebbe, secondo la sua fortuna e virtù,
vincere e perdere; ma quello che si fusse azzuffato prima, ed avesse vinto, arebbe più tosto
vantaggio dall'altro. Il che si conosce certo per la isperienza de' Latini, e per la fallacia che Numizio
pretore prese, e per il danno che ne riportarono quegli popoli che gli crederono: il quale, vinto che i
Romani ebbero i Latini, gridava per tutto il paese di Lazio, che allora era tempo assaltare i Romani
debilitati per la zuffa avevano fatta con loro; e che solo appresso a' Romani era rimaso il nome della
vittoria, ma tutti gli altri danni avevano sopportati come se fussino stati vinti; e che ogni poco di
forza che di nuovo gli assaltasse, era per spacciargli. Donde quegli popoli, che gli crederono, fecero
nuovo esercito, e subito furono rotti, e patirono quel danno che patiranno sempre coloro che
terranno simile opinione.
<B>23</B>
<B>Quanto i Romani </B>
<B>nel giudicare i sudditi </B>
<B>per alcuno accidente che necessitasse </B>
<B>tale giudizio </B>
<B>fuggivano la via del mezzo. </B>
«Iam Latio is status erat rerum, ut neque pacem neque bellum pati possent». Di tutti gli stati infelici,
è infelicissimo quello d'uno principe o d'una republica che è ridotto in termine che non può ricevere
la pace o sostenere la guerra: a che si riducono quegli che sono dalle condizioni della pace troppo
offesi; e dall'altro canto, volendo fare guerra, conviene loro o gittarsi in preda di chi gli aiuti o
rimanere preda del nimico. Ed a tutti questi termini si viene, pe' cattivi consigli e cattivi partiti, da
non avere misurato bene le forze sue, come di sopra si disse. Perché quella republica o quel principe
che bene le misurasse, con difficultà si condurrebbe nel termine si condussono i Latini: i quali,
quando non dovevano accordare con i Romani, accordarono; e quando ei non dovevano rompere
loro guerra, la ruppono: e così seppono fare in modo, che la inimicizia ed amicizia de' Romani fu
loro equalmente dannosa. Erano, dunque, vinti i Latini ed al tutto afflitti, prima da Manlio
Torquato, e dipoi da Cammillo: il quale, avendogli costretti a darsi e rimettersi nelle braccia de'
Romani, ed avendo messo la guardia per tutte le terre di Lazio, e preso da tutte gli statichi; tornato
in Roma, referì al Senato come tutto Lazio era nelle mani del Popolo romano. E perché questo
giudizio è notabile, e merita di essere osservato, per poterlo imitare quando simili occasioni sono
date a' principi, io voglio addurre le parole di Livio, poste in bocca di Cammillo; le quali fanno fede
e del modo che i Romani tennono in ampliare, e come ne' giudizi di stato sempre fuggirono la via
del mezzo, e si volsono agli estremi. Perché uno governo non è altro che tenere in modo i sudditi
che non ti possano o debbano offendere: questo si fa o con assicurarsene in tutto, togliendo loro
ogni via da nuocerti, o con benificarli in modo, che non sia ragionevole ch'eglino abbiano a
desiderare di mutare fortuna. Il che tutto si comprende, e prima per la proposta di Cammillo, e poi
per il giudizio dato dal Senato sopra quella. Le parole sue furono queste: «Dii immortales ita vos
potentes huius consilii fecerunt, ut, sit Latium an non sit, in vestra manu posuerint. Itaque pacem
vobis, quod ad Latinos attinet, parare in perpetuum, vel saeviendo vel ignoscendo potestis. Vultis
crudelius consulere in dedititios victosque? licet delere omne Latium. Vultis, exemplo maiorum,
augere rem romanam, victos in civitatem accipiendo? materia crescendi per summam gloriam
suppeditat. Certe id firmissimum imperium est, quo obedientes gaudent. Illorum igitur animos, dum
expectatione stupent, seu poena seu beneficio praeoccupari oportet». A questa proposta successe la
diliberazione del Senato: la quale fu secondo le parole del Consolo, che, recatosi innanzi, terra per
terra, tutti quegli ch'erano di momento, o e' gli benificarono o e' gli spensono, faccendo ai beneficati
esenzioni, privilegi, donando loro la città, e da ogni parte assicurandogli; di quegli altri sfasciarono
le terre, mandoronvi colonie, ridussongli in Roma, dissiparongli talmente che con l'armi e con il
consiglio non potevono più nuocere. Né usarono mai la via neutrale in quelli, come ho detto, di
momento. Questo giudizio debbono i principi imitare. A questo dovevano accostarsi i Fiorentini,
quando nel 1502 si ribellò Arezzo, e tutta la Val di Chiana: il che se avessono fatto, arebbero
assicurato lo imperio loro, e fatto grandissima la città di Firenze, e datogli quegli campi che per
vivere gli mancono. Ma loro usorono quella via del mezzo, la quale è dannosissima nel giudicare gli
uomini; e parte degli Aretini confinarono, parte ne condennarono; a tutti tolsono gli onori e gli loro
antichi gradi nella città; e lasciarono la città intera. E se alcuno cittadino nelle diliberazioni
consigliava che Arezzo si disfacesse; a quegli che pareva essere più savi, dicevano come e' sarebbe
poco onore della republica disfarla, perché e' parrebbe che Firenze mancasse di forze da tenerli. Le
quali ragioni sono di quelle che paiono e non sono vere; perché con questa medesima ragione non si
arebbe a ammazzare uno parricida, uno scelerato e scandoloso, sendo vergogna di quel principe
mostrare di non avere forze da potere frenare uno uomo solo. E non veggono, questi tali che hanno
simili opinioni, come gli uomini particularmente ed una città tutta insieme pecca tal volta contro a
uno stato, che, per esemplo agli altri, per sicurtà di sé, non ha altro rimedio uno principe che
spegnerla. E l'onore consiste nel potere e sapere gastigarla, non nel potere con mille pericoli tenerla:
perché quel principe che non gastiga chi erra, in modo che non possa più errare, è tenuto o
ignorante o vile. Questo giudizio che i Romani dettero, quanto sia necessario si conferma ancora
per la sentenza che dettero de' Privernati. Dove si debbe, per il testo di Livio, notare due cose: l'una,
quello che di sopra si dice, ch'e' sudditi si debbono o benificare o spegnere: l'altra, quanto la
generosità dell'animo, quanto il parlare il vero giovi, quando egli è detto nel conspetto di uomini
prudenti. Era ragunato il Senato romano per giudicare de' Privernati, i quali, sendosi ribellati, erano
di poi per forza ritornati sotto la ubbidienza romana. Erano mandati dal popolo di Priverno molti
cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed essendo venuti al conspetto di quello, fu detto a uno
di loro da uno de' Senatori, «quam poenam meritos Privernates censeret». Al quale il Privernate
rispose: «Eam, quam merentur qui se libertate dignos censent». Al quale il Consolo replicò: «Quid
si poenam remittimus vobis, qualem nos pacem vobiscum habituros speremus?». A che quello
rispose: «Si bonam dederitis, et fidelem et perpetuam, si malam, haud diuturnam». Donde la più
savia parte del Senato, ancora che molti se ne alterassono, disse: «se audivisse vocem et liberi et
viri; nec credi posse ullum populum, aut hominem, denique in ea conditione cuius eum poeniteat
diutius quam necesse sit, mansurum. Ibi pacem esse fidam, ubi voluntarii pacati sint, neque eo loco
ubi servitutem esse velint, fidem sperandam esse». Ed in su queste parole, deliberarono che i
Privernati fossero cittadini romani, e de' privilegi della civilità gli onorarono, dicendo: «eos demum
qui nihil praeterquam de libertate cogitant, dignos esse, qui Romani fiant». Tanto piacque agli animi
generosi questa vera e generosa risposta; perché ogni altra risposta sarebbe stata bugiarda e vile.
E coloro che credono degli uomini altrimenti, massime di quegli che sono usi o a essere o a parere
loro essere liberi, se ne ingannono; e sotto questo inganno pigliano partiti non buoni per sé, e da non
satisfare a loro. Di che nascano le spesse ribellioni, e le rovine degli stati. Ma per tornare al discorso
nostro, conchiudo, e per questo e per quel giudizio dato de' Latini: quando si ha a giudicare cittadi
potenti e che sono use a vivere libere, conviene o spegnerle o carezzarle; altrimenti, ogni giudizio è
vano. E debbesi fuggire al tutto la via del mezzo, la quale è dannosa, come la fu ai Sanniti quando
avevano rinchiusi i Romani alle Forche Gaudine; quando non vollero seguire il parere di quel
vecchio, che consigliò che i Romani si lasciassero andare onorati, o che si ammazzassero tutti; ma
pigliando una via di mezzo, disarmandogli e mettendogli sotto il giogo, gli lasciarono andare pieni
d'ignominia e di sdegno. Talché poco dipoi conobbono con loro danno la sentenza di quel vecchio
essere stata utile, e la loro diliberazione dannosa: come nel suo luogo più a pieno si discorrerà.
<B>24</B>
<B>Le fortezze generalmente </B>
<B>sono molto più dannose che utili. </B>
E' parrà forse a questi savi de' nostri tempi cosa non bene considerata, che i Romani, nel volere
assicurarsi de' popoli di Lazio e della città di Priverno, non pensassono di edificarvi qualche
fortezza, la quale fosse uno freno a tenergli in fede; sendo, massime, un detto in Firenze, allegato
da' nostri savi, che Pisa e l'altre simili città si debbono tenere con le fortezze. E veramente, se i
Romani fussono stati fatti come loro, egli arebbero pensato di edificarle; ma perché gli erano d'altra
virtù, d'altro giudizio, d'altra potenza, e' non le edificarono. E mentre che Roma visse libera, e che
la seguì gli ordini suoi e le sue virtuose constituzioni, mai n'edificò per tenere o città o provincie,
ma salvò bene alcuna delle edificate. Donde veduto il modo del procedere de' Romani in questa
parte, e quello de' principi de' nostri tempi, mi pare da mettere in considerazione, s'egli è bene
edificare fortezze, o se le fanno danno o utile a quello che l'edifica. Debbesi, adunque, considerare
come le fortezze si fanno o per difendersi dagl'inimici o per difendersi da' suggetti. Nel primo caso
le non sono necessarie; nel secondo, dannose. E cominciando a rendere ragione perché, nel secondo
caso, le siano dannose, dico che quel principe o quella republica che ha paura de' sudditi suoi e della
rebellione loro, prima conviene che tale paura nasca da odio che abbiano i suoi sudditi seco; l'odio,
da' mali suoi portamenti; i mali portamenti nascono o da potere credere tenergli con forza, o da
poca prudenza di chi gli governa: ed una delle cose che fa credere potergli forzare, è l'avere loro
addosso le fortezze; perché e' mali trattamenti, che sono cagione dell'odio, nascono in buona parte
per avere quel principe o quella republica le fortezze: le quali, quando sia vero questo, di gran lunga
sono più nocive che utili. Perché in prima, come è detto, le ti fanno essere più audace e più violento
ne' sudditi; dipoi, non vi è quella sicurtà, dentro, che tu ti persuadi: perché tutte le forze, tutte le
violenze che si usono per tenere uno popolo, sono nulla, eccetto che due; o che tu abbia sempre da
mettere in campagna uno buono esercito, come avevano i Romani, o che gli dissipi, spenga,
disordini e disgiunga, in modo che non possano convenire a offenderti. Perché, se tu gl'impoverisci,
«spoliatis arma supersunt»; se tu gli disarmi, «furor arma ministrat»; se tu ammazzi i capi, e gli altri
segui d' ingiuriare, rinascono i capi, come quelli della Idra, se tu fai le fortezze, le sono utili ne'
tempi di pace, perché ti dànno più animo a fare loro male ma ne' tempi di guerra sono inutilissime,
perché le sono assaltate dal nimico e da' sudditi, né è possibile che le faccino resistenza ed all'uno
ed all'altro. E se mai furono disutili, sono, ne' tempi nostri, rispetto alle artiglierie; per il furore delle
quali i luoghi piccoli e dove altri non si possa ritirare con gli ripari, è impossibile difendere, come
di sopra discorremo.
Io voglio questa materia disputarla più tritamente. O tu, principe, vuoi con queste fortezze tenere in
freno il popolo della tua città; o tu, principe, o republica, vuoi frenare una città occupata per guerra.
Io mi voglio voltare al principe, e gli dico: che tale fortezza, per tenere in freno i suoi cittadini, non
può essere più inutile per le cagioni dette di sopra; perché la ti fa più pronto e men rispettivo a
oppressargli; e quella oppressione gli fa sì disposti alla tua rovina, e gli accende in modo, che quella
fortezza, che ne è cagione, non ti può poi difendere. Tanto che un principe savio e buono, per
mantenersi buono, per non dare cagione né ardire a' figliuoli di diventare tristi, mai non farà
fortezza, acciocché quelli, non in su le fortezze, ma in su la benivolenza degli uomini si fondino. E
se il conte Francesco Sforza, diventato duca di Milano, fu riputato savio, e nondimeno fece in
Milano una fortezza, dico che in questo ei non fu savio, e lo effetto ha dimostro come tale fortezza
fu a danno, e non a sicurtà de' suoi eredi. Perché giudicando mediante quella vivere sicuri, e potere
offendere i cittadini e sudditi loro, non perdonarono a alcuna generazione di violenza; talché,
diventati sopra modo odiosi, perderono quello stato come prima il nimico gli assaltò: né quella
fortezza gli difese, né fece loro nella guerra utile alcuno, e nella pace aveva fatto loro danno assai.
Perché se non avessono avuto quella, e se per poca prudenza avessono agramente maneggiati i loro
cittadini, arebbono scoperto il pericolo più tosto, e sarebbonsene ritirati; e arebbono poi potuto più
animosamente resistere allo impeto francioso, co' sudditi amici sanza fortezza, che, con quelli
inimici, con la fortezza: le quali non ti giovano in alcuna parte; perché, o le si perdono per fraude di
chi le guarda, o per violenza di chi le assalta, o per fame. E se tu vuoi che le ti giovino, e ti aiutino
ricuperare uno stato perduto, dove ti sia rimasa solo la fortezza; ti conviene avere uno esercito, con
il quale tu possa assaltare colui che ti ha cacciato: e quando tu abbi questo esercito, tu riaresti lo
stato in ogni modo, eziandio la fortezza non vi fosse; e tanto più facilmente, quanto gli uomini ti
fossono più amici che non ti erano avendogli male trattati per l'orgoglio della fortezza. E per
isperienza si è visto, come questa fortezza di Milano, né agli Sforzeschi né a' Franciosi, ne' tempi
avversi dell'uno e dell'altro, non ha fatto a alcuno di loro utile alcuno, anzi a tutti ha arrecato danno
e rovine assai, non avendo pensato, mediante quella, a più onesto modo di tenere quello stato.
Guidubaldo duca di Urbino, figliuolo di Federigo, che fu ne' suoi tempi tanto stimato capitano,
sendo cacciato da Cesare Borgia, figliuolo di papa Alessandro VI, dello stato; come dipoi, per uno
accidente nato, vi ritornò, fece rovinare tutte le fortezze che erano in quella provincia, giudicandole
dannose. Perché, sendo quello amato dagli uomini, per rispetto di loro non le voleva; e, per conto
de' nimici, vedeva non le potere difendere, avendo quelle bisogno d'uno esercito in campagna, che
le difendesse: talché si volse a rovinarle. Papa Iulio, cacciati i Bentivogli di Bologna fece in quella
città una fortezza; e dipoi faceva assassinare quel popolo da uno suo governatore: talché quel
popolo si ribellò; e subito perdé la fortezza; e così non gli giovò la fortezza; e l'offese, intanto che,
portandosi altrimenti, gli arebbe giovato. Niccolò da Castello, padre de' Vitelli, tornato nella sua
patria donde era esule, subito disfece due fortezze vi aveva edificate papa Sisto IV, giudicando, non
la fortezza, ma la benivolenza del popolo lo avesse a tenere in quello stato. Ma di tutti gli altri
esempli il più fresco ed il più notabile in ogni parte ed atto a mostrare la inutilità dello edificarle e
l'utilità del disfarle, è quello di Genova, seguito ne' prossimi tempi. Ciascuno sa come, nel 1507,
Genova si ribellò da Luigi XII re di Francia, il quale venne personalmente e con tutte le forze sue a
riacquistarla; e ricuperata che la ebbe, fece una fortezza, fortissima di tutte le altre delle quali al
presente si avesse notizia: perché era, per sito e per ogni altra circunstanza, inespugnabile, posta in
su una punta di colle che si estende nel mare, chiamato da' Genovesi Codefà; e, per questo, batteva
tutto il porto e gran parte della città di Genova. Occorse poi, nel 1512, che, sendo cacciate le genti
franciose d'Italia, Genova, nonostante la fortezza, si ribellò, e prese lo stato di quella Ottaviano
Fregoso; il quale con ogni industria, in termine di sedici mesi, per fame la espugnò. E ciascuno
credeva, e da molti n'era consigliato, che la conservasse per suo refugio in ogni accidente; ma esso,
come prudentissimo, conoscendo che non le fortezze, ma la volontà degli uomini mantenevono i
principi in stato, la rovinò. E così, sanza fondare lo stato suo in su la fortezza, ma in su la virtù e
prudenza sua, lo ha tenuto e tiene. E dove a variare lo stato di Genova solevano bastare mille fanti,
gli avversari suoi lo hanno assaltato con diecimila, e non lo hanno potuto offendere. Vedesi
adunque per questo, come il disfare la fortezza non ha offeso Ottaviano, ed il farla non difese il re.
Perché, quando ei potette venire in Italia con lo esercito, ei potette ricuperare Genova, non vi
avendo fortezza; ma quando ei non potette venire in Italia con lo esercito, ei non potette tenere
Genova, avendovi la fortezza. Fu, adunque, di spesa a il re il farla, e vergognoso il perderla; a
Ottaviano, glorioso il riacquistarla, ed utile il rovinarla.
Ma vegnamo alle republiche che fanno le fortezze non nella patria, ma nelle terre che le acquistano.
Ed a mostrare questa fallacia, quando e' non bastasse lo esemplo detto, di Francia e di Genova,
voglio mi basti Firenze e Pisa: dove i Fiorentini fecero le fortezze per tenere quella città; e non
conobbero che una città stata sempre inimica del nome fiorentino, vissuta libera, e che ha alla
rebellione per rifugio la libertà, era necessario, volendola tenere, osservare il modo romano; o
farsela compagna, o disfarla. Perché la virtù delle fortezze si vide nella venuta del re Carlo; al quale
si dettono o per poca fede di chi le guardava o per timore di maggiore male: dove, se le non fussono
state, i Fiorentini non arebbero fondato il potere tenere Pisa sopra quelle, e quel re non arebbe
potuto per quella via privare i Fiorentini di quella città; e i modi con gli quali si fusse mantenuta
infino a quel tempo, sarebbono stati per avventura sufficienti conservarla, e sanza dubbio non
arebbero fatto più cattiva prova che le fortezze. Conchiudo adunque, che, per tenere la patria
propria, la fortezza è dannosa; per tenere le terre che si acquistono, le fortezze sono inutili: e voglio
mi basti l'autorità de' Romani, i quali, nelle terre che volevano tenere con violenza, smuravano, e
non muravano. E chi contro a questa opinione mi allegasse negli antichi tempi Taranto, e ne'
moderni Brescia, i quali luoghi mediante le fortezze furono recuperati dalla ribellione de' sudditi,
rispondo che alla ricuperazione di Taranto, in capo di uno anno, fu mandato Fabio Massimo con
tutto lo esercito, il quale sarebbe stato atto a ricuperarlo eziandio se non vi fusse stata la fortezza, e
se Fabio usò quella via, quando la non vi fusse stata, ne arebbe usata un'altra che arebbe fatto il
medesimo effetto. Ed io non so di che utilità sia una fortezza che, a renderti la terra, abbia bisogno,
per la ricuperazione d'essa, d'uno esercito consolare e d'uno Fabio Massimo per capitano. E che i
Romani l'avessono ripresa in ogni modo, si vede per l'esemplo di Capova; dove non era fortezza, e
per virtù dello esercito la riacquistarono. Ma vegnamo a Brescia. Dico, come rade volte occorre
quello che occorse in quella rebellione, che la fortezza che rimane nelle forze tua, sendo ribellata la
terra, abbi uno esercito grosso e propinquo, come era quel de' Franciosi: perché, sendo monsignor
di Fois, capitano del re, con lo esercito a Bologna, intesa la perdita di Brescia, sanza differire ne
andò a quella volta, ed in tre giorni arrivato a Brescia, per la fortezza riebbe la terra. Ebbe, pertanto,
ancora la fortezza di Brescia, a volere che la giovasse, bisogno d'un monsignor di Fois, e d'uno
esercito francioso che in tre dì la soccorresse. Sì che lo esemplo di questo, allo incontro delli
esempli contrari, non basta; perché assai fortezze sono state, nelle guerre de' nostri tempi, prese e
riprese con la medesima fortuna che si è ripresa e presa la campagna, non solamente in Lombardia,
ma in Romagna, nel regno di Napoli, e per tutte le parti d'Italia. Ma, quanto allo edificare fortezze
per difendersi da' nimici di fuori, dico che le non sono necessarie a quelli popoli ed a quelli regni
che hanno buoni eserciti; ed a quegli che non hanno buoni eserciti, sono inutili: perché i buoni
eserciti sanza le fortezze sono sofficienti a difendersi; le fortezze sanza i buoni eserciti non ti
possono difendere. E questo si vede per isperienza di quegli che sono stati e ne' governi e nell'altre
cose tenuti eccellenti; come si vede de' Romani e degli Spartani: che, se i Romani non edificavano
fortezze, gli Spartani, non solamente si astenevano da quelle, ma non permettevano di avere mura
alle loro città; perché volevono che la virtù dell'uomo particulare, non altro defensivo, gli
difendesse. Dond'è che, sendo domandato uno Spartano da uno Ateniese, se le mura di Atene gli
parevano belle, gli rispose: - Sì, s'elle fussono abitate da donne -. Quello principe, adunque, che
abbi buoni eserciti, quando in sulle marine e alla fronte dello stato suo abbia qualche fortezza che
possa qualche dì sostenere el nimico infino che sia a ordine, sarebbe cosa utile, qualche volta, ma
non è necessaria. Ma quando il principe non ha buono esercito, avere le fortezze per il suo stato, o
alle frontiere, gli sono o dannose o inutili: dannose, perché facilmente le perde, e perdute gli fanno
guerra; o, se pure le fussono sì forti che il nimico non le potessi occupare, sono lasciate indietro
dallo esercito inimico, e vengono a essere di nessuno frutto; perché i buoni eserciti, quando non
hanno gagliardissimo riscontro, entrano ne' paesi inimici sanza rispetto di città o di fortezze che si
lascino indietro; come si vede nelle antiche istorie, e come si vede fece Francesco Maria, il quale,
ne' prossimi tempi, per assaltare Urbino si lasciò indietro dieci città inimiche, sanza alcuno rispetto.
Quel principe, adunque, che può fare buono esercito, può fare sanza edificare fortezze; quello che
non ha lo esercito buono, non debbe edificarle. Debbe bene afforzare la città dove abita, e tenerla
munita, e bene disposti i cittadini di quella, per potere sostenere tanto uno impeto inimico, o che
accordo o che aiuto esterno lo liberi. Tutti gli altri disegni sono di spesa ne' tempi di pace, ed inutili
ne' tempi di guerra. E così, chi considererà tutto quello ho detto, conoscerà i Romani, come savi in
ogni altro loro ordine, così furono prudenti in questo giudizio de' Latini e de' Privernati; dove, non
pensando a fortezze, con più virtuosi modi e più savi se ne assicurarono.
<B>25</B>
<B>Che lo assaltare una città disunita, </B>
<B>per occuparla mediante la sua disunione, </B>
<B>è partito contrario. </B>
Era tanta disunione nella Republica romana intra la Plebe e la Nobilità, che i Veienti, insieme con
gli Etrusci, mediante tale disunione, pensarono potere estinguere il nome romano. Ed avendo fatto
esercito, e corso sopra i campi di Roma, mandò il Senato, loro contro, Gaio Manilio e Marco Fabio;
i quali avendo condotto il loro esercito propinquo allo esercito de' Veienti, non cessavano i Veienti,
e con assalti e con obbrobri, offendere e vituperare il nome romano: e fu tanta la loro temerità ed
insolenzia, che i Romani, di disuniti diventarono uniti; e venendo alla zuffa, gli ruppano e vinsono.
Vedesi pertanto, quanto gli uomini s'ingannano, come di sopra discorremo, nel pigliare de' partiti; e
come molte volte credono guadagnare una cosa, e la perdono. Credettono i Veienti, assaltando i
Romani disuniti, vincergli; e quello assalto fu cagione della unione di quegli, e della rovina loro.
Perché la cagione della disunione delle republiche il più delle volte è l'ozio e la pace; la cagione
della unione è la paura e la guerra. E però, se i Veienti fussono stati savi, eglino arebbero, quanto
più disunita vedevon Roma, tanto più tenuta da loro la guerra discosto, e con l'arti della pace cerco
di oppressargli. Il modo è cercare di diventare confidente di quella città che è disunita; ed infino che
non vengono all'armi, come arbitro maneggiarsi intra le parti. Venendo alle armi, dare lenti favori
alla parte più debole; sì per tenergli più in su la guerra, e fargli consumare; sì perché le assai forze
non gli facessero dubitare tutti, che tu volessi opprimergli e diventare loro principe. E quando
questa parte è governata bene, interverrà, quasi sempre, che l'arà quel fine che tu ti hai presupposto.
La città di Pistoia, come in altro discorso ed a altro proposito dissi, non venne sotto alla Republica
di Firenze con altra arte che con questa: perché sendo quella divisa, e favorendo i Fiorentini ora
l'una parte ora l'altra, sanza carico dell'una e dell'altra la condussono in termine, che, stracca in quel
suo vivere tumultuoso, venne spontaneamente a gittarsi in le braccia di Firenze. La città di Siena
non ha mai mutato stato, col favore de' Fiorentini, se non quando i favori sono stati deboli e pochi.
Perché, quando ei sono stati assai e gagliardi, hanno fatto quella città unita alla difesa di quello stato
che regge. Io voglio aggiugnere ai soprascritti uno altro esemplo. Filippo Visconti, duca di Milano,
più volte mosse guerra a' Fiorentini, fondatosi sopra le disunioni loro, e sempre ne rimase perdente;
talché gli ebbe a dire, dolendosi delle sue imprese, come le pazzie de' Fiorentini gli avevano fatto
spendere inutilmente due milioni d'oro. Restarono adunque, come di sopra si dice, ingannati i
Veienti e gli Toscani da questa opinione, e furano alfine in una giornata superati da' Romani. E così
per lo avvenire ne resterà ingannato qualunque per simile via e per simile cagione crederrà
oppressare uno popolo.
<B>26</B>
<B>Il vilipendio e l'improperio genera odio </B>
<B>contro a coloro che l'usano, </B>
<B>sanza alcuna loro utilità. </B>
Io credo che sia una delle grandi prudenze che usono gli uomini, astenersi o dal minacciare o dallo
ingiuriare alcuno con le parole: perché l'una cosa e l'altra non tolgono forze al nimico; ma l'una lo fa
più cauto, l'altra gli fa avere maggiore odio contro di te, e pensare con maggiore industria di
offenderti. Vedesi questo per lo esemplo de' Veienti, de' quali nel capitolo superiore si è discorso; i
quali alla ingiuria della guerra, aggiunsono, contro a' Romani, l'obbrobrio delle parole; dal quale
ogni capitano prudente debbe fare astenere i suoi soldati; perché le sono cose che infiammano ed
accendano il nimico alla vendetta, ed in nessuna parte lo impediscono, come è detto, alla offesa;
tanto che le sono tutte armi che vengono contro a te. Di che ne seguì già uno esemplo notabile in
Asia: dove Gabade, capitano de' Persi, essendo stato a campo a Amida più tempo, ed avendo
deliberato, stracco dal tedio della ossidione, partirsi; levandosi già con il campo, quegli della terra,
venuti tutti in su le mura, insuperbiti della vittoria, non perdonarono a nessuna qualità d'ingiuria,
vituperando, accusando, e rimproverando la viltà e la poltroneria del nimico. Da che Gabade
irritato, mutò consiglio; e ritornato alla ossidione tanta fu la indegnazione della ingiuria, che in
pochi giorni gli prese e saccheggiò. E questo medesimo intervenne a' Veienti: a' quali, come è detto,
non bastando il fare guerra a' Romani, ancora con le parole gli vituperarono, ed andando infino in
su lo steccato del campo a dire loro ingiuria, gl'irritarono molto più con le parole che con le armi: e
quegli soldati che prima combattevano mal volentieri, costrinsero i Consoli a appiccare la zuffa,
talché i Veienti portarono la pena, come gli antedetti, della contumacia loro. Hanno dunque i buoni
principi di eserciti, ed i buoni governatori di republica, a fare ogni opportuno rimedio, che queste
ingiurie e rimproveri non si usino o nella città o nello esercito suo, né infra loro, né contro al
nimico: perché, usati contro al nimico, ne riescono gl'inconvenienti soprascritti; infra loro,
farebbero peggio, non vi si riparando, come vi hanno sempre gli uomini prudenti riparato. Avendo
le legioni romane, state lasciate a Capova, congiurato contro a' Capovani, come nel suo luogo si
narrerà; ed essendone di questa congiura nata una sedizione, la quale fu poi da Valerio Corvino
quietata, intra le altre constituzioni che nella convenzione si fece ordinarono pene gravissime a
coloro che rimproverassero mai a alcuni di quegli soldati tale sedizione. Tiberio Gracco, fatto, nella
guerra di Annibale, capitano sopra certo numero di servi che i Romani, per carestia d'uomini,
avevano armati, ordinò, intra le prime cose, pena capitale a qualunque rimproverasse la servitù a
alcuno di loro. Tanto fu stimato dai Romani, come di sopra si è detto, cosa dannosa il vilipendere
gli uomini ed il rimproverare loro alcuna vergogna; perché non è cosa che accenda tanto gli animi
loro, né generi maggiore isdegno, o da vero o da beffe che si dica: «Nam facetiae asperae, quando
nimium ex vero traxere, acrem sui memoriam relinquunt».
<B>27</B>
<B>Ai principi e republiche prudenti </B>
<B>debbe bastare vincere; </B>
<B>perché, il più delle volte, </B>
<B>quando e' non basta, si perde. </B>
Lo usare parole contro al nimico poco onorevoli, nasce il più delle volte da una insolenzia che ti dà
o la vittoria o la falsa speranza della vittoria; la quale falsa speranza fa gli uomini non solamente
errare nel dire, ma ancora nello operare. Perché questa speranza, quando la entra ne' petti degli
uomini, fa loro passare il segno; e perdere, il più delle volte, quella occasione dell'avere uno bene
certo, sperando di avere un meglio incerto. E perché questo è un termine che merita considerazione,
ingannandocisi dentro gli uomini molto spesso, e con danno dello stato loro, e' mi pare da
dimostrarlo particularmente con esempli antichi e moderni, non si potendo con le ragioni così
distintamente dimostrare. Annibale, poi ch'egli ebbe rotti i Romani a Canne, mandò suoi oratori a
Cartagine a significare la vittoria, e chiedere sussidi. Disputossi in Senato di quello che si avesse a
fare. Consigliava Annone, uno vecchio e prudente cittadino cartaginese, che si usasse questa vittoria
saviamente in fare pace con i Romani, potendola avere con condizioni oneste, avendo vinto; e non
si aspettasse di averla a fare dopo la perdita: perché la intenzione de' Cartaginesi doveva essere,
mostrare a' Romani come e' bastavano a combatterli; ed avendosene avuto vittoria, non si cercasse
di perderla per la speranza d'una maggiore. Non fu preso questo partito; ma fu bene poi, dal Senato
cartaginese, conosciuto savio, quando la occasione fu perduta. Avendo Alessandro Magno già preso
tutto l'oriente, la republica di Tiro, nobile in quelli tempi, e potente per avere la loro città in acqua
come i Viniziani, veduta la grandezza di Alessandro, gli mandarono oratori a dirli, come volevano
essere suoi buoni servidori e darli quella ubbidienza voleva, ma che non erano già per accettare né
lui né sue genti nella terra; donde sdegnato Alessandro, che una città gli volesse chiudere quelle
porte che tutto il mondo gli aveva aperte, gli ributtò, e, non accettate le condizioni loro vi andò a
campo. Era la terra in acqua, e benissimo, di vettovaglie e di altre munizioni necessarie alla difesa,
munita: tanto che Alessandro, dopo quattro mesi, si avvide che una città gli toglieva quel tempo alla
sua gloria che non gli avevano tolto molti altri acquisti; e diliberò di tentare lo accordo, e concedere
loro quello che per loro medesimi avevano domandato. Ma quegli di Tiro, insuperbiti, non
solamente non vollero accettare lo accordo, ma ammazzarono chi venne a praticarlo. Di che
Alessandro sdegnato, con tanta forza si misse alla ispugnazione, che la prese, disfece, ed ammazzò
e fece schiavi gli uomini.
Venne, nel 1512, uno esercito spagnuolo in sul dominio fiorentino per rimettere i Medici in Firenze,
e taglieggiare la città, condotti da cittadini d'entro, i quali avevano dato loro speranza, che, subito
fussono in sul dominio fiorentino, piglierebbero l'armi in loro favore; ed essendo entrati nel piano, e
non si scoprendo alcuno, ed avendo carestia di vettovaglie, tentarono l'accordo: di che insuperbito il
popolo di Firenze, non lo accettò: donde ne nacque la perdita di Prato, e la rovina di quello stato.
Non possono, pertanto, i principi, che sono assaltati, fare il maggiore errore, quando lo assalto è
fatto da uomini di gran lunga più potenti di loro, che recusare ogni accordo, massime quando egli è
offerto: perché non sarà mai offerto sì basso, che non vi sia dentro in qualche parte il bene essere di
colui che lo accetta, e vi sarà parte della sua vittoria. Perché e' doveva bastare al popolo di Tiro, che
Alessandro accettasse quelle condizioni ch'egli aveva prima rifiutate ed era assai vittoria la loro,
quando con l'arme in mano avevano fatto condiscendere uno tanto uomo alla voglia loro. Doveva
bastare ancora al popolo fiorentino, che gli era assai vittoria, se lo esercito spagnuolo cedeva a
qualcuna delle voglie di quello e le sue non adempiva tutte: perché la intenzione di quello esercito
era mutare lo stato in Firenze, levarlo dalla divozione di Francia, e trarre da lui danari. Quando di
tre cose e' ne avesse avute due, che son l'ultime, ed al popolo ne fusse restata una, che era la
conservazione dello stato suo, ci aveva dentro ciascuno qualche onore e qualche satisfazione: né si
doveva il popolo curare delle due cose, rimanendo vivo; né doveva volere, quando bene egli avesse
veduta maggiore vittoria, e quasi certa, mettere quella in alcuna parte a discrezione della fortuna,
andandone l'ultima posta sua: la quale qualunque prudente mai arrischierà se non necessitato.
Annibale, partito d'Italia, dove era stato sedici anni glorioso, richiamato da' suoi Cartaginesi a
soccorrere la patria, trovò rotto Asdrubale e Siface; trovò perduto il regno di Numidia e ristretta
Cartagine intra i termini delle sue mura, alla quale non restava altro refugio che esso e lo esercito
suo. Conoscendo come quella era l'ultima posta della sua patria, non volle prima metterla a rischio,
ch'egli ebbe tentato ogni altro rimedio; e non si vergognò di domandare la pace, giudicando, se
alcuno rimedio aveva la sua patria, era in quella e non nella guerra: la quale sendogli poi negata,
non volle mancare, dovendo perdere, di combattere; giudicando potere pur vincere, o, perdendo,
perdere gloriosamente. E se Annibale, il quale era tanto virtuoso ed aveva il suo esercito intero,
cercò prima la pace che la zuffa, quando ei vidde che, perdendo quella, la sua patria diveniva serva,
che debbe fare un altro di manco virtù e di manco isperienza di lui? Ma gli uomini fanno questo
errore, che non sanno porre termini alle speranze loro; ed in su quelle fondandosi, sanza misurarsi
altrimenti, rovinano.
<B>28</B>
<B>Quanto sia pericoloso a una republica </B>
<B>o a uno principe </B>
<B>non vendicare una ingiuria </B>
<B>fatta contro al publico o contro </B>
<B>al privato. </B>
Quello che facciano fare gli sdegni agli uomini, facilmente si conosce per quello che avvenne ai
Romani quando ei mandarono i tre Fabii oratori a' Franciosi, che erano venuti a assaltare la
Toscana, ed in particulare Chiusi. Perché, avendo mandato il popolo di Chiusi per aiuto a Roma
contro a' Franciosi, i Romani mandarono ambasciadori a' Franciosi, i quali, in nome del Popolo
romano, significassero loro che si astenessero di fare guerra a' Toscani. I quali oratori, sendo in su 'l
luogo, e più atti a fare che a dire, venendo i Franciosi ed i Toscani alla zuffa, si messero in tra i
primi a combattere contro a quelli: onde ne nacque che, essendo conosciuti da loro, tutto lo sdegno
avevano contro a' Toscani, volsero contro a' Romani. Il quale sdegno diventò maggiore, perché,
avendo i Franciosi per loro ambasciadori fatto querela con il Senato romano di tale ingiuria, e
domandato che in soddisfazione del danno fussino loro dati i soprascritti Fabii, non solamente non
furono consegnati loro, o in altro modo gastigati, ma venendo i comizi, furono fatti Tribuni con
potestà consolare. Talché, veggendo i Franciosi quelli onorati che dovevano essere puniti, ripresono
tutto essere fatto in loro dispregio e ignominia; ed accesi di sdegno e d'ira, vennero a assaltare
Roma, e quella presono, eccetto il Campidoglio. La quale rovina nacque ai Romani solo per la
inosservanza della giustizia; perché, avendo peccato i loro ambasciatori «contra ius gentium», e
dovendo esserne gastigati, furono onorati. Però è da considerare quanto ogni republica ed ogni
principe debbe tenere conto di fare simile ingiuria, non solamente contro a una universalità, ma
ancora contro a uno particulare. Perché, se uno uomo è offeso grandemente o dal publico o dal
privato e non sia vendicato secondo la soddisfazione sua; se e' vive in una republica, cerca, ancora
che con la rovina di quella, vendicarsi; se e' vive sotto un principe, ed abbi in sé alcuna generosità,
non si acquieta mai, in fino che in qualunque modo si vendichi contro a di colui, come che egli vi
vedesse, dentro, il suo proprio male.
Per verificare questo, non ci è il più bello né il più vero esemplo che quello di Filippo re di
Macedonia, padre d'Alessandro. Aveva costui in la sua corte Pausania, giovane bello e nobile, del
quale era inamorato Attalo, uno de' primi uomini che fusse presso a Filippo ed avendolo più volte
ricerco che dovesse acconsentirgli, e trovandolo alieno da simili cose, diliberò di avere con inganno
e per forza quello che, per altro verso, vedea di non potere avere. E fatto uno solenne convito, nel
quale Pausania e molti altri nobili baroni convennero, fece, poi che ciascuno fu pieno di vivande e
di vino, prendere Pausania, e, condottolo allo stretto, non solamente per forza sfogò la sua libidine,
ma ancora, per maggiore ignominia, lo fece da molti degli altri in simile modo vituperare. Della
quale ingiuria Pausania si dolse più volte con Filippo; il quale, avendolo tenuto un tempo in
speranza di vendicarlo, non solamente non lo vendicò, ma prepose Attalo al governo d'una
provincia di Grecia: donde che Pausania, vedendo il suo nimico onorato e non gastigato, volse tutto
lo sdegno suo, non contro a quello che gli aveva fatto ingiuria, ma contro a Filippo che non lo aveva
vendicato. Ed una mattina solenne, in su le nozze della figliuola di Filippo, ch'egli aveva maritata a
Alessandro di Epiro, andando Filippo al tempio, a celebrarle, in mezzo de' due Alessandri, genero e
figliuolo, lo ammazzò. Il quale esemplo è molto simile a quello de' Romani, e notabile a qualunque
governa: che mai non debbe tanto poco stimare un uomo, che ei creda, aggiugnendo ingiuria sopra
ingiuria, che colui che è ingiuriato non pensi di vendicarsi con ogni suo pericolo e particulare
danno.
<B>29</B>
<B>La fortuna acceca gli animi degli uomini, </B>
<B>quando la non vuole </B>
<B>che quegli si opponghino a' disegni suoi. </B>
Se e' si considererà bene come procedono le cose umane, si vedrà molte volte nascere cose e venire
accidenti, a' quali i cieli al tutto non hanno voluto che si provvegga. E quando, questo che io dico,
intervenne a Roma, dove era tanta virtù, tanta religione e tanto ordine, non è maraviglia che gli
intervenga molto più spesso in una città o in una provincia che manchi delle cose sopradette. E
perché questo luogo è notabile assai, a dimostrare la potenza del cielo sopra le cose umane, Tito
Livio largamente e con parole efficacissime lo dimostra: dicendo come, volendo il cielo a qualche
fine, che i Romani conoscessono la potenza sua, fece prima errare quegli Fabii che andarono oratori
a' Franciosi, e, mediante l'opera loro, gli concitò a fare guerra a Roma; dipoi ordinò, che, per
reprimere quella guerra, non si facesse in Roma alcuna cosa degna del Popolo romano; avendo
prima ordinato che Cammillo, il quale poteva essere solo unico remedio a tanto male, fusse
mandato in esilio a Ardea; dipoi, venendo i Franciosi verso Roma, coloro che, per rimediare allo
impeto de' Volsci ed altri finitimi loro inimici, avevano creato molte volte uno Dittatore, venendo i
Franciosi, non lo crearono. Ancora nel fare la elezione de' soldati, la fecioro debole e sanza alcuna
istraordinaria diligenza; e furono tanto pigri al pigliare l'arme, che a fatica furono a tempo a
scontrare i Franciosi sopra il fiume di Allia, discosto a Roma dieci miglia. Quivi i Tribuni posero il
loro campo, sanza alcuna consueta diligenza; non prevedendo il luogo prima, e non si circundando
con fossa e con isteccato, non usando alcuno rimedio umano e divino; e nello ordinare la zuffa,
fecero gli ordini radi e deboli: in modo che né i soldati né i capitani fecero cosa degna della romana
disciplina. Combattessi poi sanza alcuno sangue; perché ei fuggirono prima che fussono assaltati, e
la maggior parte se n'andò a Veio, l'altra si ritirò a Roma; i quali, sanza entrare altrimenti nelle case
loro, se ne entrarono in Campidoglio: in modo che il Senato, sanza pensare di difendere Roma, non
chiuse, non che altro, le porte; e parte se ne fuggì, parte con gli altri se ne entrarono in
Campidoglio. Pure, nel difendere quello, usarono qualche ordine non tumultuario; perché ei non
aggravarono quello di gente inutile; messonvi tutti i frumenti che poterono, acciocché potessono
sopportare l'ossidione; e della turba inutile de' vecchi, delle donne e de' fanciugli, la maggior parte
se ne fuggì nelle terre circunvicine, il rimanente restò in Roma in preda de' Franciosi. Talché, chi
avesse letto le cose fatte da quel popolo tanti anni innanzi, e leggessi dipoi quelli tempi, non
potrebbe a nessuno modo credere che fusse stato uno medesimo popolo. E detto che Tito Livio ha
tutti e' sopradetti disordini, conchiude dicendo: «Adeo obcaecat animos fortuna, cum vim suam
ingruentem refringi non vult». Né può più essere vera questa conclusione: onde gli uomini che
vivono ordinariamente nelle grandi avversità o prosperità, meritano manco laude o manco biasimo.
Perché il più delle volte si vedrà quelli a una rovina ed a una grandezza essere stati convinti da una
commodità grande che gli hanno fatto i cieli, dandogli occasione, o togliendogli, di potere operare
virtuosamente.
Fa bene la fortuna questo, che la elegge uno uomo, quando la voglia condurre cose grandi, che sia
di tanto spirito e di tanta virtù, che ei conosca quelle occasioni che la gli porge. Così
medesimamente, quando la voglia condurre grandi rovine, ella vi prepone uomini che aiutino quella
rovina. E se alcuno fusse che vi potesse ostare, o la lo ammazza o la lo priva di tutte le facultà da
potere operare alcuno bene. Conoscesi questo benissimo per questo testo, come la fortuna, per fare
maggiore Roma, e condurla a quella grandezza venne, giudicò fussi necessario batterla (come a
lungo nel principio del seguente libro discorrereno), ma non volle già in tutto rovinarla. E per
questo si vede che la fece esulare, e non morire, Cammillo; fece pigliare Roma, e non il
Campidoglio; ordinò che i Romani, per riparare Roma, non pensassono alcuna cosa buona; per
difendere poi il Campidoglio, non mancarono di alcuno buono ordine. Fece, perché Roma fusse
presa, che la maggior parte de' soldati che furono rotti a Allia, se ne andorono a Veio; e così, per la
difesa della città di Roma, tagliò tutte le vie. E nell'ordinare questo, preparò ogni cosa alla sua
ricuperazione; avendo condotto uno esercito romano intero a Veio, e Cammillo a Ardea, da potere
fare grossa testa, sotto uno capitano non maculato d'alcuna ignominia per la perdita, ed intero nella
sua riputazione per la recuperazione della patria sua.
Sarebbeci da addurre in confermazione delle cose dette qualche esemplo moderno; ma, per non gli
giudicare necessari, potendo questo a qualunque satisfare, gli lascereno indietro. Affermo, bene, di
nuovo,questo essere verissimo, secondo che per tutte le istorie si vede, che gli uomini possono
secondare la fortuna e non opporsegli; possono tessere gli orditi suoi, e non rompergli. Debbono,
bene, non si abbandonare mai; perché, non sappiendo il fine suo, e andando quella per vie traverse
ed incognite, hanno sempre a sperare, e sperando non si abbandonare, in qualunque fortuna ed in
qualunque travaglio si truovino.
<B>30</B>
<B>Le republiche </B>
<B>e gli principi veramente potenti </B>
<B>non comperono l'amicizie con danari, </B>
<B>ma con la virtù e con la riputazione </B>
<B>delle forze. </B>
Erano i Romani assediati nel Campidoglio, e ancora ch'eglino aspettassono il soccorso da Veio e da
Cammillo, sendo cacciati dalla fame, vennono a composizione con i Franciosi di ricomperarsi certa
quantità d'oro; e sopra tale convenzione pesandosi di già l'oro, sopravvenne Cammillo con lo
esercito suo: il che fece, dice lo istorico, la fortuna, «ut Romani auro redempti non viverent». La
quale cosa non solamente è notabile in questa parte, ma etiam nel processo delle azioni di questa
Republica; dove si vede che mai acquistarono terre con danari, mai feciono pace con danari, ma
sempre con la virtù dell'armi: il che non credo sia mai intervenuto a alcuna altra republica. Ed intra
gli altri segni per gli quali si conosce la potenza d'uno stato forte, è vedere come egli vive con gli
vicini suoi. E quando ei si governa in modo che i vicini, per averlo amico, sieno suoi pensionari,
allora è certo segno che quello stato è potente: ma quando detti vicini, ancora che inferiori a lui,
traggono da quello danari, allora è segno grande della debolezza di quello.
Legghinsi tutte le istorie romane, e vedrete come i Massiliensi, gli Edui, i Rodiani, Ierone
siracusano, Eumene e Massinissa regi, i quali tutti erano vicini ai confini dello imperio romano, per
avere l'amicizia di quello concorrevono a spese ed a tributi ne' bisogni d'esso, non cercando da lui
altro premio che lo essere difesi. Al contrario si vedrà negli stati deboli: e cominciandoci dal nostro
di Firenze, ne' tempi passati, nella sua maggiore riputazione, non era signorotto in Romagna che
non avessi da quello provvisione; e di più la dava a' Perugini, a' Castellani, e a tutti gli altri suoi
vicini. Che se questa città fusse stata armata e gagliarda, sarebbe tutto ito per il contrario; perché
molti, per avere la protezione di essa, arebbono dato danari a lei; e cerco, non di vendere la loro
amicizia, ma di comperare la sua. Né sono in questa viltà vissuti soli i Fiorentini, ma i Viniziani, ed
il re di Francia, il quale, con un tanto regno, vive tributario di Svizzeri, e del re d'Inghilterra. Il che
tutto nasce dallo avere disarmati i popoli suoi, ed avere più tosto voluto, quel re e gli altri
prenominati, godersi un presente utile, di potere saccheggiare i popoli, e fuggire uno immaginato
più tosto che vero pericolo, che fare cose che gli assicurino, e faccino i loro stati felici in perpetuo.
Il quale disordine, se partorisce qualche tempo qualche quiete, è cagione col tempo di necessità, di
danni e rovine irrimediabili. E sarebbe lungo raccontare quante volte i Fiorentini, Viniziani, e
questo regno, si sono ricomperati in su le guerre, e quante volte ei si sono sottomessi a una
ignominia; a che i Romani una sola volta furono per sottomettersi. Sarebbe lungo raccontare quante
terre i Fiorentini ed i Viniziani hanno comperate: di che si è veduto poi il disordine, e come le cose
che si acquistano con l'oro, non si sanno difendere con il ferro. Osservarono i Romani questa
generosità e questo modo di vivere, mentre che ei vissono liberi; ma poi che gli entrarono sotto
gl'imperadori, e che gl'imperadori cominciarono a essere cattivi, ed amare più l'ombra che il sole,
cominciarono ancora essi a ricomperarsi, ora dai Parti, ora dai Germani, ora da altri popoli
convicini: il che fu principio della rovina di tanto Imperio.
Procedono, pertanto, simili inconvenienti dallo avere disarmati i tuoi popoli: di che ne risulta uno
altro, maggiore, che quanto il nimico più ti si appressa, tanto ti truova più debole. Perché chi vive
ne' modi detti di sopra, tratta male quelli sudditi che sono dentro allo imperio suo, e bene quegli che
sono in su i confini dello imperio suo, per avere uomini ben disposti a tenere il nimico discosto. Da
questo nasce che, per tenerlo più discosto, ei dà provvisione a quelli signori e popoli che sono
propinqui ai confini suoi. Donde nasce che questi stati così fatti fanno un poco di resistenza in sui
confini, ma, come il nimico gli ha passati, ei non hanno rimedio alcuno. E non si avveggono, come
questo modo del loro procedere è contro a ogni buono ordine. Perché il cuore e le parti vitali d'uno
corpo si hanno a tenere armate, e non le estremità d'esso; perché sanza quelle si vive, e, offeso
questo, si muore: e questi stati tengono il cuore disarmato, e le mani e li piedi armati.
Quello che abbia fatto questo disordine a Firenze, si è veduto, e vedesi ogni dì: e come uno esercito
passa i confini, e che gli entra dentro propinquo al cuore, non truova più alcuno rimedio. De'
Viniziani si vide, pochi anni sono, la medesima pruova; e se la loro città non era fasciata dalle
acque, se ne sarebbe veduto il fine. Questa isperienza non si è vista sì spesso in Francia, per essere
quello sì gran regno, ch'egli ha pochi inimici superiori: nondimanco, quando gli Inghilesi, nel 1513,
assaltarono quel regno, tremò tutta quella provincia: ed il re medesimo, e ciascuno altro, giudicava
che una rotta sola gli potessi tôrre il regno e lo stato. Ai Romani interveniva il contrario; perché,
quanto più il nimico s'appressava a Roma, tanto più trovava potente quella città a resistergli. E si
vide nella venuta d'Annibale in Italia, che, dopo tre rotte e dopo tante morti di capitani e di soldati,
ei poterono, non solo sostenere il nimico, ma vincere la guerra. Tutto nacque dallo avere bene
armato il cuore, e delle estremità tenere meno conto. Perché il fondamento dello stato suo era il
popolo di Roma, il nome latino, le altre terre compagne in Italia, e le loro colonie; donde ei
traevano tanti soldati, che furono sufficienti con quegli a combattere e tenere il mondo. E che sia
vero, si vede per la domanda che fece Annone cartaginese a quelli oratori d'Annibale dopo la rotta
di Canne, i quali avendo magnificato le cose fatte da Annibale, furono domandati da Annone, se del
popolo romano alcuno era venuto a domandare pace, e se del nome latino e delle colonie alcuna
terra si era ribellata dai Romani; e negando quegli l'una e l'altra cosa, replicò Annone: - Questa
guerra è ancora intera come prima -.
Vedesi, pertanto, e per questo discorso, e per quello che più volte abbiamo altrove detto, quanta
diversità sia, dal modo del procedere delle republiche presenti, a quello delle antiche. Vedesi
ancora, per questo, ogni dì, miracolose perdite e miracolosi acquisti. Perché, dove gli uomini hanno
poca virtù, la fortuna mostra assai la potenza sua; e, perché la è varia, variano le republiche e gli
stati spesso; e varieranno sempre, infino che non surga qualcuno che sia della antichità tanto
amatore, che la regoli in modo, che la non abbia cagione di mostrare, a ogni girare di sole, quanto
ella puote.
<B>31</B>
<B>Quanto sia pericoloso credere </B>
<B>agli sbanditi. </B>
E' non mi pare fuori di proposito ragionare, intra questi altri discorsi, quanto sia cosa pericolosa
credere a quelli che sono cacciati della patria sua, essendo cose che ciascuno dì si hanno a praticare
da coloro che tengono stati; potendo, massime, dimostrare questo con uno memorabile esemplo
addotto da Tito Livio nelle sue istorie, ancora che sia fuora del presupposto suo. Quando
Alessandro Magno passò con lo esercito suo in Asia, Alessandro di Epiro, cognato e zio di quello,
venne con gente in Italia, chiamato dagli sbanditi Lucani, i quali gli dettono speranza che potrebbe,
mediante loro, occupare tutta quella provincia. Donde che quello, sotto la fede e speranza loro
venuto in Italia fu morto da quelli, sendo loro promessa la ritornata nella patria dai loro cittadini, se
lo ammazzavano. Debbesi considerare, pertanto, quanto sia vana e la fede e le promesse di quelli
che si truovano privi della loro patria. Perché, quanto alla fede, si ha a estimare che, qualunque
volta e' possano per altri mezzi che per gli tuoi rientrare nella patria loro, che lasceranno te ed
accosterannosi a altri, nonostante qualunque promesse ti avessono fatte. E quanto alle vane
promesse e speranze, egli è tanta la voglia estrema che è in loro di ritornare in casa, che ei credono
naturalmente molte cose che sono false e molte a arte ne aggiungano: talché, tra quello che ei
credono e quello che ei dicono di credere, ti riempiono di speranza talmente che, fondatoti in su
quella, o tu fai una spesa in vano o tu fai una impresa dove tu rovini.
Io voglio per esemplo mi basti Alessandro predetto, e di più Temistocle ateniese; il quale, essendo
fatto ribello, se ne fuggì in Asia a Dario; dove gli promisse tanto, quando ei volessi assaltare la
Grecia, che Dario si volse alla impresa. Le quali promesse non gli potendo poi Temistocle
osservare, o per vergogna o per tema di supplizio, avvelenò sé stesso. E se questo errore fu fatto da
Temistocle, uomo eccellentissimo, si debbe stimare che tanto più vi errino coloro che, per minore
virtù, si lasceranno più tirare dalla voglia e dalla passione loro. Debbe, adunque, uno principe
andare adagio a pigliare imprese sopra la relazione d'uno confinato, perché il più delle volte se ne
resta o con vergogna o con danno gravissimo. E perché ancora rade volte riesce il pigliare le terre di
furto, e per intelligenzia che altri avesse in quelle, non mi pare fuora di proposito discorrerne nel
sequente capitolo; aggiugnendovi con quanti modi i Romani le acquistavano.
<B>32</B>
<I>In quanti modi i Romani
occupavano le terre.</I>
Essendo i Romani tutti volti alla guerra, fecero sempremai quella con ogni vantaggio, e quanto alla
spesa, e quanto a ogni altra cosa che in essa si ricerca. Da questo nacque che si guardarono da il
pigliare le terre per ossidione; perché giudicavano questo modo di tanta spesa e di tanto scommodo,
che superassi di gran lunga la utilità che dello acquisto si potessi trarre: e per questo pensarono che
fosse meglio e più utile soggiogare le terre per ogni altro modo che assediandole, donde in tante
guerre ed in tanti anni ci sono pochissimi esempli di ossidioni fatte da loro. I modi, adunque, con i
quali gli acquistavano le città, erano o per espugnazione o per dedizione. La espugnazione era o per
forza e violenza aperta, o per forza mescolata con fraude. La violenza aperta era o con assalto,
sanza percuotere le mura (il che loro chiamavano «aggredi urbem corona» perché con tutto lo
esercito circundavono la città, e da tutte le parti la combattevano); e molte volte riuscì loro che in
uno assalto pigliarono una città, ancora che grossissima, come quando Scipione prese Cartagine
Nuova in Ispagna; o, quando questo assalto non bastava, si dirizzavano a rompere le mura con
arieti, o con altre loro machine belliche: o ei facevano una cava, e per quella entravano nella città
(nel quale modo presono la città de' Veienti); o, per essere equali a quegli che difendevano le mura,
facevono torri di legname, o ei facevono argini di terra appoggiati alle mura di fuori, per venire
all'altezza d'esse sopra quegli. Contro a questi assalti, chi difendeva la terra, nel primo caso, circa lo
essere assaltato intorno intorno, portava più subito pericolo, ed aveva più dubbi rimedi: perché,
bisognandogli in ogni luogo avere assai difensori, o quegli ch'egli aveva non erano tanti che
potessero o sopperire per tutto o cambiarsi; o, se potevano, non erano tutti di equale animo a
resistere, e da una parte che fusse inchinata la zuffa, si perdevano tutti. Però occorse, come io ho
detto, che molte volte questo modo ebbe felice successo. Ma quando non riusciva al primo, non lo
ritentavono molto, per essere modo pericoloso per lo esercito; perché, distendendosi in tanto spazio,
restava per tutto debole a potere resistere a una eruzione che quelli di dentro avessono fatta; ed
anche si disordinavano e straccavano i soldati; ma per una volta ed allo improvviso tentavano tale
modo. Quanto alla rottura delle mura, si opponevano, come ne' presenti tempi, con ripari. E per
resistere alle cave, facevano una contracava, e per quella si opponevano al nimico, o con le armi o
con altri ingegni: intra i quali era questo, che gli empievano dogli di penne, nelle quali appiccavano
il fuoco, ed accesi gli mettevano nella cava, i quali con il fumo e con il puzzo impedivano la entrata
a' nimici. E se con le torre gli assaltavano, s'ingegnavano con il fuoco rovinarle. E quanto agli argini
di terra, rompevano il muro da basso, dove lo argine s'appoggiava, tirando dentro la terra che quegli
di fuori vi ammontavano; talché, ponendosi di fuora la terra, e levandosi di drento, veniva a non
crescere l'argine. Questi modi di espugnare non si possono lungamente tentare: ma bisogna o levarsi
da campo o cercare per altri modi vincere la guerra; come fe' Scipione, quando, entrato in Africa,
avendo assaltato Utica e non gli riuscendo pigliarla, si levò da campo, e cercò di rompere gli
eserciti cartaginesi: ovvero volgersi alla ossidione, come fecero a Veio, Capova, Cartagine e
Ierusalem e simili terre, che per ossidione occuparono. Quanto allo acquistare le terre per violenza
furtiva, occorre come intervenne di Palepoli, che per trattato di quelli di dentro i Romani la
occuparono. Di questa sorte espugnazioni, dai Romani e da altri ne sono state tentate molte, e poche
ne sono riuscite: la ragione è che ogni minimo impedimento rompe il disegno, e gl'impedimenti
vengano facilmente. Perché, o la congiura si scuopre innanzi che si venga allo atto, e scuopresi non
con molta difficultà, sì per la infedelità di coloro con chi la è communicata, sì per la difficultà del
praticarla, avendo a convenire con i nimici, e con chi non ti è lecito, se non sotto qualche colore,
parlare. Ma quando la congiura non si scoprisse nel maneggiarla, vi surgono poi, nel metterla in
atto, mille difficultà. Perché, o se tu vieni innanzi al tempo disegnato, o se tu vieni dopo, si guasta
ogni cosa: se si lieva uno romore fortuito, come l'oche del Campidoglio, se si rompe un ordine
consueto; ogni minimo errore, ogni minima fallacia che si piglia, rovina la impresa. Aggiungonsi a
questo le tenebre della notte, le quali mettono più paura a chi travaglia in quelle cose pericolose. Ed
essendo la maggiore parte degli uomini che si conducono a simili imprese, inesperti del sito del
paese, e de' luoghi dove ei sono menati, si confondono, inviliscono ed implicano per ogni minimo e
fortuito accidente, ed ogni immagine falsa è per fargli mettere in volta. Né si trovò mai alcuno che
fosse più felice in queste ispedizioni fraudolente e notturne, che Arato Sicioneo; il quale, quanto
valeva in queste, tanto nelle diurne ed aperte fazioni era pusillanime: il che si può giudicare fosse
più tosto per una occulta virtù che era in lui, che perché in quelle naturalmente dovesse essere più
felicità. Di questi modi, adunque, se ne pratica assai, pochi se ne conduce alla pruova, e pochissimi
ne riescono.
Quanto allo acquistare le terre per dedizione, o le si danno volontarie, o forzate. La volontà nasce, o
per qualche necessità estrinseca che gli costringe a rifuggirtisi sotto, come fece Capova ai Romani,
o per desiderio di essere governati bene, sendo allettati da il governo buono che quel principe tiene
in coloro che se gli sono, volontari, rimessi in grembo, come fecero i Rodiani, i Massiliensi ed altre
simile cittadi, che si dettono al Popolo romano. Quanto alla dedizione forzata, o tale forza nasce da
una lunga ossidione, come di sopra è detto; o la nasce da una continova oppressione di scorrerie, di
predazioni, ed altri mali trattamenti; i quali volendo fuggire, una città si arrende. Di tutti i modi
detti, i Romani usarono più questo ultimo che nessuno; ed attesono per più che quattrocento
cinquanta anni a straccare i vicini con le rotte e con le scorrerie, e pigliare, mediante gli accordi,
riputazione sopra di loro, come altre volte abbiamo discorso. E sopra tale modo si fondarono
sempre, ancora che gli tentassino tutti; ma negli altri trovarono cose o pericolose o inutili. Perché
nella ossidione è la lunghezza e la spesa; nella espugnazione, dubbio e pericolo; nelle congiure, la
incertitudine. E viddono che con una rotta di esercito inimico acquistavano un regno in un giorno; e,
nel pigliare per ossidione una città ostinata, consumavano molti anni.
<B>33 </B>
<B>Come i Romani </B>
<B>davano agli loro capitani </B>
<B>degli eserciti le commissioni libere. </B>
Io estimo che sia da considerare, leggendo questa liviana istoria, volendone fare profitto, tutti e'
modi del procedere del Popolo e Senato romano. Ed intra le altre cose che meritano considerazione,
sono: vedere con quale autorità ei mandavano fuori i loro Consoli, Dittatori ed altri capitani degli
eserciti; de' quali si vede l'autorità essere stata grandissima, ed il Senato non si riservare altro che
l'autorità di muovere nuove guerre e di confirmare le paci; e tutte l'altre cose rimetteva nello arbitrio
e potestà del Consolo. Perché, deliberata ch'era dal Popolo e dal Senato una guerra, verbigrazia
contro a' Latini, tutto il resto rimettevano nello arbitrio del Consolo, il quale poteva o fare una
giornata o non la fare, e campeggiare questa o quell'altra terra, come a lui pareva. Le quali cose si
verificano per molti esempli, e massime per quello che occorse in una espedizione contro a'
Toscani. Perché, avendo Fabio consolo vinto quelli presso a Sutri, e disegnando con lo esercito
dipoi passare la selva Cimina ed andare in Toscana, non solamente non si consigliò col Senato, ma
non gliene dette alcuna notizia, ancora che la guerra fusse per aversi a fare in paese nuovo, dubbio e
pericoloso. Il che si testifica ancora per le deliberazioni che allo incontro di questo furono fatte dal
Senato: il quale avendo intesa la vittoria che Fabio aveva avuta, e dubitando che quello non
pigliasse partito di passare per le dette selve in Toscana, giudicando che fosse bene non tentare
quella guerra e correre quel pericolo, mandò a Fabio due Legati a fargli intendere non passasse in
Toscana; i quali arrivarono ch'e' vi era già passato, ed aveva avuta la vittoria, ed in cambio di
impeditori della guerra tornarono ambasciadori dello acquisto e della gloria avuta. E chi considererà
bene questo termine, lo vedrà prudentissimamente usato; perché, se il Senato avesse voluto che un
Consolo procedessi nella guerra di mano in mano, secondo che quello gli commetteva, lo faceva
meno circunspetto e più lento: perché non gli sarebbe paruto che la gloria della vittoria fusse tutta
sua, ma che ne participasse il Senato, con el consiglio del quale ei si fusse governato. Oltra di
questo, il Senato si obligava a volere consigliare una cosa che non se ne poteva intendere; perché,
nonostante che in quello fossono tutti uomini esercitatissimi nella guerra nondimeno, non essendo
in sul luogo e non sappiendo infiniti particulari che sono necessari sapere, a volere consigliare bene,
arebbono, consigliando, fatti infiniti errori. E per questo ei volevano che il Consolo per sé facesse, e
che la gloria fosse tutta sua; lo amore della quale giudicavano che fusse freno e regola a farlo
operare bene. Questa parte si è più volentieri notata da me, perché io veggo che le republiche de'
presenti tempi, come è la Viniziana e Fiorentina, la intendono altrimenti; e se gli loro capitani,
provveditori o commessari hanno a piantare una artiglieria, lo vogliono intendere e consigliare. Il
quale modo merita quella laude che meritano gli altri, i quali tutti insieme le hanno condotte ne'
termini in che al presente si truovano.
<B>LIBRO TERZO</B>
<B>1 </B>
<B>A volere che una setta </B>
<B>o una republica viva lungamente, </B>
<B>è necessario ritirarla spesso </B>
<B>verso il suo principio. </B>
Egli è cosa verissima, come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita loro; ma quelle
vanno tutto il corso che è loro ordinato dal cielo, generalmente, che non disordinano il corpo loro,
ma tengonlo in modo ordinato, o che non altera, o, s'egli altera, è a salute, e non a danno suo. E
perché io parlo de' corpi misti, come sono le republiche e le sètte, dico che quelle alterazioni sono a
salute, che le riducano inverso i principii loro. E però quelle sono meglio ordinate, ed hanno più
lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso rinnovare; ovvero che, per qualche
accidente fuori di detto ordine, vengono a detta rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la luce, che,
non si rinnovando, questi corpi non durano. Il modo del rinnovargli, è, come è detto, ridurgli verso
e' principii suoi. Perché tutti e' principii delle sètte, e delle republiche e de' regni, conviene che
abbiano in sé qualche bontà, mediante la quale ripiglio la prima riputazione ed il primo augumento
loro. E perché nel processo del tempo quella bontà si corrompe, se non interviene cosa che la riduca
al segno, ammazza di necessità quel corpo. E questi dottori di medicina dicono, parlando de' corpi
degli uomini, «quod quotidie aggregatur aliquid, quod quandoque indiget curatione». Questa
riduzione verso il principio, parlando delle republiche, si fa o per accidente estrinseco o per
prudenza intrinseca. Quanto al primo, si vede come egli era necessario che Roma fussi presa dai
Franciosi, a volere che la rinascesse e rinascendo ripigliasse nuova vita e nuova virtù; e ripigliasse
la osservanza della religione e della giustizia, le quali in lei cominciavano a macularsi. Il che
benissimo si comprende per la istoria di Livio, dove ei mostra che nel trar fuori lo esercito contro ai
Franciosi e nel creare e' Tribuni con la potestà consolare, non osservorono alcuna religiosa
cerimonia. Così medesimamente, non solamente non punirono i tre Fabii, i quali «contra ius
gentium» avevano combattuto contro ai Franciosi, ma gli crearono Tribuni. E debbesi facilmente
presuppore, che dell'altre constituzioni buone, ordinate da Romolo e da quegli altri principi
prudenti, si cominciasse a tenere meno conto che non era ragionevole e necessario a mantenere il
vivere libero. Venne, dunque, questa battitura estrinseca, acciocché tutti gli ordini di quella città si
ripigliassono, e si mostrasse a quel popolo, non solamente essere necessario mantenere la religione
e la giustizia, ma ancora stimare i suoi buoni cittadini, e fare più conto della loro virtù che di quegli
commodi che e' paresse loro mancare, mediante le opere loro. Il che si vede che successe appunto;
perché, subito ripresa Roma, rinnovarono tutti gli ordini dell'antica religione loro; punirono quegli
Fabii che avevano combattuto «contra ius gentium»; ed appresso tanto stimorono la virtù e bontà di
Cammillo, che posposto, il Senato e gli altri, ogni invidia, rimettevano in lui tutto il pondo di quella
republica. È necessario, adunque, come è detto, che gli uomini che vivono insieme in qualunque
ordine, spesso si riconoschino, o per questi accidenti estrinseci o per gl'intrinseci. E quanto a questi,
conviene che nasca o da una legge, la quale spesso rivegga il conto agli uomini che sono in quel
corpo; o veramente da uno uomo buono che nasca fra loro, il quale con i suoi esempli e con le sue
opere virtuose faccia il medesimo effetto che l'ordine. Surge, adunque, questo bene nelle
republiche, o per virtù d'un uomo o per virtù d'uno ordine. E quanto a questo ultimo, gli ordini che
ritirarono la Republica romana verso il suo principio furono i Tribuni della plebe, i Censori, e tutte
l'altre leggi che venivano contro all'ambizione ed alla insolenzia degli uomini. I quali ordini hanno
bisogno di essere fatti vivi dalla virtù d'uno cittadino, il quale animosamente concorre ad esequirli
contro alla potenza di quegli che gli trapassano. Delle quali esecuzioni, innanzi alla presa di Roma
da' Franciosi, furono notabili, la morte de' figliuoli di Bruto, la morte de' dieci cittadini, quella di
Melio frumentario: dopo la presa di Roma, fu la morte di Manlio Capitolino, la morte del figliuolo
di Manlio Torquato, la esecuzione di Papirio Cursore contro a Fabio suo Maestro de' cavalieri,
l'accusa degli Scipioni. Le quali cose, perché erano eccessive e notabili, qualunque volta ne nasceva
una, facevano gli uomini ritirare verso il segno: e quando le cominciarono ad essere più rare,
cominciarono anche a dare più spazio agli uomini di corrompersi, e farsi con maggiore pericolo e
più tumulto. Perché dall'una all'altra di simili esecuzioni non vorrebbe passare, il più, dieci anni:
perché, passato questo tempo, gli uomini cominciano a variare con i costumi e trapassare le leggi; e
se non nasce cosa per la quale si riduca loro a memoria la pena, e rinnuovisi negli animi loro la
paura, concorrono tosto tanti delinquenti, che non si possono più punire sanza pericolo. Dicevano, a
questo proposito quegli che hanno governato lo stato di Firenze dal 1434 infino al 1494, come egli
era necessario ripigliare ogni cinque anni lo stato, altrimenti, era difficile mantenerlo: e chiamavano
ripigliare lo stato, mettere quel terrore e quella paura negli uomini che vi avevano messo nel
pigliarlo, avendo in quel tempo battuti quegli che avevano, secondo quel modo del vivere, male
operato. Ma come di quella battitura la memoria si spegne, gli uomini prendono ardire di tentare
cose nuove, e di dire male; e però è necessario provvedervi, ritirando quello verso i suoi principii.
Nasce ancora questo ritiramento delle republiche verso il loro principio dalla semplice virtù d'un
uomo, sanza dependere da alcuna legge che ti stimoli ad alcuna esecuzione: nondimanco sono di
tale riputazione e di tanto esemplo, che gli uomini buoni disiderano imitarle e gli cattivi si
vergognano a tenere vita contraria a quelle. Quegli che in Roma particularmente feciono questi
buoni effetti, furono Orazio Cocle, Scevola, Fabrizio, i dua Deci, Regolo Attilio, ed alcuni altri i
quali con i loro esempli rari e virtuosi facevano in Roma quasi il medesimo effetto che si facessino
le leggi e gli ordini. E se le esecuzioni soprascritte, insieme con questi particulari esempli, fossono
almeno seguite ogni dieci anni in quella città, ne seguiva di necessità che la non si sarebbe mai
corrotta: ma come ei cominciorono a diradare l'una e l'altra di queste due cose, cominciarono a
multiplicare le corrozioni. Perché dopo Marco Regolo non vi si vide alcuno simile esemplo: e
benché in Roma surgessono i due Catoni, fu tanta distanza da quello a loro, ed intra loro dall'uno
all'altro, e rimasono sì soli, che non potettono con gli esempli buoni fare alcuna buona opera; e
massime l'ultimo Catone, il quale, trovando in buona parte la città corrotta, non potette con lo
esemplo suo fare che i cittadini diventassino migliori. E questo basti quanto alle republiche.
Ma quanto alle sètte, si vede ancora queste rinnovazioni essere necessarie, per lo esemplo della
nostra religione, la quale, se non fossi stata ritirata verso il suo principio da Santo Francesco e da
Santo Domenico sarebbe al tutto spenta. Perché questi, con la povertà e con lo esemplo della vita di
Cristo, la ridussono nella mente degli uomini, che già vi era spenta: e furono sì potenti gli ordini
loro nuovi, che ei sono cagione che la disonestà de' prelati e de' capi della religione non la rovinino;
vivendo ancora poveramente, ed avendo tanto credito nelle confessioni con i popoli e nelle
predicazioni, che ci dànno loro a intendere come egli è male dir male del male, e che sia bene
vivere sotto la obedienza loro, e, se fanno errore, lasciargli gastigare a Dio: e così quegli fanno il
peggio che possono, perché non temono quella punizione che non veggono e non credono. Ha,
adunque, questa rinnovazione mantenuto, e mantiene, questa religione.
Hanno ancora i regni bisogno di rinnovarsi, e ridurre le leggi di quegli verso i suoi principii. E si
vede quanto buono effetto fa questa parte nel regno di Francia; il quale regno vive sotto le leggi e
sotto gli ordini più che alcuno altro regno. Delle quali leggi ed ordini ne sono mantenitori i
parlamenti, e massime quel di Parigi; le quali sono da lui rinnovate qualunque volta ei fa una
esecuzione contro ad un principe di quel regno, e che ei condanna il Re nelle sue sentenze. Ed
infino a qui si è mantenuto per essere stato uno ostinato esecutore contro a quella Nobilità: ma
qualunque volta ei ne lasciassi alcuna impunita, e che le venissono a multiplicare, sanza dubbio ne
nascerebbe o che le si arebbono a correggere con disordine grande, o che quel regno si risolverebbe.
Conchiudesi, pertanto, non essere cosa più necessaria in uno vivere comune, o setta o regno o
republica che sia, che rendergli quella riputazione ch'egli aveva ne' principii suoi; ed ingegnarsi che
siano o gli ordini buoni o i buoni uomini che facciano questo effetto, e non lo abbia a fare una forza
estrinseca. Perché, ancora che qualche volta la sia ottimo rimedio, come fu a Roma, ella è tanto
pericolosa, che non è in modo alcuno da disiderarla. E per dimostrare a qualunque, quanto le azioni
degli uomini particulari facessono grande Roma, e causassino in quella città molti buoni effetti,
verrò alla narrazione e discorso di quegli: intra e' termini de' quali questo terzo libro, ed ultima
parte di questa prima Deca, si concluderà. E benché le azioni degli re fossono grandi e notabili
nondimeno, dichiarandole la istoria diffusamente, le lascerò indietro; né parlereno altrimenti di loro,
eccetto che di alcuna cosa che avessono operata appartenente alli loro privati commodi; e
comincerenci da Bruto, padre della romana libertà.
<B>2</B>
<B>Come egli è cosa sapientissima </B>
<B>simulare in tempo la pazzia. </B>
Non fu alcuno mai tanto prudente, né tanto estimato savio per alcuna sua egregia operazione,
quanto merita d'esser tenuto Iunio Bruto nella sua simulazione della stultizia. Ed ancora che Tito
Livio non esprima altro che una cagione che lo inducesse a tale simulazione, quale fu di potere più
sicuramente vivere e mantenere il patrimonio suo; nondimanco, considerato il suo modo di
procedere, si può credere che simulasse ancora questo per essere manco osservato, ed avere più
commodità di opprimere i Re e di liberare la sua patria, qualunque volta gliele fosse data occasione.
E, che pensassi a questo, si vide, prima, nello interpetrare l'oracolo d'Apolline, quando simulò
cadere per baciare la terra, giudicando per quello avere favorevole gl'Iddii a' pensieri suoi; e dipoi,
quando, sopra la morta Lucrezia, intra 'l padre ed il marito ed altri parenti di lei, ei fu il primo a
trarle il coltello della ferita, e fare giurare ai circustanti, che mai sopporterebbono che, per lo
avvenire, alcuno regnasse in Roma. Dallo esemplo di costui hanno ad imparare tutti coloro che sono
male contenti d'uno principe: e debbono prima misurare e prima pesare le forze loro; e, se sono sì
potenti che possino scoprirsi suoi inimici e fargli apertamente guerra, debbono entrare per questa
via, come manco pericolosa e più onorevole. Ma se sono di qualità che a fargli guerra aperta le
forze loro non bastino, debbono con ogni industria cercare di farsegli amici: ed a questo effetto,
entrare per tutte quelle vie che giudicano essere necessarie, seguendo i piàciti suoi, e pigliando
dilettazione di tutte quelle cose che veggono quello dilettarsi. Questa dimestichezza, prima, ti fa
vivere sicuro; e, sanza portare alcuno pericolo, ti fa godere la buona fortuna di quel principe
insieme con esso lui, e ti arreca ogni comodità di sodisfare allo animo tuo. Vero è che alcuni dicono
che si vorrebbe con gli principi non stare sì presso che la rovina loro ti coprisse, né sì discosto che,
rovinando quegli, tu non fosse a tempo a salire sopra la rovina loro: la quale via del mezzo sarebbe
la più vera, quando si potesse osservare; ma perché io credo che sia impossibile, conviene ridursi a'
duoi modi soprascritti, cioè o di allargarsi o di stringersi con loro. Chi fa altrimenti, e sia uomo, per
la qualità sua, notabile, vive in continovo pericolo. Né basta dire: - Io non mi curo di alcuna cosa,
non disidero né onori né utili, io mi voglio vivere quietamente e sanza briga! - perché queste scuse
sono udite e non accettate: né possono gli uomini che hanno qualità, eleggere lo starsi, quando bene
lo eleggessono veramente e sanza alcuna ambizione, perché non è loro creduto; talché, se si
vogliono stare loro, non sono lasciati stare da altri. Conviene adunque fare il pazzo, come Bruto; ed
assai si fa il matto, laudando, parlando, veggendo, faccendo cose contro allo animo tuo, per
compiacere al principe. E poiché noi abbiamo parlato della prudenza di questo uomo per ricuperare
la libertà a Roma, parlereno ora della sua severità nel mantenerla.
<B>3</B>
<B>Come egli è necessario, </B>
<B>a volere mantenere una libertà </B>
<B>acquistata di nuovo, </B>
<B>ammazzare i figliuoli di Bruto. </B>
Non fu meno necessaria che utile la severità di Bruto nel mantenere in Roma quella libertà che elli
vi aveva acquistata; la quale è di uno esemplo raro in tutte le memorie delle cose: vedere il padre
sedere pro tribunali, e non solamente condennare i suoi figliuoli a morte ma essere presente alla
morte loro. E sempre si conoscerà questo per coloro che le cose antiche leggeranno: come, dopo
una mutazione di stato, o da republica in tirannide o da tirannide in republica è necessaria una
esecuzione memorabile contro a' nimici delle condizioni presenti. E chi piglia una tirannide e non
ammazza Bruto, e chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco
tempo. E perché di sopra è discorso questo luogo largamente, mi rimetto a quello che allora se ne
disse: solo ci addurrò uno esemplo, stato, ne' dì nostri e nella nostra patria, memorabile. E questo è
Piero Soderini, il quale si credeva superare con la pazienza e bontà sua quello appetito che era ne'
figliuoli di Bruto, di ritornare sotto un altro governo e se ne ingannò. E benché quello, per la sua
prudenza, conoscesse questa necessità; e che la sorte e l'ambizione di quelli che lo urtavano, gli
dessi occasione a spegnerli; nondimeno non volse mai l'animo a farlo. Perché, oltre al credere di
potere con la pazienza e con la bontà estinguere i mali omori, e con i premii verso qualcuno
consummare qualche sua inimicizia; giudicava (e molte volte ne fece con gli amici fede) che, a
volere gagliardamente urtare le sue opposizioni, e battere suoi avversari, gli bisognava pigliare
istraordinaria autorità, e rompere con le leggi la civile equalità: la quale cosa, ancora che dipoi non
fosse da lui usata tirannicamente, arebbe tanto sbigottito l'universale, che non sarebbe mai poi
concorso, dopo la morte di quello, a rifare un gonfalonieri a vita; il quale ordine elli giudicava fosse
bene augumentare e mantenere. Il quale rispetto era savio e buono: nondimeno, e' non si debbe mai
lasciare scorrere un male, rispetto ad uno bene, quando quel bene facilmente possa essere, da quel
male, oppressato. E doveva credere che, avendosi a giudicare l'opere sue e la intenzione sua dal
fine, quando la fortuna e la vita l'avessi accompagnato, che poteva certificare ciascuno, come,
quello l'aveva fatto, era per salute della patria, e non per ambizione sua; e poteva regolare le cose in
modo, che uno suo successore non potesse fare per male quello che elli avessi fatto per bene. Ma lo
ingannò la prima opinione, non conoscendo che la malignità non è doma da tempo né placata da
alcuno dono. Tanto che, per non sapere somigliare Bruto, e' perdé, insieme con la patria sua, lo
stato e la riputazione. E come egli è cosa difficile salvare uno stato libero, così è difficile salvarne
uno regio; come nel sequente capitolo si mosterrà.
<B>4</B>
<B>Non vive sicuro uno principe </B>
<B>in uno principato, mentre vivono coloro </B>
<B>che ne sono stati spogliati. </B>
La morte di Tarquinio Prisco causata dai figliuoli di Anco, e la morte di Servio Tullo causata da
Tarquinio Superbo, mostra quanto difficil sia, e pericoloso, spogliare uno del regno, e quello
lasciare vivo, ancora che cercassi con merito guadagnarselo. E vedesi come Tarquinio Prisco fu
ingannato da parergli possedere quel regno giuridicamente, essendogli stato dato dal Popolo e
confermato dal Senato: né credette che ne' figliuoli di Anco potesse tanto lo sdegno, che non
avessono a contentarsi di quello che si contentava tutta Roma. E Servio Tullo s'ingannò, credendo
potere con nuovi meriti guadagnarsi i figliuoli di Tarquinio. Dimodoché, quanto al primo, si può
avvertire ogni principe, che non viva mai sicuro del suo principato, finché vivono coloro che ne
sono stati spogliati. Quanto al secondo, si può ricordare ad ogni potente, che mai le ingiurie vecchie
furono cancellate da' beneficii nuovi; e, tanto meno, quanto il beneficio nuovo è minore che non è
stata la ingiuria. E sanza dubbio, Servio Tullo fu poco prudente a credere che i figliuoli di Tarquinio
fussono pazienti ad essere generi di colui di chi e' giudicavano dovere essere re. E questo appitito
del regnare è tanto grande, che non solamente entra ne' petti di coloro a chi si aspetta il regno, ma di
quelli a chi e' non si aspetta: come fu nella moglie di Tarquinio, giovane, figliuola di Servio; la
quale, mossa da questa rabbia, contro ogni piatà paterna, mosse il marito contro al padre a torgli la
vita ed il regno: tanto stimava più essere regina che figliuola di re. Se, adunque, Tarquinio Prisco e
Servio Tullo, perderono il regno per non si sapere assicurare di coloro a chi ei lo avevano usurpato,
Tarquinio Superbo lo perdé per non osservare gli ordini degli antichi re: come nel sequente capitolo
si mosterrà.
<B>5</B>
<B>Quello che fa perdere uno regno </B>
<B>ad uno re che sia, di quello, ereditario. </B>
Avendo Tarquinio Superbo morto Servio Tullo, e di lui non rimanendo eredi, veniva a possedere il
regno sicuramente, non avendo a temere di quelle cose che avevano offeso i suoi antecessori. E,
benché il modo dell'occupare il regno fosse stato istraordinario ed odioso, nondimeno quando elli
avesse osservato gli antichi ordini delli altri re, sarebbe stato comportato, né si sarebbe concitato il
Senato e la plebe contro di lui per torgli lo stato. Non fu, adunque, cacciato costui per avere Sesto
suo figliuolo stuprata Lucrezia, ma per avere rotte le leggi del regno, e governatolo tirannicamente;
avendo tolto al Senato ogni autorità, e ridottola a sé proprio; e quelle faccende che ne' luoghi publici
con sodisfazione del Senato romano si facevano, le ridusse a fare nel palazzo suo, con carico ed
invidia sua; talché in breve tempo gli spoliò Roma di tutta quella libertà ch'ella aveva sotto gli altri
re mantenuta. Né gli bastò farsi inimici i Padri, che si concitò ancora, contro, la Plebe, affaticandola
in cose mecaniche e tutte aliene da quello a che gli avevano adoperati i suoi antecessori: talché,
avendo ripiena Roma di esempli crudeli e superbi, aveva disposto già gli animi di tutti i Romani alla
ribellione, qualunque volta ne avessono occasione. E, se lo accidente di Lucrezia non fosse venuto,
come prima ne fosse nato un altro, arebbe partorito il medesimo effetto. Perché se Tarquinio fosse
vissuto come gli altri re, e Sesto suo figliuolo avessi fatto quello errore, sarebbono Bruto e
Collatino ricorsi a Tarquinio, per la vendetta contro a Sesto, e non al Popolo romano. Sappino
adunque i principi, come a quella ora ei cominciano a perdere lo stato che cominciano a rompere le
leggi, e quelli modi e quelle consuetudini che sono antiche, e sotto le quali lungo tempo gli uomini
sono vivuti. E se, privati che ei sono dello stato, ei diventassono mai tanto prudenti che ei
conoscessono con quanta facilità i principati si tenghino da coloro che saviamente si consigliano,
dorrebbe molto più loro tale perdita, ed a maggiore pena si condannerebbono, che da altri fossono
condannati. Perché egli è molto più facile essere amato dai buoni che dai cattivi, ed ubidire alle
leggi che volere comandare loro. E volendo intendere il modo avessono a tenere a fare questo, non
hanno a durare altra fatica che pigliare per loro specchio la vita de' principi buoni, come sarebbe
Timoleone Corintio, Arato Sicioneo, e simili: nella vita dei quali ei troveria tanta sicurtà e tanta
sodisfazione di chi regge e di chi è retto, che doverrebbe venirgli voglia di imitargli, potendo
facilmente, per le ragioni dette, farlo. Perché gli uomini, quando sono governati bene, non cercono
né vogliono altra libertà: come intervenne a' popoli governati dai dua prenominati; che gli
costrinsono ad essere principi mentre che vissono, ancora che da quegli più volte fosse tentato di
ridursi in vita privata. E perché in questo, e ne' due antecedenti capitoli, si è ragionato degli omori
concitati contro a' principi, e delle congiure fatte da' figliuoli di Bruto contro alla patria, e di quelle
fatte contro a Tarquinio Prisco ed a Servio Tullo; non mi pare cosa fuor di proposito, nel sequente
capitolo, parlarne diffusamente, sendo materia degna d'essere notata da' principi e da' privati.
<B>6</B>
<B>Delle congiure. </B>
Ei non mi è parso da lasciare indietro il ragionare delle congiure, essendo cosa tanto pericolosa ai
principi ed ai privati; perché si vede per quelle molti più principi avere perduta la vita e lo stato, che
per guerra aperta. Perché il poter fare aperta guerra ad uno principe, è conceduto a pochi: il poterli
congiurare contro, è concesso a ciascuno. Dall'altra parte, gli uomini privati non entrano in impresa
più pericolosa né più temeraria di questa; perché la è difficile e pericolosissima in ogni sua parte.
Donde ne nasce che molte se ne tentino, e pochissime hanno il fine desiderato. Acciocché, adunque,
i principi imparino a guardarsi da questi pericoli, e che i privati più timidamente vi si mettino, anzi
imparino ad essere contenti a vivere sotto quello imperio che dalla sorte è stato loro proposto; io ne
parlerò diffusamente, non lasciando indietro alcuno caso notabile in documento dell'uno e dell'altro.
E veramente, quella sentenzia di Cornelio Tacito è aurea, che dice: che gli uomini hanno ad onorare
le cose passate e ad ubbidire alle presenti; e debbono desiderare i buoni principi, e, comunque ei si
sieno fatti, tollerargli. E veramente, chi fa altrimenti, il più delle volte rovina sé e la sua patria.
Dobbiamo adunque, entrando nella materia, considerare prima contro a chi si fanno le congiure; e
troverreno farsi o contro alla patria, o contro ad uno principe: delle quali due voglio che al presente
ragioniamo; perché, di quelle che si fanno per dare una terra a' nimici che la assediano, o che
abbino, per qualunque cagione, similitudine con questa, se n'è parlato di sopra a sufficienza. E
trattereno, in questa prima parte, di quelle contro al principe, e prima esaminereno le cagioni di
esse: le quali sono molte, ma una ne è importantissima più che tutte le altre. E questa è lo essere
odiato dallo universale, perché il principe che si è concitato questo universale odio, è ragionevole
che abbi de' particulari i quali da lui siano stati più offesi, e che desiderino vendicarsi. Questo
desiderio è accresciuto loro da quella mala disposizione universale che veggono essergli concitata
contro. Debbe, adunque, un principe fuggire questi carichi privati; e come debba fare a fuggirli,
avendone altrove trattato, non ne voglio parlare qui; perché, guardandosi da questo, le semplice
offese particulari gli faranno meno guerra. L'una, perché si riscontra rade volte in uomini che
stimino tanto una ingiuria, che si mettino a tanto pericolo per vendicarla; l'altra, che, quando pure ei
fossono d'animo e di potenza da farlo, sono ritenuti da quella benivolenza universale che veggono
avere ad uno principe. Le ingiurie, conviene che siano nella roba, nel sangue o nell'onore. Di quelle
del sangue sono più pericolose le minacce che le esecuzioni; anzi, le minacce sono pericolosissime,
e nelle esecuzioni non vi è pericolo alcuno; perché chi è morto non può pensare alla vendetta; quelli
che rimangono vivi, il più delle volte ne lasciano il pensiero a te. Ma colui che è minacciato, e che
si vede costretto da una necessità o di fare o di patire, diventa uno uomo pericolosissimo per il
principe: come nel suo luogo particularmente direno. Fuora di questa necessità, la roba e l'onore
sono quelle due cose che offendono più gli uomini che alcun'altra offesa, e dalle quali il principe si
debbe guardare: perché e' non può mai spogliare uno, tanto, che non gli rimanga uno coltello da
vendicarsi; non può mai tanto disonorare uno, che non gli resti uno animo ostinato alla vendetta. E
degli onori che si tolgono agli uomini, quello delle donne importa più; dopo questo, il vilipendio
della sua persona. Questo armò Pausania contro a Filippo di Macedonia, questo ha armato molti
altri contro a molti altri principi: e ne' nostri tempi Luzio Belanti non si mosse a congiurare contro a
Pandolfo tiranno di Siena, se non per averli quello data e poi tolta per moglie una sua figliuola;
come nel suo loco direno. La maggiore cagione che fece che i Pazzi congiurarono contro ai Medici,
fu la eredità di Giovanni Bonromei, la quale fu loro tolta per ordine di quegli. Un'altra cagione ci è,
e grandissima, che fa gli uomini congiurare contro al principe; la quale è il desiderio di liberare la
patria, stata da quello occupata. Questa cagione mosse Bruto e Cassio contro a Cesare; questa ha
mosso molti altri contro a' Falari, Dionisii, ed altri occupatori della patria loro. Né può, da questo
omore, alcuno tiranno guardarsi, se non con diporre la tirannide. E perché non si truova alcuno che
faccia questo, si truova pochi che non capitino male; donde nacque quel verso di Iuvenale:
<I>Ad generum Cereris sine caede et vulnere pauci
Descendunt reges, et sicca morte tiranni.</I>
I pericoli che si portano, come io dissi di sopra, nelle congiure, sono grandi, portandosi per tutti i
tempi; perché in tali casi si corre pericolo nel maneggiarli, nello esequirli, ed esequiti che sono.
Quegli che congiurano, o ei sono uno, o ei sono più. Uno, non si può dire che sia congiura, ma è
una ferma disposizione nata in uno uomo di ammazzare il principe. Questo solo, de' tre pericoli che
si corrono nelle congiure, manca del primo; perché, innanzi alla esecuzione non porta alcuno
pericolo, non avendo altri il suo secreto, né portando pericolo che torni il disegno suo all'orecchio
del principe. Questa deliberazione così fatta può cadere in qualunque uomo, di qualunque sorte,
grande, piccolo, nobile, ignobile, familiare e non familiare al principe; perché ad ognuno è lecito
qualche volta parlarli; ed a chi è lecito parlare, è lecito sfogare l'animo suo. Pausania, del quale altre
volte si è parlato, ammazzò Filippo di Macedonia che andava al tempio, con mille armati d'intorno,
ed in mezzo intra il figliuolo ed il genero. Ma costui fu nobile e cognito al principe. Uno spagnuolo,
povero ed abietto, dette una coltellata in su el collo al re Ferrando, re di Spagna: non fu la ferita
mortale, ma per questo si vide che colui ebbe animo e commodità a farlo. Uno dervis, sacerdote
turchesco, trasse d'una scimitarra a Baisit, padre del presente Turco: non lo ferì, ma ebbe pure
animo e commodità a volerlo fare. Di questi animi fatti così, se ne truova, credo, assai che lo
vorrebbono fare, perché nel volere non è pena né pericolo alcuno; ma pochi che lo facciano: ma di
quelli che lo fanno, pochissimi o nessuno che non siano ammazzati in sul fatto; però non si truova
chi voglia andare ad una certa morte. Ma lasciamo andare queste uniche volontà, e veniamo alle
congiure intra i più. Dico, trovarsi nelle istorie, tutte le congiure essere fatte da uomini grandi, o
familiarissimi del principe: perché gli altri, se non sono matti affatto, non possono congiurare;
perché gli uomini deboli, e non familiari al principe, mancano di tutte quelle speranze e di tutte
quelle commodità che si richiede alla esecuzione d'una congiura. Prima, gli uomini deboli non
possono trovare riscontro di chi tenga loro fede; perché uno non può consentire alla volontà loro,
sotto alcuna di quelle speranze che fa entrare gli uomini ne' pericoli grandi: in modo che, come ei si
sono allargati in dua o in tre persone, ci trovono lo accusatore e rovinano: ma quando pure si
fossono tanto felici che mancassino di questo accusatore, sono nella esecuzione intorniati da tale
difficultà, per non avere l'entrata facile al principe, che gli è impossibile che in essa esecuzione ei
non rovinino. Perché, se gli uomini grandi, e che hanno l'entrata facile, sono oppressi da quelle
difficultà che di sotto si diranno, conviene che in costoro quelle difficultà sanza fine creschino.
Pertanto gli uomini (perché, dove ne va la vita e la roba, non sono al tutto insani) quando e' si
veggono deboli, se ne guardano; e quando egli hanno a noia uno principe, attendono a
bestemmiarlo, ed aspettono che quelli che hanno maggiore qualità di loro, gli vendichino. E se pure
si trovasse che alcuno di questi simili avessi tentato qualche cosa, si debbe laudare in loro la
intenzione, e non la prudenza. Vedesi, pertanto, quelli che hanno congiurato, essere stati tutti
uomini grandi, o familiari, del principe; de' quali molti hanno congiurato, mossi così da troppi
beneficii, come dalle troppe ingiurie: come fu Perennio contro a Commodo, Plauziano contro a
Severo, Seiano contro a Tiberio. Costoro tutti furono dai loro imperadori constituiti in tanta
ricchezza, onore e grado, che non pareva che mancasse loro, alla perfezione della potenza, altro che
lo imperio; e di questo non volendo mancare, si mossono a congiurare contro al principe; ed ebbono
le loro congiure tutte quel fine che meritava la loro ingratitudine: ancora che di queste simili ne'
tempi più freschi ne avessi buono fine quella di Iacopo di Appiano contro a messer Piero
Gambacorti, principe di Pisa: il quale Iacopo, allevato e nutrito e fatto riputato da lui, gli tolse poi lo
stato. Fu di queste quella del Coppola, ne' nostri tempi, contro il re Ferrando d'Aragona; il quale
Coppola, venuto a tanta grandezza che non gli pareva gli mancassi se non il regno, per volere
ancora quello, perdé la vita. E veramente, se alcuna congiura contro ai principi, fatta da uomini
grandi, dovesse avere buono fine, doverrebbe essere questa; essendo fatta da un altro re, si può dire,
e da chi ha tanta commodità di adempiere il suo disiderio: ma quella cupidità del dominare che gli
accieca, gli accieca ancora nel maneggiare questa impresa; perché, se ei sapessono fare questa
cattività con prudenza, sarebbe impossibile non riuscisse loro. Debbe, adunque, uno principe che si
vuole guardare dalle congiure, temere più coloro a chi elli ha fatto troppi piaceri, che quelli a chi
egli avesse fatte troppe ingiurie. Perché questi mancono di commodità, quelli ne abondano; e la
voglia è simile, perché gli è così grande o maggiore il desiderio del dominare, che non è quello
della vendetta. Debbono, pertanto, dare tanta autorità agli loro amici, che da quella al principato sia
qualche intervallo, e che vi sia in mezzo qualche cosa da desiderare: altrimenti, sarà cosa rada se
non interverrà loro, come a' principi soprascritti. Ma torniamo all'ordine nostro.
Dico che, avendo ad essere, quelli che congiurano, uomini grandi, e che abbino l'adito facile al
principe, si ha a discorrere i successi di queste loro imprese quali siano stati, e vedere la cagione
che gli ha fatti essere felici ed infelici. E come io dissi di sopra ci si truovano dentro, in tre tempi,
pericoli: prima, in su 'l fatto e poi. Se ne truova poche che abbino buono esito, perché gli è
impossibile, quasi, passarli tutti felicemente. E cominciando a discorrere e' pericoli di prima, che
sono i più importanti, dico, come e' bisogna essere molto prudente, ed avere una gran sorte, che, nel
maneggiare una congiura, la non si scuopra. E si scuoprono o per relazione, o per coniettura. La
relazione nasce da trovare poca fede, o poca prudenza, negli uomini con chi tu la comunichi. La
poca fede si truova facilmente, perché tu non puoi comunicarla se non con tuoi fidati, che per tuo
amore si mettino alla morte, o con uomini che siano male contenti del principe. De' fidati se ne
potrebbe trovare uno o due; ma, come tu ti distendi in molti, è impossibile gli truovi: dipoi, e'
bisogna bene che la benivolenza che ti portano sia grande, a volere che non paia loro maggiore il
pericolo e la paura della pena. Dipoi gli uomini s'ingannano, il più delle volte, dello amore che tu
giudichi che uno uomo ti porti; né te ne puoi mai assicurare, se tu non ne fai esperienza: e farne
esperienza in questo è pericolosissimo. E sebbene ne avessi fatto esperienza in qualche altra cosa
pericolosa dove e' ti fossono stati fedeli, non puoi da quella fede misurare questa, passando, questo,
di gran lunga, ogni altra qualità di pericolo. Se misuri la fede dalla mala contentezza che uno abbia
del principe, in questo tu ti puoi facilmente ingannare: perché, subito che tu hai manifestato a quel
male contento l'animo tuo, tu gli dài materia di contentarsi, e conviene bene, o che l'odio sia grande,
o che l'autorità tua sia grandissima a mantenerlo in fede.
Di qui nasce che assai ne sono rivelate, ed oppresse ne' primi principii loro; e che, quando una è
stata infra molti uomini segreta lungo tempo, è tenuta cosa miracolosa: come fu quella di Pisone
contro a Nerone, e, ne' nostri tempi, quella de' Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici: delle
quali erano consapevoli più che cinquanta uomini; e condussonsi, alla esecuzione, a scoprirsi.
Quanto a scoprirsi per poca prudenza, nasce quando uno congiurato ne parla poco cauto, in modo
che uno servo o altra terza persona t'intenda, come intervenne ai figliuoli di Bruto, che, nel
maneggiare la cosa con i legati di Tarquinio, furono intesi da uno servo, che gli accusò: ovvero
quando per leggerezza ti viene communicata a donna o a fanciullo che tu ami o a simile leggieri
persona; come fece Dimmo, uno de' congiurati con Filota contro a Alessandro Magno, il quale
communicò la congiura a Nicomaco, fanciullo amato da lui; il quale subito la disse a Ciballino suo
fratello, e Ciballino ad el re. Quanto a scoprirsi per coniettura, ce n'è in esemplo la congiura
Pisoniana contro a Nerone; nella quale Scevino, uno de' congiurati, il dì dinanzi ch'egli aveva ad
ammazzare Nerone, fece testamento, ordinò che Milichio, suo liberto, facessi arrotare un suo
pugnale vecchio e rugginoso, liberò tutti i suoi servi e dette loro danari, fece ordinare fasciature da
legare ferite: per le quali conietture accortosi Milichio della cosa, lo accusò a Nerone. Fu preso
Scevino, e con lui Natale un altro congiurato, i quali erano stati veduti parlare a lungo e di segreto
insieme, il dì davanti; e non si accordando del ragionamento avuto, furono forzati a confessare il
vero talché la congiura fu scoperta, con rovina di tutti i congiurati.
Da queste cagioni dello scoprire le congiure è impossibile guardarsi che, per malizia, per
imprudenza o per leggerezza, la non si scuopra, qualunque volta i conscii d'essa passono il numero
di tre o di quattro. E come e' ne è preso più che uno, è impossibile non riscontrarla, perché due non
possano essere convenuti insieme di tutti e' ragionamenti loro. Quando e' ne sia preso solo uno, che
sia uomo forte, può elli, con la fortezza dello animo, tacere i congiurati; ma conviene che i
congiurati non abbiano meno animo di lui a stare saldi, e non si scoprire con la fuga: perché da una
parte che l'animo manca o da chi è sostenuto o da chi è libero, la congiura è scoperta. Ed è rado lo
esemplo indotto da Tito Livio nella congiura fatta contro a Girolamo, re di Siracusa; dove, sendo
Teodoro, uno de' congiurati, preso, celò con una virtù grande tutti i congiurati, ed accusò gli amici
del re, e dall'altra parte, i congiurati confidarono tanto nella virtù di Teodoro, che nessuno si partì di
Siracusa, o fece alcuno segno di timore. Passasi, adunque, per tutti questi pericoli nel maneggiare
una congiura innanzi che si venga alla esecuzione di essa: i quali volendo fuggire, ci sono questi
rimedi. Il primo ed il più vero, anzi, a dire meglio, unico, è non dare tempo ai congiurati di
accusarti; e comunicare loro la cosa quando tu la vuoi fare, e non prima. Quelli che hanno fatto
così, fuggono al certo i pericoli che sono nel praticarla, e, il più delle volte, gli altri; anzi hanno tutte
avuto felice fine: e qualunque prudente arebbe commodità di governarsi in questo modo. Io voglio
che mi basti addurre due esempli.
Nelemato, non potendo sopportare la tirannide di Aristotimo, tiranno di Epiro, ragunò in casa sua
molti parenti ed amici, e, confortatogli a liberare la patria, alcuni di loro chiesono tempo a
diliberarsi ed ordinarsi, donde Nelemato fece a' suoi servi serrare la casa, ed a quelli che esso aveva
chiamati disse: - O voi giurerete di andare ora a fare questa esecuzione, o io vi darò tutti prigioni ad
Aristotimo -. Dalle quali parole mossi coloro, giurarono; ed andati, sanza intermissione di tempo,
felicemente l'ordine di Nelemato esequirono. Avendo uno Mago, per inganno, occupato il regno de'
Persi, ed avendo Ortano, uno de' grandi uomini del regno, intesa e scoperta la fraude, lo conferì con
sei altri principi di quello stato, dicendo come gli era da vendicare il regno dalla tirannide di quel
Mago; e domandando, alcuno di loro, tempo, si levò Dario, uno de' sei chiamati da Ortano, e disse:
- O noi andreno ora a fare questa esecuzione, o io vi andrò ad accusare tutti -. E così d'accordo
levatisi, sanza dare tempo ad alcuno di pentirsi, esequirono felicemente i disegni loro. Simile a
questi due esempli ancora è il modo che gli Etoli tennono ad ammazzare Nabide, tiranno spartano; i
quali mandarono Alessameno loro cittadino, con trenta cavagli e dugento fanti, a Nabide, sotto
colore di mandargli aiuto; ed il segreto solamente comunicorono ad Alessameno; ed agli altri
imposono che lo ubbidissoro in ogni e qualunque cosa, sotto pena di esilio. Andò costui in Sparta, e
non comunicò mai la commissione sua se non quando e' la volle esequire: donde gli riuscì
d'ammazzarlo. Costoro, adunque per questi modi, hanno fuggiti quelli pericoli che si portano nel
maneggiare le congiure; e chi imiterà loro, sempre gli fuggirà.
E che ciascuno possa fare come loro io ne voglio dare lo esemplo di Pisone preallegato di sopra.
Era Pisone grandissimo e riputatissimo uomo, e familiare di Nerone, ed in chi elli confidava assai.
Andava Nerone ne' suoi orti spesso a mangiare seco. Poteva, adunque, Pisone farsi amici uomini,
d'animo e di cuore e di disposizione atti ad una tale esecuzione (il che ad uno grande è facilissimo);
e quando Nerone fosse stato ne' i suoi orti, comunicare loro la cosa, e con le parole convenienti
inanimarli a fare quello che loro non avevano tempo a ricusare, e che era impossibile che non
riuscisse. E così, se si esamineranno tutte l'altre, si troverrà poche non essere potute condursi nel
medesimo modo: ma gli uomini, per l'ordinario, poco intendenti delle azioni del mondo, spesso
fanno errori gravissimi, e tanto maggiori in quelle che hanno più dello istraordinario, come è
questa. Debbesi, adunque, non comunicare mai la cosa se non necessitato ed in sul fatto; e se pure la
vuoi comunicare, comunicarla ad uno solo, del quale abbia fatto lunghissima isperienza, o che sia
mosso dalle medesime cagioni che tu. Trovarne uno così fatto è molto più facile che trovarne più, e
per questo vi è meno pericolo, dipoi, quando pure ei ti ingannassi, vi è qualche rimedio a difendersi,
che non è dove siano congiurati assai: perché da alcuno prudente ho sentito dire che con uno si può
parlare ogni cosa, perché tanto vale, se tu non ti lasci condurre a scrivere di tua mano, il sì dell'uno
quanto il no dell'altro; e dallo scrivere ciascuno debbe guardarsi come da uno scoglio, perché non è
cosa che più facilmente ti convinca, che lo scritto di tua mano. Plauziano, volendo fare ammazzare
Severo imperadore ed Antonino suo figliuolo, commisse la cosa a Saturnino tribuno; il quale,
volendo accusarlo e non ubbidirlo, e dubitando che, venendo all'accusa, e' non fussi più creduto a
Plauziano che a lui, gli chiese una cedola di sua mano, che facessi fede di questa commissione; la
quale Plauziano, accecato dall'ambizione, gli fece: donde seguì che fu, dal tribuno, accusato e
convinto; e sanza quella cedola, e certi altri contrassegni, sarebbe stato Plauziano superiore; tanto
audacemente negava. Truovasi, adunque, nell'accusa d'uno, qualche rimedio, quando tu non puoi
essere da una scrittura, o altri contrasegni, convinto: da che uno si debbe guardare.
Era nella congiura Pisoniana una femina chiamata Epicari, stata per lo adietro amica di Nerone; la
quale giudicando che fussi a proposito mettere tra i congiurati uno capitano di alcune trireme che
Nerone teneva per sua guardia, gli comunicò la congiura ma non i congiurati. Donde, rompendogli
quello capitano la fede ed accusandola a Nerone, fu tanta l'audacia di Epicari nel negarlo, che
Nerone, rimaso confuso, non la condannò. Sono, adunque, nel comunicare la cosa ad uno solo, due
pericoli: l'uno, che non ti accusi in pruova; l'altro, che non ti accusi convinto e constretto dalla pena,
sendo egli preso per qualche sospetto o per qualche indizio avuto di lui. Ma nell'uno e nell'altro di
questi due pericoli è qualche rimedio, potendosi negare l'uno, allegandone l'odio che colui avesse
teco; e negare l'altro, allegandone la forza che lo constringesse a dire le bugie. È, adunque,
prudenza non comunicare la cosa a nessuno, ma fare secondo gli esempli soprascritti; o, quando
pure la comunichi, non passare uno; dove, se è qualche più pericolo, ve n'è meno assai che
comunicarla con molti. Propinquo a questo modo è quando una necessità ti costringa a fare quello
al principe che tu vedi che 'l principe vorrebbe fare a te, la quale sia tanto grande che non ti dia
tempo se non a pensare ad assicurarti. Questa necessità conduce quasi sempre la cosa al fine
desiderato: ed a provarlo voglio bastino due esempli. Aveva Commodo, imperadore, Leto ed Eletto,
capi de' soldati pretoriani, ed intra' primi amici e familiari suoi; aveva Marzia in nelle prime sue
concubine o amiche; e perché egli era da costoro qualche volta ripreso de' modi con i quali
maculava la persona sua e lo Imperio, diliberò di farli morire; e scrisse in su una listra Marzia, Leto
ed Eletto ed alcuni altri che voleva, la notte sequente fare morire; e quella listra messe sotto il
capezzale del suo letto. Ed essendo ito a lavarsi, un fanciullo favorito da lui, scherzando per camera
e su pel letto, gli venne trovato questa listra, ed uscendo fuora con essa in mano, riscontrò Marzia;
la quale gliene tolse, e, lettala, e veduto il contenuto di essa, subito mandò per Leto ed Eletto; e
conosciuto tutti a tre il pericolo in quale erano, deliberorono prevenire; e, sanza mettere tempo in
mezzo, la notte sequente ammazzorono Commodo. Era Antonino Caracalla, imperadore, con gli
eserciti suoi in Mesopotamia, ed aveva per suo prefetto Macrino, uomo più civile che armigero; e,
come avviene ch'e' principi non buoni temono sempre che altri non operi, contro a loro, quello che
par loro meritare, scrisse Antonino a Materniano suo amico a Roma, che intendessi dagli astrologi,
s'egli era alcuno che aspirasse allo imperio, e gliene avvisasse. Donde Materniano gli scrisse, come
Macrino era quello che vi aspirava; e pervenuta la lettera, prima alle mani di Macrino che dello
imperadore, e, per quella, conosciuta la necessità o d'ammazzare lui prima che nuova lettera venisse
da Roma o di morire, commisse a Marziale centurione, suo fidato, ed a chi Antonino aveva morto,
pochi giorni innanzi uno fratello, che lo ammazzasse: il che fu esequito da lui felicemente. Vedesi,
adunque, che questa necessità che non dà tempo, fa quasi quel medesimo effetto che il modo, da me
sopra detto, che tenne Nelemato di Epiro. Vedesi ancora quello che io dissi, quasi nel principio di
questo discorso, come le minacce offendono più i principi, e sono cagione di più efficace congiure
che le offese: da che uno principe si debbe guardare; perché gli uomini si hanno o accarezzare o
assicurarsi di loro; e non li ridurre mai in termine che gli abbiano a pensare che bisogni loro o
morire o far morire altrui.
Quanto ai pericoli che si corrono in su la esecuzione, nascono questi o da variare l'ordine, o da
mancare l'animo a colui che esequisce, o da errore che lo esecutore faccia per poca prudenza, o per
non dare perfezione alla cosa, rimanendo vivi parte di quelli che si disegnavano ammazzare. Dico,
adunque, come e' non è cosa alcuna che faccia tanto sturbo o impedimento a tutte le azioni degli
uomini, quanto è in uno instante, sanza avere tempo, avere a variare un ordine e a pervertirlo da
quello che si era ordinato prima. E se questa variazione fa disordine in cosa alcuna, lo fa nelle cose
della guerra, ed in cose simili a quelle di che noi parliano; perché in tali azioni non è cosa tanto
necessaria a fare, quanto che gli uomini fermino gli animi loro ad esequire quella parte che tocca
loro: e se gli uomini hanno volto la fantasia per più giorni ad uno modo e ad uno ordine, e quello
subito varii, è impossibile che non si perturbino tutti, e non rovini ogni cosa; in modo che gli è
meglio assai esequire una cosa secondo l'ordine dato, ancora che vi si vegga qualche inconveniente,
che non è, per volere cancellare quello, entrare in mille inconvenienti. Questo interviene quando e'
non si ha tempo a riordinarsi; perché, quando si ha tempo, si può l'uomo governare a suo modo.
La congiura de' Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici, è nota. L'ordine dato era che dessino
desinare al cardinale di San Giorgio, ed a quel desinare ammazzargli: dove si era distribuito chi
aveva a ammazzargli, chi aveva a pigliare il palazzo, e chi correre la città e chiamare alla libertà il
popolo. Accadde che, essendo nella chiesa cattedrale in Firenze i Pazzi, i Medici ed il Cardinale ad
uno ufficio solenne, s'intese come Giuliano la mattina non vi desinava: il che fece che i congiurati
s'adunorono insieme e quello che gli avevano a fare in casa i Medici, deliberarono di farlo in chiesa.
Il che venne a perturbare tutto l'ordine, perché Giovambatista da Montesecco non volle concorrere
all'omicidio, dicendo non lo volere fare in chiesa: talché gli ebbono a mutare nuovi ministri in ogni
azione; i quali, non avendo tempo a fermare l'animo, fecero tali errori, che in essa esecuzione
furono oppressi.
Manca l'animo a chi esequisce, o per riverenza, o per propria viltà dello esecutore. È tanta la maestà
e la riverenza che si tira dietro la presenza d'uno principe, ch'egli è facil cosa o che mitighi o che gli
sbigottisca uno esecutore. A Mario, essendo preso da' Minturnesi, fu mandato uno servo che lo
ammazzasse; il quale, spaventato dalla presenza di quello uomo e dalla memoria del nome suo,
divenuto vile, perdé ogni forza ad ucciderlo. E se questa potenza è in uomo legato e prigione, ed
affogato nella mala fortuna; quanto si può tenere che la sia maggiore in uno principe sciolto, con la
maestà degli ornamenti, della pompa e della comitiva sua! talché ti può questa tale pompa
spaventare, o vero con qualche grata accoglienza raumiliare. Congiurorono alcuni contro a Sitalce
re di Tracia, deputorono il dì della esecuzione; convennono al luogo diputato, dove era il principe;
nessuno di loro si mosse per offenderlo: tanto che si partirono sanza avere tentato alcuna cosa e
sanza sapere quello che se gli avessi impediti; ed incolpavano l'uno l'altro. Caddono in tale errore
più volte; tanto che, scopertasi la congiura, portarono pena di quello male che potettono e non
vollono fare. Congiurarono contro a Alfonso, duca di Ferrara, due sui frategli, ed usarono mezzano
Giannes, prete e cantore del duca; il quale più volte, a loro richiesta, condusse il duca fra loro,
talché gli avevano arbitrio d'ammazzarlo: nondimeno, mai nessuno di loro non ardì di farlo; tanto
che, scoperti, portarono la pena della cattività e poca prudenza loro. Questa negligenza non potette
nascere da altro, se non che convenne o che la presenza gli sbigottisse o che qualche umanità del
principe gli umiliasse. Nasce in tali esecuzioni inconveniente o errore per poca prudenza o per poco
animo; perché l'una e l'altra di queste due cose ti invasa, e portato da quella confusione di cervello ti
fa dire e fare quello che tu non debbi.
E che gli uomini invasino e si confondino, non lo può meglio dimostrare Tito Livio quando discrive
di Alessameno etolo, quando ei volle ammazzare Nabide spartano, di che abbiamo di sopra parlato;
che, venuto il tempo della esecuzione, scoperto che egli ebbe ai suoi quello che si aveva a fare, dice
Tito Livio queste parole: «Collegit et ipse animum, confusum tantae cogitatione rei». Perché gli è
impossibile che alcuno, ancora che di animo fermo, ed uso alla morte degli uomini e adoperare il
ferro, non si confunda. Però si debba eleggere uomini isperimentati in tali maneggi, ed a nessuno
altro credere, ancora che tenuto animosissimo. Perché, dello animo nelle cose grandi, sanza averne
fatto isperienza, non sia alcuno che se ne prometta cosa certa. Può, adunque, questa confusione o
farti cascare l'armi di mano, o farti dire cose che facciano il medesimo effetto. Lucilla, sirocchia di
Commodo, ordinò che Quinziano lo ammazzassi. Costui aspettò Commodo nella entrata dello
anfiteatro e con un pugnale ignudo accostandosegli, gridò: - Questo ti manda il Senato! - le quali
parole fecero che fu prima preso ch'egli avesse calato il braccio per ferire. Messer Antonio da
Volterra, diputato, come di sopra si disse, ad ammazzare Lorenzo de' Medici, nello accostarsegli
disse: - Ah traditore! - la quale voce fu la salute di Lorenzo, e la rovina di quella congiura. Può non
si dare perfezione alla cosa, quando si congiura contro ad uno capo, per le cagioni dette: ma
facilmente non se le dà perfezione quando si congiura contro a due capi, anzi è tanto difficile, che
gli è quasi impossibile che la riesca. Perché fare una simile azione in uno medesimo tempo in
diversi luoghi, è quasi impossibile; perché in diversi tempi non si può fare, non volendo che l'una
guasti l'altra. In modo che, se il congiurare contro ad uno principe è cosa dubbia, pericolosa e poco
prudente; congiurare contro a due, è al tutto vana e leggieri. E se non fosse la riverenza dello
istorico, io non crederrei mai che fosse possibile quello che Erodiano dice di Plauziano, quando ei
commisse a Saturnino centurione, che elli solo ammazzasse Severo ed Antonino, abitanti in diversi
paesi: perché la è cosa tanto discosto da il ragionevole che altro che questa autorità non me lo
farebbe credere.
Congiurorono certi giovani ateniesi contro a Diocle ed Ippia, tiranni di Atene. Ammazzarono
Diocle ed Ippia, che rimase, lo vendicò. Chione e Leonide eraclensi e discepoli di Platone,
congiurarono contro a Clearco e Satiro, tiranni; ammazzarono Clearco; e Satiro, che restò vivo, lo
vendicò. Ai Pazzi, più volte da noi allegati, non successe di ammazzare se non Giuliano. In modo
che di simili congiure contro a più capi, se ne debbe astenere ciascuno, perché non si fa bene né a sé
né alla patria né ad alcuno: anzi quelli che rimangono, diventono più insopportabili e più acerbi;
come sa Firenze, Atene ed Eraclea, state da me preallegate. È vero che la congiura che Pelopida
fece per liberare Tebe sua patria, ebbe tutte le difficultà: nondimeno ebbe felicissimo fine; perché
Pelopida non solamente congiurò contro a due tiranni, ma contro a dieci, non solamente non era
confidente e non gli era facile la entrata a e' tiranni, ma era ribello: nondimanco ei poté venire in
Tebe, ammazzare i tiranni, e liberare la patria. Pure nondimanco fece tutto, con l'aiuto d'uno
Carione, consigliere de' tiranni, dal quale ebbe l'entrata facile alla esecuzione sua. Non sia alcuno,
nondimanco, che pigli lo esemplo da costui: perché come ella fu impresa impossibile, e cosa
maravigliosa a riuscire, così fu, ed è tenuta dagli scrittori, i quali la celebrano, come cosa rara e
quasi sanza esemplo. Può essere interrotta tale esecuzione da una falsa immaginazione o da uno
accidente imprevisto che nasca in su 'l fatto. La mattina che Bruto e gli altri congiurati volevano
ammazzare Cesare, accadde che quello parlò a lungo con Gneo Popilio Lenate, uno de' congiurati; e
vedendo gli altri questo lungo parlamento, dubitarono che detto Popilio non rivelasse a Cesare la
congiura: e furono per tentare di ammazzare Cesare quivi, e non aspettare che fosse in Senato; ed
arebbonlo fatto, se non che il ragionamento finì, e, visto non fare a Cesare moto alcuno
istraordinario, si rassicurarono. Sono queste false immaginazioni da considerarle, ed avervi, con
prudenza, rispetto; e tanto più, quanto egli è facile ad averle. Perché chi ha la sua conscienza
macchiata, facilmente crede che si parli di lui: puossi sentire una parola, detta ad uno altro fine, che
ti faccia perturbare l'animo, e credere che la sia detta sopra il caso tuo, e farti o con la fuga scoprire
la congiura da te, o confondere l'azione con acceleralla fuora di tempo. E questo tanto più
facilmente nasce, quando ei sono molti ad essere conscii della congiura.
Quanto alli accidenti, perché sono inisperati, non si può se non con gli esempli mostrarli, e fare gli
uomini cauti secondo quegli. Luzio Belanti da Siena, del quale di sopra abbiamo fatto menzione,
per lo sdegno aveva contro a Pandolfo, che gli aveva tolto la figliuola che prima gli aveva data per
moglie, diliberò d'ammazzarlo, ed elesse questo tempo. Andava Pandolfo quasi ogni giorno a
vicitare uno suo parente infermo, e nello andarvi passava dalle case di Iulio. Costui, adunque,
veduto questo, ordinò di avere i suoi congiurati in casa ad ordine per ammazzare Pandolfo nel
passare; e, messisi dentro all'uscio armati, teneva uno alla finestra, che, passando Pandolfo, quando
ei fussi presso all'uscio, facessi un cenno. Accadde che, venendo Pandolfo, ed avendo fatto colui il
cenno, riscontrò uno amico che lo fermò; ed alcuni di quelli che erano con lui, vennono a
trascorrere innanzi; e veduto, e sentito il romore d'arme, scopersono l' agguato; in modo che
Pandolfo si salvò, e Iulio ed i compagni si ebbono a fuggire di Siena. Impedì quello accidente di
quello scontro quella azione, e fece a Iulio rovinare la sua impresa. Ai quali accidenti, perché e' son
rari, non si può fare alcuno rimedio. È bene necessario esaminare tutti quegli che possono nascere, e
rimediarvi.
Restaci al presente, solo a disputare de' pericoli che si corrono dopo la esecuzione: i quali sono
solamente uno; e questo è, quando e' rimane alcuno che vendichi il principe morto. Possono,
adunque, rimanere suoi frategli, o suoi figliuoli, o altri aderenti, a chi si aspetti il principato; e
possono rimanere o per tua negligenzia o per le cagioni dette di sopra, che faccino questa vendetta:
come intervenne a Giovanni Andrea da Lampognano, il quale, insieme con i suoi congiurati,
avendo morto il duca di Milano, ed essendo rimaso uno suo figliuolo e due suoi frategli, furono a
tempo a vendicare il morto. E veramente, in questi casi, i congiurati sono scusati, perché non ci
hanno rimedio; ma quando ne rimane vivo alcuno, per poca prudenza, o per loro negligenza, allora
è che non meritano scusa. Ammazzarono alcuni congiurati Forlivesi il conte Girolamo loro signore,
presono la moglie, ed i suoi figliuoli, che erano piccoli; e non parendo loro potere vivere sicuri se
non si insignorivano della fortezza, e non volendo il castellano darla loro, Madonna Caterina (che
così si chiamava la contessa) promisse ai congiurati, che, se la lasciavano entrare in quella, di farla
consegnare loro, e che ritenessono a presso di loro i suoi figliuoli per istatichi. Costoro, sotto questa
fede, ve la lasciarono entrare; la quale, come fu dentro, dalle mura rimproverò loro la morte del
marito, e minacciogli d'ogni qualità di vendetta. E per mostrare che de' suoi figliuoli non si curava,
mostrò loro le membra genitali, dicendo che aveva ancora il modo a rifarne. Così costoro, scarsi di
consiglio e tardi avvedutisi del loro errore, con uno perpetuo esilio patirono pena della poca
prudenza loro. Ma di tutti i pericoli che possono dopo la esecuzione avvenire, non ci è il più certo
né quello che sia più da temere, che quando il popolo è amico del principe che tu hai morto: perché
a questo i congiurati non hanno rimedio alcuno, perché e' non se ne possono mai assicurare. In
esemplo ci è Cesare, il quale, per avere il popolo di Roma amico, fu vendicato da lui; perché,
avendo cacciati i congiurati, di Roma, fu cagione che furono tutti, in varii tempi e in varii luoghi,
ammazzati.
Le congiure che si fanno contro alla patria sono meno pericolose, per coloro che le fanno, che non
sono quelle contro ai principi: perché nel maneggiarle vi sono meno pericoli che in quelle; nello
esequirle vi sono quelli medesimi; dopo la esecuzione non ve ne è alcuno. Nel maneggiarle non vi è
pericoli molti: perché uno cittadino può ordinarsi alla potenza sanza manifestare lo animo e disegno
suo ad alcuno; e, se quegli suoi ordini non gli sono interrotti, seguire felicemente la impresa sua; se
gli sono interrotti con qualche legge, aspettare tempo ed entrare per altra via. Questo s'intende in
una republica dove è qualche parte di corrozione; perché, in una non corrotta, non vi avendo luogo
nessuno principio cattivo, non possono cadere in uno suo cittadino questi pensieri. Possono,
adunque, i cittadini per molti mezzi e molte vie aspirare al principato dove e' non portano pericolo
di essere oppressi: sì perché le republiche sono più tarde che uno principe, dubitano meno, e per
questo sono manco caute; sì perché hanno più rispetto ai loro cittadini grandi, e per questo quelli
sono più audaci e più animosi a fare loro contro. Ciascuno ha letto la congiura di Catilina scritta da
Sallustio, e sa come, poi che la congiura fu scoperta, Catilina non solamente stette in Roma, ma
venne in Senato, e disse villania al Senato ed al Consolo, tanto era il rispetto che quella città aveva
ai suoi cittadini. E partito che fu di Roma, e ch'egli era di già in su gli eserciti, non si sarebbe preso
Lentulo e quelli altri, se non si fossoro avute lettere di loro mano che gli accusavano
manifestamente. Annone, grandissimo cittadino in Cartagine, aspirando alla tirannide, aveva
ordinato nelle nozze d'una sua figliuola di avvelenare tutto il Senato, e dipoi farsi principe. Questa
cosa intesasi, non vi fece il Senato altra provisione che d'una legge, la quale poneva termini alle
spese de' conviti e delle nozze: tanto fu il rispetto che gli ebbero alle qualità sue. È bene vero, che
nello esequire una congiura contro alla patria, vi è difficultà più, e maggiori pericoli, perché rade
volte è che bastino le tue forze proprie conspirando contro a tanti; e ciascuno non è principe d'uno
esercito, come era Cesare o Agatocle o Cleomene, e simili, che hanno ad un tratto e con le forze
loro occupato la patria. Perché a simili è la via assai facile ed assai sicura, ma gli altri, che non
hanno tante aggiunte di forze, conviene che facciano le cose, o con inganno ed arte, o con forze
forestiere. Quanto allo inganno ed all'arte, avendo Pisistrato ateniese vinti i Megarensi, e per questo
acquistata grazia nel popolo, uscì una mattina fuora, ferito, dicendo che la Nobilità per invidia lo
aveva ingiuriato, e domandò di potere menare armati seco per guardia sua. Da questa autorità
facilmente salse a tanta grandezza, che diventò tiranno di Atene. Pandolfo Petrucci tornò, con altri
fuora usciti, in Siena, e gli fu data la guardia della piazza con governo, come cosa mecanica, e che
gli altri rifiutarono; nondimanco quelli armati, con il tempo, gli dierono tanta riputazione, che, in
poco tempo, ne diventò principe. Molti altri hanno tenute altre industrie ed altri modi, e con ispazio
di tempo e sanza pericolo vi si sono condotti. Quegli che con forze loro, o con eserciti esterni,
hanno congiurato per occupare la patria, hanno avuti varii eventi, secondo la fortuna. Catilina
preallegato vi rovinò sotto. Annone, di chi di sopra facemo menzione, non gli essendo riuscito il
veleno, armò, di suoi partigiani, molte migliaia di persone, e loro ed elli furono morti. Alcuni primi
cittadini di Tebe per farsi tiranni chiamorono in aiuto uno esercito spartano, e presono la tirannide
di quella città. Tanto che, esaminate tutte le congiure fatte contro alla patria, non ne troverrai
alcuna, o poche, che, nel maneggiarle, siano oppresse; ma tutte, o sono riuscite o sono rovinate,
nella esecuzione. Esequite che le sono, ancora non portano altri periculi che si porti la natura del
principato in sé: perché divenuto che uno è tiranno, ha i suoi naturali ed ordinari pericoli che gli
arreca la tirannide, alli quali non ha altri rimedi che si siano di sopra discorsi.
Questo è quanto mi è occorso scrivere delle congiure; e se io ho ragionato di quelle che si fanno con
il ferro, e non col veneno, nasce che le hanno tutte uno medesimo ordine. Vero è che quelle del
veneno sono più pericolose, per essere più incerte, perché non si ha commodità per ognuno; e
bisogna conferirlo con chi la ha, e questa necessità del conferire ti fa pericolo. Dipoi, per molte
cagioni, uno beveraggio di veleno non può essere mortale: come intervenne a quelli che
ammazzarono Commodo, che, avendo quello ributtato il veleno che gli avevano dato, furono forzati
a strangolarlo, se vollono che morisse. Non hanno, pertanto, i principi il maggiore nimico che la
congiura: perché, fatta che è una congiura loro contro, o la gli ammazza, o la gli infama. Perché, se
la riesce, e' muoiono; se la si scuopre, e loro ammazzino i congiurati, si crede sempre che la sia
stata invenzione di quel principe, per isfogare l'avarizia e la crudeltà sua contro al sangue e la roba
di quegli che egli ha morti. Non voglio però mancare di avvertire quel principe o quella republica
contro a chi fosse congiurato, che abbino avvertenza, quando una congiura si manifesta loro,
innanzi che facciano impresa di vendicarla, cercare ed intendere molto bene la qualità di essa, e
misurino bene le condizioni de' congiurati e le loro; e quando la truovino grossa e potente, non la
scuoprino mai, infino a tanto che si siano preparati con forze sufficienti ad opprimerla: altrimenti
facendo, scoprirebbono la loro rovina. Però, debbono con ogni industria dissimularla; perché i
congiurati, veggendosi scoperti, cacciati da necessità, operano sanza rispetto. In esemplo ci sono i
Romani; i quali, avendo lasciate due legioni di soldati a guardia de' Capovani contro ai Sanniti,
come altrove dicemo, congiurarono quelli capi delle legioni insieme di opprimere i Capovani: la
quale cosa intesasi a Roma, commissono a Rutilio nuovo Consolo che vi provvedesse; il quale, per
addormentare i congiurati, pubblicò come il Senato aveva raffermo le stanze alle legioni capovane.
Il che credendosi quelli soldati, e parendo loro avere tempo ad esequire il disegno loro, non
cercarono di accelerare la cosa; e così stettono infino che cominciarono a vedere che il Consolo gli
separava l'uno dall'altro: la quale cosa generò in loro sospetto, fece che si scopersono e mandarono
ad esecuzione la voglia loro. Né può essere questo maggiore esemplo nell'una e nell'altra parte:
perché per questo si vede, quanto gli uomini sono lenti nelle cose dove credono avere tempo, e
quanto e' sono presti dove la necessità gli caccia. Né può uno principe o una republica, che vuole
differire lo scoprire una congiura a suo vantaggio, usare termine migliore che offerire, di prossimo,
occasione con arte ai congiurati acciocché, aspettando quella, o parendo loro avere tempo, diano
tempo a quello o a quella a gastigarli. Chi ha fatto altrimenti, ha accelerato la sua rovina: come fece
il duca di Atene, e Guglielmo de' Pazzi. Il duca, diventato tiranno di Firenze, ed intendendo esserli
congiurato contro, fece, sanza esaminare altrimenti la cosa, pigliare uno de' congiurati: il che fece
subito pigliare l'armi agli altri; e torgli lo stato. Guglielmo, sendo commessario in Val di Chiana nel
1501, ed avendo inteso come in Arezzo era una congiura in favore de' Vitelli per tôrre quella terra
ai Fiorentini, subito se n'andò in quella città, e sanza pensare alle forze de' congiurati o alle sue, e,
sanza prepararsi di alcuna forza, con il consiglio del vescovo suo figliuolo, fece pigliare uno de'
congiurati: dopo la quale presura, gli altri subito presono l'armi, e tolsono la terra ai Fiorentini; e
Guglielmo, di commessario, diventò prigione. Ma quando le congiure sono deboli, si possono e
debbono sanza rispetto opprimerle. Non è ancora da imitare in alcuno modo due termini usati, quasi
contrari l'uno all'altro, l'uno dal prenominato duca di Atene, il quale, per mostrare di credere di
avere la benivolenza de' cittadini fiorentini, fece morire uno che gli manifestò una congiura; l'altro
da Dione siragusano, il quale, per tentare l'animo di alcuno che elli aveva a sospetto, consentì a
Callippo, nel quale ei confidava, che mostrasse di farli una congiura contro. E tutti a due questi
capitorono male: perché l'uno tolse l'animo agli accusatori, e dettelo a chi volesse congiurare, l'altro
dette la via facile alla morte sua, anzi fu elli proprio capo della sua congiura; come per isperienza
gl'intervenne, perché Callippo, potendo sanza rispetto praticare contro a Dione, praticò tanto che gli
tolse lo stato e la vita.
<B>7</B>
<B>Donde nasce che le mutazioni </B>
<B>dalla libertà alla servitù, e dalla servitù </B>
<B>alla libertà, alcuna ne è sanza sangue, </B>
<B>alcuna ne è piena. </B>
Dubiterà forse alcuno donde nasca che molte mutazioni, che si fanno dalla vita libera alla tirannica,
e per contrario, alcuna se ne faccia con sangue, alcuna sanza; perché, come per le istorie si
comprende, in simili variazioni alcuna volta sono stati morti infiniti uomini, alcuna volta non è stato
ingiurato alcuno: come intervenne nella mutazione che fe' Roma dai Re a' Consoli, dove non furono
cacciati altri che i Tarquinii, fuora della offensione di qualunque altro. Il che depende da questo:
perché quello stato che si muta, nacque con violenza, o no: e perché, quando e' nasce con violenza,
conviene nasca con ingiuria di molti, è necessario poi, nella rovina sua, che gl'ingiuriati si voglino
vendicare; e da questo desiderio di vendetta nasce il sangue e la morte degli uomini. Ma quando
quello stato è causato da uno comune consenso d'una universalità che lo ha fatto grande, non ha
cagione poi, quando rovina detta universalità, di offendere altri che il capo. E di questa sorte fu lo
stato di Roma, e la cacciata de' Tarquinii; come fu ancora in Firenze lo stato de' Medici, che poi
nelle rovine loro, nel 1494, non furono offesi altri che loro. E così tali mutazioni non vengono ad
essere molto pericolose: ma sono bene pericolosissime quelle che sono fatte da quegli che si hanno
a vendicare; le quali furono sempre mai di sorte, da fare, non che altro, sbigottire chi le legge. E
perché di questi esempli ne sono piene le istorie, io le voglio lasciare indietro.
<B>8</B>
<B>Chi vuole alterare una republica, </B>
<B>debbe considerare il suggetto di quella. </B>
Egli si è di sopra discorso, come uno tristo cittadino non può male operare in una republica che non
sia corrotta: la quale conclusione si fortifica, oltre alle ragioni che allora si dissono, con lo esemplo
di Spurio Cassio e di Manlio Capitolino. Il quale Spurio, essendo uomo ambizioso, e volendo
pigliare autorità istraordinaria in Roma, e guadagnarsi la plebe con il fargli molti beneficii, come
era dividergli quegli campi che i Romani avevano tolto agli Ernici; fu scoperta dai Padri questa sua
ambizione, ed in tanto recata a sospetto, che, parlando egli al popolo, ed offerendo di darli quelli
danari che si erano ritratti dei grani che il publico aveva fatti venire di Sicilia, al tutto gli recusò,
parendo a quello che Spurio volessi dare loro il prezzo della loro libertà. Ma se tale popolo fusse
stato corrotto, non arebbe recusato detto prezzo, e gli arebbe aperta alla tirannide quella via che gli
chiuse. Fa molto maggiore essemplo di questo, Manlio Capitolino: perché mediante costui si vede
quanta virtù d'animo e di corpo, quante buone opere fatte in favore della patria, cancella dipoi una
brutta cupidità di regnare: la quale, come si vede, nacque in costui per la invidia che lui aveva degli
onori erano fatti a Cammillo; e venne in tanta cecità di mente, che, non pensando al modo del
vivere della città, non esaminando il suggetto, quale esso aveva, non atto a ricevere ancora trista
forma, si misse a fare tumulti in Roma contro al Senato e contro alle leggi patrie. Dove si conosce
la perfezione di quella città, e la bontà della materia sua: perché nel caso suo nessuno della Nobilità,
come che fossero agrissimi difensori l'uno dell'altro, si mosse a favorirlo; nessuno de' parenti fece
impresa in suo favore: e con gli altri accusati solevano comparire, sordidati, vestiti di nero, tutti
mesti per accattare misericordia in favore dello accusato, e con Manlio non se ne vide alcuno. I
Tribuni della plebe, che solevano sempre favorire le cose che pareva venissono in beneficio del
popolo; e quanto erano più contro a' nobili, tanto più le tiravano innanzi; in questo caso si unirono
co' nobili, per opprimere una comune peste. Il popolo di Roma desiderosissimo dell'utile proprio, ed
amatore delle cose che venivano contro alla Nobilità, avvenga che facesse a Manlio assai favori,
nondimeno, come i Tribuni lo citarono, e che rimessono la causa sua al giudicio del popolo, quel
popolo, diventato di difensore giudice, sanza rispetto alcuno lo condannò a morte. Pertanto io non
credo che sia esemplo in questa istoria, più atto a mostrare la bontà di tutti gli ordini di quella
Republica, quanto è questo; veggendo che nessuno di quella città si mosse a difendere uno cittadino
pieno d'ogni virtù, e che publicamente e privatamente aveva fatte moltissime opere laudabili.
Perché in tutti loro poté più lo amore della patria che alcuno altro rispetto; e considerarono molto
più a' pericoli presenti che da lui dependevano che a' meriti passati: tanto che con la morte sua e' si
liberarono. E Tito Livio dice: «Hunc exitum habuit vir, nisi in libera civitate natus esset,
memorabilis». Dove sono da considerare due cose: l'una, che per altri modi si ha a cercare gloria in
una città corrotta, che in una che ancora viva politicamente; l'altra (che è quasi quel medesimo che
la prima), che gli uomini nel procedere loro, è tanto più nelle azioni grandi, debbono considerare i
tempi, e accommodarsi a quegli.
E coloro che, per cattiva elezione o per naturale inclinazione, si discordono dai tempi, vivono, il più
delle volte, infelici, ed hanno cattivo esito le azioni loro, al contrario l'hanno quegli che si
concordano col tempo. E sanza dubbio, per le parole preallegate dello istorico, si può conchiudere,
che, se Manlio fusse nato ne' tempi di Mario e di Silla, dove già la materia era corrotta e dove esso
arebbe potuto imprimere la forma dell'ambizione sua, arebbe avuti quegli medesimi séguiti e
successi che Mario e Silla, e gli altri poi, che, dopo loro, alla tirannide aspirarono. Così
medesimamente, se Silla e Mario fussono stati ne' tempi di Manlio, sarebbero stati, in tra le prime
loro imprese, oppressi. Perché un uomo può bene cominciare con suoi modi e con suoi tristi termini
a corrompere uno popolo di una città, ma gli è impossibile che la vita d'uno basti a corromperla in
modo che egli medesimo ne possa trarre frutto; e quando bene e' fussi possibile, con lunghezza di
tempo, che lo facesse, sarebbe impossibile, quanto al modo del procedere degli uomini, che sono
impazienti, e non possono lungamente differire una loro passione. Appresso, s'ingannano nelle cose
loro, ed in quelle, massime, che desiderono assai; talché, o per poca pazienza o per ingannarsene,
entrerebbero in impresa contro a tempo, e capiterebbono male. Però è bisogno, a volere pigliare
autorità in una republica e mettervi trista forma, trovare la materia disordinata dal tempo, e che, a
poco a poco, e di generazione in generazione, si sia condotta al disordine: la quale vi si conduce di
necessità, quando la non sia, come di sopra si discorse, spesso rinfrescata di buoni esempli, o con
nuove leggi ritirata verso i principii suoi. Sarebbe, dunque, stato Manlio uno uomo raro e
memorabile, se e' fussi nato in una città corrotta. E però debbeno i cittadini che nelle republiche
fanno alcuna impresa o in favore della libertà o in favore della tirannide, considerare il suggetto che
eglino hanno, e giudicare da quello la difficultà delle imprese loro. Perché tanto è difficile e
pericoloso volere fare libero uno popolo che voglia vivere servo, quanto è volere fare servo uno
popolo che voglia vivere libero. E perché di sopra si dice, che gli uomini nell'operare debbono
considerare le qualità de' tempi e procedere secondo quegli, ne parlereno a lungo nel sequente
capitolo.
<B>9</B>
<B>Come conviene variare co' tempi </B>
<B>volendo sempre avere buona fortuna. </B>
Io ho considerato più volte come la cagione della trista e della buona fortuna degli uomini è
riscontrare il modo del procedere suo con i tempi: perché e' si vede che gli uomini nelle opere loro
procedono, alcuni con impeto, alcuni con rispetto e con cauzione. E perché nell'uno e nell'altro di
questi modi si passano e' termini convenienti, non si potendo osservare la vera via, nell'uno e
nell'altro si erra. Ma quello viene ad errare meno, ed avere la fortuna prospera, che riscontra, come
ho detto, con il suo modo il tempo, e sempre mai si procede, secondo ti sforza la natura. Ciascuno
sa come Fabio Massimo procedeva con lo esercito suo rispettivamente e cautamente, discosto da
ogni impeto e da ogni audacia romana, e la buona fortuna fece che questo suo modo riscontrò bene
con i tempi. Perché, sendo venuto Annibale in Italia, giovane e con una fortuna fresca, ed avendo
già rotto il popolo romano due volte; ed essendo quella republica priva quasi della sua buona
milizia, e sbigottita; non potette sortire migliore fortuna, che avere uno capitano il quale, con la sua
tardità e cauzione, tenessi a bada il nimico. Né ancora Fabio potette riscontrare tempi più
convenienti a' modi suoi: di che ne nacque che fu glorioso. E che Fabio facessi questo per natura, e
non per elezione, si vide, che, volendo Scipione passare in Affrica con quegli eserciti per ultimare
la guerra, Fabio la contradisse assai, come quello che non si poteva spiccare da' suoi modi e dalla
consuetudine sua; talché, se fusse stato a lui Annibale sarebbe ancora in Italia; come quello che non
si avvedeva che gli erano mutati i tempi, e che bisognava mutare modo di guerra. E se Fabio fusse
stato re di Roma, poteva facilmente perdere quella guerra; perché non arebbe saputo variare, col
procedere suo, secondo che variavono i tempi: ma essendo nato in una republica dove erano diversi
cittadini e diversi umori, come la ebbe Fabio, che fu ottimo ne' tempi debiti a sostenere la guerra,
così ebbe poi Scipione, ne' tempi atti a vincerla.
Quinci nasce che una republica ha maggiore vita, ed ha più lungamente buona fortuna, che uno
principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de' temporali, per la diversità de'
cittadini che sono in quella, che non può uno principe. Perché un uomo che sia consueto a
procedere in uno modo, non si muta mai, come è detto; e conviene di necessità che, quando e' si
mutano i tempi disformi a quel suo modo, che rovini.
Piero Soderini, altre volte preallegato, procedeva in tutte le cose sue con umanità e pazienza.
Prosperò egli e la sua patria, mentre che i tempi furono conformi al modo del procedere suo: ma
come e' vennero dipoi tempi dove e' bisognava rompere la pazienza e la umiltà, non lo seppe fare;
talché insieme con la sua patria rovinò. Papa Iulio II procedette in tutto il tempo del suo pontificato
con impeto e con furia; e perché gli tempi l'accompagnarono bene gli riuscirono le sua imprese
tutte. Ma se fossero venuti altri tempi che avessono ricerco altro consiglio, di necessità rovinava;
perché no arebbe mutato né modo né ordine nel maneggiarsi. E che noi non ci possiamo mutare, ne
sono cagioni due cose: l'una, che noi non ci possiamo opporre a quello che ci inclina la natura;
l'altra, che, avendo uno con uno modo di procedere prosperato assai, non è possibile persuadergli
che possa fare bene a procedere altrimenti: donde ne nasce che in uno uomo la fortuna varia, perché
ella varia i tempi, ed elli non varia i modi. Nascene ancora le rovine delle cittadi, per non si variare
gli ordini delle republiche co' tempi; come lungamente di sopra discorremo: ma sono più tarde,
perché le penono più a variare, perché bisogna che venghino tempi che commuovino tutta la
republica, a che uno solo, col variare il modo del procedere, non basta.
E perché noi abbiamo fatto menzione di Fabio Massimo che tenne a bada Annibale, mi pare da
discorrere nel capitolo sequente, se uno capitano, volendo fare la giornata in ogni modo col nimico,
può essere impedito, da quello, che non lo faccia.
<B>10</B>
<B>Che uno capitano </B>
<B>non può fuggire la giornata, </B>
<B>quando l'avversario la vuol fare </B>
<B>in ogni modo. </B>
«Cneus Sulpitius dictator adversus Gallos bellum trahebat, nolens se fortunae committere adversus
hostem, quem tempus deteriorem in dies, et locus alienus, faceret». Quando e' séguita uno errore,
dove tutti gli uomini o la maggiore parte s'ingannino, io non credo che sia male molte volte
riprovarlo. Pertanto, come che io abbia di sopra più volte mostro quanto le azioni circa le cose
grandi sieno disformi a quelle delli antichi tempi, nondimeno non mi pare superfluo al presente
replicarlo. Perché, se in alcuna parte si devia dagli antichi ordini si devia massime nelle azioni
militari, dove al presente non è osservata alcuna di quelle cose che dagli antichi erano stimate assai.
Ed è nato questo inconveniente, perché le republiche ed i principi hanno imposta questa cura ad
altrui; e per fuggire i pericoli si sono discostati da questo esercizio: e se pure si vede qualche volta
uno re de' tempi nostri andare in persona, non si crede, però, che da lui nasca altri modi che
meritino più laude. Perché quello esercizio, quando pure lo fanno, lo fanno a pompa, e non per
alcuna altra laudabile cagione. Pure, questi fanno minori errori rivedendo i loro eserciti qualche
volta in viso, tenendo a presso di loro il titolo dello imperio, che non fanno le republiche, e massime
le italiane; le quali, fidandosi d'altrui, né s'intendendo in alcuna cosa di quello che appartenga alla
guerra; e, dall'altro canto, volendo, per parere d'essere loro il principe, deliberarne, fanno in tale
deliberazione mille errori. E benché di alcuno ne abbi discorso altrove, voglio al presente non ne
tacere uno importantissimo. Quando questi principi oziosi, o republiche effeminate, mandono fuora
uno loro capitano, la più savia commissione che paia loro dargli, è quando gl'impongono che per
alcuno modo venga a giornata, anzi, sopra ogni cosa, si guardi dalla zuffa; e parendo loro, in questo,
imitare la prudenza di Fabio Massimo, che, differendo il combattere, salvò lo stato ai Romani, non
intendono che, la maggiore parte delle volte, questa commissione è nulla o è dannosa. Per che si
debbe pigliare questa conclusione: che uno capitano, che voglia stare alla campagna, non può
fuggire la giornata, qualunque volta il nemico la vuole fare in ogni modo. E non è altro questa
commissione che dire: fa' la giornata a posta del nimico, e non a tua. Perché a volere stare in
campagna, e non fare la giornata, non ci è altro rimedio sicuro che porsi cinquanta miglia almeno
discosto al nimico; e di poi tenere buone spie, che, venendo quello verso di te, tu abbi tempo a
discostarti. Uno altro partito ci è; inchiudersi in una città. E l'uno e l'altro di questi due partiti è
dannosissimo. Nel primo si lascia in preda il paese suo al nimico; ed uno principe valente vorrà più
tosto tentare la fortuna della zuffa, che allungare la guerra con tanto danno de' sudditi. Nel secondo
partito è la perdita manifesta; perché e' conviene che, riducendoti con uno esercito in una città, tu
venga ad essere assediato, ed in poco tempo patire fame, e venire a dedizione. Talché fuggire la
giornata, per queste due vie, è dannosissimo. Il modo che tenne Fabio Massimo, di stare ne' luoghi
forti, è buono quando tu hai sì virtuoso esercito, che il nimico non abbia ardire di venirti a trovare
dentro a' tuoi vantaggi. Né si può dire che Fabio fuggissi la giornata, ma più tosto che la volessi fare
a suo vantaggio. Perché, se Annibale fusse ito a trovarlo, Fabio l'arebbe aspettato, e fatto la giornata
seco: ma Annibale non ardì mai di combattere con lui a modo di quello. Tanto che la giornata fu
fuggita così da Annibale come da Fabio: ma se uno di loro l'avessi voluta fare in ogni modo, l'altro
non vi aveva se non uno de' tre rimedi; i due sopradetti, o fuggirsi.
E che questo che io dico sia vero, si vede manifestamente con mille esempli, e massime nella guerra
che i Romani feciono con Filippo di Macedonia, padre di Perse: perché Filippo, sendo assaltato dai
Romani, deliberò non venire alla zuffa; e, per non vi venire, volle fare prima come aveva fatto
Fabio Massimo in Italia; e si pose con il suo esercito sopra la sommità d'uno monte, dove si afforzò
assai, giudicando ch'e' Romani non avessero ardire di andare a trovarlo. Ma, andativi e
combattutolo, lo cacciarono di quel monte; ed egli, non potendo resistere, si fuggì con la maggiore
parte delle genti. E quel che lo salvò che non fu consumato in tutto, fu la iniquità del paese, qual
fece che i Romani non poterono seguirlo. Filippo, adunque, non volendo azzuffarsi, ed essendosi
posto con il campo presso a' Romani, si ebbe a fuggire; ed avendo conosciuto per questa isperienza,
come, non volendo combattere, non gli bastava stare sopra i monti, e nelle terre non volendo
rinchiudersi, deliberò pigliare l'altro modo, di stare discosto molte miglia al campo romano. Donde,
se i Romani erano in una provincia, e' se ne andava nell'altra, e così sempre, donde i Romani
partivano esso entrava. E veggendo, alla fine, come nello allungare la guerra per questa via, le sue
condizioni peggioravano, e che i suoi suggetti ora da lui ora dai nimici erano oppressi, deliberò di
tentare la fortuna della zuffa; e così venne con i Romani ad una giornata giusta. È utile adunque non
combattere, quando gli eserciti hanno queste condizioni che aveva lo esercito di Fabio, e che ora ha
quello di Gneo Sulpizio, cioè avere uno esercito sì buono, che il nimico non ardisca venirti a trovare
drento alle fortezze tue; e che il nimico sia in casa tua sanza avere preso molto piè, dove e' patisca
necessità del vivere. Ed è in questo caso il partito utile, per le ragioni che dice Tito Livio: «nolens
se fortunae committere adversus hostem, quem tempus deteriorem in dies, et locus alienus, faceret».
Ma in ogni altro termine non si può fuggire giornata, se non con tuo disonore e pericolo. Perché
fuggirsi, come fece Filippo, è come essere rotto; e con più vergogna, quanto meno si è fatto pruova
della tua virtù. E se a lui riuscì salvarsi, non riuscirebbe ad uno altro che non fussi aiutato dal paese
come egli. Che Annibale non fussi maestro di guerra, alcuno mai non lo dirà ed essendo allo
incontro di Scipione in Affrica, s'egli avessi veduto vantaggio in allungare la guerra, ei lo arebbe
fatto; e per avventura, sendo lui buono capitano, ed avendo buono esercito, lo arebbe potuto fare,
come fece Fabio in Italia: ma non lo avendo fatto, si debbe credere che qualche cagione importante
lo movessi. Perché uno principe che abbi uno esercito messo insieme, e vegga che per difetto di
danari o d'amici e' non può tenere lungamente tale esercito, è matto al tutto se non tenta la fortuna
innanzi che tale esercito si abbia a risolvere: perché, aspettando e' perde il certo; tentando, potrebbe
vincere.
Un'altra cosa ci è ancora da stimare assai: la quale è che si debbe, eziandio perdendo, volere
acquistare gloria; e più gloria si ha, ad essere vinto per forza, che per altro inconveniente che ti abbi
fatto perdere. Sì che Annibale doveva essere constretto da queste necessità. E dall'altro canto,
Scipione, quando Annibale avessi differita la giornata, e non gli fusse bastato l'animo irlo a trovare
ne' luoghi forti, non pativa, per avere di già vinto Siface ed acquistato tante terre in Affrica, che vi
poteva stare sicuro e con commodità come in Italia. Il che non interveniva ad Annibale, quando era
all'incontro di Fabio; né a questi Franciosi, che erano allo incontro di Sulpizio.
Tanto meno ancora può fuggire la giornata colui che con lo esercito assalta il paese altrui; perché,
se vuole entrare nel paese del nimico, gli conviene, quando il nimico se gli facci incontro, azzuffarsi
seco, e se si pone a campo ad una terra, si obliga tanto più alla zuffa: come ne' tempi nostri
intervenne al duca Carlo di Borgogna, che, sendo accampato a Moratto, terra de' Svizzeri, fu da'
Svizzeri assaltato e rotto, e come intervenne allo esercito di Francia, che, campeggiando Novara, fu
medesimamente da' Svizzeri rotto.
<B>11</B>
<B>Che chi ha a fare con assai, </B>
<B>ancora che sia inferiore, </B>
<B>pure che possa sostenere gli primi impeti, </B>
<B>vince. </B>
La potenza de' Tribuni della plebe nella città di Roma fu grande; e fu necessaria, come molte volte
da noi è stato discorso, perché altrimenti non si sarebbe potuto porre freno all'ambizione della
Nobilità, la quale arebbe molto tempo innanzi corrotta quella republica, che la non si corroppe.
Nondimeno, perché in ogni cosa, come altre volte si è detto, è nascoso qualche proprio male, che fa
surgere nuovi accidenti, è necessario a questo con nuovi ordini provvedere. Essendo, pertanto,
divenuta l'autorità tribunizia insolente, e formidabile alla Nobilità e a tutta Roma, e' ne sarebbe nato
qualche inconveniente, dannoso alla libertà romana, se da Appio Claudio non fosse stato mostro il
modo con il quale si avevano a difendere contro all'ambizione de' Tribuni: il quale fu che trovarono
sempre infra loro qualcuno che fussi, o pauroso, o corrottibile, o amatore del comune bene;
talmente che lo disponevano ad opporsi alla volontà di quegli altri, che volessono tirare innanzi
alcuna deliberazione contro alla volontà del Senato. Il quale rimedio fu un grande temperamento a
tanta autorità, e per molti tempi giovò a Roma. La quale cosa mi ha fatto considerare che,
qualunche volta e' sono molti potenti uniti contro a un altro potente ancora che tutti insieme siano
molto più potenti di quello, nondimanco si debbe sempre sperare più in quel solo e men gagliardo
che in quelli assai, ancora che gagliardissimi. Perché, lasciando stare tutte quelle cose delle quali
uno solo si può, più che molti, prevalere (che sono infinite), sempre occorrerà questo: che potrà,
usando un poco d'industria, disunire gli assai; e quel corpo, ch'era gagliardo, fare debole. Io non
voglio in questo addurre antichi esempli, che ce ne sarebbono assai; ma voglio mi bastino i
moderni, seguiti ne' tempi nostri.
Congiurò nel 1483 tutta Italia contro ai Viniziani; e poiché loro al tutto erano persi, e non potevano
stare più con lo esercito in campagna, corruppono il signor Lodovico che governava Milano, e per
tale corrozione feciono uno accordo, nel quale non solamente riebbono le terre perse ma usurparono
parte dello stato di Ferrara. E così coloro che perdevano nella guerra, restarono superiori nella pace.
Pochi anni sono, congiurò contro a Francia tutto il mondo: nondimeno, avanti che si vedesse il fine
della guerra, Spagna si ribellò da' confederati, e fece accordo seco; in modo che gli altri confederati
furono constretti, poco dipoi, ad accordarsi ancora essi. Talché, sanza dubbio, si debbe sempre mai
fare giudicio, quando e' si vede una guerra mossa da molti contro ad uno, che quello uno abbia a
restare superiore, quando sia di tale virtù, che possa sostenere i primi impeti, e col temporeggiarsi
aspettare tempo. Perché, quando ei non fosse così, porterebbe mille pericoli: come intervenne a'
Viniziani nell'otto, i quali, se avessero potuto temporeggiare con lo esercito francioso, ed avere
tempo a guadagnarsi alcuno di quegli che gli erano collegati contro, averiano fuggita quella rovina;
ma, non avendo virtuose armi da potere temporeggiare il nimico, e per questo non avendo avuto
tempo a separarne alcuno, rovinarono. Per che si vide che il Papa, riavuto ch'egli ebbe le cose sue,
si fece loro amico, e così Spagna: e molto volentieri l'uno e l'altro di questi due principi arebbero
salvato loro lo stato di Lombardia contro a Francia, per non la fare sì grande in Italia, se gli
avessono potuto. Potevano, dunque, i Viniziani dare parte per salvare il resto: il che se loro
avessono fatto in tempo che paressi che la non fussi stata necessità, ed innanzi ai moti della guerra,
era savissimo partito; ma in su' moti era vituperoso, e per avventura di poco profitto. Ma, innanzi a
tali moti, pochi in Vinegia de' cittadini potevano vedere il pericolo, pochissimi vedere il rimedio, e
nessuno consigliarlo. Ma, per tornare al principio di questo discorso, conchiudo: che così come il
Senato romano ebbe rimedio per la salute della patria contro all'ambizione de' Tribuni, per essere
molti, così arà rimedio qualunque principe che sia assaltato da molti, qualunque volta ei saprà con
prudenza usare termini convenienti a disgiungerli.
<B>12</B>
<B>Come uno capitano prudente </B>
<B>debbe imporre ogni necessità </B>
<B>di combattere a' suoi soldati, </B>
<B>e, a quegli degli inimici, torla. </B>
Altre volte abbiamo discorso quanto sia utile alle umane azioni la necessità, ed a quale gloria siano
sute condutte da quella; e, come da alcuni morali filosofi è stato scritto, le mani e la lingua degli
uomini, duoi nobilissimi instrumenti a nobilitarlo, non arebbero operato perfettamente, né condotte
le opere umane a quella altezza si veggono condotte, se dalla necessità non fussoro spinte. Sendo
conosciuta, adunque, dagli antichi capitani degli eserciti la virtù di tale necessità, e quanto per
quella gli animi de' soldati diventavono ostinati al combattere; facevano ogni opera perché i soldati
loro fussero constretti da quella; e, dall'altra parte, usavono ogni industria perché gli nimici se ne
liberassero: e per questo molte volte apersono al nimico quella via che loro gli potevano chiudere;
ed a' suoi soldati propri chiusono quella che potevano lasciare aperta. Quello, adunque, che desidera
o che una città si defenda ostinatamente, o che uno esercito in campagna ostinatamente combatta,
debbe, sopra ogni altra cosa, ingegnarsi di mettere, ne' petti di chi ha a combattere, tale necessità.
Onde uno capitano prudente, che avesse a andare ad una espugnazione d'una città, debbe misurare
la facilità o la difficultà dello espugnarla, dal conoscere e considerare quale necessità constringa gli
abitatori di quella a difendersi: e quando vi truovi assai necessità che gli constringa alla difesa,
giudichi la espugnazione difficile; altrimenti, la giudichi facile. Quinci nasce che le terre, dopo la
rebellione, sono più difficili ad acquistare, che le non sono nel primo acquisto; perché, nel
principio, non avendo cagione di temere di pena, per non avere offeso, si arrendono facilmente; ma
parendo loro, sendosi dipoi ribellate, avere offeso, e per questo temendo la pena, diventono difficili
ad essere espugnate. Nasce ancora tale ostinazione da e' naturali odii che hanno i principi vicini, e le
republiche vicine, l'uno con l'altro: il che procede da ambizione di dominare e gelosia del loro stato,
massimamente se le sono republiche, come interviene in Toscana; la quale gara e contenzione ha
fatto e farà sempre difficile la espugnazione l'una dell'altra. Pertanto, chi considera bene i vicini
della città di Firenze ed i vicini della città di Vinegia, non si maraviglierà, come molti fanno, che
Firenze abbia più speso nelle guerre, ed acquistato meno di Vinegia: perché tutto nasce da non
avere avuto i Viniziani le terre vicine sì ostinate alla difesa, quanto ha avuto Firenze; per essere
state tutte le cittadi finitime a Vinegia use a vivere sotto uno principe, e non libere; e quegli che
sono consueti a servire, stimono molte volte poco il mutare padrone, anzi molte volte lo desiderano.
Talché Vinegia, benché abbia avuto i vicini più potenti che Firenze, per avere trovato le terre meno
ostinate, le ha potuto più tosto vincere, che non ha fatto quella sendo circundata da tutte città libere.
Debbe adunque uno capitano, per tornare al primo discorso, quando egli assalta una terra, con ogni
diligenza ingegnarsi di levare, a' difensori di quella, tale necessità, e, per consequenzia, tale
ostinazione; promettendo perdono, se gli hanno paura della pena; e se gli avessono paura della
libertà, mostrare di non andare contro al comune bene, ma contro a pochi ambiziosi della città; la
quale cosa molte volte ha facilitato le imprese e le espugnazioni delle terre. E benché simili colori
sieno facilmente conosciuti, e massime dagli uomini prudenti; nondimeno vi sono spesso ingannati i
popoli, i quali, cupidi della presente pace, chiuggono gli occhi a qualunque altro laccio che sotto le
larghe promesse si tendesse. E per questa via infinite città sono diventate serve: come intervenne a
Firenze ne' prossimi tempi; e come intervenne a Crasso ed allo esercito suo: il quale, come che
conoscesse le vane promesse de' Parti, le quali erano fatte per tôrre via la necessità a' suoi soldati
del difendersi, non per tanto non potette tenergli ostinati, accecati dalle offerte della pace che erano
fatte loro da' loro inimici; come si vede particularmente leggendo la vita di quello. Dico pertanto,
che avendo i Sanniti, fuora delle convenzioni dello accordo, per l'ambizione di pochi, corso e
predato sopra i campi de' confederati romani; ed avendo dipoi mandati imbasciadori a Roma a
chiedere pace, offerendo di ristituire le cose predate, e di dare prigioni gli autori de' tumulti e della
preda; furono ributtati dai Romani. E ritornati in Sannio sanza speranza di accordo, Claudio Ponzio,
capitano allora dello esercito de' Sanniti, con una sua notabile orazione mostrò come i Romani
volevono in ogni modo guerra, e, benché per loro si desiderasse la pace, necessità gli faceva seguire
la guerra dicendo queste parole: «Iustum est bellum quibus necessarium, et pia arma quibus nisi in
armis spes est»; sopra la quale necessità egli fondò con gli suoi soldati la speranza della vittoria. E
per non avere a tornare più sopra questa materia, mi pare di addurci quelli esempli romani che sono
più degni di notazione. Era Gaio Manilio con lo esercito, all'incontro de' Veienti; ed essendo parte
dello esercito veientano entrato dentro agli steccati di Manilio, corse Manilio con una banda al
soccorso di quegli; e perché i Veienti non potessino salvarsi, occupò tutti gli aditi del campo; donde
veggendosi i Veienti rinchiusi, cominciarono a combattere con tanta rabbia, che gli ammazzarono
Manilio; ed arebbero tutto il resto de' Romani oppressi, se dalla prudenza d'uno Tribuno non fusse
stato loro aperta la via ad andarsene. Dove si vede come, mentre la necessità costrinse i Veienti a
combattere, e' combatterono ferocissimamente; ma quando viddero aperta la via, pensarono più a
fuggire che a combattere.
Erano entrati i Volsci e gli Equi con gli eserciti loro ne' confini romani. Mandossi loro allo incontro
i Consoli. Talché, nel travagliare la zuffa, lo esercito de' Volsci, del quale era capo Vezio Messio, si
trovò, ad un tratto, rinchiuso intra gli steccati suoi, occupati dai Romani, e l'altro esercito romano; e
veggendo come gli bisognava o morire o farsi la via con il ferro, disse a' suoi soldati queste parole:
«Ite mecum; non murus nec vallum, armati armatis obstant; virtute pares, quae ultimum ac
maximum telum est, necessitate superiores estis». Sì che questa necessità è chiamata da Tito Livio
«ultimum ac maximum telum». Cammillo, prudentissimo di tutti i capitani romani, sendo già dentro
nella città de' Veienti con il suo esercito, per facilitare il pigliare quella, e tôrre ai nimici una ultima
necessità di difendersi, comandò, in modo che i Veienti udirono, che nessuno offendessi quegli che
fussono disarmati; talché, gittate l'armi in terra, si prese quella città quasi sanza sangue. Il quale
modo fu dipoi da molti capitani osservato.
<B>13</B>
<B>Dove sia più da confidare, </B>
<B>o in uno buono capitano </B>
<B>che abbia lo esercito debole, </B>
<B>o in uno buono esercito che abbia </B>
<B>il capitano debole. </B>
Essendo diventato Coriolano esule di Roma, se n'andò ai Volsci; dove contratto uno esercito per
vendicarsi contro ai suoi cittadini, se ne venne a Roma; donde dipoi si partì, più per la piatà della
sua madre, che per le forze de' Romani. Sopra il quale luogo Tito Livio dice, essersi per questo
conosciuto, come la Republica romana crebbe più per la virtù de' capitani che de' soldati;
considerato come i Volsci per lo addietro erano stati vinti, e solo poi avevano vinto che Coriolano
fu loro capitano. E benché Livio tenga tale opinione, nondimeno si vede in molti luoghi della sua
istoria la virtù de' soldati sanza capitano avere fatto maravigliose pruove, ed essere stati più ordinati
e più feroci dopo la morte de' Consoli loro, che innanzi che morissono: come occorse nello esercito
che i Romani avevano in Ispagna sotto gli Scipioni; il quale, morti i due capitani, poté, con la virtù
sua, non solamente salvare sé stesso, ma vincere il nimico, e conservare quella provincia alla
Republica. Talché, discorrendo tutto, si troverrà molti esempli, dove solo la virtù de' soldati arà
vinta la giornata; e molti altri, dove solo la virtù de' capitani arà fatto il medesimo effetto: in modo
che si può giudicare, l'uno abbia bisogno dell'altro, e l'altro dell'uno.
Ècci bene da considerare, prima, quale sia più da temere, o d'uno buono esercito male capitanato, o
d'uno buono capitano accompagnato da cattivo esercito. E seguendo in questo la opinione di Cesare,
si debbe estimare poco l'uno e l'altro. Perché, andando egli in Ispagna contro a Afranio e Petreio,
che avevano uno ottimo esercito, disse che gli stimava poco, «quia ibat ad exercitum sine duce»,
mostrando la debolezza de' capitani. Al contrario, quando andò in Tessaglia contro a Pompeio,
disse: «Vado ad ducem sine exercitu».
Puossi considerare un'altra cosa: a quale è più facile, o ad uno buono capitano fare uno buono
esercito, o ad uno buono esercito fare uno buono capitano. Sopra che dico che tale questione pare
decisa: perché più facilmente molti buoni troverranno o instruiranno uno, tanto che diventi buono,
che non farà uno molti. Lucullo, quando fu mandato contro a Mitridate, era al tutto inesperto della
guerra; nondimanco quel buono esercito, dove era assai capi ottimi, lo feciono tosto uno buono
capitano. Armorono i Romani, per difetto di uomini, assai servi, e gli dieno ad esercitare a
Sempronio Gracco, il quale in poco tempo fece uno buon esercito. Pelopida ed Epaminonda, come
altrove dicemo, poi che gli ebbono tratta Tebe loro patria della servitù degli Spartani, in poco tempo
fecero, de' contadini tebani, soldati ottimi, che poterono non solamente sostenere la milizia spartana
ma vincerla. Sì che la cosa è pari, perché l'uno buono può trovare l'altro. Nondimeno uno esercito
buono sanza capo buono suole diventare insolente e pericoloso; come diventò lo esercito di
Macedonia dopo la morte di Alessandro, e come erano i soldati veterani nelle guerre civili. Tanto
che io credo che sia più da confidare assai in uno capitano che abbi tempo ad instruire uomini e
commodità di armargli, che in uno esercito insolente con uno capo tumultuario fatto da lui. Però è
da addoppiare la gloria e la laude a quelli capitani che, non solamente hanno avuto a vincere il
nimico, ma, prima che venghino alle mani con quello, è convenuto loro instruire lo esercito loro, e
farlo buono: perché in questi si mostra doppia virtù, e tanto rada, che, se tale ferità fosse stata data a
molti, ne sarebbono stimati e riputati meno assai che non sono.
<B>14</B>
<B>Le invenzioni nuove, </B>
<B>che appariscono nel mezzo della zuffa, </B>
<B>e le voci nuove che si odino, </B>
<B>quali effetti facciano. </B>
Di quanto momento sia ne' conflitti e nelle zuffe uno nuovo accidente che nasca per cosa che di
nuovo si vegga o oda, si dimostra in assai luoghi: e massime per questo esemplo che occorse nella
zuffa che i Romani fecero con i Volsci: dove Quinzio, veggendo inclinare uno de' corni del suo
esercito, cominciò a gridare forte, che gli stessono saldi perché l'altro corno dello esercito era
vittorioso: con la quale parola avendo dato animo ai suoi e sbigottimento a' nimici, vinse. E se tali
voci in uno esercito bene ordinato fanno effetti grandi, in uno tumultuario e male ordinato gli fanno
grandissimi, perché il tutto è mosso da simile vento. Io ne voglio addurre uno esemplo notabile,
occorso ne' tempi nostri. Era la città di Perugia, pochi anni sono, divisa in due parti, Oddi e
Baglioni. Questi regnavano; quelli altri erano esuli: i quali avendo, mediante loro amici, ragunato
esercito, e ridottisi in alcuna loro terra propinqua a Perugia, con il favore della parte, una notte
entrarono in quella città, e, sanza essere iscoperti, se ne venivano per pigliare la piazza. E perché
quella città in su tutti i canti delle vie ha catene che la tengono sbarrata, avevano le genti oddesche,
davanti, uno che con una mazza di ferro rompea i serrami di quelle, acciocché i cavagli potessero
passare; e restandogli a rompere solo quella che sboccava in piazza, ed essendo già levato il romore
all'armi, ed essendo colui che rompeva oppresso dalla turba che gli veniva dietro, né potendo per
questo alzare bene le braccia per rompere; per potersi maneggiare, gli venne detto: - Fatevi indietro!
- la quale voce andando di grado in grado dicendo «addietro!», cominciò a fare fuggire gli ultimi, e
di mano in mano gli altri, con tanta furia, che per loro medesimi si ruppono: e così restò vano il
disegno degli Oddi, per cagione di sì debole accidente.
Dove è da considerare che, non tanto gli ordini in uno esercito sono necessari per potere
ordinatamente combattere quanto perché ogni minimo accidenti non ti disordini. Perché, non per
altro le moltitudini popolari sono disutili per la guerra, se non perché ogni romore ogni voce, ogni
strepito, gli altera e fagli fuggire. E però uno buono capitano in tra gli altri suoi ordini debbe
ordinare chi sono quegli che abbino a pigliare la sua voce e rimetterla ad altri, ed assuefare gli suoi
soldati che non credino se non a quelli; e gli suoi capitani, che non dichino se non quel che da lui è
commesso; perché, non osservata bene questa parte, si è visto molte volte avere fatti disordini
grandissimi.
Quanto al vedere cose nuove, debbe ogni capitano ingegnarsi di farne apparire alcuna, mentre che
gli eserciti sono alle mani, che dia animo a' suoi e tolgalo agli inimici; perché, intra gli accidenti che
ti diano la vittoria, questo è efficacissimo. Di che se ne può addurre per testimone Caio Sulpizio,
dittatore romano; il quale venendo a giornata con i Franciosi, armò tutti i saccomanni e gente vile
del campo; e quegli fatti salire sopra i muli ed altri somieri con armi ed insegne da parere gente a
cavallo, gli messe sotto le insegne, dietro ad uno colle, e comandò che, ad uno segno dato, nel
tempo che la zuffa fosse più gagliarda, si scoprissono e mostrassinsi a' nimici. La quale cosa così
ordinata e fatta, dette tanto terrore ai Franciosi, che perderono la giornata. E però uno buono
capitano debbe fare due cose: l'una, di vedere, con alcune di queste nuove invenzioni, di sbigottire il
nimico; l'altra, di stare preparato che, essendo fatte dal nimico contro di lui, le possa scoprire, e
fargliene tornare vane. Come fece il re d'India a Semiramis; la quale, veggendo come quel re aveva
buono numero di elefanti, per isbigottirlo, e per mostrargli che ancora essa n'era copiosa, ne formò
assai con cuoia di bufoli e di vacche, e, quegli messi sopra i cammegli, gli mandò davanti; ma
conosciuto da il re lo inganno, le tornò quel suo disegno, non solamente vano, ma dannoso. Era
Mamerco, dittatore, contro ai Fidenati, i quali, per isbigottire lo esercito romano, ordinarono che, in
su l'ardore della zuffa, uscisse fuori di Fidene numero di soldati con fuochi in su le lance, acciocché
i Romani, occupati dalla novità della cosa, rompessono intra loro gli ordini. Sopra che è da notare,
che, quando tali invenzioni hanno più del vero che del fitto, si può bene allora rappresentarle agli
uomini, perché, avendo assai del gagliardo, non si può scoprire così presto la debolezza loro: ma
quando le hanno più del fitto che del vero, è bene, o non le fare o, faccendole, tenerle discosto, di
qualità che le non possino essere così presto scoperte; come fece Caio Sulpizio de' mulattieri.
Perché, quando vi è dentro debolezza, appressandosi, le si scuoprono tosto, e ti fanno danno, e non
favore; come fero gli elefanti a Semiramis, e ai Fidenati i fuochi: i quali benché nel principio
turbassono un poco lo esercito, nondimeno, come e' sopravenne il Dittatore, e cominciò a gridargli,
dicendo che non si vergognavano a fuggire il fumo come le pecchie, e che dovessono rivoltarsi a
loro; gridando: «Suis flammis delete Fidenas, quas vestris beneficiis placare non potuistis»; tornò
quello trovato ai Fidenati inutile, e restarono perditori della zuffa.
<B>15</B>
<B>Che uno e non molti </B>
<B>sieno preposti ad uno esercito, </B>
<B>e come i più comandatori offendono. </B>
Essendosi ribellati i Fidenati, ed avendo morto quella colonia che i Romani avevano mandata in
Fidene, crearono i Romani, per rimediare a questo insulto, quattro Tribuni con potestà consolare de'
quali lasciatone uno alla guardia di Roma, ne mandarono tre contro ai Fidenati ed i Veienti: i quali,
per essere divisi infra loro e disuniti, ne riportarono disonore, e non danno: perché, del disonore, ne
furono cagione loro; del non ricevere danno, ne fu cagione la virtù de' soldati. Donde i Romani,
veggendo questo disordine, ricorsono alla creazione del Dittatore, acciocché un solo riordinasse
quello che tre avevano disordinato. Donde si conosce la inutilità di molti comandadori in uno
esercito, o in una terra che si abbia a difendere; e Tito Livio non lo può più chiaramente dire che
con le infrascritte parole: «Tres Tribuni potestate consulari documento fuere, quam plurium
imperium bello inutile esset, tendendo ad sua quisque consilia, cum alii aliud videretur, aperuerunt
ad occasionem locum hosti».
E benché questo sia assai esemplo a provare il disordine che fanno nella guerra i più comandatori,
ne voglio addurre alcuno altro, e moderno ed antico, per maggiore dichiarazione della cosa.
Nel 1500, dopo la ripresa che fece il re di Francia Luigi XII, di Milano, mandò le sue genti a Pisa
per ristituirla ai Fiorentini; dove furono mandati commessari Giovambatista Ridolfi e Luca di
Antonio degli Albizi. E perché Giovambatista era uomo di riputazione, e di più tempo, Luca al tutto
lasciava governare ogni cosa a lui: e s'egli non dimostrava la sua ambizione con opporsegli, la
dimostrava col tacere, e con lo straccurare e vilipendere ogni cosa, in modo che non aiutava le
azioni del campo né con l'opere né con il consiglio, come se fusse stato uomo di nessuno momento.
Ma si vide poi tutto il contrario; quando Giovambatista, per certo accidente seguito, se n'ebbe a
tornare a Firenze; dove Luca, rimasto solo, dimostrò quanto con l'animo, con la industria e col
consiglio, valeva: le quali tutte cose, mentre vi fu la compagnia, erano perdute. Voglio di nuovo
addurre, in confermazione di questo, parole di Tito Livio; il quale, referendo come, essendo
mandato da' Romani contro agli Equi Quinzio ed Agrippa suo collega, Agrippa volle che tutta
l'amministrazione della guerra fosse appresso a Quinzio, e' dice: «Saluberrimum in administratione
magnarum rerum est, summam imperii apud unum esse». Il che è contrario a quello che oggi fanno
queste nostre republiche e principi di mandare ne' luoghi, per amministrargli meglio, più d'uno
commessario e più d'uno capo: il che fa una inestimabile confusione. E se si cercassi le cagioni
della rovina degli eserciti italiani e franciosi ne' nostri tempi, si troveria la potissima essere stata
questa. E puossi conchiudere veramente, come egli è meglio mandare in una ispedizione uno uomo
solo di comunale prudenzia, che due valentissimi uomini insieme con la medesima autorità.
<B>16</B>
<B>Che la vera virtù si va </B>
<B>ne' tempi difficili, a trovare; </B>
<B>e ne' tempi facili, non gli uomini virtuosi, </B>
<B>ma quegli che per ricchezze </B>
<B>o per parentado hanno più grazia. </B>
Egli fu sempre, e sempre sarà, che gli uomini grandi e rari in una republica, ne' tempi pacifichi,
sono negletti; perché, per la invidia che si ha tirato dietro la riputazione che la virtù d'essi ha dato
loro, si truova in tali tempi assai cittadini che vogliono, non che essere loro equali, ma essere loro
superiori. E di questo ne è uno luogo buono in Tucidide, istorico greco; il quale mostra come, sendo
la republica ateniese rimasa superiore in la guerra peloponnesiaca, ed avendo frenato l'orgoglio
degli Spartani, e quasi sottomessa tutta l'altra Grecia, salse in tanta riputazione che la disegnò di
occupare la Sicilia. Venne questa impresa in disputa in Atene. Alcibiade e qualche altro cittadino
consigliavano che la si facesse, come quelli che, pensando poco al bene publico, pensavono
all'onore loro, disegnando essere capi di tale impresa. Ma Nicia, che era il primo intra i reputati di
Atene, la dissuadeva; e la maggiore ragione che, nel concionare al popolo, perché gli fusse prestato
fede, adducesse, fu questa: che, consigliando esso che non si facesse questa guerra, e' consigliava
cosa che non faceva per lui; perché, stando Atene in pace, sapeva come vi era infiniti cittadini che
gli volevano andare innanzi; ma, faccendosi guerra, sapeva che nessuno cittadino gli sarebbe
superiore o equale.
Vedesi, pertanto, adunque, come nelle republiche è questo disordine, di fare poca stima de' valenti
uomini, ne' tempi quieti. La quale cosa gli fa indegnare in due modi: l'uno per vedersi mancare del
grado loro; l'altro, per vedersi fare compagni e superiori uomini indegni e di manco sofficienza di
loro. Il quale disordine nelle republiche ha causato di molte rovine; perché quegli cittadini che
immeritamente si veggono disprezzare, e conoscono che e' ne sono cagione i tempi facili e non
pericolosi, s'ingegnano di turbargli, movendo nuove guerre in pregiudicio della republica. E
pensando quali potessono essere e' rimedi, ce ne truovo due: l'uno, mantenere i cittadini poveri,
acciocché con le ricchezze sanza virtù e' non potessino corrompere né loro né altri, l'altro, di
ordinarsi in modo alla guerra, che sempre si potesse fare guerra, e sempre si avesse bisogno di
cittadini riputati, come e' Romani ne' suoi primi tempi. Perché, tenendo fuori quella città sempre
eserciti, sempre vi era luogo alla virtù degli uomini; né si poteva tôrre il grado a uno che lo
meritasse, e darlo ad uno che non lo meritasse: perché, se pure lo faceva qualche volta, per errore o
per provare, ne seguiva tosto tanto suo disordine e pericolo, che la ritornava subito nella vera via.
Ma le altre republiche, che non sono ordinate come quella, e che fanno solo guerra quando la
necessità le costringe, non si possono difendere da tale inconveniente: anzi sempre v'incorreranno
dentro; e sempre ne nascerà disordine, quando quello cittadino, negletto e virtuoso, sia vendicativo,
ed abbia nella città qualche riputazione e aderenzia. E la città di Roma uno tempo fece difesa; ma a
quella ancora, poiché l'ebbe vinto Cartagine ed Antioco (come altrove si disse), non temendo più le
guerre, pareva potere commettere gli eserciti a qualunque la voleva; non riguardando tanto alla
virtù, quanto alle altre qualità che gli dessono grazia nel popolo. Perché si vide che Paulo Emilio
ebbe più volte la ripulsa nel consolato, né fu prima fatto consolo che surgesse la guerra macedonica;
la quale giudicandosi pericolosa, di consenso di tutta la città fu commessa a lui.
Sendo nella nostra città di Firenze seguite dopo il 1494 di molte guerre, ed avendo fatto i cittadini
fiorentini tutti una cattiva pruova, si riscontrò a sorte la città in uno che mostrò come si aveva a
comandare agli eserciti; il quale fu Antonio Giacomini. E mentre che si ebbe a fare guerre
pericolose, tutta l'ambizione degli altri cittadini cessò, e nella elezione del commessario e capo degli
eserciti non aveva competitore alcuno; ma come si ebbe a fare una guerra dove non era alcuno
dubbio, ed assai onore e grado, e' vi trovò tanti competitori, che, avendosi ad eleggere tre
commessari per campeggiare Pisa, e' fu lasciato indietro. E benché e' non si vedesse evidentemente
che male ne seguisse al publico per non vi avere mandato Antonio, nondimeno se ne potette fare
facilissima coniettura; perché, non avendo più i Pisani da defendersi né da vivere, se vi fusse stato
Antonio, sarebbero stati tanto innanzi stretti, che si sarebbero dati a discrezione de' Fiorentini. Ma,
sendo loro assediati da capi che non sapevano né stringergli né sforzargli, furono tanto intrattenuti
che la città di Firenze gli comperò, dove la gli poteva avere a forza. Convenne che tale sdegno
potesse assai in Antonio; e bisognava ch'e' fussi bene paziente e buono, a non disiderare di
vendicarsene, o con la rovina della città, potendo, o con l'ingiuria di alcuno particulare cittadino. Da
che si debbe una republica guardare; come nel seguente capitolo si discorrerà.
<B>17</B>
<B>Che non si offenda uno, </B>
<B>e poi quel medesimo si mandi </B>
<B>in amministrazione e governo </B>
<B>d'importanza. </B>
Debbe una republica assai considerare di non preporre alcuno ad alcuna importante
amministrazione, al quale sia stato fatto da altri alcuna notabile ingiuria. Claudio Nerone, il quale si
partì dallo esercito che lui aveva a fronte ad Annibale, e con parte d'esso ne andò nella Marca, a
trovare l'altro Consolo per combattere con Asdrubale avanti ch'e' si congiugnesse con Annibale,
s'era trovato per lo addietro in Ispagna a fronte di Asdrubale, ed avendolo serrato in luogo con lo
esercito, che bisognava o che Asdrubale combattesse con suo disavvantaggio o si morisse di fame,
fu da Asdrubale astutamente tanto intrattenuto con certe pratiche d'accordo, che gli uscì di sotto, e
tolsegli quella occasione di oppressarlo. La quale cosa, saputa a Roma, gli dette carico grande
appresso a il Senato ed al popolo; e di lui fu parlato inonestamente per tutta quella città, non sanza
suo grande disonore e disdegno. Ma, sendo poi fatto Consolo, e mandato allo incontro di Annibale,
prese il soprascritto partito, il quale fu pericolosissimo, talmente che Roma stette tutta dubbia e
sollevata infino a tanto che vennono le nuove della rotta di Asdrubale. Ed essendo poi domandato
Claudio, per quale cagione avesse preso sì pericoloso partito, dove sanza una estrema necessità egli
aveva giucato quasi la libertà di Roma; rispose che lo aveva fatto perché sapeva che, se gli riusciva,
riacquistava quella gloria che si aveva perduta in Ispagna; e se non gli riusciva, e che questo suo
partito avesse avuto contrario fine, sapeva come e' si vendicava contro a quella città ed a quegli
cittadini che lo avevano tanto ingratamente ed indiscretamente offeso. E quando queste passioni di
tali offese possono tanto in uno cittadino romano, e in quegli tempi che Roma ancora era incorrotta,
si debbe pensare quanto elle possano in uno cittadino d'un'altra città che non sia fatta come era
allora quella. E perché a simili disordini che nascano nelle republiche non si può dare certo rimedio,
ne seguita che gli è impossibile ordinare una republica perpetua, perché per mille inopinate vie si
causa la sua rovina.
<B>18</B>
<B>Nessuna cosa è più degna d'uno capitano, </B>
<B>che presentire i partiti del nimico. </B>
Diceva Epaminonda tebano, nessuna cosa essere più necessaria e più utile ad uno capitano, che
conoscere le diliberazioni e' partiti del nimico. E perché tale cognizione è difficile, merita tanto più
laude quello che adopera in modo che le coniettura. E non tanto è difficile intendere i disegni del
nimico, ch'egli è qualche volta difficile intendere le azioni sue; e non tanto le azioni che per lui si
fanno discosto, quanto le presenti e le propinque. Perché molte volte è accaduto che, sendo durata
una zuffa infino a notte, chi ha vinto crede avere perduto, e chi ha perduto crede avere vinto. Il
quale errore ha fatto diliberare cose contrarie alla salute di colui che ha diliberato: come intervenne
a Bruto e Cassio, i quali per questo errore perderono la guerra; perché, avendo vinto Bruto dal
corno suo, credette Cassio, che aveva perduto, che tutto lo esercito fusse rotto; e disperatosi, per
questo errore, della salute, ammazzò sé stesso. Ne' nostri tempi, nella giornata che fece in
Lombardia, a Santa Cecilia, Francesco re di Francia, con i Svizzeri, sopravvenendo la notte,
credettero, quella parte de' Svizzeri che erano rimasti interi, avere vinto, non sappiendo di quegli
che erano stati rotti e morti: il quale errore fece che loro medesimi non si salvarono, aspettando di
ricombattere la mattina con tanto loro disavantaggio; e fecero anche errare, e per tale errore presso
che rovinare, lo esercito del Papa e di Ispagna, il quale, in su la falsa nuova della vittoria, passò il
Po, e, se procedeva troppo innanzi, restava prigione de' Franciosi che erano vittoriosi.
Questo simile errore occorse ne' campi romani e in quegli degli Equi. Dove, sendo Sempronio
consolo con lo esercito allo incontro degl'inimici, ed appiccandosi la zuffa, si travagliò quella
giornata infino a sera, con varia fortuna dell'uno e dell'altro: e venuta la notte, sendo l'uno e l'altro
esercito mezzo rotto, non ritornò alcuno di loro ne' suoi alloggiamenti; anzi ciascuno si ritrasse ne'
prossimi colli, dove credevano essere più sicuri; e lo esercito romano si divise in due parti: l'una ne
andò col Console; l'altra, con uno Tempanio centurione, per la virtù del quale lo esercito romano
quel giorno non era stato rotto interamente. Venuta la mattina, il Consolo romano, sanza intendere
altro de' nimici, si tirò verso Roma; il simile fece lo esercito degli Equi: perché ciascuno di questi
credeva che il nimico avesse vinto, e però ciascuno si ritrasse sanza curare di lasciare i suoi
alloggiamenti in preda. Accadde che Tempanio, ch'era con il resto dello esercito romano, ritirandosi
ancora esso, intese, da certi feriti degli Equi, come i capitani loro s'erano partiti, ed avevano
abbandonati gli alloggiamenti: donde che egli, in su questa nuova, se n'entrò negli alloggiamenti
romani, e salvogli; e dipoi saccheggiò quegli degli Equi, e se ne tornò a Roma vittorioso. La quale
vittoria come si vede, consisté solo in chi prima di loro intese i disordini del nimico. Dove si debbe
notare, come e' può spesso occorrere che due eserciti, che siano a fronte l'uno dell'altro, siano nel
medesimo disordine, e patischino le medesime necessità; e che quello resti poi vincitore che è il
primo ad intendere le necessità dello altro.
Io voglio dare di questo uno esemplo domestico e moderno. Nel 1498, quando i Fiorentini avevano
uno esercito grosso in quel di Pisa, e stringevano forte quella città; della quale avendo i Viniziani
presa la protezione, non veggendo altro modo a salvarla, diliberarono di divertire quella guerra,
assaltando da un'altra banda il dominio di Firenze; e, fatto uno esercito potente, entrarono per la Val
di Lamona, ed occuparono il borgo di Marradi, ed assediarono la rocca di Castiglione, che è in sul
colle di sopra. Il che sentendo i Fiorentini, diliberarono soccorrere Marradi, e non diminuire le forze
avevano in quel di Pisa; e fatte nuove fanterie, ed ordinate nuove genti a cavallo, le mandarono a
quella volta: delle quali ne furono capi Iacopo IV d'Appiano, signore di Piombino, ed il conte
Rinuccio da Marciano. Sendosi adunque, condotte queste genti in su il colle sopra Marradi, si
levarono i nimici d'intorno a Castiglione, e ridussersi tutti nel borgo. Ed essendo stato l'uno e l'altro
di questi due eserciti a fronte qualche giorno, pativa l'uno e l'altro assai e di vettovaglie e d'ogni
altra cosa necessaria: e non avendo ardire l'uno d'affrontare l'altro, né sappiendo i disordini l'uno
dell'altro, deliberarono in una sera medesima l'uno e l'altro di levare gli alloggiamenti la mattina
vegnente, e ritirarsi in dietro; il Viniziano verso Bersighella e Faenza, il Fiorentino verso Casaglia e
il Mugello. Venuta adunque la mattina, ed avendo ciascuno de' campi incominciato ad avviare i suoi
impedimenti; a caso una donna si partì del borgo di Marradi, e venne verso il campo fiorentino,
sicura per la vecchiezza e per la povertà, desiderosa di vedere certi suoi che erano in quel campo:
dalla quale intendendo i capitani delle genti fiorentine, come il campo viniziano partiva, si fecero,
in su questa nuova, gagliardi; e mutato consiglio, come se gli avessono disalloggiati i nimici, ne
andarono sopra di loro, e scrissero a Firenze avergli ributtati e vinta la guerra. La quale vittoria non
nacque da altro che dallo avere inteso prima dei nimici come e' se n'andavano: la quale notizia, se
fusse prima venuta dall'altra parte, arebbe fatto contro a' nostri il medesimo effetto.
<B>19</B>
<B>Se a reggere una moltitudine </B>
<B>è più necessario l'ossequio che la pena. </B>
Era la Republica romana sollevata per le inimicizie de' nobili e de' plebei: nondimeno, soprastando
loro la guerra, mandarono fuori con gli eserciti Quinzio ed Appio Claudio. Appio, per essere
crudele e rozzo nel comandare, fu male ubidito da' suoi, tanto che quasi rotto si fuggì della sua
provincia; Quinzio, per essere benigno e di umano ingegno ebbe i suoi soldati ubbidienti, e
riportonne la vittoria. Donde e' pare che e' sia meglio, a governare una moltitudine, essere umano
che superbo, pietoso che crudele. Nondimeno, Cornelio Tacito, al quale molti altri scrittori
acconsentano in una sua sentenza conchiude il contrario, quando ait: «In multitudine regenda plus
poena quam obsequium valet». E considerando come si possa salvare l'una e l'altra di queste
opinioni dico: o che tu hai a reggere uomini che ti sono per l'ordinario compagni, o uomini che ti
sono sempre suggetti. Quando ti sono compagni, non si può interamente usare la pena, né quella
severità di che ragiona Cornelio; e perché la plebe romana aveva in Roma equale imperio con la
Nobilità, non poteva uno, che ne diventava principe a tempo, con crudeltà e rozzezza maneggiarla.
E molte volte si vide che migliore frutto fecero i capitani romani che si facevano amare dagli
eserciti, e che con ossequio gli maneggiavano, che quegli che si facevano istraordinariamente
temere; se già e' non erano accompagnati da una eccessiva virtù, come fu Manlio Torquato. Ma chi
comanda a' sudditi, de' quali ragiona Cornelio, acciocché non doventino insolenti, e che per troppa
tua facilità non ti calpestino, debbe volgersi più tosto alla pena che all'ossequio. Ma questa anche
debbe essere in modo moderata, che si fugga l'odio; perché farsi odiare non tornò mai bene ad
alcuno principe. Il modo del fuggirlo è lasciare stare la roba de' sudditi: perché del sangue, quando
non vi sia sotto ascosa la rapina, nessuno principe ne è desideroso, se non necessitato, e questa
necessità viene rade volte; ma, sendovi mescolata la rapina viene sempre, né mancano mai le
cagioni ed il desiderio di spargerlo; come in altro trattato sopra questa materia si è largamente
discorso. Meritò adunque, più laude Quinzio che Appio, e la sentenza di Cornelio, dentro ai termini
suoi, e non ne' casi osservati di Appio, merita d'essere approvata.
E perché noi abbiamo parlato della pena e dell'ossequio non mi pare superfluo mostrare, come uno
esemplo di umanità poté appresso i Falisci più che l'armi.
<B>20</B>
<B>Uno esemplo di umanità </B>
<B>appresso i Falisci </B>
<B>potette più che ogni forza romana. </B>
Essendo Cammillo con lo esercito intorno alla città de' Falisci, e quella assediando, uno maestro di
scuola de' più nobili fanciulli di quella città, pensando di gratificarsi Cammillo ed il popolo romano,
sotto colore di esercizio uscendo con quegli fuori della terra, gli condusse tutti nel campo innanzi a
Cammillo, e presentandogli, disse, come, mediante loro quella terra si darebbe nelle sue mani. Il
quale presente non solamente non fu accettato da Cammillo; ma, fatto spogliare quel maestro, e
legatogli le mani di dietro, e dato a ciascuno di quegli fanciulli una verga in mano, lo fece da quegli
con di molte battiture accompagnare nella terra. La quale cosa intesa da quegli cittadini, piacque
tanto loro la umanità ed integrità di Cammillo, che, sanza volere più difendersi, diliberarono di darli
la terra. Dove è da considerare, con questo vero esemplo, quanto qualche volta possa più negli
animi degli uomini uno atto umano e pieno di carità, che uno atto feroce e violento; e come molte
volte quelle provincie e quelle città che le armi, gl'instrumenti bellici ed ogni altra umana forza non
ha potuto aprire, uno esemplo di umanità e di piatà, di castità o di liberalità, ha aperte. Di che ne
sono nelle istorie, oltre a questo, molti altri esempli. E vedesi come l'armi romane non potevano
cacciare Pirro d'Italia, e ne lo cacciò la liberalità di Fabrizio, quando gli manifestò l'offerta che
aveva fatta ai Romani quello suo familiare, di avvelenarlo. Vedesi ancora, come a Scipione
Affricano non dette tanta riputazione in Ispagna la espugnazione di Cartagine Nuova, quanto gli
dette quello esemplo di castità, di avere renduto la moglie, giovane, bella, ed intatta al suo marito; la
fama della quale azione gli fece amica tutta la Ispagna. Vedesi ancora, questa parte quanto la sia
desiderata da' popoli negli uomini grandi, e quanto sia laudata dagli scrittori; e da quegli che
descrivano la vita de' principi, e da quegli che ordinano come ei debbano vivere. Intra i quali
Senofonte si affatica assai in dimostrare quanti onori, quante vittorie, quanta buona fama arrecasse
a Ciro lo essere umano ed affabile, e non dare alcuno esemplo di sé, né di superbo, né di crudele, né
di lussurioso né di nessuno altro vizio che macchi la vita degli uomini. Pure nondimeno, veggendo
Annibale, con modi contrari a questi, avere conseguito gran fama e gran vittorie, mi pare da
discorrere, nel seguente capitolo, donde questo nasca.
<B>21</B>
<B>Donde nacque che Annibale, </B>
<B>con diverso modo di procedere </B>
<B>da Scipione </B>
<B>fece quelli medesimi effetti in Italia </B>
<B>che quello in Ispagna. </B>
Io estimo che alcuni si potrebbono maravigliare veggendo come qualche capitano, nonostante
ch'egli abbia tenuto contraria vita, abbia nondimeno fatti simili effetti a coloro che sono vissuti nel
modo soprascritto: talché pare che la cagione delle vittorie non dependa dalle predette cause; anzi
pare che quelli modi non ti rechino né più forza né più fortuna, potendosi per contrari modi
acquistare gloria e riputazione. E per non mi partire dagli uomini soprascritti, e per chiarire meglio
quello che io ho voluto dire, dico come e' si vede Scipione entrare in Ispagna, e con quella sua
umanità e piatà subito farsi amica quella provincia, ed adorare ed ammirare da' popoli. Vedesi, allo
incontro, entrare Annibale in Italia, e con modi tutti contrari, cioè con crudeltà, violenza e rapina ed
ogni ragione infideltà, fare il medesimo effetto che aveva fatto Scipione in Ispagna; perché, a
Annibale, si ribellarono tutte le città d'Italia, tutti i popoli lo seguirono.
E pensando donde questa cosa possa nascere, ci si vede dentro più ragioni. La prima è, che gli
uomini sono desiderosi di cose nuove; in tanto che così disiderano il più delle volte novità quegli
che stanno bene, come quegli che stanno male: perché, come altra volta si disse, ed è il vero, gli
uomini si stuccono nel bene, e nel male si affliggano. Fa, adunque, questo desiderio aprire le porte a
ciascuno che in una provincia si fa capo d'una innovazione; e s'egli è forestiero, gli corrono dietro;
s'egli è provinciale, gli sono intorno, augumentanlo e favorisconlo: talmenteché, in qualunque modo
elli proceda, gli riesce il fare progressi grandi in quegli luoghi. Oltre a questo, gli uomini sono
spinti da due cose principali; o dallo amore, o dal timore: talché, così gli comanda chi si fa amare,
come lui che si fa temere; anzi, il più delle volte è più seguito e più ubbidito chi si fa temere che chi
si fa amare.
Importa, pertanto, poco ad uno capitano, per qualunque di queste vie e' si cammini, pure che sia
uomo virtuoso, e che quella virtù lo faccia riputato intra gli uomini. Perché, quando la è grande,
come la fu in Annibale ed in Scipione, ella cancella tutti quegli errori che si fanno per farsi troppo
amare o per farsi troppo temere. Perché dall'uno e dall'altro di questi due modi possono nascere
inconvenienti grandi, ed atti a fare rovinare uno principe: perché colui che troppo desidera essere
amato, ogni poco che si parte dalla vera via, diventa disprezzabile: quell'altro che desidera troppo di
essere temuto, ogni poco ch'egli eccede il modo, diventa odioso. E tenere la via del mezzo non si
può appunto, perché la nostra natura non ce lo consente: ma è necessario queste cose che eccedono
mitigare con una eccessiva virtù, come faceva Annibale e Scipione. Nondimeno si vide come l'uno
e l'altro furono offesi da questi loro modi di vivere, e così furono esaltati.
La esaltazione di tutti a due si è detta. L'offesa, quanto a Scipione, fu che gli suoi soldati in Ispagna
se gli ribellarono, insieme con parte de' suoi amici: la quale cosa non nacque da altro che da non lo
temere; perché gli uomini sono tanto inquieti, che, ogni poco di porta che si apra loro all'ambizione,
dimenticano subito ogni amore che gli avessero posto al principe per la umanità sua; come fecero i
soldati ed amici predetti: tanto che Scipione, per rimediare a questo inconveniente, fu costretto
usare parte di quella crudeltà che elli aveva fuggita. Quanto ad Annibale, non ci è esemplo alcuno
particulare, dove quella sua crudeltà e poca fede gli nocesse: ma si può bene presupporre che
Napoli, e molte altre terre che stettero in fede del popolo romano, stessero per paura di quella.
Viddesi bene questo che quel suo modo di vivere impio, lo fece più odioso al popolo romano, che
alcuno altro inimico che avesse mai quella Republica: in modo che, dove a Pirro mentre che egli era
con lo esercito in Italia, manifestarono quello che lo voleva avvelenare, ad Annibale mai, ancora
che disarmato e disperso, perdonarono, tanto che lo fecioro morire. Nacquene, adunque, ad
Annibale, per essere tenuto impio e rompitore di fede e crudele, queste incommodità; ma gliene
risultò allo incontro una commodità grandissima, la quale è ammirata da tutti gli scrittori: che, nel
suo esercito, ancoraché composto di varie generazioni di uomini, non nacque mai alcuna
dissensione, né infra loro medesimi, né contro di lui. Il che non potette dirivare da altro, che dal
terrore che nasceva dalla persona sua: il quale era tanto grande, mescolato con la riputazione che gli
dava la sua virtù, che teneva i suoi soldati quieti ed uniti. Conchiudo, dunque, come e' non importa
molto in quale modo uno capitano si proceda, pure che in esso sia virtù grande che condisca bene
l'uno e l'altro modo di vivere: perché, come è detto, nell'uno e nell'altro è difetto e pericolo, quando
da una virtù istraordinaria non sia corretto. E se Annibale e Scipione, l'uno con cose laudabili,
l'altro con detestabili, feciono il medesimo effetto; non mi pare da lasciare indietro il discorrere
ancora di due cittadini romani, che conseguirono con diversi modi, ma tutti a due laudabili, una
medesima gloria.
<B>22</B>
<B>Come la durezza di Manlio Torquato </B>
<B>e la comità di Valerio Corvino </B>
<B>acquistò a ciascuno la medesima gloria. </B>
E' furno in Roma in uno medesimo tempo due capitani eccellenti, Manlio Torquato e Valerio
Corvino; i quali, di pari virtù, di pari trionfi e gloria, vissono in Roma, e ciascuno di loro, in quanto
si apparteneva al nimico, con pari virtù l'acquistarono, ma quanto si apparteneva agli eserciti ed
agl'intrattenimenti de' soldati, diversissimamente procederono: perché Manlio con ogni generazione
di severità sanza intermettere a' suoi soldati o fatica o pena, gli comandava: Valerio, dall'altra parte,
con ogni modo e termine umano, e pieno di una familiare domestichezza, gl'intratteneva. Per che si
vide, che, per avere l'ubbidienza de' soldati, l'uno ammazzò il figliuolo, e l'altro non offese mai
alcuno. Nondimeno, in tanta diversità di procedere, ciascuno fece il medesimo frutto, e contro a'
nimici ed in favore della republica e suo. Perché nessuno soldato non mai o detrattò la zuffa o si
ribellò da loro o fu, in alcuna parte, discrepante dalla voglia di quegli; quantunque gl'imperi di
Manlio fussero sì aspri, che tutti gli altri imperi che eccedevano il modo, erano chiamati «manliana
imperia». Dove è da considerare, prima, donde nacque che Manlio fu costretto procedere sì
rigidamente; l'altro, donde avvenne che Valerio potette procedere sì umanamente l'altro, quale
cagione fe' che questi diversi modi facessero il medesimo effetto; ed in ultimo, quale sia di loro
meglio, e, imitare, più utile. Se alcuno considera bene la natura di Manlio d'allora che Tito Livio ne
comincia a fare menzione, lo vedrà uomo fortissimo, pietoso verso il padre e verso la patria, e
reverentissimo a' suoi maggiori. Queste cose si conoscono dalla morte di quel Francioso, dalla
difesa del padre contro al Tribuno; e come, avanti ch'egli andasse alla zuffa del Francioso, e' n'andò
al Consolo con queste parole: «Iniussu tuo adversus hostem nunquam pugnabo, non si certam
victoriam videam». Venendo, dunque, un uomo così fatto a grado che comandi, desidera di trovare
tutti gli uomini simili a sé; e l'animo suo forte gli fa comandare cose forti; e quel medesimo,
comandate che le sono, vuole si osservino. Ed è una regola verissima, che, quando si comanda cose
aspre, conviene con asprezza farle osservare; altrimenti, te ne troverresti ingannato. Dove è da
notare, che a volere essere ubbidito, è necessario saper comandare: e coloro sanno comandare, che
fanno comparazione dalle qualità loro a quelle di chi ha ad ubbidire; e quando vi veggono
proporzione, allora comandino; quando sproporzione, se ne astenghino.
E però diceva un uomo prudente, che, a tenere una republica, con violenza, conveniva fusse
proporzione da chi sforzava a quel che era sforzato. E qualunque volta questa proporzione vi era, si
poteva credere che quella violenza fusse durabile; ma quando il violentato fusse più forte che il
violentante, si poteva dubitare che ogni giorno quella violenza cessasse.
Ma tornando al discorso nostro, dico che, a comandare le cose forti, conviene essere forte; e quello
che è di questa fortezza e che le comanda, non può poi con dolcezza farle osservare. Ma chi non è
di questa fortezza d'animo, si debbe guardare dagl'imperi istraordinari, e negli ordinari può usare la
sua umanità. Perché le punizioni ordinarie non sono imputate al principe, ma alle leggi ed a quegli
ordini. Debbesi, dunque, credere che Manlio fusse costretto procedere sì rigidamente dagli
straordinari suoi imperi, a' quali lo inclinava la sua natura: i quali sono utili in una republica, perché
e' riducono gli ordini di quella verso il principio loro, e nella sua antica virtù. E se una republica
fusse sì felice, ch'ella avesse spesso, come di sopra dicemo, chi con lo esemplo suo le rinnovasse le
leggi; e non solo la ritenesse che la non corresse alla rovina, ma la ritirasse indietro; la sarebbe
perpetua. Sì che Manlio fu uno di quelli che con l'asprezza de' suoi imperi ritenne la disciplina
militare in Roma; costretto prima dalla natura sua, dipoi dal desiderio aveva, si osservasse quello
che il suo naturale appetito gli aveva fatto ordinare. Dall'altro canto, Valerio potette procedere
umanamente, come colui a cui bastava si osservassono le cose consuete osservarsi negli eserciti
romani. La quale consuetudine, perché era buona, bastava ad onorarlo; e non era faticosa a
osservarla, e non necessitava Valerio a punire i transgressori: sì perché non ve n'era; sì perché,
quando e' ve ne fosse stati, imputavano, come è detto, la punizione loro agli ordini e non alla
crudeltà del principe. In modo che, Valerio poteva fare nascere da lui ogni umanità, dalla quale ei
potesse acquistare grado con i soldati, e la contentezza loro. Donde nacque che, avendo l'uno e
l'altro la medesima ubbidienza, potettono, diversamente operando, fare il medesimo effetto.
Possono quelli che volessero imitare costoro, cadere in quelli vizi di dispregio e di odio che io dico,
di sopra, di Annibale e di Scipione: il che si fugge con una virtù eccessiva che sia in te, e non
altrimenti.
Resta ora a considerare quale di questi modi di procedere sia più laudabile. Il che credo sia
disputabile, perché gli scrittori lodano l'uno modo e l'altro. Nondimeno, quegli che scrivono come
uno principe si abbia a governare, si accostano più a Valerio che a Manlio; e Senofonte, preallegato
da me, dando di molti esempli della umanità di Ciro, si conforma assai con quello che dice di
Valerio, Tito Livio. Perché, essendo fatto Consolo contro ai Sanniti, e venendo il dì che doveva
combattere, parlò a' suoi soldati con quella umanità con la quale ei si governava; e dopo tale
parlare, Tito Livio dice quelle parole: «Non alias militi familiarior dux fuit, inter infimos milites
omnia haud gravate mundia obeundo. In ludo praeterea militari, cum velocitatis viriumque inter se
aequales certamina ineunt, comiter facilis vincere ac vinci vultu eodem; nec quemquam aspernari
parem qui se offerret; factis benignus pro re; dictis haud minus libertatis alienae, quam suae
dignitatis memor; et (quo nihil popularius est) quibus artibus petierat magistratus, iisdem gerebat».
Parla medesimamente, di Manlio, Tito Livio onorevolmente, mostrando che la sua severità nella
morte del figliuolo fece tanto ubbidiente lo esercito al Consolo, che fu cagione della vittoria che il
popolo romano ebbe contro ai Latini; ed in tanto procede in laudarlo, che, dopo tale vittoria,
descritto ch'egli ha tutto l'ordine di quella zuffa, e mostri tutti i pericoli che il popolo romano vi
corse, e le difficultà che vi furono a vincere fa questa conclusione: che solo la virtù di Manlio dette
quella vittoria ai Romani. E faccendo comparazione delle forze dell'uno e dell'altro esercito,
afferma come quella parte arebbe vinto che avesse avuto per consolo Manlio. Talché considerato
tutto quello che gli scrittori ne parlano, sarebbe difficile giudicarne. Nondimeno, per non lasciare
questa parte indecisa, dico come in uno cittadino che viva sotto le leggi d'una republica, credo sia
più laudabile e meno pericoloso il procedere di Manlio: perché questo modo tutto è in favore del
publico, e non risguarda in alcuna parte all'ambizione privata; perché tale modo non si può
acquistare partigiani, mostrandosi sempre aspro a ciascuno, ed amando solo il bene commune;
perché chi fa questo, non si acquista particulari amici, quali noi chiamiamo, come di sopra si disse,
partigiani. Talmenteché, simile modo di procedere non può essere più utile né più disiderabile in
una republica; non mancando in quello la utilità publica, e non vi potendo essere alcun sospetto
della potenza privata. Ma nel modo del procedere di Valerio è il contrario: perché, se bene in
quanto al publico si fanno e' medesimi effetti, nondimeno vi surgono molte dubitazioni per la
particulare benivolenza che colui si acquista con i soldati, da fare in uno lungo imperio cattivi
effetti contro alla libertà.
E se in Publicola questi cattivi effetti non nacquono, ne fu cagione non essere ancora gli animi de'
Romani corrotti, e quello non essere stato lungamente e continovamente al governo loro. Ma se noi
abbiamo a considerare uno principe, come considera Senofonte, noi ci accostereno al tutto a
Valerio, e lasceremo Manlio perché uno principe debbe cercare ne' soldati e ne' sudditi l'ubbidienza
e lo amore. La ubbidienza gli dà lo essere osservatore degli ordini e lo essere tenuto virtuoso; lo
amore gli dà l'affabilità, l'umanità, la piatà, e l'altre parti che erano in Valerio, e che Senofonte
scrive essere in Ciro. Perché lo essere uno principe bene voluto particularmente, ed avere lo
esercito suo partigiano, si conforma con tutte l'altre parti dello stato suo: ma in uno cittadino che
abbia lo esercito suo partigiano, non si conforma già questa parte con l'altre sue parti, che lo hanno
a fare vivere sotto le leggi ed ubidire ai magistrati.
Leggesi intra le cose antiche della Republica viniziana, come, essendo le galee viniziane tornate in
Vinegia, e venendo certa differenza intra quegli delle galee ed il popolo, donde si venne al tumulto
ed all'armi, né si potendo la cosa quietare né per forza di ministri né per riverenza di cittadini né
timore de' magistrati; subito a quelli marinai apparve innanzi uno gentiluomo che era, l'anno
davanti, stato capitano loro, per amore di quello si partirono, e lasciarono la zuffa. La quale
ubbidienza generò tanta suspizione al Senato, che, poco tempo dipoi, i Viniziani, o per prigione o
per morte, se ne assicurarono. Conchiudo pertanto, il procedere di Valerio essere utile in uno
principe e pernizioso in uno cittadino; non solamente alla patria, ma a sé a lei, perché quelli modi
preparano la via alla tirannide; a sé, perché in sospettando la sua città del modo del procedere suo è
costretta assicurarsene con suo danno. E così, per il contrario, affermo il procedere di Manlio in uno
principe essere dannoso, ed in uno cittadino utile, e massime alla patria: ed ancora rade volte
offende; se già questo odio che ti reca la tua severità, non è accresciuto da sospetto che l'altre tue
virtù per la gran riputazione ti arrecassono: come, di sotto, di Cammillo si discorrerà.
<B>23</B>
<B>Per quale cagione Cammillo </B>
<B>fusse cacciato di Roma. </B>
Noi abbiamo conchiuso di sopra, come, procedendo come Valerio, si nuoce alla patria ed a sé; e,
procedendo come Manlio, si giova alla patria, e nuocesi qualche volta a sé. Il che si pruova assai
bene per lo esemplo di Cammillo, il quale nel procedere suo simigliava più tosto Manlio che
Valerio. Donde Tito Livio, parlando di lui, dice, come «eius virtutem milites oderant, et
mirabantur».
Quello che lo faceva tenere maraviglioso era la sollicitudine, la prudenza, la grandezza dello animo,
il buon ordine che lui servava nello adoperarsi, e nel comandare agli eserciti: quello che lo faceva
odiare, era essere più severo nel gastigargli che liberale nel rimunerargli. E Tito Livio ne adduce di
questo odio queste cagioni: la prima, che i danari che si trassono de' beni de' Veienti che si
venderono, esso gli applicò al publico, e non gli divise con la preda: l'altra, che nel trionfo ei fece
tirare il suo carro trionfale da quattro cavagli bianchi, dove essi dissero che per la superbia e' si era
voluto agguagliare al Sole: la terza, che ei fece voto di dare a Apolline la decima parte della preda
de' Veienti, la quale, volendo sodisfare al voto, si aveva a trarre delle mani de' soldati che l'avevano
di già occupata. Dove si notano bene e facilmente quelle cose che fanno uno principe odioso
appresso il popolo; delle quali la principale è privarlo d'uno utile. La quale è cosa d'importanza
assai, perché le cose che hanno in sé utilità, quando l'uomo n'è privo, non le dimentica mai, ed ogni
minima necessità te ne fa ricordare; e perché le necessità vengono ogni giorno, tu te ne ricordi ogni
giorno. L'altra cosa è lo apparire superbo ed enfiato; il che non può essere più odioso a' popoli, e
massime a' liberi. E benché da quella superbia e da quel fasto non ne nascesse loro alcuna
incommodità, nondimeno hanno in odio chi l'usa: da che uno principe si debbe guardare come da
uno scoglio: perché tirarsi odio addosso senza suo profitto, è al tutto partito temerario e poco
prudente.
<B>24</B>
<B>La prolungazione degl'imperii </B>
<B>fece serva Roma. </B>
Se si considera bene il procedere della Republica romana, si vedrà due cose essere state cagione
della risoluzione di quella Republica: l'una furon le contenzioni che nacquono dalla legge agraria;
l'altra, la prolungazione degli imperii: le quali cose se fussono state conosciute bene da principio, e
fattovi i debiti rimedi, sarebbe stato il vivere libero più lungo, e per avventura più quieto. E benché,
quanto alla prolungazione dello imperio, non si vegga che in Roma nascessi mai alcuno tumulto;
nondimeno si vide in fatto, quanto nocé alla città quella autorità che i cittadini per tali diliberazioni
presono. E se gli altri cittadini a chi era prorogato il magistrato, fussono stati savi e buoni come fu
Lucio Quinzio, non si sarebbe incorso in questo inconveniente. La bontà del quale è di uno esemplo
notabile, perché, essendosi fatto intra la Plebe ed il Senato convenzione d'accordo, ed avendo la
Plebe prolungato in uno anno lo imperio ai Tribuni, giudicandogli atti a potere resistere
all'ambizione de' nobili, volle il Senato, per gara della Plebe e per non parere da meno di lei,
prolungare il consolato a Lucio Quinzio: il quale al tutto negò questa diliberazione, dicendo che i
cattivi esempli si voleva cercare di spegnergli, non di accrescergli con uno altro più cattivo
esemplo, e volle si facessono nuovi Consoli. La quale bontà e prudenza se fosse stata in tutti i
cittadini romani, non arebbe lasciata introdurre quella consuetudine di prolungare i magistrati, e da
quelli non si sarebbe venuto alla prolungazione delli imperii: la quale cosa, col tempo, rovinò quella
Republica. Il primo a chi fu prorogato lo imperio, fu a Publio Philone; il quale essendo a campo alla
città di Palepoli, e venendo la fine del suo consolato, e parendo al Senato ch'egli avesse in mano
quella vittoria, non gli mandarono il successore, ma lo fecero Proconsolo; talché fu il primo
Proconsolo. La quale cosa, ancora che mossa dal Senato per utilità publica, fu quella che con il
tempo fece serva Roma. Perché, quanto più i Romani si discostarono con le armi, tanto più parve
loro tale prorogazione necessaria, e più la usarono. La quale cosa fece due inconvenienti: l'uno, che
meno numero di uomini si esercitarono negl'imperii, e si venne per questo a ristringere la
riputazione in pochi: l'altro, che, stando uno cittadino assai tempo comandatore d'uno esercito, se lo
guadagnava e facevaselo partigiano; perché quello esercito col tempo dimenticava il Senato e
riconosceva quello capo. Per questo Silla e Mario poterono trovare soldati che contro al bene
publico gli seguitassono: per questo, Cesare potette occupare la patria. Che se mai i Romani non
avessono prolungati i magistrati e gli imperii, se non venivano sì tosto a tanta potenza, e se fussono
stati più tardi gli acquisti loro, sarebbono ancora più tardi venuti nella servitù.
<B>25</B>
<B>Della povertà di Cincinnato </B>
<B>e di molti cittadini romani. </B>
Noi abbiamo ragionato altrove come la più utile cosa che si ordini in uno vivere libero è che si
mantenghino i cittadini poveri. E benché in Roma non apparisca quale ordine fusse quello che
facesse questo effetto, avendo, massime, la legge agraria avuta tanta oppugnazione; nondimeno per
esperienza si vide, che, dopo quattrocento anni che Roma era stata edificata, vi era una grandissima
povertà; né si può credere che altro ordine maggiore facesse questo effetto, che vedere come per la
povertà non ti era impedita la via a qualunque grado ed a qualunque onore, e come e' si andava a
trovare la virtù in qualunque casa l'abitasse. Il quale modo di vivere faceva manco desiderabili le
ricchezze. Questo si vede manifesto; perché, sendo Minuzio consolo assediato con lo esercito suo
dagli Equi, si empié di paura Roma, che quello esercito non si perdesse; tanto che ricorsero a creare
il Dittatore, ultimo rimedio nelle loro cose afflitte. E crearono Lucio Quinzio Cincinnato, il quale
allora si trovava nella sua piccola villa, la quale lavorava di sua mano. La quale cosa con parole
auree e celebrata da Tito Livio, dicendo: «Operae pretium est audire, qui omnia prae divitiis
humana spernunt, neque honori magno locum, neque virtuti putant esse, nisi effusae affluant opes».
Arava Cincinnato la sua piccola villa, la quale non trapassava il termine di quattro iugeri quando da
Roma vennero i Legati del Senato a significargli la elezione della sua dittatura, a mostrargli in quale
pericolo si trovava la romana Republica. Egli, presa la sua toga, venuto in Roma e ragunato uno
esercito ne andò a liberare Minuzio, ed avendo rotti e spogliati i nimici, e liberato quello, non volle
che lo esercito assediato fusse partecipe della preda, dicendogli queste parole: - Io non voglio che tu
participi della preda di coloro de' quali tu se' stato per essere preda; - e privò Minuzio del consolato,
e fecelo Legato, dicendogli: - Starai in questo grado tanto, che tu impari a sapere essere Consolo -.
Aveva fatto suo Maestro de' cavagli Lucio Tarquinio, il quale per la povertà militava a piede.
Notasi, come è detto, l'onore che si faceva in Roma alla povertà; e come a un uomo buono e
valente, quale era Cincinnato, quattro iugeri di terra bastavano a nutrirlo. La quale povertà si vede
come era ancora ne' tempi di Marco Regolo; perché, sendo in Affrica con gli eserciti, domandò
licenza al Senato per potere tornare a custodire la sua villa, la quale gli era guasta da' suoi
lavoratori. Dove si vede due cose notabilissime: l'una, la povertà, e come vi stavano dentro contenti,
e come e' bastava a quelli cittadini trarre della guerra onore, e l'utile tutto lasciavano al publico.
Perché, s'egli avessero pensato d'arricchire della guerra, gli sarebbe dato poca briga che i suoi
campi fussono stati guasti. L'altra è considerare la generosità dell'animo di quelli cittadini, i quali,
preposti ad uno esercito, saliva la grandezza dello animo loro sopra ogni principe, non stimavono i
re, non le republiche; non gli sbigottiva né spaventava cosa alcuna; e tornati dipoi privati,
diventavano parchi, umili, curatori delle piccole facultà loro, ubbidienti a' magistrati, reverenti alli
loro maggiori: talché pare impossibile che uno medesimo animo patisca tale mutazione.
Durò questa povertà ancora infino a' tempi di Paulo Emilio, che furono quasi gli ultimi felici tempi
di quella Republica, dove uno cittadino, che col trionfo suo arricchì Roma, nondimeno mantenne
povero sé. Ed in tanto si stimava ancora la povertà, che Paulo, nell'onorare chi si era portato bene
nella guerra, donò a uno suo genero una tazza d'ariento, il quale fu il primo ariento che fusse nella
sua casa. Potrebbesi, con un lungo parlare, mostrare quanto migliori frutti produca la povertà che la
ricchezza, e come l'una ha onorato le città, le provincie, le sétte, e l'altra le ha rovinate; se questa
materia non fusse stata molte volte da altri uomini celebrata.
<B>26</B>
<B>Come per cagione di femine</B>
<B>si rovina uno stato. </B>
Nacque nella città d'Ardea intra i patrizi e gli plebei una sedizione per cagione d'uno parentado:
dove, avendosi a maritare una femina ricca, la domandarono parimente uno plebeo ed uno nobile; e
non avendo quella padre, i tutori la volevono congiugnere al plebeo, la madre al nobile: di che
nacque tanto tumulto, che si venne alle armi; dove tutta la Nobilità si armò in favore del nobile, e
tutta la plebe in favore del plebeo. Talché, essendo superata la plebe, si uscì d'Ardea, e mandò a'
Volsci per aiuto: i nobili mandarono a Roma. Furono prima i Volsci, e, giunti intorno ad Ardea, si
accamparono. Sopravvennono i Romani, e rinchiusono i Volsci infra la terra e loro; tanto che gli
costrinsono, essendo stretti dalla fame, a darsi a discrezione. Ed entrati i Romani in Ardea, e morti
tutti i capi della sedizione, composono le cose di quella città.
Sono in questo testo più cose da notare. Prima, si vede come le donne sono state cagioni di molte
rovine, ed hanno fatti gran danni a quegli che governano una città, ed hanno causato di molte
divisioni in quelle: e, come si è veduto in questa nostra istoria, lo eccesso fatto contro a Lucrezia
tolse lo stato ai Tarquinii; quell'altro, fatto contro a Virginia, privò i Dieci dell'autorità loro. Ed
Aristotile, intra le prime cause che mette della rovina de' tiranni, è lo avere ingiuriato altrui per
conto delle donne, o con stuprarle, o con violarle, o con rompere i matrimonii; come di questa parte,
nel capitolo dove noi trattamo delle congiure, largamente si parlò. Dico, adunque, come i principi
assoluti ed i governatori delle republiche non hanno a tenere poco conto di questa parte; ma
debbono considerare i disordini che per tale accidente possono nascere, e rimediarvi in tempo che il
rimedio non sia con danno e vituperio dello stato loro o della loro republica: come intervenne agli
Ardeati; i quali, per avere lasciato crescere quella gara intra i loro cittadini, si condussero a
dividersi infra loro; e, volendo riunirsi, ebbono a mandare per soccorsi esterni: il che è uno grande
principio d'una propinqua servitù.
Ma veniamo allo altro notabile, del modo del riunire le città; del quale nel futuro capitolo parlereno.
<B>27</B>
<B>Come e' si ha ad unire una città divisa; </B>
<B>e come e' non è vera quella opinione, </B>
<B>che, a tenere le città, </B>
<B>bisogni tenerle divise. </B>
Per lo esemplo de' Consoli romani che riconciliorono insieme gli Ardeati, si nota il modo come si
debbe comporre una città divisa: il quale non è altro, né altrimenti si debbe medicare, che
ammazzare i capi de' tumulti, perché gli è necessario pigliare uno de' tre modi: o ammazzargli,
come feciono costoro; o rimuovergli della città; o fare loro fare pace insieme, sotto oblighi di non si
offendere. Di questi tre modi, questo ultimo è più dannoso, meno certo e più inutile. Perché gli è
impossibile, dove sia corso assai sangue, o altre simili ingiurie, che una pace, fatta per forza, duri,
riveggendosi ogni dì insieme in viso; ed è difficile che si astenghino dallo ingiuriare l'uno l'altro,
potendo nascere infra loro ogni dì, per la conversazione, nuove cagioni di querele.
Sopra che non si può dare il migliore esemplo che la città di Pistoia. Era divisa quella città , come è
ancora, quindici anni sono, in Panciatichi e Cancellieri; ma allora era in sull'armi, ed oggi le ha
posate. E dopo molte dispute infra loro vennono al sangue, alla rovina delle case, al predarsi la
roba, e ad ogni altro termine di nimico. Ed i Fiorentini, che gli avevano a comporre, sempre vi
usarono quel terzo modo; e sempre ne nacque maggiori tumulti e maggiori scandali: tanto che,
stracchi, e' si venne al secondo modo, di rimuovere i capi delle parti; de' quali alcuni messono in
prigione alcuni altri confinarono in vari luoghi: tanto che l'accordo fatto potette stare, ed è stato
infino a oggi. Ma sanza dubbio più sicuro saria stato il primo. Ma perché simili esecuzioni hanno il
grande ed il generoso, una republica debole non le sa fare, ed ènne tanto discosto, che a fatica la si
conduce al rimedio secondo. E questi sono di quegli errori che io dissi nel principio, che fanno i
principi de' nostri tempi, che hanno a giudicare le cose grandi; perché doverrebbono volere udire
come si sono governati coloro che hanno avuto a giudicare anticamente simili casi. Ma la debolezza
de' presenti uomini, causata dalla debole educazione loro e dalla poca notizia delle cose, fa che si
giudicano i giudicii antichi, parte inumani, parte impossibili. Ed hanno certe loro moderne opinioni,
discosto al tutto dal vero, come è quella che dicevano e' savi della nostra città, un tempo fa: che
bisognava tenere Pistoia con le parti, e Pisa con le fortezze; e non si avveggono, quanto l'una e
l'altra di queste due cose è inutile.
Io voglio lasciare le fortezze, perché di sopra ne parlamo a lungo; e voglio discorrere la inutilità che
si trae del tenere le terre, che tu hai in governo, divise. In prima, egli è impossibile che tu ti
mantenga tutte a due quelle parti amiche, o principe o republica che le governi. Perché dalla natura
è dato agli uomini pigliare parte in qualunque cosa divisa, e piacergli più questa che quella. Talché,
avendo una parte di quella terra male contenta, fa che, la prima guerra che viene, te la perdi; perché
gli è impossibile guardare una città che abbia e' nimici fuori e dentro. Se la è una republica che la
governi, non ci è il più bel modo a fare cattivi i tuoi cittadini ed a fare dividere la tua città, che avere
in governo una città divisa; perché ciascuna parte cerca di avere favori, e ciascuna si fa amici con
varie corruttele: talché ne nasce due grandissimi inconvenienti; l'uno, che tu non ti gli fai mai amici,
per non gli potere governare bene, variando il governo spesso, ora con l'uno, ora con l'altro omore;
l'altro, che tale studio di parte divide di necessità la tua republica. Ed il Biondo, parlando de'
Fiorentini e de' Pistolesi, ne fa fede, dicendo: «Mentre che i Fiorentini disegnavono di riunire
Pistoia, divisono sé medesimi». Pertanto, si può facilmente considerare il male che da questa
divisione nasca.
Nel 1502, quando si perdé Arezzo, e tutto Val di Tevere e Val di Chiana, occupatoci dai Vitelli e
dal duca Valentino, venne un monsignor di Lant, mandato dal re di Francia a fare ristituire ai
Fiorentini tutte quelle terre perdute; e trovando Lant in ogni castello uomini che, nel vicitarlo,
dicevano che erano della parte di Marzocco, biasimò assai questa divisione: dicendo, che, se in
Francia uno di quegli sudditi del re dicesse di essere della parte del re, sarebbe gastigato, perché tale
voce non significherebbe altro, se non che in quella terra fusse gente inimica del re, e quel re vuole
che le terre tutte sieno sue amiche, unite e sanza parte. Ma tutti questi modi e queste opinioni
diverse dalla verità, nascono dalla debolezza di chi è signore; i quali, veggendo di non potere tenere
gli stati con forza e con virtù, si voltono a simili industrie: le quali qualche volta ne' tempi quieti
giovano qualche cosa, ma, come e' vengono le avversità ed i tempi forti, le mostrano la fallacia loro.
<B>28</B>
<B>Che si debbe por mente </B>
<B>alle opere de' cittadini, </B>
<B>perché molte volte sotto una opera pia </B>
<B>si nasconde uno principio di tirannide. </B>
Essendo la città di Roma aggravata dalla fame, e non bastando le provisioni publiche a cessarla,
prese animo uno Spurio Melio, essendo assai ricco, secondo quegli tempi, di fare provisione
privatamente di frumento, e pascerne col suo grado la plebe. Per la quale cosa, egli ebbe tanto
concorso di popolo in suo favore, che il Senato, pensando all' inconveniente che di quella sua
liberalità poteva nascere, per opprimerla avanti che la pigliasse più forze, gli creò uno Dittatore
addosso, e fecelo morire. Qui è da notare, come molte volte le opere che paiono pie e da non le
potere ragionevolmente dannare, diventono crudeli, e per una republica sono pericolosissime,
quando le non siano a buona ora corrette. E per discorrere questa cosa più particularmente, dico che
una republica sanza i cittadini riputati non può stare, né può governarsi in alcuno modo bene.
Dall'altro canto, la riputazione de' cittadini è cagione della tirannide delle republiche. E volendo
regolare questa cosa, bisogna ordinarsi talmente, che i cittadini siano riputati, di riputazione che
giovi, e non nuoca, alla città ed alla libertà di quella. E però si debbe esaminare i modi con i quali e'
pigliano riputazione; che sono in effetto due: o publici o privati. I modi publici sono, quando uno,
consigliando bene, operando meglio, in beneficio comune, acquista riputazione. A questo onore si
debba aprire la via ai cittadini, e preporre premii ed ai consigli ed alle opere, talché se ne abbiano ad
onorare e sodisfare. E quando queste riputazioni, prese per queste vie, siano stiette e semplici, non
saranno mai pericolose: ma quando le sono prese per vie private, che è l'altro modo preallegato,
sono pericolosissime ed in tutto nocive. Le vie private sono, faccendo beneficio a questo ed a quello
altro privato, col prestargli danari, maritargli le figliuole, difenderlo dai magistrati, e faccendogli
simili privati favori, i quali si fanno gli uomini partigiani, e danno animo, a chi è così favorito, di
potere corrompere il publico e sforzare le leggi. Debbe, pertanto, una republica bene ordinata aprire
le vie come è detto, a chi cerca favori per vie publiche, e chiuderle a chi li cerca per vie private,
come si vede che fece Roma perché in premio di chi operava bene per il publico, ordinò i trionfi, e
tutti gli altri onori che la dava ai suoi cittadini, ed in danno di chi sotto vari colori per vie private
cercava di farsi grande, ordinò l'accuse; e quando queste non bastassero, per essere accecato il
popolo da una spezie di falso bene, ordinò il Dittatore, il quale con il braccio regio facesse ritornare
dentro al segno chi ne fosse uscito, come la fece per punire Spurio Melio. Ed una che di queste cose
si lasci impunita, è atta a rovinare una republica; perché difficilmente con quello esemplo si riduce
dipoi in la vera via.
<B>29</B>
<B>Che gli peccati de' popoli </B>
<B>nascono dai principi. </B>
Non si dolghino i principi di alcuno peccato che facciono i popoli ch'egli abbiano in governo;
perché tali peccati conviene che naschino o per la sua negligenza, o per essere lui macchiato di
simili errori. E chi discorrerà i popoli che ne' nostri tempi sono stati tenuti pieni di ruberie e di
simili peccati, vedrà che sarà al tutto nato da quegli che gli governavano, che erano di simile natura.
La Romagna, innanzi che in quella fussono spenti da papa Alessandro VI quegli signori che la
comandavano, era un esempio d'ogni sceleratissima vita, perché quivi si vedeva per ogni leggiere
cagione seguire occisioni e rapine grandissime. Il che nasceva dalla tristitia di quelli principi; non
dalla natura trista degli uomini, come loro dicevano. Perché, sendo quegli principi poveri, e volendo
vivere da ricchi, erano necessitati volgersi a molte rapine, e quelle per vari modi usare. Ed intra
l'altre disoneste vie che tenevano, e' facevano leggi, e proibivono alcuna azione; dipoi erano i primi
che davano cagione della inosservanza di esse, né mai punivano gli inosservanti, se non poi, quando
vedevano assai essere incorsi in simile pregiudizio; ed allora si voltavano alla punizione, non per
zelo della legge fatta, ma per cupidità di riscuotere la pena. Donde nasceva molti inconvenienti, e
sopra tutto, questo, che i popoli s'impoverivano, e non si correggevano; e quegli che erano
impoveriti, s'ingegnavano, contro a' meno potenti di loro, prevalersi. Donde surgevano tutti quelli
mali che di sopra si dicano, de' quali era cagione il principe. E che questo sia vero, lo mostra Tito
Livio quando e' narra che, portando i Legati romani il dono della preda de' Veienti ad Apolline,
furono presi da' corsali di Lipari in Sicilia, e condotti in quella terra: ed inteso Timasiteo, loro
principe, che dono era questo, dove gli andava e chi lo mandava, si portò, quantunque nato a Lipari,
come uomo romano, e mostrò al popolo quanto era impio occupare simile dono; tanto che, con il
consenso dello universale, ne lasciò andare i Legati con tutte le cose loro. E le parole dello istorico
sono queste: «Timasitheus multitudinem religione implevit, quae semper regenti est similis». E
Lorenzo de' Medici, a confermazione di questa sentenza, dice:
<I>E quel che fa 'l signor, fanno poi molti;
Che nel signor son tutti gli occhi volti.</I>
<B>30</B>
<B>A uno cittadino </B>
<B>che voglia nella sua republica </B>
<B>fare di sua autorità alcuna opera buona, </B>
<B>è necessario, prima, spegnere l'invidia: </B>
<B>e come, vedendo il nimico, </B>
<B>si ha a ordinare la difesa d'una città. </B>
Intendendo il Senato romano come la Toscana tutta aveva fatto nuovo deletto per venire a' danni di
Roma; e come i Latini e gli Ernici, stati per lo addietro amici del Popolo romano, si erano accostati
con i Volsci, perpetui inimici di Roma; giudicò questa guerra dovere essere pericolosa. E
trovandosi Cammillo tribuno di potestà consolare, pensò che si potesse fare sanza creare il
Dittatore, quando gli altri Tribuni suoi collegi volessono cedergli la somma dello imperio. Il che
detti Tribuni fecero volontariamente: «Nec quicquam (dice Tito Livio) de maiestate sua detractum
credebant, quod maiestati eius concessissent». Onde Cammillo, presa a parole questa ubbidienza,
comandò che si scrivesse tre eserciti. Del primo volle essere capo lui, per ire contro a' Toscani. Del
secondo fece capo Quinto Servilio, il quale volle stesse propinquo a Roma, per ostare ai Latini ed
agli Ernici, se si movessono. Al terzo esercito prepose Lucio Quinzio, il quale scrisse per tenere
guardata la città e difese le porte e la curia, in ogni caso che nascesse. Oltre a di questo, ordinò che
Orazio, uno de' suoi collegi, provedesse l'armi ed il frumento e l'altre cose che richieggono i tempi
della guerra. Prepose Cornelio, ancora, suo collega, al Senato ed al publico consiglio, acciocché
potesse consigliare le azioni che giornalmente si avevano a fare ed esequire: in modo furono quegli
Tribuni, in quelli tempi, per la salute della patria, disposti a comandare ed a ubbidire. Notasi per
questo testo, quello che faccia uno uomo buono e savio, e di quanto bene sia cagione, e quanto utile
e' possa fare alla sua patria, quando, mediante la sua bontà e virtù, egli ha spenta la invidia; la quale
è molte volte cagione che gli uomini non possono operare bene, non permettendo detta invidia che
gli abbino quella autorità la quale è necessaria avere nelle cose d'importanza. Spegnesi questa
invidia in due modi. O per qualche accidente forte e difficile, dove ciascuno, veggendosi perire,
posposta ogni ambizione, corre volontariamente ad ubbidire a colui che crede che con la sua virtù lo
possa liberare: come intervenne a Cammillo, il quale avendo dato di sé tanti saggi di uomo
eccellentissimo, ed essendo stato tre volte Dittatore, ed avendo amministrato sempre quel grado ad
utile publico, e non a propria utilità aveva fatto che gli uomini non temevano della grandezza sua; e
per esser tanto grande e tanto riputato, non stimavano cosa vergognosa essere inferiori a lui (e però
dice Tito Livio saviamente quelle parole «Nec quicquam» ecc.) in un altro modo si spegne l'invidia
quando, o per violenza o per ordine naturale, muoiono coloro che sono stati tuoi concorrenti nel
venire a qualche riputazione ed a qualche grandezza; quali, veggendoti riputato più di loro, è
impossibile che mai acquieschino, e stieno pazienti. E quando e' sono uomini che siano usi a vivere
in una città corrotta, dove la educazione non abbia fatto in loro alcuna bontà, è impossibile che per
accidente alcuno, mai si ridichino; e per ottenere la voglia loro, e satisfare alla loro perversità
d'animo sarebbero contenti vedere la rovina della loro patria. A vincere questa invidia non ci è altro
rimedio che la morte di coloro che l'hanno; e quando la fortuna è tanto propizia a quell'uomo
virtuoso, che si muoiano ordinariamente, diventa, sanza scandalo, glorioso, quando sanza ostacolo e
sanza offesa e' può mostrare la sua virtù; ma quando e' non abbi questa ventura, gli conviene
pensare per ogni via a torsegli dinanzi; e prima che e' facci cosa alcuna, gli bisogna tenere modi che
vinca questa difficultà. E chi legge la Bibbia sensatamente, vedrà Moisè essere stato forzato, a
volere che le sue leggi e che i suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini, i quali,
non mossi da altro che dalla invidia, si opponevano a' disegni suoi. Questa necessità conosceva
benissimo frate Girolamo Savonerola; conoscevala ancora Piero Soderini, gonfaloniere di Firenze.
L'uno non potette vincerla, per non avere autorità a poterlo fare (che fu il frate), e per non essere
inteso bene da coloro che lo seguitavano, che ne arebbero avuto autorità. Nonpertanto per lui non
rimase, e le sue prediche sono piene di accuse de' savi del mondo e d'invettive contro a loro: perché
chiamava così questi invidi, e quegli che si opponevano agli ordini suoi. Quell'altro credeva, col
tempo, con la bontà, con la fortuna sua, col benificare alcuno, spegnere questa invidia; vedendosi di
assai fresca età, e con tanti nuovi favori che gli arrecava el modo del suo procedere, che credeva
potere superare quelli tanti che per invidia se gli opponevano, sanza alcuno scandolo, violenza e
tumulto: e non sapeva che il tempo non si può aspettare, la bontà non basta, la fortuna varia, e la
malignità non truova dono che la plachi. Tanto che l'uno e l'altro di questi due rovinarono, e la
rovina loro fu causata da non avere saputo o potuto vincere questa invidia.
L'altro notabile è l'ordine che Cammillo dette, dentro e fuori, per la salute di Roma. E veramente,
non sanza cagione gli istorici buoni, come è questo nostro, mettono particularmente e distintamente
certi casi, acciocché i posteri imparino come gli abbino in simili accidenti difendersi. E debbesi in
questo testo notare, che non è la più pericolosa né la più inutile difesa, che quella che si fa
tumultuariamente e sanza ordine. E questo si mostra per quello terzo esercito che Cammillo fece
scrivere per lasciarlo, in Roma, a guardia della città: perché molti arebbero giudicato e
giudicherebbero questa parte superflua, sendo quel popolo, per l'ordinario, armato e bellicoso; e per
questo, che non bisognasse di scriverlo altrimenti, ma bastasse farlo armare quando il bisogno
venisse. Ma Cammillo, e qualunque fusse savio come era esso, la giudica altrimenti; perché non
permette mai che una moltitudine pigli l'arme, se non con certo ordine e certo modo. E però, in su
questo esemplo, uno che sia preposto a guardia d'una città, debba fuggire come uno scoglio il fare
armare gli uomini tumultuosamente; ma debba avere prima scritti e scelti quegli che voglia si
armino, chi gli abbino ad ubbidire, dove a convenire, dove a andare; e, quegli che non sono scritti,
comandare che stieno ciascuno alle case sue, a guardia di quelle. Coloro che terranno questo ordine
in una città assaltata, facilmente si potranno difendere: chi farà altrimenti, non imiterà Cammillo, e
non si difenderà.
<B>31</B>
<B>Le republiche forti </B>
<B>e gli uomini eccellenti </B>
<B>ritengono in ogni fortuna </B>
<B>il medesimo animo </B>
<B>e la loro medesima dignità. </B>
Intra l'altre magnifiche cose che 'l nostro istorico fa dire e fare a Cammillo, per mostrare come
debbe essere fatto un uomo eccellente, gli mette in bocca queste parole: «Nec mihi dictatura animos
fecit, nec exilium ademit». Per le quali si vede, come gli uomini grandi sono sempre in ogni fortuna
quelli medesimi; e se la varia, ora con esaltarli, ora con opprimerli, quegli non variano, ma tengono
sempre lo animo fermo, ed in tale modo congiunto con il modo del vivere loro, che facilmente si
conosce per ciascuno, la fortuna non avere potenza sopra di loro. Altrimenti si governano gli
uomini deboli perché invaniscono ed inebriano nella buona fortuna, attribuendo tutto il bene che gli
hanno a quella virtù che non conobbono mai. D'onde nasce che diventano insopportabili ed odiosi a
tutti coloro che gli hanno intorno. Da che poi depende la subita variazione della sorte; la quale come
veggono in viso, caggiono subito nell'altro difetto, e diventano vili ed abietti. Di qui nasce che i
principi così fatti pensano nelle avversità più a fuggirsi che a difendersi, come quelli che, per avere
male usata la buona fortuna, sono ad ogni difesa impreparati.
Questa virtù, e questo vizio, che io dico trovarsi in un uomo solo, si truova ancora in una republica,
ed in esemplo ci sono i Romani ed i Viniziani. Quelli primi, nessuna cattiva sorte gli fece mai
diventare abietti né nessuna buona fortuna gli fece mai essere insolenti; come si vide
manifestamente dopo la rotta ch'egli ebbero a Canne, e dopo la vittoria ch'egli ebbero contro a
Antioco; perché, per quella rotta, ancora che gravissima per essere stata la terza, non invilirono mai;
e mandarono fuori eserciti; non vollono riscattare i loro prigioni contro agli ordini loro; non
mandarono ad Annibale o a Cartagine a chiedere pace: ma, lasciate stare tutte queste cose abiette
indietro, pensarono sempre alla guerra armando, per carestia di uomini, i vecchi ed i servi loro. La
quale cosa conosciuta da Annone cartaginese, come di sopra si disse, mostrò a quel Senato quanto
poco conto si aveva a tenere della rotta di Canne. E così si vide come i tempi difficili non gli
sbigottivono, né gli rendevono umili. Dall'altra parte, i tempi prosperi non gli facevano insolenti:
perché, mandando Antioco oratori a Scipione, a chiedere accordo, avanti che fussono venuti alla
giornata, e ch'egli avesse perduto Scipione gli dette certe condizioni della pace; quali erano, che si
ritirasse dentro alla Soria, ed il resto lasciasse nello arbitrio del Popolo romano. Il quale accordo
recusando Antioco, e venendo alla giornata, e perdendola, rimandò imbasciadori a Scipione, con
commissione che pigliassero tutte quelle condizioni erano date loro dal vincitore: alli quali non
propose altri patti che quegli si avesse offerti innanzi che vincesse; soggiugnendo queste parole:
«Quod Romani, si vincuntur, non minuuntur animis; nec, si vincunt, insolescere solent».
Al contrario appunto di questo si è veduto fare ai Viniziani: i quali nella buona fortuna, parendo
loro aversela guadagnata con quella virtù che non avevano, erano venuti a tanta insolenza che
chiamavano il re di Francia figliuolo di San Marco; non stimavano la Chiesa; non capivano in modo
alcuno in Italia; ed eronsi presupposti nello animo di avere a fare una monarchia simile alla romana.
Dipoi, come la buona sorte gli abbandonò e ch'egli ebbono una mezza rotta a Vailà, dal re di
Francia, perderono non solamente tutto lo stato loro per ribellione, ma buona parte ne dettero al
papa ed al re di Spagna per viltà ed abiezione d'animo; ed in tanto invilirono, che mandarono
imbasciadori allo imperadore a farsi tributari, scrissono al papa lettere piene di viltà e di
sommissione per muoverlo a compassione. Alla quale infelicità pervennono in quattro giorni, e
dopo una mezza rotta: perché, avendo combattuto il loro esercito, nel ritirarsi venne a combattere ed
essere oppresso circa la metà, in modo che, l'uno de' Provveditori, che si salvò, arrivò a Verona con
più di venticinquemila soldati, intr'a piè ed a cavallo. Talmenteché, se a Vinegia e negli ordini loro
fosse stata alcuna qualità di virtù, facilmente si potevano rifare, e rimostrare di nuovo il viso alla
fortuna, ed essere a tempo o a vincere o a perdere più gloriosamente, o ad avere accordo più
onorevole. Ma la viltà dello animo loro, causata dalla qualità de' loro ordini non buoni nelle cose
della guerra, gli fece ad un tratto perdere lo stato e l'animo. E sempre interverrà così a qualunque si
governa come loro. Perché questo diventare insolente nella buona fortuna ed abietto nella cattiva,
nasce dal modo del procedere tuo, e dalla educazione nella quale ti se' nutrito: la quale, quando è
debole e vana, ti rende simile a sé; quando è stata altrimenti, ti rende anche d'un'altra sorte; e,
faccendoti migliore conoscitore del mondo, ti fa meno rallegrare del bene, e meno rattristare del
male. E quello che si dice d'uno solo, si dice di molti che vivono in una republica medesima; i quali
si fanno di quella perfezione, che ha il modo del vivere di quella.
E benché altra volta si sia detto come il fondamento di tutti gli stati è la buona milizia; e come, dove
non è questa, non possono essere né leggi buone né alcuna altra cosa buona, non mi pare superfluo
riplicarlo: perché ad ogni punto nel leggere questa istoria si vede apparire questa necessità; e si
vede come la milizia non puoté essere buona, se la non è esercitata; e come la non si può esercitare,
se la non è composta di tuoi sudditi. Perché sempre non si sta in guerra, né si può starvi. Però
conviene poterla esercitare a tempo di pace; e con altri che con sudditi non si può fare questo
esercizio, rispetto alla spesa. Era Cammillo andato, come di sopra dicemo, con lo esercito contro ai
Toscani; ed avendo i suoi soldati veduto la grandezza dello esercito de' nimici, si erano tutti
sbigottiti, parendo loro essere tanto inferiori da non potere sostenere l'impeto di quegli. E
pervenendo questa mala disposizione del campo agli orecchi di Cammillo, si mostrò fuora, ed
andando parlando per il campo a questi e quelli soldati, trasse loro del capo questa opinione; e nello
ultimo, sanza ordinare altrimenti il campo, disse: «Quod quisque didicit, aut consuevit, faciet». E
chi considera bene questo termine, e le parole disse loro, per inanimirli ad ire contro a' nimici,
considerasi come e' non si poteva né dire né fare fare alcuna di quelle cose a uno esercito che prima
non fosse stato ordinato ed esercitato ed in pace ed in guerra. Perché di quegli soldati che non
hanno imparato a fare cosa alcuna, non può uno capitano fidarsi, e credere che faccino alcuna cosa
che stia bene; e se gli comandasse uno nuovo Annibale, vi rovinerebbe sotto. Perché, non potendo
uno capitano essere, mentre si fa la giornata, in ogni parte; se non ha prima in ogni parte ordinato di
potere avere uomini che abbino lo spirito suo e bene gli ordini e modi del procedere suo, conviene
di necessità che ci rovini. Se, adunque, una città sarà armata ed ordinata come Roma; e che ogni dì
ai suoi cittadini, ed in particulare ed in publico, tocchi a fare isperienza e della virtù loro, e della
potenza della fortuna; interverrà sempre che in ogni condizione di tempo ei fiano del medesimo
animo, e manterranno la medesima loro degnità: ma quando e' fiano disarmati, e che si
appoggeranno solo agl'impeti della fortuna e non alla propria virtù, varieranno col variare di quella,
e daranno sempre, di loro, esemplo tale che hanno dato i Viniziani.
<B>32</B>
<B>Quali modi hanno tenuti alcuni </B>
<B>a turbare una pace. </B>
Essendosi ribellate dal Popolo romano Circei e Velitre, due sue colonie, sotto speranza di essere
difese dai Latini, ed essendo di poi i Latini, vinti, e mancando di quella speranza, consigliavano
assai cittadini che si dovesse mandare a Roma oratori a raccomandarsi al Senato: il quale partito fu
turbato da coloro che erano stati autori della ribellione; i quali temevano che tutta la pena non si
voltasse sopra le teste loro. E per tôrre via ogni ragionamento di pace, incitarono la moltitudine ad
amarsi, ed a correre sopra i confini romani. E veramente, quando alcuno vuole o che uno popolo o
uno principe lievi al tutto l'animo da uno accordo, non ci è altro rimedio più vero né più stabile, che
farli usare qualche grave sceleratezza contro a colui con il quale tu non vuoi che l'accordo si faccia:
perché sempre lo terrà discosto quella paura di quella pena che a lui parrà per lo errore commesso
avere meritata. Dopo la prima guerra che i Cartaginesi ebbono con i Romani, quelli soldati che dai
Cartaginesi erano stati adoperati in quella guerra in Sicilia ed in Sardigna, fatta che fu la pace, se ne
andarono in Affrica; dove non essendo sodisfatti del loro stipendio, mossono l'armi contro ai
Cartaginesi; e fatti, di loro, due capi, Mato e Spendio, occuparono molte terre ai Cartaginesi, e
molte ne saccheggiarono. I Cartaginesi, per tentare prima ogni altra via che la zuffa, mandarono, a
quelli, ambasciadore Asdrubale loro cittadino, il quale pensavano avesse alcuna autorità con quelli,
essendo stato per lo adietro loro capitano. Ed arrivato costui, e volendo Spendio e Mato obligare
tutti quelli soldati a non sperare di avere mai più pace con i Cartaginesi e per questo obligarli alla
guerra; persuasono loro, ch'egli era meglio ammazzare costui, con tutti i cittadini cartaginesi, quali
erano appresso loro prigioni. Donde, non solamente gli ammazzarono, ma con mille supplicii in
prima gli straziorono; aggiugnendo a questa sceleratezza uno editto che tutti i Cartaginesi, che per
lo avvenire si pigliassono, si dovessono in simile modo uccidere. La quale diliberazione ed
esecuzione fece quello esercito crudele ed ostinato contro ai Cartaginesi.
<B>33</B>
<B>Egli è necessario, </B>
<B>a volere vincere una giornata, </B>
<B>fare lo esercito confidente </B>
<B>ed infra loro e con il capitano. </B>
A volere che uno esercito vinca la giornata, è necessario farlo confidente, in modo che creda dovere
in ogni modo vincere. Le cose che lo fanno confidente sono: che sia armato ed ordinato bene;
conoschinsi l'uno l'altro. Né può nascere questa confidenza o questo ordine, se non in quelli soldati
che sono nati e vissuti insieme. Conviene che il capitano sia stimato di qualità che confidino nella
prudenza sua: e sempre confideranno, quando lo vegghino ordinato, sollecito ed animoso, e che
tenga bene e con riputazione la maestà del grado suo: e sempre la manterrà, quando gli punisca
degli errori, e non gli affatichi invano; osservi loro le promesse; mostri facile la via del vincere;
quelle cose che discosto potessino mostrare i pericoli, le nasconda o le alleggerisca. Le quali cose,
osservate bene, sono cagione grande che lo esercito confida, e confidando vince. Usavano i Romani
di fare pigliare agli eserciti loro questa confidenza per via di religione: donde nasceva, che con gli
augurii ed auspicii creavano i Consoli, facevano il deletto, partivano con gli eserciti, e venivano alla
giornata. E sanza avere fatto alcuna di queste cose, non mai arebbe uno buono capitano e savio
tentata alcuna fazione, giudicando di averla potuta perdere facilmente, s'e' suoi soldati non avessoro
prima intesi gli Dii essere da parte loro. E quando alcuno Consolo, o altro loro capitano, avesse
combattuto, contro agli auspicii, lo arebbero punito; come ei punirono Claudio Pulcro. E benché
questa parte in tutte le istorie romane si conosca, nondimeno si pruova più certo per le parole che
Livio usa nella bocca di Appio Claudio; il quale, dolendosi col popolo della insolenzia de' Tribuni
della plebe, e mostrando che, mediante quelli, gli auspicii e le altre cose pertinenti alla religione si
corrompevano, dice così: «Eludant nunc licet religiones. Quid enim interest, si pulli non pascentur,
si ex cavea tardius exiverint, si occinuerit avis? Parva sunt haec; sed parva ista non contemnendo,
maiores nostri maximam hanc rempublicam fecerunt». Perché in queste cose piccole è quella forza
di tenere uniti e confidenti i soldati: la quale cosa è prima cagione d'ogni vittoria. Nonpertanto,
conviene con queste cose sia accompagnata la virtù: altrimenti, le non vagliano. I Prenestini, avendo
contro ai Romani fuori el loro esercito, se n'andarono ad alloggiare in sul fiume d'Allia, il luogo
dove i Romani furono vinti da i Franciosi; il che fecero per mettere fiducia ne' loro soldati, e
sbigottire i Romani per la fortuna del luogo. E benché questo loro partito fusse probabile, per quelle
ragioni che di sopra si sono discorse; nientedimeno il fine della cosa mostrò che la vera virtù non
teme ogni minimo accidente. Il che lo istorico benissimo dice con queste parole, in bocca poste del
Dittatore, che parla così al suo Maestro de' cavagli: «Vides tu, fortuna illos fretos ad Alliam
consedisse; at tu, fretus armis animisque, invade mediam aciem». Perché una vera virtù, un ordine
buono, una sicurtà presa da tante vittorie, non si può con cose di poco momento spegnere; né una
cosa vana fa loro paura, né un disordine gli offende: come si vede certo, che, essendo due Manlii
consoli contro a' Volsci, per avere mandato temerariamente parte del campo a predare, ne seguì che,
in un tempo, e quelli che erano iti e quelli che erano rimasti si trovavono assediati; dal quale
pericolo, non la prudenza de' Consoli, ma la virtù de' propri soldati gli liberò. Dove Tito Livio dice
queste parole: «Militum, etiam sine rectore, stabilis virtus tutata est».
Non voglio lasciare indietro uno termine usato da Fabio, sendo entrato di nuovo con lo esercito in
Toscana, per farlo confidente, giudicando quella tale fidanza essere più necessaria per averlo
condotto in paese nuovo, incontro a nimici nuovi: che, parlando avanti la zuffa a' soldati, e detto
ch'ebbe molte ragioni, mediante le quali ei potevono sperare la vittoria, disse che potrebbe ancora
dire loro certe cose buone, e dove ei vedrebbono la vittoria certa, se non fusse pericoloso il
manifestarle. Il quale modo, come e' fu saviamente usato, così merita di essere imitato.
<B>34</B>
<B>Quale fama o voce o opinione </B>
<B>fa che il popolo </B>
<B>comincia a favorire uno cittadino: </B>
<B>e se ei distribuisce i magistrati </B>
<B>con maggiore prudenza che un principe. </B>
Altra volta parlamo come Tito Manlio, che fu poi detto Torquato, salvò Lucio Manlio suo padre da
una accusa che gli aveva fatta Marco Pomponio tribuno della plebe. E benché il modo del salvarlo
fosse alquanto violento ed istraordinario, nondimeno quella filiale piatà verso del padre fu tanto
grata allo universale, che, non solamente non ne fu ripreso, ma, avendosi a fare i Tribuni delle
legioni, fu fatto Tito Manlio nel secondo luogo. Per il quale successo, credo che sia bene
considerare il modo che tiene il popolo a giudicare gli uomini nelle distribuzioni sue; e che, per
quello noi veggiamo, s'egli è vero quanto di sopra si conchiuse, che il popolo sia migliore
distributore che uno principe.
Dico, adunque, come il popolo nel suo distribuire va dietro a quello che si dice d'uno per publica
voce e fama, quando per sue opere note non lo conosce altrimenti, o per presunzione o opinione che
si ha di lui. Le quali due cose sono causate o da' padri di quelli tali che, per essere stati grandi
uomini e valenti nella città, si crede che i figliuoli debbeno essere simili a loro, infino a tanto che
per le opere di quegli non s'intenda il contrario; o la è causata dai modi che tiene quello di chi si
parla. I modi migliori che si possino tenere, sono: avere compagnia di uomini gravi, di buoni
costumi, e riputati savi da ciascuno. E perché nessuno indizio si può avere maggiore d'un uomo, che
le compagnie con quali egli usa; meritamente uno che usa con compagnie oneste, acquista buono
nome, perché è impossibile che non abbia qualche similitudine di quelle. O veramente si acquista
questa publica fama per qualche azione istraordinaria e notabile ancora che privata, la quale ti sia
riuscita onorevolmente. E di tutte a tre queste cose che danno nel principio buona riputazione ad
uno, nessuna la dà maggiore che questa ultima: perché quella prima de' parenti e de' padri è sì
fallace, che gli uomini vi vanno a rilento; ed in poco si consuma, quando la virtù propria di colui
che ha a essere giudicato non l'accompagna. La seconda, che ti fa conoscere per via delle pratiche
tue, è meglio della prima, ma è molto inferiore alla terza, perché, infino a tanto che non si vede
qualche segno che nasca da te sta la riputazione tua fondata in su l'opinione, la quale è facilissima a
cancellarla. Ma quella terza, essendo principiata e fondata in sul fatto ed in su la opera tua, ti dà nel
principio tanto nome, che bisogna bene che operi poi molte cose contrarie a questa, volendo
annullarla. Debbono, adunque, gli uomini che nascono in una republica pigliare questo verso, ed
ingegnarsi, con qualche operazione istraordinaria, cominciare a rilevarsi. Il che molti a Roma in
gioventù fecero o con il promulgare una legge che venisse in comune utilità; o con accusare qualche
potente cittadino come transgressore delle leggi; o col fare simili cose notabili e nuove, di che si
avesse a parlare. Né solamente sono necessarie simili cose per cominciare a darsi la riputazione ma
sono ancora necessarie per mantenerla ed accrescerla. Ed a volere fare questo, bisogna rinnovarle;
come per tutto il tempo della sua vita fece Tito Manlio: perché, difeso ch'egli ebbe il padre tanto
virtuosamente e istraordinariamente, e per questa azione presa la prima riputazione sua, dopo certi
anni combatté con quel Francioso, e, morto, gli trasse quella collana d'oro che gli dette il nome di
Torquato. Non bastò questo, che dipoi, già in età matura, ammazzò il figliuolo per avere combattuto
sanza licenza, ancora ch'egli avesse superato il nimico. Le quali tre azioni allora gli dettero più
nome e per tutti i secoli lo fanno più celebre, che non lo fece alcuno trionfo ed alcuna altra vittoria,
di che elli fu ornato quanto alcuno altro Romano. E la cagione è, perché in quelle vittorie Manlio
ebbe moltissimi simili; in queste particulari azioni n'ebbe o pochissimi o nessuno.
A Scipione maggiore non arrecarono tanta gloria tutti i suoi trionfi, quanto gli dette lo avere, ancora
giovinetto, in sul Tesino, difeso il padre; e lo avere, dopo la rotta di Canne, animosamente con la
spada sguainata fatto giurare più giovani romani che ei non abbandonerebbero l'Italia, come di già
infra loro avevano diliberato: le quali due azioni furono principio alla riputazione sua, e gli feciono
scala ai trionfi della Spagna e dell'Affrica. La quale opinione da lui fu ancora accresciuta, quando ei
rimandò la sua figliuola al padre, e la moglie al marito, in Ispagna. Questo modo del procedere non
è necessario solamente a quelli cittadini che vogliono acquistare fama per ottenere gli onori nella
loro republica, ma è ancora necessario ai principi per mantenersi la riputazione nel principato loro:
perché nessuna cosa gli fa tanto stimare, quanto dare di sé rari esempli con qualche fatto o detto
rado, conforme al bene comune, il quale mostri il signore o magnanimo o liberale o giusto, e che sia
tale che si riduca come in proverbio intra i suoi suggetti.
Ma, per tornare donde noi cominciamo questo discorso, dico come il popolo, quando ei comincia a
dare uno grado a uno suo cittadino, fondandosi sopra quelle tre cagioni soprascritte, non si fonda
male; ma poi, quando gli assai esempli de' buoni portamenti d'uno lo fanno più noto, si fonda
meglio, perché in tale caso non può essere che quasi mai s'inganni. Io parlo solamente di quelli
gradi che si dànno agli uomini nel principio, avanti che per ferma isperienza siano conosciuti, o che
passino da un'azione a un'altra dissimile: dove, e quanto alla falsa opinione, e quanto alla
corrozione, sempre faranno minori errori che i principi. E perché e' può essere che i popoli
s'ingannerebbono della fama, della opinione e delle opere d'uno uomo, stimandole maggiori che in
verità non sono, il che non interverrebbe a uno principe, perché gli sarebbe detto, e sarebbe
avvertito da chi lo consigliasse; perché ancora i popoli non manchino di questi consigli, i buoni
ordinatori delle republiche hanno ordinato, che, avendosi a creare i supremi gradi nelle città, dove
fosse pericoloso mettervi uomini insufficienti, e veggendosi la voga popolare essere diritta a creare
alcuno che fosse insufficiente, sia lecito a ogni cittadino, e gli sia imputato a gloria, di publicare
nelle concioni i difetti di quello, acciocché il popolo, non mancando della sua conoscenza, possa
meglio giudicare.
E che questo si usasse a Roma, ne rende testimonio l'orazione di Fabio Massimo, la quale ei fece al
popolo nella seconda guerra punica, quando nella creazione de' Consoli i favori si volgevano a
creare Tito Ottacilio; e giudicandolo Fabio insufficiente a governare in quelli tempi il consolato, gli
parlò contro, mostrando la insufficienza sua; tanto che gli tolse quel grado, e volse i favori del
popolo a chi più lo meritava che lui. Giudicano, adunque, i popoli, nella elezione a' magistrati,
secondo quelli contrassegni che degli uomini si possono avere più veri; e quando ei possono essere
consigliati come i principi, errano meno de' principi: e quel cittadino che voglia cominciare a avere
i favori del popolo, debbe con qualche fatto notabile, come fece Tito Manlio, guadagnarseli.
<B>35</B>
<B>Quali pericoli si portano </B>
<B>nel farsi capo a consigliare una cosa; </B>
<B>e, quanto ella ha più dello istraordinario, </B>
<B>maggiori pericoli vi si corrono. </B>
Quanto sia cosa pericolosa farsi capo d'una cosa nuova che appartenga a molti, e quanto sia difficile
a trattarla ed a condurla, e, condotta, a mantenerla, sarebbe troppo lunga e troppo alta materia a
discorrerla: però, riserbandola a luogo più conveniente, parlerò solo di quegli pericoli che portano i
cittadini, o quelli che consigliano uno principe a farsi capo d'una diliberazione grave ed importante,
in modo che tutto il consiglio di essa sia imputato a lui. Perché, giudicando gli uomini le cose dal
fine, tutto il male che ne risulta s'imputa allo autore del consiglio; e, se ne risulta bene, ne è
commendato: ma di lunge il premio non contrappesa a il danno. Il presente Sultan Salì, detto Gran
Turco, essendosi preparato (secondo che ne riferiscono alcuni che vengono de' suoi paesi) di fare la
impresa di Soria e di Egitto, fu confortato da uno suo Bascià, quale ei teneva ai confini di Persia, di
andare contro al Sofì: dal quale consiglio mosso andò con esercito grossissimo a quella impresa; e
arrivando in uno paese larghissimo, dove sono assai diserti e le fiumare rade, e trovandovi quelle
difficultà che già fecero rovinare molti eserciti romani, fu in modo oppressato da quelle, che vi
perdé, per fame e per peste, ancora che nella guerra fosse superiore, gran parte delle sue genti:
talché, irato contro allo autore del consiglio, lo ammazzò. Leggesi, assai cittadini stati confortatori
d'una impresa, e, per avere avuto quella tristo fine, essere stati mandati in esilio. Fecionsi capi
alcuni cittadini romani, che si facesse in Roma il Consule plebeio. Occorse che il primo che uscì
fuori con gli eserciti, fu rotto; onde a quegli consigliatori sarebbe avvenuto qualche danno, se non
fosse stata tanto gagliarda quella parte, in onore della quale tale diliberazione era venuta.
È cosa adunque certissima, che quegli che consigliano una republica, e quegli che consigliano uno
principe, sono posti intra queste angustie, che, se non consigliano le cose che paiono loro utili, o per
la città o per il principe, sanza rispetto, e' mancano dell'ufficio loro; se le consigliano, e' gli entrano
in pericolo della vita e dello stato: essendo tutti gli uomini in questo ciechi, di giudicare i buoni e i
cattivi consigli dal fine. E pensando in che modo ei potessono fuggire o questa infamia o questo
pericolo, non ci veggo altra via che pigliare le cose moderatamente, e non ne prendere alcuna per
sua impresa, e dire la opinione sua sanza passione, e sanza passione con modestia difenderla: in
modo che, se la città o il principe la segue, che la segua voluntario, e non paia che vi venga tirato
dalla tua importunità. Quando tu faccia così, non è ragionevole che uno principe ed uno popolo del
tuo consiglio ti voglia male, non essendo seguito contro alla voglia di molti: perché quivi si porta
pericolo dove molti hanno contradetto, i quali poi nello infelice fine concorrono a farti rovinare. E
se in questo caso si manca di quella gloria che si acquista nello essere solo contro a molti a
consigliare una cosa, quando ella sortisce buono fine, ci sono a rincontro due beni: il primo, del
mancare di pericolo; il secondo, che, se tu consigli una cosa modestamente, e per la contradizione il
tuo consiglio non sia preso e per il consiglio d'altrui ne seguiti qualche rovina, ne risulta a te gloria
grandissima.
E benché la gloria che si acquista de' mali che abbia o la tua città o il tuo principe, non si possa
godere, nondimeno è da tenerne qualche conto.
Altro consiglio non credo si possa dare agli uomini in questa parte: perché consigliandogli che
tacessono, e che non dicessono l'opinione loro, sarebbe cosa inutile alla republica o al loro principe,
e non fuggirebbono il pericolo; perché in poco tempo diventerebbono sospetti: ed ancora potrebbe
loro intervenire come a quegli amici di Perse re de' Macedoni, il quale essendo stato rotto da Paulo
Emilio, e fuggendosi con pochi amici, accadde che, nel replicare le cose passate, uno di loro
cominciò a dire a Perse molti errori fatti da lui, che erano stati cagione della sua rovina; al quale
Perse rivoltosi, disse: - Traditore, sì che tu hai indugiato a dirmelo ora che io non ho più rimedio! -
e sopra queste parole di sua mano lo ammazzò. E così colui portò la pena d'essere stato cheto
quando e' doveva parlare, e di avere parlato quando e' doveva tacere; non fuggì il pericolo per non
avere dato il consiglio. Però credo che sia da tenere ed osservare i termini soprascritti.
<B>36</B>
<B>Le cagioni perché i Franciosi </B>
<B>siano stati e siano ancora giudicati </B>
<B>nelle zuffe, da principio più che uomini, </B>
La ferocità di quello Francioso che provocava qualunque Romano, appresso al fiume Aniene, a
combattere seco, dipoi la zuffa fatta intra lui e Tito Manlio, mi fa ricordare di quello che Tito Livio
più volte dice, che i Franciosi sono nel principio della zuffa più che uomini, e nel successo del
combattere riescono poi meno che femine. E pensando donde questo nasca, si crede per molti che
sia la natura loro così fatta: il che credo sia vero; ma non è per questo che questa loro natura, che gli
fa feroci nel principio, non si potesse in modo con l'arte ordinare, che la gli mantenesse feroci infino
nello ultimo.
Ed a volere provare questo, dico come e' sono di tre ragioni eserciti: l'uno dove è furore ed ordine;
perché dall'ordine nasce il furore e la virtù, come era quello de' Romani: perché si vede in tutte le
istorie, che in quello esercito era un ordine buono, che vi aveva introdotto una disciplina militare
per lungo tempo. Perché in uno esercito, bene ordinato, nessuno debbe fare alcuna opera se non
regolarlo: e si troverrà, per questo, che nello esercito romano, dal quale, avendo elli vinto il mondo,
debbono prendere esemplo tutti gli altri eserciti, non si mangiava, non si dormiva, non si
meritricava, non si faceva alcuna azione o militare o domestica sanza l'ordine del console. Perché
quegli eserciti che fanno altrimenti, non sono veri eserciti; e se fanno alcuna pruova, la fanno per
furore e per impeto, e non per virtù. Ma dove la virtù ordinata usa il furore suo con i modi e co'
tempi, né difficultà veruna lo invilisce, né li fa mancare l'animo: perché gli ordini buoni gli
rinfrescono l'animo ed il furore, nutriti dalla speranza del vincere; la quale mai non manca, infino a
tanto che gli ordini stanno saldi. Al contrario interviene in quelli eserciti dove è furore e non ordine,
come erano i Franciosi, i quali tuttavia nel combattere mancavano, perché, non riuscendo loro con il
primo impeto vincere, e non essendo sostenuto da una virtù ordinata quello loro furore nel quale
egli speravano né avendo fuori di quello cosa in la quale ei cunfidassono come quello era raffreddo,
mancavano. Al contrario i Romani, dubitando meno de' pericoli per gli ordini loro buoni non
diffidando della vittoria, fermi ed ostinati combattevano col medesimo animo e con la medesima
virtù nel fine che nel principio: anzi, agitati dalle armi, sempre si accendevano. La terza qualità di
eserciti è dove non è furore naturale né ordine accidentale: come sono gli eserciti italiani de' nostri
tempi, i quali sono al tutto inutili; e se non si abbattano a uno esercito che per qualche accidente si
fugga, mai non vinceranno. E sanza addurre altri esempli, si vede, ciascuno dì, come ei fanno
pruove di non avere alcuna virtù. E perché, con il testimonio di Tito Livio, ciascuno intenda come
debbe essere fatta la buona milizia, e come è fatta la rea; io voglio addurre le parole di Papirio
Cursore, quando ei voleva punire Fabio, Maestro de' cavalli, quando disse: «Nemo hominum, nemo
Deorum, verecundiam habeat; non edicta imperatorum, non auspicia observentur; sine commeatu
vagi milites in pacato, in hostico errent; immemores sacramenti, licentia sola se ubi velint
exauctorent; infrequentia deserant signa; neque conveniatur ad edictum, nec discernantur, interdiu
nocte; aequo iniquo loco, iussu iniussu imperatoris pugnent; et non signa, non ordines servent:
latrocinii modo, caeca et fortuita pro sollemni et sacrata militia sit». E puossi per questo testo
adunque, facilmente vedere se la milizia de' nostri tempi è cieca e fortuita, o sacrata e solenne; e
quanto le manca a essere simile a quella che si può chiamare milizia; e quanto ella è discosto da
essere furiosa ed ordinata, come la romana, o furiosa solo, come la franciosa.
<B>37</B>
<B>Se le piccole battaglie </B>
<B>innanzi alla giornata sono necessarie; </B>
<B>e come si debbe fare a conoscere </B>
<B>uno inimico nuovo, </B>
<B>volendo fuggire quelle. </B>
E' pare che nelle azioni degli uomini, come altra volta abbiamo discorso, si truovi, oltre alle altre
difficultà, nel volere condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo al bene sia qualche
male, il quale con quel bene sì facilmente nasca che pare impossibile potere mancare dell'uno,
volendo l'altro. E questo si vede in tutte le cose che gli uomini operano. E però si acquista il bene
con difficultà, se dalla fortuna tu non se' aiutato in modo, che ella con la sua forza vinca questo
ordinario e naturale inconveniente. Di questo mi ha fatto ricordare la zuffa di Manlio e del
Francioso, dove Tito Livio dice: «Tanti ea dimicatio ad universi belli eventum momenti fuit, ut
Gallorum exercitus, relictis trepide Castris, in Tiburtem agrum mox in Campaniam transierit».
Perché io considero, dall'uno canto, che uno buono capitano debbe fuggire, al tutto, di operare
alcuna cosa, che, essendo di poco momento, possa fare cattivi effetti nel suo esercito: perché
cominciare una zuffa dove non si operino tutte le forze e vi si arrischi tutta la fortuna, è cosa al tutto
temeraria; come io dissi di sopra, quando io dannai il guardare de' passi.
Dall'altra parte, io considero come i capitani savi, quando vengono allo incontro d'uno nuovo
nimico, e ch'e' sia riputato, ei sono necessitati, prima che venghino alla giornata, fare provare, con
leggieri zuffe, ai loro soldati, tali nimici; acciocché, cominciandogli a conoscere e maneggiare,
perdino quel terrore che la fama e la riputazione aveva dato loro. E questa parte in uno capitano è
importantissima; perché ella ha in sé quasi una necessità che ti costringe a farla, parendoti andare ad
una manifesta perdita, sanza avere prima fatto, con piccole isperienze, di tôrre ai tuoi soldati quello
terrore che la riputazione del nimico aveva messo negli animi loro.
Fu Valerio Corvino mandato dai Romani con gli eserciti contro ai Sanniti nuovi inimici, e che per
lo addietro mai non avevano provate l'armi l'uno dell'altro, dove dice Tito Livio, che Valerio fece
fare ai Romani con i Sanniti alcune leggieri zuffe «ne eos novum bellum, ne novus hostis terreret».
Nondimeno è pericolo gravissimo, che, restando i tuoi soldati in quelle battaglie vinti, la paura e la
viltà non cresca loro, e ne conseguitino contrari effetti a' disegni tuoi: cioè, che tu gli sbigottisca,
avendo disegnato di assicurargli: tanto che questa è una di quelle cose che ha il male sì propinquo al
bene, e tanto sono congiunti insieme, che gli è facil cosa prendere l'uno, credendo pigliare l'altro.
Sopra che io dico, che uno buono capitano debbe osservare con ogni diligenza, che non surga
alcuna cosa che per alcuno accidente possa tôrre l'animo allo esercito suo. Quello che gli può tôrre
l'animo è cominciare a perdere; e però si debbe guardare dalle zuffe piccole, e non le permettere se
non con grandissimo vantaggio, e con speranza di certa vittoria: non debbe fare imprese di guardare
passi, dove non possa tenere tutto lo esercito suo: non debbe guardare terre, se non quelle che,
perdendole, di necessità ne seguisse la rovina sua; e quelle che guarda, ordinarsi in modo, e con le
guardie di esse e con lo esercito, che, trattandosi della ispugnazione di esse, ei possa adoperare tutte
le forze sue; l'altre debbe lasciare indifese. Perché ogni volta che si perde una cosa che si
abbandoni, e lo esercito sia ancora insieme, non si perde la riputazione della guerra né la speranza
del vincerla: ma quando si perde una cosa che tu hai disegnata difendere, e ciascuno crede che tu la
difenda, allora è il danno e la perdita; ed hai quasi, come i Franciosi, con una cosa di piccolo
momento perduta la guerra.
Filippo di Macedonia, padre di Perse, uomo militare e di gran condizione ne' tempi suoi, essendo
assaltato dai Romani, assai de' suoi paesi, i quali elli giudicava non potere guardare, abbandonò e
guastò: come quello che, per essere prudente, giudicava più pernizioso perdere la riputazione col
non potere difendere quello che si metteva a difendere, che, lasciandolo in preda al nimico perderlo
come cosa negletta. I Romani, quando dopo la rotta di Canne le cose loro erano afflitte, negarono a
molti loro raccomandati e sudditi gli aiuti, commettendo loro che si difendessono il meglio
potessono. I quali partiti sono migliori assai, che pigliare difese e poi non le difendere: perché in
questo partito si perde amici e forze; in quello, amici solo. Ma tornando alle piccole zuffe, dico che,
se pure uno capitano è costretto per la novità del nimico fare qualche zuffa, debbe farla con tanto
suo vantaggio, che non vi sia alcuno pericolo di perderla: o veramente fare come Mario (il che è
migliore partito), il quale, andando contro a' Cimbri, popoli ferocissimi, che venivano a predare
Italia, e venendo con uno spavento grande per la ferocità e moltitudine loro, e per avere di già vinto
uno esercito romano, giudicò Mario essere necessario, innanzi che venisse alla zuffa, operare
alcuna cosa per la quale lo esercito suo deponesse quel terrore che la paura del nimico gli aveva
dato; e, come prudentissimo capitano, più che una volta collocò lo esercito suo in luogo donde i
Cimbri con lo esercito loro dovessono passare. E così, dentro alle fortezze del suo campo, volle che
i suoi soldati gli vedessono, ed assuefacessono li occhi alla vista di quello nimico; acciocché,
vedendo una moltitudine inordinata, piena d'impedimenti, con armi inutili, e parte disarmati, si
rassicurassono, e diventassono desiderosi della zuffa. Il quale partito, come fu da Mario saviamente
preso, così dagli altri debbe essere diligentemente imitato, per non incorrere in quelli pericoli che io
dico disopra, e non avere a fare come i Franciosi, «qui ob rem parvi ponderis trepidi, in Tiburtem
agrum et in Campaniam transierunt». E perché noi abbiamo allegato in questo discorso Valerio
Corvino, voglio, mediante le parole sue, nel seguente capitolo, come debbe essere fatto uno
capitano, dimostrare.
<B>38</B>
<B>Come debbe essere fatto uno capitano </B>
<B>nel quale lo esercito suo possa confidare. </B>
Era, come di sopra dicemo, Valerio Corvino con lo esercito contro ai Sanniti, nuovi nimici del
Popolo romano: donde che, per assicurare i suoi soldati, e per farli conoscere i nimici, fece fare a'
suoi certe leggieri zuffe; e non gli bastando questo, volle, avanti alla giornata, parlare loro, e
mostrò, con ogni efficacia, quanto ei dovevano stimare poco tali nimici, allegando la virtù de' suoi
soldati, e la propria. Dove si può notare, per le parole che Livio gli fa dire, come debbe essere fatto
uno capitano in chi lo esercito abbia a confidare; le quali parole sono queste: «Tum etiam intueri,
cuius ductu auspicioque ineunda pugna sit, utrum, qui audiendus dumtaxat magnificus adhortator
sit, verbis tantum ferox, operum militarium expers, an qui et ipse tela tractare, procedere ante signa,
versari media in mole pugnae sciat. Facta mea, non dicta, vos, milites, sequi volo; nec disciplinam
modo, sed exemplum etiam a me petere, qui hac dextra mihi tres consulatus, summamque laudem
peperi». Le quali parole, considerate bene, insegnano a qualunque, come ei debbe procedere a
volere tenere il grado del capitano: e quello che sarà fatto altrimenti, troverrà, con il tempo, quel
grado, quando per fortuna o per ambizione vi sia condotto, torgli e non dargli riputazione; perché
non i titoli illustrono gli uomini, ma gli uomini i titoli. Debbesi ancora dal principio di questo
discorso considerare che, se gli capitani grandi hanno usati termini istraordinari a fermare gli animi
d'uno esercito veterano quando con i nimici inconsueti debbe affrontarsi; quanto maggiormente si
abbia a usare la industria quando si comandi uno esercito nuovo, che non abbia mai veduto il
nimico in viso! Perché, se lo inusitato inimico allo esercito vecchio dà terrore, tanto maggiormente
lo debbe dare ogni inimico a uno esercito nuovo. Pure, si è veduto molte volte dai buoni capitani
tutte queste difficultà con somma prudenza essere vinte: come fece quel Gracco romano, ed
Epaminonda tebano, de' quali altra volta abbiamo parlato, che con eserciti nuovi vinsono eserciti
veterani ed esercitatissimi.
I modi che ei tenevano, era: parecchi mesi esercitargli in battaglie fitte e assuefargli alla ubbidienza
ed allo ordine; e da quelli poi, con massima confidenza, nella vera zuffa gli adoperavano. Non si
debba, adunque, diffidare alcuno uomo militare di non potere fare buoni eserciti, quando non gli
manchi uomini; perché quel principe, che abbonda di uomini e manca di soldati, debbe solamente,
non della viltà degli uomini, ma della sua pigrizia e poca prudenza, dolersi.
<B>39</B>
<B>Che uno capitano </B>
<B>debbe essere conoscitore de' siti. </B>
Intra le altre cose che sono necessarie a uno capitano di eserciti, è la cognizione de' siti e de' paesi;
perché, sanza questa cognizione generale e particulare, uno capitano di eserciti non può bene
operare alcuna cosa. E perché tutte le scienze vogliono pratica a volere perfettamente possederle,
questa è una che ricerca pratica grandissima. Questa pratica, ovvero questa particulare cognizione,
si acquista più mediante le cacce che per veruno altro esercizio. Però gli antichi scrittori dicono che
quelli eroi che governarono nel loro tempo il mondo, si nutrirono nelle selve e nelle cacce; perché
la caccia, oltre a questa cognizione, c'insegna infinite cose che sono nella guerra necessarie. E
Senofonte, nella vita di Ciro, mostra che, andando Ciro ad assaltare il re d'Armenia, nel divisare
quella fazione, ricordò a quegli suoi, che questa non era altro che una di quelle cacce le quali molte
volte avevano fatte seco. E ricordava a quelli che mandava in agguato in su e' monti, che gli erano
simili a quelli che andavano a tendere le reti in su e' gioghi; ed a quelli che scorrevano per il piano,
erano simili a quegli che andavano a levare del suo covile la fiera, acciocché, cacciata, desse nelle
reti.
Questo si dice per mostrare come le cacce, secondo che Senofonte appruova, sono una immagine
d'una guerra: e per questo agli uomini grandi tale esercizio è onorevole e necessario. Non si può
ancora imparare questa cognizione de' paesi in altro commodo modo, che per via di caccia, perché
la caccia fa, a colui che la usa sapere come sta particularmente quel paese dove elli la esercita. E
fatto che uno si è familiare bene una regione, con facilità comprende poi tutti i paesi nuovi; perché
ogni paese ed ogni membro di quelli hanno insieme qualche conformità, in modo che dalla
cognizione d'uno facilmente si passa alla cognizione dell'altro. Ma chi non ne ha bene pratico uno,
con difficultà, anzi non mai se non con un lungo tempo, può conoscere l'altro. E chi ha questa
pratica, in uno voltare d'occhio sa come giace quel piano, come surge quel monte, dove arriva
quella valle, e tutte le altre simili cose, di che elli ha per lo addietro fatto una ferma scienza. E che
questo sia vero, ce lo mostra Tito Livio con lo esemplo di Publio Decio; il quale, essendo Tribuno
de' soldati nello esercito che Cornelio consolo conduceva contro ai Sanniti, ed essendosi il Consolo
ridotto in una valle, dove lo esercito de' Romani poteva dai Sanniti essere rinchiuso, e vedendosi in
tanto pericolo, disse al Consolo: «Vides tu, Aule Corneli, cacumen illud supra hostem? arx illa est
spei salutisque nostrae, si eam (quoniam caeci reliquere Samnites) impigre capimus». Ed innanzi a
queste parole, dette da Decio, Tito Livio dice: «Publius Decius tribunus militum, conspicit unum
editum in saltu collem, imminentem hostium castris aditu arduum impedito agmini, expeditis haud
difficilem». Donde, essendo stato mandato sopra esso dal Consolo con tremila soldati, ed avendo
salvo lo esercito romano e disegnando, venente la notte, di partirsi, e salvare ancora sé ed i suoi
soldati, gli fa dire queste parole: «Ite mecum, ut, dum lucis aliquid superest, quibus locis hostes
praesidia ponant, qua pateat hinc exitus, exploremus. Haec omnia sagulo militari amicus ne ducem
circumire hostes notarent, perlustravit». Chi considerrà, adunque, tutto questo testo, vedrà quanto
sia utile e necessario a uno capitano sapere la natura de' paesi: perché, se Decio non gli avesse
saputi e conosciuti, non arebbe potuto giudicare quale utile faceva pigliare quel colle, allo esercito
Romano, né arebbe potuto conoscere di discosto, se quel colle era accessibile o no; e condotto che
si fu poi sopra esso, volendosene partire per ritornare al Consolo, avendo i nimici intorno, non
arebbe dal discosto potuto speculare le vie dello andarsene, e gli luoghi guardati da' nimici. Tanto
che, di necessità conveniva, che Decio avesse tale cognizione perfetta: la quale fece che, con il
pigliare quel colle, ei salvò lo esercito romano; dipoi seppe, sendo assediato, trovare la via a salvare
sé e quegli che erano stati seco.
<B>40</B>
<B>Come usare la fraude </B>
<B>nel maneggiare la guerra </B>
<B>è cosa gloriosa. </B>
Ancora che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco nel maneggiare la guerra è
cosa laudabile e gloriosa; e, parimente è laudato colui che con fraude supera il nimico, come quello
che lo supera con le forze. E vedesi questo per il giudicio che ne fanno coloro che scrivono le vite
degli uomini grandi; i quali lodono Annibale e gli altri che sono stati notabilissimi in simili modi di
procedere. Di che per leggersi assai esempli, non ne replicherò alcuno. Dirò solo questo, che io non
intendo quella fraude essere gloriosa, che ti fa rompere la fede data ed i patti fatti; perché questa,
ancora che la ti acquisti, qualche volta, stato e regno, come di sopra si discorse, la non ti acquisterà
mai gloria. Ma parlo di quella fraude che si usa con quel nimico che non si fida di te, e che consiste
proprio nel maneggiare la guerra; come fu quella di Annibale quando in sul lago di Perugia simulò
la fuga per rinchiudere il Consolo e lo esercito romano, e quando, per uscire di mano di Fabio
Massimo, accese le corna dello armento suo.
Alle quali fraudi fu simile questa che usò Ponzio capitano dei Sanniti, per rinchiudere lo esercito
romano dentro alle Forche Caudine: il quale, avendo messo lo esercito suo a ridosso de' monti,
mandò più suoi soldati sotto veste di pastori con assai armento per il piano; i quali sendo presi dai
Romani, e domandati dove era lo esercito de' Sanniti, convennono tutti, secondo l'ordine dato da
Ponzio, a dire come egli era allo assedio di Nocera. La quale cosa, creduta dai Consoli, fece che ei
si rinchiusono dentro ai balzi caudini; dove entrati, furono subito assediati dai Sanniti. E sarebbe
stata questa vittoria, avuta per fraude, gloriosissima a Ponzio, se egli avesse seguitati i consigli del
padre il quale voleva che i Romani o ei si salvassono liberamente o ei si ammazzassono tutti, e che
non si pigliasse la via del mezzo, «quae, neque amicos parat neque inimicos tollit». La quale via fu
sempre perniziosa nelle cose di stato come di sopra in altro luogo si discorse.
<B>41</B>
<B>Che la patria si debbe difendere </B>
<B>o con ignominia o con gloria; </B>
<B>ed in qualunque modo è bene difesa. </B>
Era, come di sopra si è detto, il Consolo e lo esercito romano assediato da' Sanniti: i quali avendo
posto ai Romani condizioni ignominiosissime (come era volergli mettere sotto il giogo, e disarmati
rimandargli a Roma), e per questo stando i Consoli come attoniti, e tutto lo esercito disperato; Lucio
Lentolo, legato romano, disse che non gli pareva che fosse da fuggire qualunque partito per salvare
la patria: perché, consistendo la vita di Roma nella vita di quello esercito, gli pareva da salvarlo in
ogni modo; e che la patria è bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con
gloria: perché, salvandosi quello esercito, Roma era a tempo a cancellare la ignominia; non si
salvando, ancora che gloriosamente morisse, era perduto Roma e la libertà sua. E così fu seguitato il
suo consiglio. La quale cosa merita di essere notata ed osservata da qualunque cittadino si truova a
consigliare la patria sua: perché dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe
cadere alcuna considerazione né di giusto né d'ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile
né d'ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e
mantenghile la libertà. La quale cosa è imitata con i detti e con i fatti dai Franciosi, per difendere la
maestà del loro re e la potenza del loro regno; perché nessuna voce odono più impazientemente che
quella che dicesse: - Il tale partito è ignominioso per il re -; perché dicono che il loro re non può
patire vergogna in qualunque sua diliberazione, o in buona o in avversa fortuna: perché, se perde, se
vince, tutto dicono essere cose da re.
<B>42</B>
<B>Che le promesse fatte per forza, </B>
<B>non si debbono osservare. </B>
Tornati i Consoli con lo esercito disarmato e con la ricevuta ignominia a Roma, il primo che in
Senato disse che la pace fatta a Caudio non si doveva osservare, fu il consolo Spurio Postumio;
dicendo, come il popolo romano non era obligato, ma ch'egli era bene obligato esso e gli altri che
avevano promessa la pace: e però il popolo, volendosi liberare da ogni obligo, aveva a dare prigioni
nelle mani de' Sanniti lui e tutti gli altri che l'avevano promessa. E con tanta ostinazione tenne
questa conclusione, che il Senato ne fu contento; e mandando prigioni lui e gli altri in Sannio,
protestarono ai Sanniti la pace non valere. E tanto fu in questo caso, a Postumio, favorevole la
fortuna, che i Sanniti non lo ritennono; e ritornato in Roma, fu Postumio appresso ai Romani più
glorioso per avere perduto, che non fu Ponzio appresso ai Sanniti per avere vinto. Dove sono da
notare due cose: l'una, che in qualunque azione si può acquistare gloria, perché nella vittoria si
acquista ordinariamente; nella perdita si acquista o col mostrare tale perdita non essere venuta per
tua colpa, o per fare subito qualche azione virtuosa che la cancelli: l'altra è, che non è vergognoso
non osservare quelle promesse che ti sono state fatte promettere per forza; e sempre le promesse
forzate che riguardano il publico, quando e' manchi la forza, si romperanno, e fia sanza vergogna di
chi le rompe. Di che si leggono in tutte le istorie vari esempli; e ciascuno dì, ne' presenti tempi, se
ne veggono. E non solamente non si osservano intra i principi le promesse forzate, quando e' manca
la forza; ma non si osservano ancora tutte le altre promesse, quando e' mancano le cagioni che le
feciono promettere. Il che se è cosa laudabile o no, o se da uno principe si debbono osservare simili
modi o no, largamente è disputato da noi nel nostro trattato De Principe: però al presente lo
tacereno.
<B>43</B>
<B>Che gli uomini, </B>
<B>che nascono in una provincia, </B>
<B>osservino per tutti i tempi </B>
<B>quasi quella medesima natura. </B>
Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né immeritamente, che chi vuole vedere quello che
ha a essere, consideri quello che è stato; perché tutte le cose del mondo, in ogni tempo, hanno il
proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché, essendo quelle operate dagli uomini,
che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il
medesimo effetto. Vero è, che le sono le opere loro ora in questa provincia più virtuose che in
quella, ed in quella più che in questa, secondo la forma della educazione nella quale quegli popoli
hanno preso il modo del vivere loro. Fa ancora facilità il conoscere le cose future per le passate;
vedere una nazione lungo tempo tenere i medesimi costumi, essendo o continovamente avara, o
continovamente fraudolente, o avere alcuno altro simile vizio o virtù. E chi leggerà le cose passate
della nostra città di Firenze, e considererà quelle ancora che sono ne' prossimi tempi occorse,
troverrà i popoli tedeschi e franciosi pieni di avarizia, di superbia, di ferocità e d'infidelità; perché
tutte queste quattro cose in diversi tempi hanno offeso molto la nostra città. E quanto alla poca fede,
ognuno sa quante volte si dette danari a re Carlo VIII, ed elli prometteva rendere le fortezze di Pisa,
e non mai le rendé. In che quel re mostrò la poca fede, e l'assai avarizia sua. Ma lasciamo andare
queste cose fresche. Ciascuno può avere inteso quello che seguì nella guerra che fece il popolo
fiorentino contro a' Visconti duchi di Milano; ed essendo Firenze privo degli altri ispedienti, pensò
di condurre lo imperadore in Italia, il quale con la riputazione e forze sue assaltasse la Lombardia.
Promisse lo imperadore venire con assai genti, e fare quella guerra contro a' Visconti, e difendere
Firenze dalla potenza loro, quando i Fiorentini gli dessono centomila ducati per levarsi, e centomila
poi ch'ei fosse in Italia. Ai quali patti consentirono i Fiorentini; e pagatigli i primi danari, e dipoi i
secondi, giunto che fu a Verona, se ne tornò indietro sanza operare alcuna cosa, causando essere
restato da quegli che non avevano osservate le convenzioni erano fra loro. In modo che, se Firenze
non fosse stata o costretta dalla necessità o vinta dalla passione, ed avesse letti e conosciuti gli
antichi costumi de' barbari, non sarebbe stata né questa né molte altre volte ingannata da loro;
essendo loro stati sempre a un modo, ed avendo in ogni parte e con ognuno usati i medesimi
termini. Come ei si vede ch'ei fecero anticamente a' Toscani, i quali essendo oppressi dai Romani,
per essere stati da loro più volte messi in fuga e rotti; e veggendo mediante le loro forze non potere
resistere allo impeto di quegli; convennono, con i Franciosi che di qua dall'Alpi abitavano in Italia,
di dare loro somma di danari, e che fussono obligati congiugnere gli eserciti con loro, ed andare
contro ai Romani: donde ne seguì che i Franciosi, presi i danari, non vollono dipoi pigliare l'armi
per loro, dicendo avergli avuti, non per fare guerra con i loro nimici, ma perché si astenessino di
predare il paese toscano. E così i popoli toscani, per l'avarizia e poca fede de' Franciosi, rimasono
ad un tratto privi de' loro danari, e degli aiuti che gli speravono da quegli. Talché si vede, per questo
esemplo de' Toscani antichi, e per quello de' Fiorentini, i Franciosi avere usati i medesimi termini; e
per questo facilmente si può conietturare, quanto i principi si possono fidare di loro.
<B>44</B>
<B>E' si ottiene con l'impeto e con l'audacia </B>
<B>molte volte </B>
<B>quello che con modi ordinarii </B>
<B>non si otterrebbe mai. </B>
Essendo i Sanniti assaltati dallo esercito di Roma, e non potendo con lo esercito loro stare alla
campagna a petto ai Romani, diliberarono lasciare guardate le terre in Sannio e di passare con tutto
lo esercito loro in Toscana, la quale era in triegua con i Romani; e vedere, per tale passata, se ei
potessono con la presenzia dello esercito loro indurre i Toscani a ripigliare l'armi; il che avevano
negato ai loro ambasciadori. E nel parlare che feciono i Sanniti ai Toscani, nel mostrare, massime,
qual cagione gli aveva indotti a pigliare l'armi, usarono uno termine notabile, dove dissono:
«rebellasse, quod pax servientibus gravior, quam liberis bellum esset». E così, parte con le
persuasioni, parte con la presenza dello esercito loro, gl'indussono a ripigliare l'armi. Dove è da
notare che quando uno principe desidera ottenere una cosa da uno altro, debbe, se la occasione lo
patisce, non gli dare spazio a diliberarsi, e fare in modo che vegga la necessità della presta
diliberazione; la quale è quando colui che è domandato vede che dal negare o dal differire ne nasca
una subita e pericolosa indegnazione.
Questo termine si è veduto bene usare ne' nostri tempi da papa Iulio con i Franciosi, e da
monsignore di Fois capitano del re di Francia col marchese di Mantova: perché papa Iulio, volendo
cacciare i Bentivogli di Bologna, e giudicando, per questo, avere bisogno delle forze franciose, e
che i Viniziani stessono neutrali; ed avendone ricerco l'uno e l'altro, e traendo da loro risposta
dubbia e varia; diliberò col non dare loro tempo fare venire l'uno e l'altro nella sentenza sua: e
partitosi da Roma con quelle tante genti ch'ei poté raccozzare, ne andò verso Bologna; ed ai
Viniziani mandò a dire che stessono neutrali, ed al re di Francia, che gli mandasse le forze. Talché,
rimanendo tutti distretti dal poco spazio di tempo, e veggendo come nel papa doveva nascere una
manifesta indegnazione differendo o negando, cederono alle voglie sue, ed il re gli mandò aiuto, ed
i Viniziani si stettono neutrali. Monsignor di Fois, ancora, essendo con lo esercito in Bologna, ed
avendo intesa la ribellione di Brescia, e volendo ire alla ricuperazione di quella, aveva due vie; l'una
per il dominio del re, lunga e tediosa; l'altra, breve, per il dominio di Mantova: e non solamente era
necessitato passare per il dominio di quel marchese, ma gli conveniva entrare per certe chiuse intra
paludi e laghi, di che è piena quella regione, le quali con fortezze ed altri modi erano serrate e
guardate da lui. Onde che Fois, diliberato d'andare per la più corta, e per vincere ogni difficultà né
dare tempo al marchese a diliberarsi, a un tratto mosse le sue genti per quella via, ed al marchese
significò gli mandasse le chiavi di quel passo. Talché il marchese, occupato da questa subita
diliberazione, gli mandò le chiavi: le quali mai gli arebbe mandate se Fois più trepidamente si fosse
governato, essendo quello marchese in lega con il Papa e con i Viniziani, ed avendo uno suo
figliuolo nelle mani del Papa; le quali cose gli davano molte oneste scuse a negarle. Ma assaltato dal
subito partito, per le cagioni che di sopra si dicono, le concesse. Così feciono i Toscani coi Sanniti,
avendo, per la presenza dello esercito di Sannio, preso quelle armi che gli avevano negato, per altri
tempi, pigliare.
<B>45</B>
<B>Quale sia migliore partito nelle giornate, </B>
<B>o sostenere l'impeto de' nimici, </B>
<B>e, sostenuto, urtargli; </B>
<B>ovvero da prima con furia assaltargli. </B>
Erano Decio e Fabio, consoli romani, con due eserciti all'incontro degli eserciti de' Sanniti e de'
Toscani; e venendo alla zuffa ed alla giornata insieme, è da notare, in tale fazione, quale de' due
diversi modi di procedere tenuti dai due Consoli sia migliore. Perché Decio con ogni impeto e con
ogni suo sforzo assaltò il nimico; Fabio solamente lo sostenne, giudicando lo assalto lento essere
più utile, riserbando l'impeto suo nello ultimo, quando il nimico avesse perduto el primo ardore del
combattere, e, come noi diciamo, la sua foga. Dove si vede, per il successo della cosa, che a Fabio
riuscì molto meglio il disegno che a Decio: il quale si straccò ne' primi impeti; in modo che,
vedendo la banda sua più tosto in volta che altrimenti, per acquistare con la morte quella gloria alla
quale con la vittoria non aveva potuto aggiugnere, ad imitazione del padre sacrificò sé stesso per le
romane legioni. La quale cosa intesa da Fabio, per non acquistare manco onore vivendo, che si
avesse il suo collega acquistato morendo, spinse innanzi tutte quelle forze che si aveva a tale
necessità riservate; donde ne riportò una felicissima vittoria. Donde si vede che il modo del
procedere di Fabio è più sicuro e più imitabile.
<B>46</B>
<B>Donde nasce </B>
<B>che una famiglia in una città </B>
<B>tiene un tempo i medesimi costumi. </B>
E' pare che non solamente l'una città dall'altra abbia certi modi ed instituti diversi, e procrei uomini
o più duri o più effeminati, ma nella medesima città si vede tale differenza essere nelle famiglie,
l'una dall'altra. Il che si riscontra essere vero in ogni città, e nella città di Roma se ne leggono assai
esempli: perché e' si vede i Manlii essere stati duri ed ostinati, i Publicoli uomini benigni ed amatori
del popolo, gli Appii ambiziosi e nimici della Plebe: e così molte altre famiglie avere avute ciascuna
le qualità sue spartite dall'altre. Le quali cose non possono nascere solamente dal sangue, perché
conviene che varii mediante la diversità de' matrimonii; ma è necessario venga dalla diversa
educazione che ha l'una famiglia dall'altra. Perché gl'importa assai che un giovanetto da' teneri anni
cominci a sentire dire bene o male d'una cosa; perché conviene di necessità ne faccia impressione, e
da quella poi regoli il modo del procedere in tutti i tempi della sua vita. E se questo non fusse,
sarebbe impossibile che tutti gli Appii avessono avuto la medesima voglia, e fossono stati agitati
dalle medesime passioni, come nota Tito Livio in molti di loro: e per ultimo, essendo uno di loro
fatto Censore ed avendo il suo collega alla fine de' diciotto mesi, come ne disponeva la legge,
diposto il magistrato, Appio non lo volle diporre, dicendo che lo poteva tenere cinque anni, secondo
la prima legge ordinata da' Censori. E benché sopra questo se ne facessero assai concioni, e
generassissene assai tumulti, non pertanto non ci fu mai rimedio che volesse diporlo, contro alla
volontà del Popolo e della maggiore parte del Senato. E chi leggerà la orazione gli fece contro
Publio Sempronio tribuno della plebe, vi noterà tutte le insolenzie appiane, e tutte le bontà ed
umanità usate da infiniti cittadini per ubbidire alle leggi ed agli auspicii della loro patria.
<B>47</B>
<B>Che uno buono cittadino </B>
<B>per amore della patria </B>
<B>debbe dimenticare le ingiurie private. </B>
Era Marzio consolo con lo esercito contro ai Sanniti, ed essendo stato in una zuffa ferito, e per
questo portando le genti sue pericolo, giudicò il Senato essere necessario mandarvi Papirio Cursore
dittatore per sopperire ai difetti del consolo. Ed essendo necessario che il Dittatore fosse nominato
da Fabio, quale era consolo con gli eserciti in Toscana; e dubitando, per essergli nimico, che non
volesse nominarlo; gli mandarono i Senatori due ambasciadori a pregarlo, che, posto da parte i
privati odii, dovesse per beneficio publico nominarlo. Il che Fabio fece, mosso dalla carità della
patria; ancora che col tacere e con molti altri modi facesse segno che tale nominazione gli
premesse. Dal quale debbono pigliare esemplo tutti quelli che cercano di essere tenuti buoni
cittadini.
<B>48</B>
<B>Quando si vede fare </B>
<B>uno errore grande a uno nimico, </B>
<B>si debbe credere </B>
<B>che vi sia sotto inganno. </B>
Essendo rimaso Fulvio Legato nello esercito che e' Romani avevano in Toscana, essendo ito il
Consolo per alcune cerimonie a Roma, i Toscani, per vedere se potevano avere quello alla tratta,
posono uno aguato propinquo a' campi romani, e mandarono alcuni soldati con veste di pastori con
assai armento, e li feciono venire alla vista dello esercito romano: i quali così travestiti si
accostarono allo steccato del campo; onde che il Legato, maravigliatosi di questa loro presunzione,
non gli parendo ragionevole, tenne modo ch'egli scoperse la fraude; e così restò il disegno de'
Toscani rotto. Qui si può commodamente notare, che uno capitano di eserciti non debbe prestare
fede ad uno errore che evidentemente si vegga fare al nimico: perché sempre vi sarà sotto fraude,
non sendo ragionevole che gli uomini siano tanto incauti. Ma spesso il disiderio del vincere acceca
gli animi degli uomini, che non veggono altro che quello pare facci per loro.
I Franciosi, avendo vinto i Romani ad Allia, e venendo a Roma, e trovando le porte aperte e sanza
guardia, stettero tutto quel giorno e la notte sanza entrarvi, temendo di fraude, e non potendo
credere che fusse tanta viltà e tanto poco consiglio ne' petti romani, che gli abbandonassono la
patria. Quando nel 1508, stando li Fiorentini, a campo a Pisa, Alfonso Del Mutolo, cittadino pisano,
si trovava prigione de' Fiorentini e' promisse che, s'egli era libero, che darebbe una porta di Pisa allo
esercito fiorentino. Fu costui libero: dipoi, per praticare la cosa, venne molte volte a parlare con i
legati de' commessari; e veniva non di nascosto ma scoperto ed accompagnato da' Pisani; i quali
lasciava da parte, quando parlava con i Fiorentini. Talmenteché si poteva conietturare il suo animo
doppio; perché non era ragionevole, se la pratica fosse stata fedele, ch'elli l'avesse trattata sì alla
scoperta. Ma il disiderio che si aveva di avere Pisa, accecò in modo i Fiorentini, che, condottisi con
l'ordine suo alla porta a Lucca, vi lasciarono più loro capi ed altre genti, con disonore loro, per il
tradimento doppio che fece detto Alfonso.
<B>49</B>
<B>Una republica, </B>
<B>a volerla mantenere libera, </B>
<B>ha ciascuno dì </B>
<B>bisogno di nuovi provvedimenti; </B>
<B>e per quali meriti Quinto Fabio </B>
<B>fu chiamato Massimo. </B>
È di necessità, come altre volte si è detto, che ciascuno dì in una città grande naschino accidenti che
abbiano bisogno del medico; e secondo che gl'importano più, conviene trovare il medico più savio.
E se in alcuna città nacquono mai simili accidenti, nacquono in Roma e strani ed insperati; come fu
quello quando e' parve che tutte le donne romane avessono congiurato contro ai loro mariti di
ammazzargli: tante se ne trovò che gli avevano avvelenati, e tante che avevano preparato il veleno
per avvelenargli. Come fu ancora quella congiura de' Baccanali, che si scoprì nel tempo della guerra
macedonica, dove erano già inviluppati molte migliaia di uomini e di donne; e, se la non si
scopriva, sarebbe stata pericolosa per quella città, o se pure i Romani non fussono stati consueti a
gastigare le moltitudini degli erranti: perché, quando e' non si vedesse per altri infiniti segni la
grandezza di quella Republica, e la potenza delle esecuzioni sue, si vede per le qualità della pena
che la imponeva a chi errava. Né dubitò fare morire per via di giustizia una legione intera per volta,
ed una città; e di confinare otto o diecimila uomini con condizioni istraordinarie, da non essere
osservate da uno solo, non che da tanti: come intervenne a quelli soldati che infelicemente avevano
combattuto a Canne; i quali confinò in Sicilia, ed impose loro che non albergassono in terra, e che
mangiassono ritti.
Ma di tutte le altre esecuzioni era terribile il decimare gli eserciti, dove a sorte, di tutto uno esercito,
era morto di ogni dieci uno. Né si poteva, a gastigare una moltitudine, trovare più spaventevole
punizione di questa. Perché quando una moltitudine erra, dove non sia l'autore certo, tutti non si
possono gastigare, per essere troppi; punirne parte, e parte lasciarne impuniti, si farebbe torto a
quegli che si punissono, e gli impuniti arebbono animo di errare un'altra volta. Ma ammazzandone
la decima parte a sorte, quando tutti lo meritano, chi è punito si duole della sorte, chi non è punito
ha paura che un'altra volta non tocchi a lui, e guardasi da errare.
Furono punite, adunque, le venefiche e le baccanali, secondo che meritavano i peccati loro. E
benché questi morbi in una republica faccino cattivi effetti, non sono a morte, perché sempre quasi
si ha tempo a correggergli: ma non si ha già tempo in quelli che riguardano lo stato, i quali, se non
sono da uno prudente corretti, rovinano la città.
Erano in Roma, per la liberalità che i Romani usavano di donare la civiltà a' forestieri, nate tante
genti nuove, che le cominciavano avere tanta parte ne' suffragi, che il governo cominciava variare, e
partivasi da quelle cose e da quelli uomini dove era consueto andare. Di che accorgendosi Quinto
Fabio, che era Censore, messe tutte queste genti nuove, da chi dipendeva questo disordine, sotto
quattro Tribù acciocché non potessono, ridutti in sì piccoli spazi, corrompere tutta Roma. Fu questa
cosa bene conosciuta da Fabio, e postovi, sanza alterazione, conveniente rimedio; il quale fu tanto
accetto a quella civiltà, ch'e' meritò di essere chiamato Massimo.
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