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Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini. Volume Terzo.
Lucianus
TITOLO: Opere di Luciano
voltate in italiano da Luigi Settembrini.
Volume Terzo.
AUTORE: Lucianus
TRADUTTORE: Settembrini, Luigi
CURATORE: Settembrini, Luigi
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Opere di Luciano
voltate in italiano da Luigi Settembrini.
Volume Terzo";
Ed. Felice Le Monnier;
Firenze, 1862
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 19 agosto 2006
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Rossella Gigli, [email protected]
Ruggero Volpes, [email protected]
REVISIONE:
Elena Macciocu, [email protected]
Giorgio Moretto, [email protected]
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OPERE DI LUCIANO
VOLTATE IN ITALIANO DA LUIGI SETTEMBRINI.
VOLUME TERZO.
FIRENZE.
FELICE LE MONNIER.
1862.
XLVII.
DEL PARASSITO,
OSSIA
CHE LA PARASSITICA È UNARTE.
Tichiade. Come va, o Simone, che gli altri uomini e liberi e servi sanno ciascuno qualche arte,
con la quale sono utili a sè ed agli altri; e tu, come pare, non sai fare niente che giovi a te stesso, o
sia dalcun pro agli altri?
Parassito. Perchè mi fai questa domanda, o Tichiade, non tho capito ancora. Spiegati meglio.
Tichiade. Conosci tu qualche arte, come a dire la musica?
Parassito. Oh, no.
Tichiade. Forse la medicina?
Parassito. Neppure.
Tichiade. La geometria?
Parassito. Niente affatto.
Tichiade. La rettorica forse? Della filosofia non è a parlare, chè ne sei tanto lontano quanto la
cattiveria.
Parassito. Io vorrei anche più, se si potesse. Onde non credere dingiuriarmi come ignorante: chè
io dico che sono cattivo, e peggio, se vuoi.
Tichiade. Via. Forse non le imparasti queste arti perchè lunghe e difficili; ma non potevi qualche
arte meccanica, fare il fabbro, o il calzolaio? E poi lo stato tuo non è tale da non aver bisogno di
unarte di queste.
Parassito. Dici bene, o Tichiade: di coteste non ne conosco nessuna.
Tichiade. Dunque qualche altra?
Parassito. Qualche? una eccellente, come pare a me: e se tu limpari, credo la loderai anche tu.
Nella pratica ti assicuro ci sono riuscito, benchè i precetti non te li so dire.
Tichiade. E qual è?
Parassito. Non ancora mi pare di averne meditato bene i principii. Ma ti basti di avere saputo che
io conosco unarte, e che non mi trovo tanto male: quale poi ella sia lo saprai appresso.
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Tichiade. Oh, non farmi aspettare.
Parassito. Unarte che forse ti parrà mirabile quando ludirai.
Tichiade. E tanto più desidero di saperla.
Parassito. Unaltra volta, o Tichiade.
Tichiade. No, dimmela ora, se forse non te ne vergogni.
Parassito. La Parassitica.
Tichiade. Oh! e si può dire, senza essere pazzo, o Simone, che questa sia unarte?
Parassito. Lo dico io: e se ti sembro pazzo, la pazzia devessere la cagione che io non conosco
altra arte, e mi discolpa dogni accusa. Perchè dicono che la Pazzia è una dea assai molesta a quelli
che lhanno addosso, ma li scagiona dei peccati, i quali, come a maestra o pedagoga, si attribuiscono
a lei.
Tichiade. Dunque, o Simone, la parassitica è unarte?
Parassito. Arte sì; ed io lesercito.
Tichiade. E tu sei parassito?
Parassito. Bah! grande ingiuria, o Tichiade!
Tichiade. Ma non arrossisci di chiamarti parassito?
Parassito. Niente affatto: mi vergognerei se non fossi chiamato così.
Tichiade. E sì, quando vorremo indicarti a qualcuno che non ti conosce, diremo il Parassito?
Parassito. Molto meglio che se mi chiamaste Fidia lo scultore; chè io non mi compiaccio meno
di questarte, che Fidia del suo Giove.
Tichiade. Oh, penso ad una cosa, e mi viene a ridere.
Parassito. Quale?
Tichiade. Se anche su le lettere, come si usa, debbo scrivere così: A Simone parassito.
Parassito. Sì, e più mi piacerebbe, che se ci scrivessi: A Dione filosofo.(1)
Tichiade. Che a te piaccia dessere chiamato così, niente o poco monta: ma bisogna considerare
unaltra stranezza.
Parassito. E quale?
Tichiade. Se annoverare questa fra le altre arti: per modo che se si dimandi ad uno qual è larte
sua, ei risponda, (come fosse la grammatica, la fisica) la parassitica.
Parassito. Per me, o Tichiade, io direi piuttosto questa che unaltra arte. Ma se ti piace udire le
ragioni perchè penso a questo modo, te le dirò, quantunque, come ti dicevo testè, non le ho bene
meditate.
Tichiade. Non importa, dimmene sopra sopra, purchè sieno vere.
Parassito. Orsù, vediamo prima, se ti pare, che cosa è mai unarte in generale: chè così troveremo
anche le arti particolari, quando avranno le condizioni di quella.
Tichiade. Che cosa è mai unarte, lo sai?
Parassito. Oh, sì.
Tichiade. E se sai, di tosto.
Parassito. Unarte, come mi ricorda di avere udito dire da un savio, è un sistema di conoscenze
messe in pratica per qualche fine utile della vita.
Tichiade. Ei disse bene, e tu ben te ne ricordi.
Parassito. Ora se avrà tutte queste condizioni la parassitica, che altro sarà mai se non unarte?
Tichiade. Sarà unarte, se le avrà.
Parassito. Ora accordiamo la parassitica a ciascun tuono dellarte, e, vediamo se vi consuona
bene, o pure risponde con suono falso, come una pentola rotta quando la picchi. Bisogna adunque
che questa, come ogni altra arte, sia un sistema di conoscenze. Il primo punto è cercare e discernere
chi può essere atto a nutrirti, con chi acconciarti meglio a desinare, senza aver poi a pentirti.
Diremo noi che il cambiatore ha unarte con cui distingue le monete false dalle buone, e che uno
senzarte conosca gli uomini quali sono falsi e quali buoni? Eppure gli uomini non si scernono,
come le monete, a prima vista. Di questo anche il savio Euripide si lagna, dicendo:
Per discerner fra gli uomini il malvagio
Nessun segnale sovra la persona
Gli puoi vedere.
E però larte del parassito è grande, se egli intende e conosce meglio della divinazione cose così
oscure e sconosciute. Per saper dire poi di acconce parolette, e fare di quelle cose che ti acquistano
la confidenza e la benevolenza di chi ti dà mangiare, non ti pare che ci voglia molta prudenza e
conoscenza?
Tichiade. Certamente.
Parassito. E nei conviti stessi, luscirsene con la miglior porzione, ed avere più carezze degli altri
che non hanno questarte, credi tu che si possa fare senza buon discorso e sapienza?
Tichiade. Non credo.
Parassito. Ed il conoscere le virtù ed i vizi delle vivande e deglintingoli, ti pare che sia una
curiosità di poltrone? Eppure il nobilissimo Platone dice: Chi fa un banchetto, e non sintende di
cucina, nellapparecchio della cena non può mostrare buon giudizio. Che poi la parassitica non
consista solo nelle conoscenze, ma anche nella pratica, te lo dimostro in due parole. Le conoscenze
delle altre arti spesso rimangono i giorni e le notti e i mesi e gli anni senza essere esercitate, e
nondimeno le arti non periscono in chi le possiede: ma se le conoscenze del parassito non sono
esercitate ogni giorno, non solo perisce larte, ma lartista. Ricercare poi qual è il fine utile che essa
ha nella vita, non sarebbe una pazzia? Per me io non trovo nella vita niente più utile del mangiare e
del bere, nè si può vivere senza di ciò.
Tichiade. Così è.
Parassito. Nè la parassitica è una cosa simile alla bellezza o alla forza, sì che paia che non sia
unarte, ma una certa facoltà.
Tichiade. Dici il vero.
Parassito. E neppure è imperizia: perchè limperizia non fa mai riuscir nulla di bene allimperito.
Ecco qui: se uno si affida in una barca al mare e alle tempeste, non sapendo guidare il timone, si
può salvare?
Tichiade. No.
Parassito. E perchè? perchè non ha larte, con la quale potrebbe salvarsi.
Tichiade. Così è.
Parassito. Dunque anche il parassito, se la parassitica fosse imperizia, non potrebbe salvarsi?
Tichiade. Sì.
Parassito. Dunque si salva per arte, non per imperizia?
Tichiade. Certamente.
Parassito. Ecco che la parassitica è unarte.
Tichiade. Unarte, come pare.
Parassito. Eppure io ho veduto buoni timonieri e sperti cocchieri cadere spesso dai loro seggi, e
questi fiaccarsi il collo, quelli annegare; ma che un parassito sia naufragato così, non si conta.
Dunque se non è imperizia la parassitica, nè è una facoltà, ma un sistema di conoscenze messe in
pratica, noi oggi abbiam conchiuso e chiarito che ella è unarte.
Tichiade. A quanto pare da quel che dici. Or vedi di darci una bella definizione della parassitica.
Parassito. Hai ragione. A me pare che si potrebbe definire così: La parassitica è larte di trincare,
mangiare, su queste cose ragionare; ed il suo fine è il piacere.
Tichiade. Hai dipinta questarte tua. Ma bada che per il fine non abbi a bisticciarti con alcuni
filosofi.
Parassito. Per me mi basta che uno sia il fine della felicità e della parassitica. E questo sarà
chiaro così. Il sapiente Omero ammirando la vita del parassito, come la sola che sia beata ed
invidiabile, dice:
Io dico che non v ha fine più lieto,
Che quando tutto un popolo si scioglie
In allegria di giovial banchetto.
. . . . . . . . . traboccano le mense
E di pane e di carni; dai crateri
Il coppiere versando il pretto vino,
Va intorno, e ricolma ampi boccali.
e come se non bastasse questa sua maraviglia, chiarisce meglio il suo pensiero, dicendo benissimo:
di questa cosa
Pare al mio cuor non sia cosa più bella.
E vuol dire che non crede ci sia altra felicità che vivere da parassito. E non mette queste parole in
bocca ad un uomo volgare, ma al più savio dei Greci. Eppure se Ulisse voleva lodare il fine degli
stoici, poteva dire così quando ricondusse Filottete da Lenno, quando devastò Ilio, quando rattenne i
Greci fuggenti, quando entrò in Troia, essendosi prima flagellato da sè stesso e ricoperto di brutti e
stoici cenci; ma allora non parlò affatto di questo più lieto fine. Anzi anche quando faceva quella
vita depicureo presso Calipso, e viveva in ozio e in morbidezze, e trescava con la figliuola di
Atlante, e dimenavasi in molli abbracciamenti, non disse mai che quella vita era il più lieto fine, ma
la vita del parassito. E si chiamavano convivanti i parassiti allora. Oh! come dice? Son degni di
ricordarsi unaltra volta quei versi; chè non si può udirli e non ripeterli spesso:
Convivanti . . . . . seduti in fila.
. . . . traboccano le mense
E di pane e di carni . . . . . . .
Ed Epicuro senza una vergogna ha rubato il fine della parassitica, e ne fa il fine di quella sua
felicità. Che in questa faccenda ci sia furto, e che il piacere non sia roba di Epicuro, ma del
parassito, puoi vederlo così. Io stimo che il piacere sia, corpo senza malanni, ed animo senza
affanni e senza pensieri. Ora il parassito ha luna cosa e laltra, ed Epicuro nè luna nè laltra. Perchè
chi va strolagando sempre su la figura della terra, su linfinità dei mondi, la grandezza del sole, le
distanze, i primi elementi, e su gliddii se vi sono o non vi sono, e per il fine si bisticcia sempre e si
accapiglia con gli avversarii, ei si piglia non pure glimpacci di questo mondo quaggiù, ma di quelli
lassù. Per contrario il parassito credendo che il mondo vada bene, e persuaso che non possa andare
meglio che va, con tutta sicurezza e tranquillità, senza darsi nessun pensiero, mangia, e dorme
sdraiato alla supina con le mani e i piè distesi, come Ulisse sul ponte della nave tornando a casa. Nè
solamente per queste ragioni il piacere non appartiene ad Epicuro, ma per altre ancora. Questo
Epicuro che mi fa il filosofo, o ha da mangiare, o non ha: se non ha, altro che vivere piacevolmente,
ei non vivrà affatto: se poi ha, o ha del suo o dellaltrui: se ha mangiare dellaltrui, è parassito, e non
come ei si chiama; e se del suo, non vivrà piacevolmente.
Tichiade. Come non piacevolmente?
Parassito. Perchè se ha mangiare del suo, egli ha molti fastidi, che necessariamente
accompagnano questa vita. E vedi quali e quanti sono. Chi ha a vivere nel piacere deve poter
cavarsi tutte le voglie che gli vengono. Non è così?
Tichiade. Così mi pare.
Parassito. Dunque chi possiede molto se le può forse cavare; ma chi poco o niente, no. Sicchè il
povero non sarà sapiente, nè giungerà al fine, dico cioè al piacere. Ma neppure il ricco che spende
la roba sua e si scapriccia, potrà giungervi. E come mai? Perchè spendendo il suo deve avere
necessariamente molti impacci: ora deve battagliare col cuoco che ha mal preparate le vivande, e se
non fa battaglia, mangia male e non consegue il piacere: ora col maggiordomo che non bada bene
alle faccende di casa, unaltra battaglia. Forse non è così?
Tichiade. Eh, così pare anche a me.
Parassito. Tutto questo può avvenire ad Epicuro; dunque egli non conseguirà il suo fine. Ma il
parassito non ha cuoco con cui si arrovelli, non campi, non case, non danari che gli dieno
rammarico se li perde, e gode ogni cosa; onde mangia e beve, ed egli solo non ha nessuno degli
affanni che quelli hanno per necessità. Che la parassitica sia unarte con queste e con altre ragioni è
dimostrato a sufficienza: rimane a dimostrare che ella sia la migliore, e non così semplicemente, ma
in prima come ella superi tutte le arti in generale, e poi ciascuna in particolare. Le supera tutte in
generale, perchè ogni arte vuole studio, fatica, timore, nerbate, le quali cose non piacciono a
nessuno: e questarte sembra la sola che si possa imparare senza dispiaceri. Infatti chi mai uscì di
convito piangendo, come vediamo alcuni uscir dai maestri? chi andando a convito ha viso
malinconico, come quei che vanno a scuola? Il parassito va al convito volentieri, e appassionato
dellarte sua: e quelli che imparano unaltrarte labborriscono, e taluni svogliati se la svignano. E poi,
non ti ricordi che ai fanciulli che si portano bene i padri e le madri danno loro appunto quel premio
che si dà ogni giorno al parassito? Bravo! dicono: il fanciullo ha scritto bene; dategli mangiare: ha
scritto male; non gliene date. E questo pare un gran premio; ed un gran castigo. Nelle altre arti il
dolce viene allultimo, dopo averle imparate si ha qualche frutto piacevole; chè la via loro è lunga e
scabrosa: il parassito solo gode dellarte sua mentre limpara, e mentre comincia è al suo fine. Inoltre
non alcune ma tuttequante le arti sono soltanto mezzi per procacciarsi il vitto; e il parassito ha
subito il vitto dallarte come la comincia. Infatti vedi che il lavoratore lavora non pel fine di
lavorare, il fabbricatore fabbrica non pel fine di fabbricare: ma il parassito non si briga di altro, e
quel che ei fa è mezzo e fine. Non vè chi non sappia che tutti gli artigiani si affannano a lavorare
ogni dì, ed hanno una o due sole feste al mese; e le città festeggiano alcuni giorni dellanno e di certi
mesi, e allora essi si ricreano: il parassito fa trenta feste il mese, e tutti i giorni per lui sono sacri agli
Dei. Di più quelli che vogliono riuscire in unarte usano poco mangiare e poco bere, come gli
ammalati; chè il gran mangiare ed il gran bere non non fa imparare. Le altre arti senza istrumenti
non possono esercitarsi da chi le possiede, chè non si può essere flautista senza flauti, nè citarista
senza cetera, nè cavaliere senza cavallo; questa è così comoda ed agevole che lartista può usarla
senza istrumento alcuno. Le altre arti simparano pagando, questa ricevendo. Delle altre arti ci ha
maestri, di questa nessuno; ma, come dice Socrate della poesia, viene per ispirazione divina. E
considera ancora un altro vantaggio, che quando si viaggia o si naviga, non possiamo esercitare le
altre arti, questa sì, e viaggiando e navigando.
Tichiade. Certamente.
Parassito. Ed anche, o Tichiade, a me pare che le altre arti hanno desiderio di questa, e questa di
nessunaltra.
Tichiade. Ebbene, quelli che pigliano laltrui non pare a te che facciano ingiustizia?
Parassito. Come no?
Tichiade. Come dunque il parassito, che piglia laltrui, non fa ingiustizia egli solo?
Parassito. No, ti so dire. E di vero le origini delle altre arti sono vili e meschine, e lorigine della
parassitica è nobilissima. Perchè troverai che il tanto ricantato nome dellamicizia non è altro che il
principio della parassitica.
Tichiade. Come dici cotesto?
Parassito. Perchè nessuno invita a desinare un nemico, o uno sconosciuto, e nemmeno un largo
conoscente; ma si deve prima divenire amico, a creder mio, per essere ammesso alle libazioni, ed
alla mensa, ed ai misteri di questarte. Infatti spesse volte io ho udito alcuni dire: Che razza di amico
è costui, che non ha mangiato nè bevuto con noi? e volevan dire che solamente chi mangiava e
beveva con loro lo tenevano per fedele amico. Ma che questa sia la regina delle arti ce nè un altro
argomento grande: chè nelle altre arti, non pure tra stenti e sudori, ma si lavora seduto o in piedi,
come servo dellarte: e il parassito maneggia larte sua adagiato come un re. Che dirò poi della sua
felicità, se egli, per dirla con le savie parole dOmero, non semina e non ara con le sue mani, e senza
seminare e senza arare si pasce di tutto? Infine un retore, un geometra, un fabbro può benissimo
esercitare larte sua, benchè sia un malvagio, benchè sia uno sciocco; ma nessuno può fare il
parassito essendo uno sciocco o un malvagio.
Tichiade. Oh, tu me la dipingi un portento cotesta parassitica; e quasi mi invogli a diventar
parassito, invece di quel che sono.
Parassito. Come adunque ella superi tutte in generale, parmi lho dimostrato: vediamo ora come
supera ciascuna in particolare. Paragonarla alle arti meccaniche è una stoltezza, anzi è avvilire la
dignità sua; bisogna dimostrare che ella supera le arti nobili e liberali. Si conviene da tutti che la
rettorica e la filosofia sono le prime, le quali per la loro eccellenza da alcuni sono riputate scienze.
Poichè dunque io avrò dimostrato che la parassitica vince anche queste, ella anderà sovrana su tutte
le arti, come Nausicaa tra le ancelle. Adunque supera tutte e due insieme, la rettorica e la filosofìa,
prima per il fondamento sostanziale, che essa ha, e queste no. Perchè la rettorica non è tenuta da
tutti una e medesima cosa, e dicono: è unarte, non è unarte, è una mala arte, ed altre canzoni. E così
anche la filosofia: di un modo pare ad Epicuro che stieno le cose, di un altro modo agli Stoici, di un
altro agli Academici, di un altro ai Peripatetici: insomma ciascuno tiene che la filosofia sia altro da
quello che tengono gli altri. E finora nessuna delle opinioni prevale, e larte loro pare che non sia
una. Onde è chiara la conclusione che ne segue: io dico che non è arte affatto quella che non ha
fondamento certo. Vedi un po laritmetica come è una e la stessa per tutti: due e due fan quattro e
per noi e per i Persiani, e in questo saccordano e i Greci ed i Barbari: per contrario vediamo tante
filosofie differenti, e discordanti tra loro nei principii e nei fini.
Tichiade. Dici il vero. Dicono che la filosofia è una, ed intanto essi ne fanno molte.
Parassito. Che nelle altre arti vi sia qualche discordanza, e che uno voglia passarvi sopra, perchè
sono mezzane, e le loro conoscenze non sono scevre derrori, si può ammettere. Ma chi
ammetterebbe che la filosofia, non sia una, e non sia consonante a sè stessa, come una consonanza
di diversi strumenti? Una non è la filosofia, perchè vedo che sono infinite: ma non possono essere
molte, perchè è una, se è, la filosofia: dunque non è. Lo stesso si può affermare della rettorica, che
ella non ha sostanza. Perchè il non dire tutti le stesse cose in uno solo argomento, ma esservi
conflitto di opinioni contrarie, è una dimostrazione grandissima che non vè affatto la cosa, di cui la
conoscenza non è una. Perchè quel cercare qual è il meglio, e non mai convenire che la cosa è una,
toglie la sostanza di quel che si cerca. Or la parassitica non è così, ma e tra i Greci e tra i Barbari è
una, e tende alla stesso fine nel modo stesso: nè si può dire che ci ha parassiti di questo modo, e di
questaltro, nè che alcuni parassiti, come gli stoici e gli epicurei, seguono certi principii, ed alcuni
certi altri principii, ma tutti convengono pienamente e si accordano nelle opere e nel fine. Onde sto
per dire che per questo la parassitica quasi quasi sia sapienza.
Tichiade. Parmi che di questo hai ragionato a bastanza. Ma che anche per altri rispetti la filosofia
sia inferiore allarte tua, come lo dimostri?
Parassito. Bisogna prima dire questo, che non mai parassito sinvaghì di filosofia, ma sappiamo
che moltissimi filosofi sinnamorarono della parassitica, ed anche ora ne sono teneri.
Tichiade. E quali filosofi mi potresti dire che attesero a fare i parassiti?
Parassito. Tali, o Tichiade, che anche tu li sai, e fingi che io non debba saperli, come se questa
arte fosse una vergogna per loro, e non un onore.
Tichiade. No, per Giove, o Simone; e non so proprio dove li anderai a trovare.
Parassito. O caro mio, tu mi pare che non hai letto mai le vite che ne sono scritte; se no,
riconosceresti quelli che io voglio dire.
Tichiade. Eppure, per Ercole, desidero di udire chi sono.
Parassito. Te li additerò io, e te li conterò ad uno ad uno; non lo scarto, ma il fiore, e quelli che
tu meno pensi. Eschine è il primo, quel socratico il quale scrisse quei lunghi e puliti dialoghi, e li
portò seco in Sicilia per farsi conoscere da Dionisio il tiranno; e avendogli letto il Milziade, e
avutane grande lode, si rimase in Sicilia a fare il parassito di Dionisio, mandate alla malora le
disputazioni di Socrate. Dimmi un po: ed Aristippo di Cirene non lhai per un filosofo bravissi- mo?
Tichiade. Oh, sì.
Parassito. Ed anche egli in quel tempo dimorava in Siracusa, ed era parassito di Dionisio. Anzi
fra tutti i parassiti egli era in maggior grazia ed onore, e nellarte aveva più ingegno degli altri:
sicchè Dionisio ogni mattina gli mandava i cuochi, per imparare da lui: e veramente egli fu una
gloria dellarte nostra. E il vostro Platone nobilissimo andò anchegli in Sicilia con questa intenzione,
e per pochi giorni ci ebbe le spese dal tiranno; ma, non avendo garbo a fare il parassito, se ne
dovette tornare in Atene: dove fece di scozzonarsi e prepararsi, e poi tornò allassalto e rinavigò in
Sicilia; ma stato a tavola pochi altri giorni, non riuscì, e rimase sciocco. E questo scacco di Platone
in Sicilia pare proprio simile a quello di Nicia.
Tichiade. E chi parla di questo, o Simone?
Parassito. Molti, e fra gli altri Aristosseno il Musico,(2) uomo degno di molto conto. Che poi
Euripide fa parassito di Achelao fino che visse, e Anassarco di Alessandro, tu lo sai bene. Ed
Aristotele ancora fu principe nella parassitica come nelle altre arti; chè anchegli era parassito di
Neleo.(3) Ecco adunque che ti ho mostrato i filosofi che attesero alla parassitica: ma nessuno può
nominarmi un parassito che volle esser filosofo. Eppure se è felicità il non aver fame nè sete nè
freddo, questa non lha se non il parassito. Sicchè filosofi troverai molti che muoiono e di freddo e di
fame; parassito nessuno, o non è parassito, ma un qualche sfortunato, un povero uomo, e simile ad
un filosofo.
Tichiade. Basti di questo. Ma come dimostri che la parassitica vince di molto la filosofia e la
rettorica?
Parassito. Nella vita umana, o caro mio, ci ha il tempo della pace ed il tempo della guerra: ed in
questi tempi si mostra che valore hanno le arti e quelli che le professano. Ora consideriamo prima il
tempo della guerra, e vediamo quali di costoro specialmente sono più utili ed a sè stessi, ed alla
repubblica.
Tichiade. Tu me li metti in una strana lizza: e già mi viene a ridere pensando la brava coppia che
sarà un parassito ed un filosofo.
Parassito. Acciocchè dunque non ti maravigli molto, e non pigli la cosa a burla, figuriamoci per
esempio che si annunzi a un tratto i nemici avere invaso il contado, doversi usare ad oste per non
vedere il paese intorno devastato; il capitano chiamare per bando quanti hanno letà da portare armi,
tutti vengono, e fra questi e filosofi, e retori, e parassiti. Spogliamoli prima di tutto: chè chi si arma,
si deve prima spogliare. Guardali ora ad uno ad uno, ed esamina bene i loro corpi. Vedrai alcuni per
il bisogno magri, pallidi, spauriti, come se già fossero rimasti feriti in battaglia. Lazzuffarsi, il
combattere di piè fermo, lassalto, la polvere, le ferite, non saria ri- dicolo a dire che lo possono
sofferire uomini come quelli, che avrien bisogno di qualche ristoro? Ma passa ora al parassito, e
vedi qual ti sembra. Impersonato bene, di colore piacente (non bianco come quel delle donne, nè
fosco come quello dei servi), e poi animoso, col guardo terribile, come labbiam noi, e locchio
grande e sanguigno: chè non è bello portare in battaglia un occhio smarrito e languiscente. Non sarà
egli un bel soldato se vive, e bello se morrà bellamente? Ma che bisogna figurarceli, se ne abbiamo
gli esempi?(4) Insomma in tempo di guerra nè retori nè filosofi mai ardirono uscir delle mura, e se
alcuno tu costretto a stare in ischiera, io dico che lasciò lordinanza e se ne tornò.
Tichiade. Tu entri nel maraviglioso, e prometti dirmene delle grosse. Ma via, di pure.
Parassito. Tra i retori Isocrate non che uscisse mai in guerra, ei neppure salì in ringhiera, per
certa sua timidezza, e perchè non aveva voce da ciò. Che più? Forse Demade ed Eschine e
Filocrate, sbigottiti al subito annunzio della guerra di Filippo, non diedero la patria e sè stessi a
Filippo, e rimasero in Atene per maneggiarvi le sue faccende? cosicchè, mentre egli faceva guerra
agli altri Ateniesi, era amico di costoro.(5) Ma Iperide, Demostene e Licurgo che parevano più
generosi, e nei parlamenti tempestavano sempre e ingiuriavano Filippo, qual prodezza fecero mai
contro di lui in battaglia? Iperide e Licurgo non uscirono, anzi neppure ardirono di mettere il capo
fuori le porte, ma chiusi tra quattro mura e assediati nelle case loro, compilavano decretuzzi e
deliberazioncelle. Ed anche il loro gran capoccia, quegli che in parlamento non rifinava di dire:
Filippo, quella peste di Macedonia, da cui nessuno comprerebbe uno schiavo; avendo avuto animo
di andare con loste in Beozia, prima che si azzuffassero gli eserciti e si venisse alle mani, gettò lo
scudo e fuggì. Forse non lhai udite ancora contare da nessuno queste cose, che son note non pure
agli Ateniesi, ma ai Traci ed agli Sciti, donde era quella schiuma di sciaurato.(6)
Tichiade. Le so queste cose. Ma costoro eran retori, e attendevano a ben parlare, non a
guerreggiare. Ma e dei filosofi che hai a dire? Certo non li puoi biasimare, come hai fatto de retori.
Parassito. Questi altri, o Tichiade, che parlano ogni giorno di fortezza, e sciupano il nome di
virtù, molto più de retori ti parranno codardi e molli. E vedi se è così. Non vè chi possa nominarmi
un filosofo morto in battaglia, chè o non andarono mai a guerra, o se vandarono, tutti scapparono.
Antistene, e Diogene, e Crate, e Zenone, e Platone, ed Eschine, ed Aristotele, e tutta quella turba
neppur videro una schiera: solo il loro savio, Socrate, ebbe ardire di uscire alla guerra, ma fuggendo
dal Parneto venne a pigliar fiato nella palestra di Taurea: chè gli pareva più civile star seduto a
frascheggiare coi garzoncelli, e gittare il motto a chi gli veniva innanzi, che combattere con un
uomo spartano.(7)
Tichiade. Queste cose, caro mio, le ho udite dire anche da altri, che non aveva affatto intenzione
di beffare ed ingiuriare quei savi: onde non mi pare che tu calunnii quelli per rialzare larte tua. Ma
via, dimmi ora, se ti pare, che guerriero è il parassito, e se si è detto mai che alcuno degli antichi fu
parassito.
Parassito. Eppure, o amico mio, non ci è uomo che abbia udito Omero, per ignorante che ei sia,
il quale non sappia come i migliori suoi eroi son parassiti. Quel Nestore, dalla cui lingua come mele
scorreva il parlare, era parassito di re Agamennone: il quale non loda e pregia tanto Achille, che
pare, ed è il più forte ed il più bello; non tanto Diomede, non tanto Aiace, quanto Nestore. Nè
desidera di avere dieci Aiaci, o dieci Achilli; ma avria già presa Troia, se avesse avuto dieci
guerrieri tali qual era questo parassito benchè vecchio. E Idomeneo nipote di Giove, ei lo chiama
similmente parassito di Agamennone.
Tichiade. Questo lo so anchio: ma non credo di sapere che questi due eran parassiti
dAgamennone.
Parassito. Ricordati, o caro, di quelle parole che Agamennone stesso dice a Idomeneo.
Tichiade. Quali?
Parassito.
Ma sta la coppa tua sempre ricolma
Come la mia, per ber, quando cè voglia.
E qui disse la coppa colma sempre, non perchè Idomeneo avesse il boccale sempre pieno e quando
combatteva e quando dormiva, ma perchè egli solo per tutta la sua vita fu commensale del re, non
come gli altri capitani che erano invitati soltanto in alcuni giorni. Aiace, dopo quel bravo duello che
fece con Ettore,
Lo guidarono al divo Agamennone,
e per onore quella sera stette a cena col re: ma Idomeneo e Nestore ogni giorno desinavano col re,
come egli dice. Nestore poi per parassito di re valeva tantoro, e nera mastro; chè non cominciò
questarte con Agamennone, ma prima con Ceneo e con Esodio; e credo avria seguitato a fare il
parassito se Agamennone non moriva.
Tichiade. Questi sì che era un parassito badiale! Se te ricordi altri, dimmeli pure.
Parassito. Come, o Tichiade? E Patroclo non era parassito di Achille, benchè non fosse inferiore
a nessuno dei Greci nè di animo nè di persona, ed ancor giovanetto? Ed io, a quanto giudico dalle
sue opere, non lo tengo da meno di Achille: egli respinse Ettore, che aveva sfracellate le porte e
combatteva dentro i ripari presso le navi; egli spense la nave di Protesilao che già ardeva, e sopra
cerano due prodi, Aiace di Telamone e Teucro, uno bravissimo uomo darme, e laltro arciero: egli
uccise molti barbari, fra i quali Sarpedone figliuolo di Giove, egli il parassito di Achille: e morì non
come gli altri; chè Ettore fu ucciso da Achille, uno da uno, Achille da Paride, e questo parassito da
un dio e da due uomini. E morendo disse parole non come quelle del valentissimo Ettore, che
cadendo alle ginocchia di Achille, lo pregò rendesse il corpo ai suoi, ma quali deve dirle un
parassito.
Tichiade. E quali sono?
Parassito.
De pari tuoi,
Se ancora venti mi veniano a fronte
Tutti qui sarian morti, dalla mia
Lancia abbattuti.
Tichiade. Bene questo. Ma fa di dirmi come Patroclo non era amico, ma parassito di Achille.
Parassito. Ti farò dire, o Tichiade, dallo stesso Patroclo che egli era parassito.
Tichiade. Sarà un gran che.
Parassito. Eccone le proprie parole:
Non voler le mie ossa dalle tue
Disgiunte, o Achille mio, ma stieno insieme,
Siccome un tempo nelle vostre case
Insiem ci nutrivamo.
e più appresso:
Maccogliea Peleo,
Mi nutria con affetto, e tuo donzello
Mi chiamò,
cioè parassito. Se avesse voluto chiamar Patroclo amico, non lavria nominato donzello, perchè
Patroclo era libero. Chi dunque sono i donzelli, se non sono nè servi nè amici? Sono certamente i
parassiti. Per la stessa ragione Omero chiama Merione donzello dIdomeneo, chè così, credo, si
chiamavano allora i parassiti. E qui osserva che egli dice pari a Marte, non Idomeneo, tutto che
figliuolo di Giove, ma Merione suo parassito. E poi Aristogitone, popolano e povero, come dice
Tucidide,(8) non era parassito di Armodio? anzi non ne era anche amadore? Chè ragionevolmente i
parassiti sono anche amadori di chi li nutrisce. Questo parassito adunque dipoi liberò Atene dalla
tirannide, ed ora sta scolpito in bronzo su la piazza col suo amato. Omaccioni e prodi di questa fatta
erano parassiti! Tu poi, che credi farà il parassito in guerra? Dopo che si è ben pasciuto si mette in
ischiera, come vuole Ulisse, il quale dice che chi sta per combattere deve prima far banchetto,
ancorchè si debba combattere allo spuntar del giorno. Mentre gli altri soldati per la paura, quale
rassetta lelmo, quale sallaccia la corazza, e quale pensando allorrore della battaglia trema, egli
allora sciala allegramente, e poi esce a combattere, in prima fila: dietrogli nella seconda sta quegli
che lo nutrisce, ed egli il parasito lo ricopre col suo scudo, come Aiace ricopria Teucro, e lo difende
dalle saette, scoprendo sè per coprir lui, perchè vuole piuttosto salvar quello che sè stesso. Se poi
cade in battaglia il parassito, nè capitano nè soldato avrà a vergognarsi di lui, che giace col suo
corpaccione a terra, in una bella attitudine, come adagiato a mensa. Saria proprio da vedere il
cadavere dun filosofo che gli stesse vicino, secco, sparuto, con una barbetta allungata, morto prima
di combattere, ometto fiacco. Se una città avesse difensori di tal fatta, così meschini, chi non ne
riderrebbe? chi non crederebbe, a vedere giacenti a terra quei personcini pallidi e zazzeruti, che
quella città per mancanza di combattenti avesse liberati dal carcere i malfattori e mandatili alla
guerra? Tali sono nella guerra i parassiti a petto de retori e dei filosofi. Nella pace poi la parassitica,
a creder mio, supera tanto la filosofìa, quanto la pace supera la guerra. E primamente osserviamo i
luoghi della pace.
Tichiade. Non intendo ancora che voglia dir questo. Ma via, osserviamo.
Parassito. La piazza, i tribunali, le palestre, i ginnasii, le cacce, i banchetti, non sono questi i
luoghi frequentati dai cittadini?
Tichiade. Certamente.
Parassito. Dunque il parassito non va in piazza nè in tribunale, sì perchè tutti questi luoghi, a
parer mio, convengono meglio ai barattieri, e perchè quivi non si fa niente per diritto; ma frequenta
le palestre, i ginnasii, i conviti, e solo egli ne fa lornamento. E veramente in una palestra qual retore
o filosofo spogliato può paragonarsi per la persona ad un parassito? quale di essi veduto in un
ginnasio non è piuttosto uno smacco del luogo? Ed in campagna nessuno di questi arresterebbe una
fiera; e il parassito le aspetta che vengano, e le abbatte facilmente, avvezzo comè nei conviti a
disprezzarle; nè si sbigottisce di cinghiale o di cervo; e se un cinghiale arrota i denti contro di lui,
ed ei li arrota contro di esso: dei lepri poi non ti dico niente, li seguita meglio dei cani. In un convito
chi può stare a fronte di un parassito o che scherzi o che mangi? Chi più rallegra i convivanti, egli
che canta e motteggia, o un uomo che non ride, e a tavola sta chiuso nel mantello, e con gli occhi
bassi, come se fosse ad un mortorio e non a un desinare? Per me un filosofo in un convito è come
un cane nel bagno. Ma lasciando questo da banda, veniamo alla vita del parassito: consideriamola e
paragoniamola con quella degli altri. Primamente adunque ei si vede che il parassito sempre
dispregia gloria, e non si cura di ciò che pensano gli uomini: e i filosofi e i retori li trovi, non alcuni
ma tutti, che la superbia li strugge e lamor della gloria, e non solo della gloria, ma, quel che è più
brutto, del danaro. Il parassito cura tanto il danaro, quanto altri cura i ciottoli del lido, e non gli pare
diverso loro dal fuoco: i retori, e, quel che è peggio, i filosofi ne sono così miseramente spasimati,
che oggi tra i più reputati filosofi (che si ha a dire dei retori?), chi giudicando come giudice una
causa di subornazione si lascia anchegli subornare: chi riscuote mercede dagli scolari vendendo
chiacchiere: chi si mette a servigio dellimperatore, e chiede anche mercede, senza vergognarsi, così
vecchio comè, di fare un viaggio a posta per questo, ed è salariato come uno schiavo indiano o scita,
e non arrossisce che sia salario ciò che egli riceve.(9) E in loro trovi non pure questa passione, ma
altre ancora, e rancori, e sdegni, e invidie, ed ogni specie di cupidigie. Il parassito è scarico di tutto
questo: non si sdegna per la sua longanimità, e non avria di che sdegnarsi: e se monta in bizza
talora, il suo sdegno non fa nè male nè malinconia, ma piuttosto fa ridere e rallegrar la brigata. Ei si
affligge meno di tutti, e larte sua gli concede un tanto bene di non avere di che affliggersi: chè ei
non ha poderi, non casa, non servo, non moglie, non figliuoli, della cui perdita è forza che si
affligga chi li ha: ed ei non desidera nè gloria nè ricchezza, nè bellezza alcuna.
Tichiade. Ma, o Simone, per mancanza di nutrimento ei potrebbe affliggersi.
Parassito. Tu ignori, o Tichiade, che per principio non è parassito chi manca di nutrimento: così
un forte che manca di fortezza non è forte; un prudente che manca di prudenza non è prudente;
altrimente non saria parassito. E noi consideriamo chi è parassito, non chi non è. La fortezza fa il
forte, la prudenza il prudente, e la pappa il pappatore, cioè il parassito. Se gli manca questa,
parlerem daltro, e non del parassito.
Tichiade. Dunque il parassito non avrà mai bisogno di cibo?
Parassito. Mi pare. Sicchè nè per questo nè per altro ha di che affliggersi, nè temere. Inoltre tutti
quanti filosofi e retori hanno una gran paura in corpo, e la maggior parte di essi vanno col bastone,
del quale non anderebbero armati se non avesser paura; e la notte serrano la porta a chiave e
chiavistello per paura di non essere assaliti. Ma egli appena vi mette il saliscendi, perchè il vento
non lapra: se si fa qualche rumore ei se ne sconcia, come se non ludisse: nei luoghi disabitati va
senza spada, e non ha mai paura: ed io spesso ho veduto filosofi, mentre il mondo è tranquillo,
andare con arco e frecce, e portar il bastone anche quando vanno al bagno e al desinare. Nè alcuno
può accusare il parassito di adulterio, di violenza, di rapina, o di altra colpa qualunque; perchè chi
commettesse questo, non saria più parassito, ma colpevole. Onde se è colto in adulterio, non si
chiama più parassito ma adultero: e come il buono che diventa cattivo, lascia il nome di dabbene
uomo e piglia quello di malvagio, così il parassito se ha colpa, lascia il nome che ha, e piglia quello
della colpa. Ma tali colpe da retori e da filosofi continuamente non pure le vediamo commettere ai
tempi nostri, ma anche nei libri ce nè rimasta memoria. E cè lApologia di Socrate, e di Eschine, e
dIperide, e di Demostene, e di quasi la maggior parte dei retori e dei filosofi: ma di parassito non vè
apologia, e nessuno può dire di aver data una querela ad un parassito. Eh via, la vita del parassito è
migliore di quella dei retori e dei filosofi: nè la morte è più misera: anzi al contrario è più beata. I
filosofi sappiamo come muoiono, tutti o la maggior parte di mala morte, quali condannati dalla
giustizia per gravissime colpe a bere il veleno, quali bruciati vivi, quali muoiono di stranguria, quali
in esilio:(10) la morte del parassito non si può dire che sia così, ma è felicissima, mangiando e
bevendo: e se qualcuno è finito di morte violenta, egli è morto dindigestione.
Tichiade. E basti questa battaglia che hai data ai filosofi per il parassito. Ti rimane a dire, se egli
è una bella ed utile cosa a chi lo nutrisce. Perchè a me pare che come pe ricchi è grandezza e
cortesia nutrir parassiti, così a questi è vergogna esser nutriti.
Parassito. Sei bimbo, o Tichiade, se non puoi intendere che un ricco, ancora che abbia loro di
Gige, se mangia solo, è povero; e se va senza parassito pare un mendico: e come soldato senzarmi
non ha pregio, nè veste senza porpora, nè cavallo senza bardatura, così un ricco senza parassito pare
un tapino e un miserabile. Onde il parassito onora il ricco, e non il ricco il parassito. Nè poi è
vergogna per lui, come tu dici, lessere spesato, appunto come un minore da un maggiore: ma al
ricco torna utile nutrire il parassito, perchè oltre allonore, egli ne ha grande sicurezza avendo seco
una lancia. Chè nessuno ardirebbe assaltare il ricco, vedendogli a fianco il parassito: nè il ricco
potrebbessere avvelenato, perchè chi oserebbe insidiarlo, se il parassita gli fa la credenza del
mangiare e del bere? Onde il ricco, non pure è onorato, ma è salvato da gravi pericoli pel parassito.
E così pel suo buon cuore il parassito affronta ogni pericolo, non lascerebbe mai il ricco mangiar
solo, e vuole anche morire mangiando con lui.
Tichiade. Mi pare che hai detto ogni cosa, o Simone, senza lasciar niente dellarte tua: e non dire
che non ci avevi pensato sopra, chè hai dovuto più che ripensarvi e meditare. Ma unaltra cosa
voglio sapere, come questo nome della parassitica non sia vergognoso.
Parassito. Vedi la risposta se ti pare buona, e tu fa di rispondere alla mia dimanda, come credi
meglio. Dimmi un po, che cosa chiamavano sito gli antichi?
Tichiade. Il cibo.
Parassito. E chi si procaccia il cibo fa bene?(11)
Tichiade. Sì.
Parassito. Dunque il parassito che si para il cibo, fa bene.
Tichiade. Ma se lo procaccia a spese altrui, e questo pare vergogna.
Parassito. Via, rispondimi unaltra volta. Che ti pare meglio, e, se te lo proponessero, tu che
sceglieresti, camminare coi piedi tuoi o con gli altrui?
Tichiade. Con gli altrui.
Parassito. Lavorar con le mani tue, o con le mani altrui?
Tichiade. Le altrui.
Parassito. Imparare a spese proprie, o a spese altrui?
Tichiade. A spese altrui.
Parassito. Dunque ti deve parer meglio mangiare a spese altrui, che a spese proprie.
Tichiade. Mi hai convinto: e da oggi innanzi io, come i fanciulli, verrò da te ogni mattina e dopo
pranzo per imparare questarte: e tu me la devi insegnar volentieri, giacchè io sono il tuo primo
discepolo, e dicesi che le madri vogliono più bene ai figliuoli primogeniti.
XLVIII.
ANACARSI,
O
DEI GINNASII.
Anacarsi. Che vuol dire questo che fanno i vostri giovani, o Solone? questi si afferrano con le
braccia, e luno cerca di dare le sgambetto allaltro: quelli si stringono, si piegano, si rivoltolano nel
fango, lordandosene come porci. Da prima si sono spogliati, li ho veduti ungersi dolio, e
stropicciarsene tranquillamente: poi a un tratto non so come slanciarsi lun contro laltro, urtarsi e
cozzar fronte a fronte, come montoni. Ecco quegli, sollevato lavversario per le gambe, lha battuto a
terra; e standogli sopra, non lo fa rilevare, lo tien confitto nel fango, gli stringe il ventre con le
cosce, gli appunta un gomito alla gola, e sta per soffocarlo: e quel poveretto di sotto gli batte la
spalla per pregarlo forse che non lo soffochi davvero. Nè perchè sungono dolio, si rimangono di
non isporcarsi; chè, rasciutto quello, coprendosi di fango e di molto sudore, mi fanno ridere quando
sguizzano come anguille dalle mani degli avversari. Altri in questatrio scoperto fanno le stesse cose,
tuffati non nel fango ma in questarena profonda, se la spargono addosso lun laltro, e vi si dimenano
e vi razzolano come i galli nella polvere; forse per potersi afferrare quando sabbracciano, chè larena
non fa sguicciolare la mano, e dà la presa più salda. Quegli altri ritti in piedi e coperti di polvere
sammaccano con pugni e calci. Vedi: costui pare che sputi i denti: il misero ha la bocca piena di
sangue e darena, percosso da un fiero pugno alla mascella. E questo arconte non li divide, non fa
cessare la pugna (chè parmi uno degli arconti quei che va vestito di porpora):(12) ma dà animo e
lode al percussore. Gli altri in ogni parte tutti si muovono, saltano come se corressero e rimangono
nello stesso sito, e lanciandosi in su, danno calci allaria. Or io vorrei sapere che utilità può essere in
questo. A me pare una pazzia, e non saprei persuadermi che costoro faccian da senno.
Solone. A ragione, o Anacarsi, questa ti pare una strana usanza, e assai discordante dai costumi
degli Sciti: come anche gli studi e gli esercizi vostri parrebbero nuovi ai Greci, se uno di noi,
comora tu, venisse ad informarsene. Non temere, o amico: la non è pazzia, nè per farsi ingiuria
questi si percuotono fra loro, si voltolano nel fango, si spargono di polvere: questo esercizio reca
una certa utilità non priva di piacere, e dà vigoria ai corpi. Se tu rimarrai alcun tempo in Grecia,
come credo che farai, non anderà molto e vorrai lordarti anche tu di fango e di polvere: tanto ti
parrà cosa piacevole ed utile.
Anacarsi. Bah, o Solone: serbatelo per voi questutile e questo piacere. Per me se uno de vostri
sattentasse di farmi un po di tal giuoco, saprebbe che io non cingo invano questa scimitarra. Ma
dimmi, che nomi voi date a questi esercizi, come chiamate ciò che fanno costoro?
Solone. Questo luogo, o Anacarsi, si chiama da noi ginnasio, ed è sacro ad Apollo Liceo. Vedi la
statua del dio, poggiato ad una colonna, con larco nella mano sinistra, e con la destra ripiegata sul
capo in atto di riposarsi dopo lunga fatica. Tra questi esercizi, quello nel fango chiamasi lotta, e si
fa ancora nella polvere; quel menarsi di gran pugna stando ritti in piè, chiamiamo pancrazio:
abbiamo anche il pugilato, il disco, il salto: e con tutti questi noi celebriamo i giuochi, nei quali il
vincitore è onorato come primo tra i suoi eguali, e riporta un premio.
Anacarsi. E quale è questo premio?
Solone. In Olimpia è una corona doleastro, nellIstmo è di pino, in Nemea di appio, nei Pitii sono
i pomi sacri al dio, nelle nostre Panatenee lolio dellolivo sacro. Ma perchè ridi, o Anacarsi? forse
perchè son piccole cose?
Anacarsi. Anzi, o Solone, son pregevolissimi premii cotesti, veramente degni della magnificenza
di chi glistituiva, e degli sforzi che tanti fanno per ottenerli: chè due poma o una fronda dappio sono
tal cosa che meritan tante fatiche, e il pericolo desser soffocato, o aver lossa rotte. Vah, come se non
si potesse aver facilmente due poma quando se ne ha voglia, o coronarsi dappio e di pino senza
imbrodolarsi nella mota, e senza aver calci nel ventre dagli antagonisti.
Solone. Noi, o amico mio, non riguardiamo alla picciolezza dei doni. Questi non sono altro per
noi che indizi della vittoria, segni che distinguono il prode: ma la gloria che va con questi è cosa
ben pregevole pe vincitori: e per essa anche il ricever calci par bello a chi si affatica per acquistarla.
Senza fatiche essa non viene mai; e chi la desidera deve da giovane sforzarsi molto e patire, ed
aspettare il frutto dolce e lieto dopo le fatiche.
Anacarsi. Questo frutto dolce e lieto, che tu dici, o Solone, sarebbe che tutto il popolo vede
incoronare i vincitori e li loda, mentre che poco innanzi li compativa per i colpi che ricevevano. Ed
essi si tengono beati che dopo tante fatiche hanno due pomi ed un ramoscello doleastro?
Solone. Io ti dico che tu sei ancor nuovo de nostri costumi: ma tra poco muterai opinione,
quando verrai nelle nostre adunanze, e vedrai la gran moltitudine di gente che accorre a vedere i
giuochi, ogni luogo gremito di spettatori innumerevoli, gli atleti celebrati, e il vincitore tenuto pari a
un dio.
Anacarsi. Cotesta è maggior miseria, o Solone, patire oltraggio innanzi non a pochi, ma a tanti
spettatori e testimoni, i quali certamente reputano beati gli atleti, vedendoli bruttati di sangue, e
quasi soffocati dagli avversarii: perchè questa è la gran beatitudine de vincitori. Fra noi altri Sciti, o
Solone, se uno batte un cittadino, o investendolo lo getta per terra, o pure gli lacera il mantello, ha
gravi pene dai nostri anziani, ancorchè il fatto sia stato innanzi a pochi, non dico innanzi a tanti
spettatori quanti tu mi conti che sono nellIstmo e in Olimpia. E però gli atleti mi fanno pietà per
quello che soffrono; e gli spettatori, che tu mi dici accorrere da ogni parte ed in gran numero a
queste adunanze, mi fan maraviglia come lascino le loro faccende e vogliano vedere di tali cose.
Chè io non posso capire qual diletto si ha vedere uomini che si percuotono, si battono, si gettano per
terra, e si conciano bruttamente fra loro.
Solone. Se ora, o Anacarsi, fossero i giuochi olimpici, o glistmici, o le panatenee, vedresti col
fatto che noi non abbiamo il torto a pregiarli. Nessuno così a parole potrebbe farti immaginare il
piacere che tu ne avresti; ma se tu sedessi in mezzo agli spettatori, e rimirassi la fortezza de giovani,
la bellezza de corpi, le fattezze mirabili, le destrezze grandi, la forza invincibile, lardire, la gara, il
volere indomabile, gli sforzi che addoppiano per ottenere la vittoria; oh, ti dico io, che tu non
cesseresti di lodare, desclamare, dapplaudire.
Anacarsi. Sì, o Solone, e di ridere, e di farmene beffe. Tutte coteste cose che mhai annoverate, la
fortezza, la bellezza, le fattezze, e lardire io vedo che voi le sciupate non adoperandole per una
cagione grave, per la patria in pericolo, per il paese devastato, per gli amici e i parenti oltraggiati.
Onde più e più mi fan ridere cotesti tuoi prodi e belli, che sprecano indarno la loro prodezza, e
bruttano la bellezza della persona con larena e coi lividori, per aver dopo la vittoria poche poma, e
un ramoscel doleastro. Io non posso dimenticarmi di questa nuova specie di premii. Ma dimmi, tutti
gli atleti hanno questi premii?
Solone. No: uno solo, il vincitore fra essi.
Anacarsi. O Solone, e per una vittoria ancora incerta si affaticano tanto, sapendo che uno solo
sarà il vincitore, e tutti i vinti avranno senza alcun pro toccate percosse e ferite?
Solone. Mi pare, o Anacarsi, che tu non hai considerato mai quale sia il retto ordinamento duna
città; chè non biasimeresti così le più belle usanze. Ma se avrai vaghezza di conoscere come una
città può essere meglio ordinata, e renduti ottimi i suoi cittadini, tu loderai allora questi nostri
esercizii e lamore che abbiamo per essi; e saprai quanta utilità va unita a queste fatiche, alle quali
ora ti pare che noi ci diamo senza alcun pro.
Anacarsi. Anzi, o Solone, io non per altro son venuto dalla Scizia tra voi, ho trascorse tante
contrade, e valicato il grande e tempestoso Eussino, se non per apprendere le vostre leggi,
conoscere i vostri costumi, considerare i vostri ottimi ordinamenti civili. E però specialmente te fra
tutti gli Ateniesi io ho scelto ad amico ed ospite per la fama che tu hai, poi che io seppi che tu hai
scritto alcune leggi, hai ritrovate ottime usanze, introdotte utili istruzioni, e ben composto uno stato.
Ora non tincresca di darmi qualche insegnamento: fammi tuo discepolo; ed io lascerò anche
mangiare e bere, e mi ti sederò vicino per ascoltarti attentamente parlare di ordini civili e di leggi
finchè ti basta la lena.
Solone. Di tutte queste cose non si può facilmente discorrere in poco dora, o amico: ma ad una
ad una te le dirò, e conoscerai le nostre opinioni intorno agli Dei, intorno ai genitori, intorno alle
nozze, e ad altro. Ciò che noi pensiamo intorno ai giovani, e come li educhiamo quando cominciano
ad acquistare il discernimento del bene, il corpo duomo, e la vigoria da sostener le fatiche, ora io te
lo spiego, acciocchè tu sappi per qual cagione noi proponiamo ai giovani questi esercizii, e
vogliamo che indurino i corpi alle fatiche; non è solo per combattere nei giuochi e per aver premii
che pochi fra essi possono ottenere, ma perchè a questo modo si preparino ad acquistare a tutta la
città ed a sè stessi un bene assai più grande. Vè un altro agone in cui entrano tutti i buoni cittadini,
vè unaltra corona non di pino nè dappio, nè doleastro, ma formata della felicità comune, cioè della
libertà di ciascuno e di tutta la patria, della ricchezza, della gloria, della celebrazione delle feste
stabilite dai nostri antenati, della conservazione de nostri averi, e di tutti i beni più cari che si
possono dimandar agli Dei. Tutti questi beni sono intrecciati nella corona chio ti dico, e si
acquistano in quellagone, nel quale si entra per questi esercizii e queste fatiche.
Anacarsi. O ammirabile Solone, avevi a parlarmi di tali e tanti premii, e mi contavi di poma, di
appio, di un ramoscel di pino, e doleastro?
Solone. E neppur questi ti parranno piccoli, o Anacarsi, quando avrai bene intese le mie parole:
per la stessa ragione si fanno queste cose, e tutte, sono piccole parti di quel grande arringo e di
quella corona di felicità, di cui ti parlavo. Ma non so come discorrendo siam saltati innanzi un
tratto, e siam tornati ai giuochi istmici, olimpici e nemei. Intanto giacchè noi siamo scioperati, e tu
se vago di ascoltarmi, rifacciamoci da capo, e parliamo di quel grande arringo, pel quale tho detto
che noi così ci prepariamo.
Anacarsi. Sarà meglio così, o Solone: il nostro discorso procederà con più ordine: e forse così io
mi persuaderò più presto di non ridere vedendo chi va superbo duna corona dappio o doleastro. Ma,
se ti pare, andiamo a quellombra, e sediam su quei seggi, per non essere disturbati dagli applausi
che si danno ai lottatori: ed anche, a dirti il vero, perchè mi fa male questo sole acuto e bruciante
che mi cade sul capo. Ho voluto lasciare il cappello a casa, per non parere io solo in mezzo a voi in
foggia straniera. La stagione è caldissima; quellastro che voi, credo, chiamate la canicola, brucia
ogni cosa, e dissecca ed infiamma laria: e il sole in pieno meriggio ci batte sul capo, e ci dà questo
caldo insopportabile. Io mi maraviglio di te che se vecchio, e a questi bollori non sudi come me,
pare che non ne senti noia, nè cerchi di ripararti allombra, ma ti stai al sole tranquillamente.
Solone. Quelle vane fatiche, o Anacarsi, quel frequente rivoltolarci nel fango, quello strapazzarci
allo scoperto nellarena, ci danno questo scudo contro i raggi del sole: e non ci è bisogno cappello
che ci difenda il capo. Ma andiamo. Intanto tu non istarai alle mie parole, come si sta alle leggi, da
crederle a punto: ma dove ti pare che io non dica bene, e tu contraddici, e discutiamo. Così ci
chiariremo; ed una delle due, o tu sarai più forte persuaso quando avrai fatte tutte le obbiezioni che
credi, o io mi correggerò del mio cattivo conoscere. Ed in questo caso tutti gli Ateniesi te ne
avranno grande obbligo. Perchè tu ammaestrando me e persuadendomi del meglio, farai ad essi un
benefizio grandissimo. Nè io lo nasconderò, ma tosto lo pubblicherò, e rizzandomi nel comizio, io
dirò a tutti: O Ateniesi, io scrissi per voi le leggi che mi parvero sarebbero più utili alla città; ma
questo forestiero (e additerò te, o Anacarsi) questo scita, essendo un uomo pieno di senno, mi ha
fatto mutare opinione, mi ha insegnato altri studi ed esercizi migliori: onde scrivetelo tra i vostri
benefattori, rizzategli una statua tra quelle deglillustri cittadini, vicino a Minerva. E sappi che gli
Ateniesi non vergognerebbero dimparare da un barbaro e da un forestiero qualche cosa utile.
Anacarsi. Ecco appunto quello che mi dicevano di voi altri Ateniesi, che voi parlando vi dilettate
dellironia. E come, io, che sono un pastore errante, vissuto sopra un carro, tramutandomi di
contrada in contrada, che non ho mai abitato città nè vedutane prima dora, come potrei io ragionar
dordinamenti civili, ed insegnar cosa ad uomini aborigeni,(13) che in questa antichissima città
vivono da tantanni con ottime leggi? e specialmente a te, o Solone, il quale, come dicono, succhiasti
col latte questa scienza, e sai come si ordina ottimamente una città, e con quali leggi si renda felice?
Va: anche per questa ragione, io debbo credere a te come a legislatore: e ti contradirò, se qualche
cosa non mi parrà giusta, per meglio imparare. Ma eccoci al coperto del sole sotto lombra: questa
fresca pietra è proprio opportuna: sediamo. Ripiglia adunque il ragionamento da capo, come voi
prendete i giovani e li adusate da fanciulli alle fatiche; come essi dal fango e da questi esercizii vi
vengono ottimi uomini, e come il voltolarsi nella polvere li rende virtuosi. Questo io volevo udire
da te: le altre cose me le insegnerai dipoi, una per volta a suo tempo. Intanto nel tuo discorso
ricordati di una cosa, o Solone, che tu parli ad un barbaro; voglio dire, non complicare nè allungare
il ragionamento; perchè io temo che dimenticherei le cose di prima, se tu me ne sciorinassi molte
dipoi.
Solone. A questo provvederai meglio tu, o Anacarsi: dove il discorso ti parrà farsi oscuro, o
uscir del proposito, dimandami quel che vuoi, e il farai breve. Ma se io non dirò cose strane nè
troppo lontane dal nostro scopo, non ci sarà male, credo, a distendermi alquanto: giacchè anche il
senato dellAreopago, che giudica delle cause criminali, ha questa usanza.(14) Quando sale sul colle
di Marte, e siede per giudicare di omicidio, o di ferite premeditate, o dincendio, alle due parti si
concede parlare, e parlano prima laccusatore, poi laccusato, o da sè o per mezzo di oratori che
montano su la pietra e parlano per loro. Finchè dicono cose pertinenti alla causa, il Senato li lascia
dire, e li ascolta in silenzio; ma se taluno fa proemio per cattivarsi favore, o cerca destar
compassione, o sdegno con argomenti estranei alla causa (come sogliono fare gli oratori per
ingannare i giudici), esce un banditore, e subito li fa tacere, vietando il frascheggiare innanzi al
senato, e il ravviluppar le cose nelle parole,(15) acciocchè gli areopagiti veggano nudo il fatto. Ora
io ti fo areopagita, o Anacarsi: ascoltami come fa quel senato, e imponimi di tacere se mi vedrai
rettoricare: ma finchè saran così pertinenti, lasciami distendere in parole. Non siamo più al sole,
dove il lungo ragionare potría noiarti, ma a questa bellombra, e non abbiamo che fare.
Anacarsi. Questa è tua cortesia, o Solone, ed io già ti ringrazio assai che per giunta al discorso
mi hai ammaestrato di questa usanza dellAreopago, veramente bella e degna di buoni senatori che
giudicano secondo verità. Or dunque parla così: ed io, giacchè mhai fatto areopagita, tascolterò
come suole quel senato.
Solone. Hai dunque a sapere prima brevemente che cosa è per noi la città e i cittadini. La città
noi non crediamo che sieno gli edifìzii, come le mura, i templi, i porti, tutte le quali cose, come un
corpo fermo ed immobile apprestano ricetto e sicurezza agli abitatori; ma tutto il valore duna città
noi lo riponiamo nei cittadini; questi sono quelli che labitano, la regolano, vi esercitano gli uffizi, la
difendono, come dentro di ciascuno di noi fa lanima. Per questa persuasione, noi procuriamo, come
tu vedi, di abbellire il corpo della città, dentro ornandola di edifizi per farcela più gradita, e fuori
accerchiandola di mura per assicurarla. Ma la maggior cura ed il maggiore pensiero nostro è che i
cittadini sieno buoni di animo, gagliardi di corpo; perchè essendo tali, fioriranno in pace,
preserveranno la città dalla guerra, la manterranno libera e felice. La prima educazione dei fanciulli
noi la lasciamo alle mamme, alle balie, ai pedagoghi, che li allevano e li erudiscono nelle prime arti
liberali. Quando poi hanno acquistato il discernimento del bene, e nasce in loro il sentimento del
pudore, del rispetto, del timore, e il desiderio donore; quando pare che hanno il corpo atto alle
fatiche, e già robusto, e fatto; allora noi li prendiamo ad ammaestrare, presentando allanima loro
certa maniera di studi, avvezzando a certe fatiche i loro corpi. Imperocchè noi crediamo che non
basti alluomo crescere così come ei nasce, ma che e lanima ed il corpo hanno bisogno di
educazione, per la quale le buone disposizioni di natura diventano migliori, e le cattive si cangiano
in buone. Ed in questo imitiamo gli agricoltori, i quali, finchè le piante son tenere e bassette, le
appoggiano ad un sostegno, e le ricoprono per difenderle da rovai; ma poi che han fatto corpo
dalbero, essi ne troncano i rami soverchi, e lasciandole agitarsi e scuotersi allaria, le rendono più
fruttifere. Primamente adunque noi destiamo lanima dei giovani con la musica e laritmetica;
insegniamo loro a scrivere, e a leggere ad alta voce: e come sono più grandicelli, recitiam loro le
sentenze dei sapienti, i fatti antichi, e discorsi morali, ornandoli di versi e cantando, acciocchè essi
se ne ricordino meglio. Ascoltando quelle virtù e que fatti illustri, essi tosto sinfiammano di bello
ardire, e cercano dimitarli, per essere dipoi anchessi cantati ed ammirati dai posteri. Questo effetto
spesso han prodotto tra noi i canti dEsiodo e di Omero. Quando poi per letà entrano in tutti i diritti
di cittadini, e debbono porre le mani nelle faccende pubbliche.... Ma forse questo non centra: io non
mero proposto di parlare come noi formiamo gli animi loro, ma per qual fine crediamo doverli
esercitare in queste fatiche. Onde mi taccio da me, senza aspettare che me lo imponga il banditore,
o tu areopagita, il quale per tua bontà forse mhai sofferto chiacchierare tanto a vanvera.
Anacarsi. Dimmi, o Solone, per quelli che non dicono tutto il necessario nellAreopago, ma
tacciono alcuna cosa, è stabilita qualche pena?
Solone. Non vedo perchè mi dimandi questo.
Anacarsi. Perchè tu tralasci ciò che più mi piaceva di udire intorno allanima, e vuoi parlarmi del
meno necessario, dei ginnasii, e delle fatiche del corpo.
Solone. Mi ricordavo de nostri accordi, o amico mio, e non voglio uscir di proposito per non
confonderti la memoria sciorinandoti troppe cose. Ma pure per contentarti parlerò di questo il più
breve che io posso: unaltra volta vi faremo sopra più riposato ragionamento. Noi educhiamo la
mente dei giovani(16) insegnando loro le pubbliche leggi, le quali esposte agli occhi di tutto il
popolo e scritte a grandi lettere comandano ciò che convien fare, e ciò che fuggire;(17) e facendoli
conversare con uomini dabbene, dai quali imparano a dire il convenevole, fare il giusto, serbare
eguaglianza coi cittadini, fuggire le turpitudini, desiderare lonesto, non usar mai violenza. E questi
uomini dabbene tra noi son chiamati sofisti e filosofi. Li meniamo ancora nei teatri, dove hanno
pubblico insegnamento dalle tragedie e dalle commedie, vedendo rappresentate le virtù degli
uomini antichi, e le malvagità: e così sinvogliano a seguitar quelle, e fuggir queste. Noi
permettiamo che la commedia motteggi e riprenda i cittadini noti per turpi e rilassati costumi, per
amor di loro stessi, acciocchè si correggano, e per amore degli altri, i quali così si guardano di
meritare riprensione per falli simiglianti.
Anacarsi. Li ho veduti, o Solone, cotesti che rappresentano le tragedie e le commedie: son quelli
che van calzati di quei calzari alti e pesanti, con le vesti a fasce e frange doro, con in capo una
ridicola barbuta che ha una gran bocca squarciata, donde mandavan fuori gran vocioni, e non so
come camminavano così impastoiati in que calzari. Credo che eran le feste di Bacco allora. Quei
della commedia meno alti degli altri, camminavano più a modo duomini, e gridavano meno, ma
avevano una barbuta molto più ridicola, e facevano ridere tutto il teatro. Ma quando sudivano quei
lunghi lunghi, tutti satteggiavano a tristezza, e forse, credo io, li compativano, vedendoli trascinare
quelle grandi pastoie.
Solone. Oh no, caro mio, non compativano a quelli: ma forse il poeta rappresentava agli
spettatori qualche antica storia di sventure in versi tragici e pietosi, i quali traevan le lagrime dagli
ascoltatori. Forse avrai veduto allora anche alcuni che sonavano i flauti, ed altri che cantavano
disposti a cerchio. Neppure quei canti e quei suoni ci sono inutili, o Anacarsi. Con tutti questi modi
e con altrettali si accendono gli animi de giovani, e si rendono migliori. Ma eccomi a quello che tu
più desideravi di udire, come noi esercitiamo i corpi. Li spogliamo, come tho detto, quando non
sono più teneri e delicati, per avvezzarli allaria e ad ogni varietà di stagione, affinchè il caldo non li
abbiosci, il freddo non li intirizzisca: poi li ungiamo dolio e li ammorbidiamo per renderli più
validi. Se le cuoia ammorbidite dallolio più difficilmente si rompono e più durano, e son carne
morta; quanto più il corpo vivo non sarà invigorito dallolio? Poi abbiamo escogitati diversi esercizi,
e stabiliti i maestri di ciascuno, i quali insegnano a chi il pugilato, a chi il pancrazio, affinchè i
giovani sindurino alle fatiche, e affrontino i colpi, senza rivolgersi per timor di ferite. E con ciò
conseguono due buonissimi effetti, acquistano ardire nei pericoli non risparmiando ai corpi, e si
mantengono sani e robusti. Quei lottatori, che si piegano sino a terra, imparano a cadere senza farsi
male, a rizzarsi subito, a sostenere gli urti, le strette, le scosse, a tener lavversario alla gola, a
sollevarlo da terra, e con questo utile esercizio acquistano il primo bene, e senza dubbio,
grandissimo, che i corpi con la fatica safforzano e sinduriscono al dolore. Un altro bene non minore
è che si troveranno pratichi di queste arti, in caso che dovranno usarle nella guerra; perchè
certamente se uno di costoro viene alle prese con un nemico, te lo atterra più facilmente con un
gambetto, e se cade saprà più presto levarsi in piè. Di tutte queste arti, o Anacarsi, noi ci
provvediamo pel combattimento vero che si fa con le armi, e crediamo che i giovani esercitati in
esse saranno più prodi guerrieri: perchè con ungerne prima i corpi nudi e con laffaticarli, noi li
rendiamo più forti e vigorosi, e leggieri, ed agili, e però formidabili agli avversarii. Or tu comprendi
da te quali saranno in armi costoro, che nudi farian paura ai nemici. Non hanno addosso carni
bianche e pesanti, nè son magri e pallidi: non han corpi come di femmine, scriati, che tremano al
rezzo, che si sfiniscono gocciolando sudore, che non possono respirar sotto lelmo, specialmente se
il sole nel meriggio, come adesso, abbrucia ogni cosa. Che si potria fare con uomini che non
sosterrebbon nè la sete nè la polvere, che a veder sangue satterrirebbero, e morrebber di paura
prima di venire alle armi e di mescolarsi coi nemici? I nostri giovani dun color bruno acceso ed
abbronzati dal sole, hanno aspetto maschio e fiero, son tutti ardire, e coraggio, e forza, e vita: non
grinze, non magrezza, non molta grassezza: i contorni delle membra proporzionati: il troppo delle
carni vassene in sudore, e resta il puro e lasciutto che loro dà gagliardia e vigore. Questi esercizii
fanno ai nostri corpi quello che i vagliatori al grano, che ventilando ne mandan via la pula e le reste,
e sceveratolo bene, lammucchiano. Per questo modo i corpi conservano necessariamente la salute,
durano alle fatiche più lunghe, non si disfanno in sudore così alla prima, e raramente ammalano.
Come se uno mettesse fuoco ad una bica dovè grano e paglia e pula (ritorno sul paragone del
vagliatore), la paglia subito anderebbe in fiamme, ma il grano a poco a poco, senza levar vampa,
fumando qua e là lentamente, infine anchesso brucerebbe. Così nè malattia, nè fatica può abbattere
e vincere facilmente siffatti corpi; chè dentro son bene disposti, fuori saldamente muniti, e non
danno la via al caldo o al freddo che lor faccia male. Se laffaticarsi li spossa, tosto il calore interno,
già preparato e tenuto in serbo pel bisogno, inaffia e rinvigorisce le membra, e le rende instancabili.
Epperò laffaticarsi e lesercitarsi non toglie ma aggiunge le forze, e le fa quasi rifiorire. Noi li
addestriamo ancora nel correre e per lungo spazio, e così diventano velocissimi e leggieri: e la corsa
non è sul duro e sul sodo, ma nellarena profonda, dove non si può ben fermare nè levare il piè che
va sul cedevole. Li esercitiamo a saltare, se bisogna, una fossa o altro impedimento, e tenendo nelle
mani grosse palle di piombo. Ed anche fanno a chi scaglia il dardo più lontano. Tu hai veduto nel
ginnasio una cosa di rame, rotonda, come un picciolo scudo senza manica e senza corregge; hai
provato di sollevarla da terra, e tè paruta pesante e difficile a tenersi con mano perchè levigata. Ed
essi la lanciano in alto e in lungo, gareggiando a chi la manda più su o più lontano: e questa fatica
afforza gli omeri e rende le mani tenaci alla presa. Il fango poi e la polvere, di che da prima tu ti
ridevi, ecco, o caro mio, perchè sono qui sparsi: prima perchè le cadute non sieno violente, ma sul
molle cadano senza pericolo: poi perchè i corpi sudati ed infangati diventano necessariamente più
sdrucciolevoli, e tu stesso li paragonavi ad anguille. Nè questa è cosa inutile o ridicola, ma dà non
poca forza e tensione alle membra, quando impiastrati così vengono allafferrarsi e al ghermirsi forte
perchè luno non isguizzi dallaltro: nè credere che sia niente rattenere uno che unto di olio e di
fango, sforzasi di uscirti e sguicciolar delle mani. Tutto questo, come testè ti dicevo, ci è utile in
guerra, in caso di dover portare fuori la pugna un amico ferito, o afferrare un nemico e portarlo via.
Noi li esercitiamo nelle fatiche assai gravi, affinchè sopportino agevolemente le lievi. Adoperiamo
poi la polvere per un effetto contrario a questo, affinchè non si sfuggano quando si sono afferrati.
Poi che si sono esercitati così coperti di fango a rattenere un corpo sfuggevole, savvezzano a
sfuggire da chi li tiene forte ghermiti con le mani. Ed altresì la polvere sparsa su la persona pare che
arresti il sudore, fa durar più le forze, e difende dallaria nocevole ai corpi allora tutti molli ed aperti:
e dipiù netta ogni sozzura, e rende più lucida la persona delluomo. Io vorrei porre uno di que
bianchi omicciattoli che temono il sole non li macchi, con qualunque tu vuoi di questi che si
esercitano nel Liceo, tutto lordo di polvere e di fango, e poi ti dimanderei: a quale de due vorrestù
somigliare? Oh, certamente al primo sguardo, e senza neppur provarli alle opere, tu vorresti meglio
esser ben composto e valido, che delicato e frollo e bianco per poco sangue che appena basta al
cuore. Questa è leducazione che noi diamo ai giovani, o Anacarsi; e crediamo che così essi saranno
prodi difensori della patria, e vivranno in libertà tra loro: uscendo contro i nemici, li vinceranno, si
faran temere dai vicini, e ne renderanno molti a noi soggetti e tributari. In pace saranno migliori,
non gareggeranno in turpitudini, non insolentiranno per ozio, ma si occuperanno, nè penseranno ad
altro. Quel pubblico bene, quella felicità somma della città, ondio ti parlavo, è questa, quando e in
pace e in guerra la gioventù mostrasi ottimamente educata, occupandosi di cose oneste.
Anacarsi. Dunque, o Solone, quando i nemici vi assalgono, voi unti di olio e impolverati andate
a scontrarli investendoli con le pugna? Essi certamente si spauriscono e fuggono, temendo che voi
non gettiate loro in bocca brancate darena, o che saltando loro addosso, quando vi danno le spalle,
non li stringiate al ventre con le gambe, e li soffochiate mettendo loro alla gola il gomito sotto
lelmo. Per Giove! avranno essi un bel saettare e lanciare: le armi non vi trapasseranno i corpi, che
avete invulnerabili come statue, abbronzati dal sole, e ben provveduti di sangue. Voi non siete nè
paglia nè reste, voi, che cediate ai primi colpi; ma ci vuol tempo, e squarciarvi di ferite profonde per
cavarvi appena un po di sangue. Questo lhai detto tu stesso, se io ho bene inteso il tuo paragone. Ma
forse allora voi vi vestite di quelle armature intere che usate nelle tragedie e nelle commedie: e
quando uscite ad oste vi mettete in capo quelle barbute con la bocca squarciata, donde fate bau bau,
e impaurite i nemici: e vi mettete quei gran calzari, leggerissimi se dovete fuggire, e se perseguitate
il nemico con quattro buone gambate gli siete sopra. Oh, bada che coteste vostre arti non sieno uno
scherzo, un giuoco, un divertimento di giovani oziosi che vogliono lo spasso. Se volete davvero
esser liberi e felici vi conviene avere altri ginnasii, esercitarvi con le vere armi in mano, e non
gareggiare tra voi in giuochi, ma coi nemici, e in mezzo ai pericoli mostrar pruove di valore.
Lasciate stare la polvere e lolio, ammaestrate i giovani a saettare e lanciottare, e non con lanciotti
leggieri che sviano per vento, ma date loro la lancia pesante che riempie tutta la mano e fischia
quando è vibrata; armateli di una bipenne nella destra mano, duno scudo nella sinistra, e di corazza,
e delmo. Nello stato in cui siete ora, io credo che un qualche iddio vi voglia bene, e vha salvati
finora: chè un branco duomini vi disperderebbe. Ed ecco, sio sfoderassi questa piccola scimitarra
che ho a fianco, e piombassi in mezzo a tutti questi vostri giovani, a un grido sarei padron del
ginnasio, spulezzerebbero senza attentarsi di neppur riguardare il ferro, e aggirandosi intorno alle
statue e nascondendosi dietro le colonne, mi farebbero ben ridere a vederli piangere e tremare. Oh,
non li vedresti più con quel bello colorito in faccia, ma a un tratto impallidire e tingersi di paura. A
tale vi ha ridotti la lunga pace che non sosterreste neppur la vista duna cresta delmo nemico.
Solone. Non parlavan così, o Anacarsi, nè i Traci che con Eumolpo ci assalirono, nè le vostre
Amazoni, che guidate da Ippolita vennero contro la città nostra, nè quanti altri ci provarono nelle
armi. Noi, o amico mio, non perchè affatichiamo i giovani nudi, però li mandiamo senzarmi nei
pericoli: ma poi che hanno acquistato forza e destrezza in queste fatiche, si esercitano con le armi, e
così disposti sanno meglio trattarle.
Anacarsi. Ma dovè il ginnasio in cui si combatte con le armi? Io non ne ho veduto alcuno nella
città, e lho percorsa tutta.
Solone. Tu vedrai, o Anacarsi, se rimarrai qualche tempo fra noi, che ciascun cittadino ha molte
armi, di cui usiamo al bisogno, ed elmi, e creste, e cavalli, che quasi il quarto dei cittadini son
cavalieri. Ma landar sempre armati e cinti duna scimitarra crediamo che sia inutile in pace: anzi è
vietato portar ferro in città senza un bisogno e mostrar armi in pubblico. Voi siete scusabili se
vivete sempre con le armi alla mano, perchè non abitate tra ripari; le insidie son facili, i nemici
molti, e siete sempre sul sospetto che mentre dormite non vengano ad assalirvi sul carro, ed
uccidervi. La scambievole diffidenza, il vostro vivere sciolto e senza legge, vi fa sempre necessario
il ferro, per averlo pronto alla difesa, se uno vassalta.
Anacarsi. Come va questo, o Solone? Voi credete inutile portar ferro senza necessità, risparmiate
le armi perchè non vi si logorino tra le mani, le serbate riposte per usarne dipoi quando verrà il
bisogno; e perchè senza stringente pericolo, affaticate ed ammaccate i corpi dei giovani, li sfinite in
sudore, non risparmiando pel bisogno le loro forze, ma gettandole nella polvere e nel fango?
Solone. Parmi, o Anacarsi, che tu ti figuri la forza esser simile al vino, allacqua, o ad altro
liquore: temi che si versi come da una guastada, e che si perda nelle fatiche, e che ci lasci il corpo
vuoto, e secco, e senza potersi rifare. Ma non è così: la forza è tal cosa che quanto più ne versi, più
abbonda: come lidra della favola, che avrai udita, alla quale si tagliava una testa, ed ella ne metteva
due. Se essa poi da principio non si esercita nè si distende, e non ha sufficiente la materia che la
sostiene, allora sotto le fatiche si fiacca e si consuma. Così accade del fuoco e della lampada. Sotto
lo stesso soffio tu accendi il fuoco e lo fai subito divampare affaticandolo col vento, e spegni il
lume della lampada che non ha materia bastante da resistere a quel soffio, e nasce quasi da piccola
radice.
Anacarsi. I non ti capisco bene, o Solone: coteste tue sottigliezze non fanno per me, ma per chi
ha molto acume e perspicacia. Insomma dimmelo schietto; perchè nei giuochi olimpici, neglistmici,
nei pitii, e negli altri, dove hai detto che accorre tanta gente a vedere i giovani combattere, voi non
li fate combattere con le armi, ma così nudi con i calci e con le pugna, e date al vincitore poche
poma, o un ramoscel doleastro? Questo vorrei sapere perchè lo fate voi.
Solone. Perchè crediamo, o Anacarsi, che così i giovani saccendono di più amore per questi
esercizii quando vedono i più bravi onorati e celebrati fra tutti i Greci, e che però dovendo comparir
nudi innanzi a tanta gente, avran cura della persona, per non vergognarsene denudandosi, e
ciascuno vorrà per ogni verso parere degnissimo della vittoria. I premii, come già tho detto, non
sono spregevoli; esser lodato dagli spettatori, celebrato, mostrato a dito, tenuto per il più bravo tra i
giovani. Onde molti spettatori, che sono in età di entrare anchessi nel cimento, se ne ritornano
maravigliosamente infiammati di quel valore e di quelle fatiche. O Anacarsi, se si toglie dalla vita
lamor della gloria, che bene ci resta? chi vorrebbe fare una bellopera? Ora anche per questo tu puoi
figurarti come combatteranno con le armi in mano a difesa della patria, dei figliuoli, delle donne e
dei sacri templi, costoro che nudi e per il premio duna fronda doleastro o di alcune poma, mostrano
tanto ardore di vincere. E che diresti se vedessi tra noi i combattimenti delle quaglie e dei galli, e lo
studio non poco che noi vi mettiamo? Rideresti certamente, e massime se sapessi che facciam
questo per una legge, la quale comanda a tutti i giovani di assistervi, e riguardare quegli uccelli che
contendono sino allultimo punto. Eppure non ci è da ridere. Perchè così entra nellanimo un certo
desiderio di affrontare i pericoli, di non parere men coraggiosi e meno arditi dei galli, di non cedere
per ferite, o fatiche, o difficoltà. In quanto poi al cimentarli con le armi e vederli ferire, no, questo
no: saria cosa feroce, e sozza e crudele e inutile ancora sgozzar quei valorosi che ci sono bravi
difensori contro i nemici. Giacchè tu dici, o Anacarsi, che visiterai tutta la Grecia, ricordati, se
verrai tra i Lacedemoni, di non riderti di loro, nè credere che saffaticano invano quando per giocare
alla palla saccalcano nel teatro e si picchiano tra loro; o quando entrati in un luogo ricinto dacqua,
divisi in due falangi, e nudi anchessi, fanno una finta battaglia, finchè una schiera caccia laltra dal
recinto, la schiera di Licurgo scaccia quella dErcole o per contrario, e la spinge nellacqua (chè
dallora in poi tutto è pace e cessano le busse); o quando specialmente vedrai i fanciulli vergheggiati
presso allara sprizzar sangue, e i padri e le madri presenti non pure non compatirli, ma sgridarli se
non sostengono i colpi, e incuorarli a durare a quel tormento quanto più possono, e star saldi al
dolore. Molti sono anche morti in questa pruova, non avendo voluto sino allultimo fiato mostrar
fiacchezza innanzi agli occhi dei parenti, nè cedere al dolore del corpo: e di questi vedrai le statue
rizzate da Sparta, e pubblicamente onorate. Quando dunque tu vedrai queste cose non darti a
credere che ei son pazzi, nè dire che si martoriano senza stringente necessità, senza un tiranno che
ve li sforzi, senza un nemico che lo comandi. Perchè su di questo ti direbbe Licurgo, loro
legislatore, molte e buone ragioni, e con qual mira li batte, non per nimicizia, nè per odio, nè per
distruggere senza pro la gioventù della città, ma perchè egli crede che così saranno più forti e
sprezzeranno ogni tormento coloro che debbono difendere la patria. E quandanche nol dicesse
Licurgo, tu comprendi da te, che se mai uno di costoro è preso in guerra, ei non dirà mai il segreto
di Sparta per tormenti che i nemici gli diano, ma ridendo sfiderà chi lo flagella a provare chi prima
si stanca.
Anacarsi. Ma dimmi, o Solone, Licurgo era battuto anchegli da giovane, o pure quandera già
esente del giuoco per letà, si spassava con gli altri alla sicura?
Solone. Era già vecchio quando scrisse le leggi dopo il suo ritorno da Creta. Egli vi andò per
avere udito come i Cretesi erano regolati da buone leggi, fatte per loro da Minosse figliuolo di
Giove.
Anacarsi. E perchè anche tu, o Solone, non hai imitato Licurgo, e non vergheggi i giovani?
Bellusanza è questa, e degna di voi.
Solone. Perchè a noi bastano, o Anacarsi, questi ginnasii, usanza tutta nostra: nè vogliamo
affatto imitar le forestiere.
Anacarsi. Non per questo, ma perchè parmi che tu capisca che cosa sia lessere flagellato nudo,
con le braccia levate, senza alcuna utilità privata o pubblica. Onde io se mai anderò in Sparta al
tempo delle frustate, certamente mavranno a lapidare, perchè io non potrò tenere le risa vedendoli
frustare come ladri, tagliaborse, e simile canaglia. Parmi che davvero avrian bisogno di una buona
dose delleboro questi Spartani che si conciano tra loro a quel modo.
Solone. Non credere, caro mio, che a Sparta non troverai lingua che ti risponda, e tu parlerai solo
tu, e vincerai; chè ben ci sarà chi su di questo ti assegnerà buone ragioni. Ma giacchè io tho narrato
de costumi nostri, che parmi non ti piacciano gran fatto, credo che sia cosa giusta a chiederti che mi
narri anche tu come voi altri Sciti educate i vostri giovani, e in quali esercizi li allevate affinchè vi
diventino prodi uomini.
Anacarsi. È giustissimo, o Solone: ed io ti conterò delle usanze degli Sciti, forse non belle, nè
simiglianti alle vostre; chè noi non potremmo sopportare neppure una percossa sulla faccia, e siam
meticulosi assai: ma qualunque sieno, te le dirò. Nondimeno, se ti pare, differiamo a dimani questo
ragionamento; così nel silenzio io rifletterò meglio a ciò che tu mhai detto, e raccoglierò nella
memoria ciò che dovrò dirti. Per ora basta, e ritiriamoci, che già è sera.
Correzione apportata nelledizione elettronica Manuzio:
me se taluno fa proemio per cattivarsi favore = ma se...
XLIX.
DEL LUTTO.
Egli è curioso il considerare le cose che molti uomini dicono e fanno nel lutto, ciò che vien detto
loro per racconsolarli, e come si danno a credere che sia intervenuto un caso intollerabile ad essi
che piangono ed a quelli cui essi rimpiangono. Per Plutone e per Proserpina, essi non sanno affatto
se la morte sia un male di cui debbano addolorarsi, o per contrario sia un bene ed una dolcezza a chi
la sente, ma si abbandonano al dolore sol per seguire una usanza. Poi che uno è morto fanno
così...... ma innanzi tratto vo dire quali idee essi hanno intorno la morte; e così sarà chiara la
cagione di quelle oziose vanità che essi fanno.
La moltitudine, che i saggi chiamano volgo, dando piena fede ad Omero, ad Esiodo, e ad altri
facitori di favole, e tenendo per leggi le costoro poesie, crede che sotterra ci sia un luogo profondo
detto lOrco, grande e vasto assai, e tenebroso e senza sole, onde non so con qual lume ei vedano ciò
che lor pare di vederci. Regna in questa voragine un fratello di Giove, chiamato Plutone, il quale,
come mha detto chi se nintende, ha questo nome, che significa Riccone, perchè è ricco di morti.
Questo Plutone ha stabilito il suo governo e le leggi onde si vive laggiù. Avendo avuto in sorte la
signoria dei morti, ei li raccoglie e li ritiene con legami indissolubili, e non ha permesso mai ad
alcuno la via del ritorno, se non a pochissimi in tutti i secoli, e per gravissime cagioni. Intorno a
questo suo regno scorrono due grandissimi fiumi, terribili anche pe nomi, che si chiamano il Fiume
de gemiti, ed il Fiume del fuoco ardente.(18) Ma specialmente si spande larghissima la palude
Sconsolata che prima sincontra da chi scende, e che non si può tragittare senza il navicellaio;
profonda da non poterla guadare, larga da non passarla a nuoto; e neppure le ombre degli uccelli
possono trasvolarla. In su lentrata ed alla porta di adamante stavvi Eaco, nipote del re, che fa da
custode; e presso a lui un cane con tre teste ed orribili denti, il quale riguarda cheto chi entra, ma
chi tenta di uscire ei gli è sopra terribile coi latrati e con le bocche spalancate.
Valicata la palude, sentra in un gran prato seminato di asfodillo, ed irrigato da un fiume nemico
della memoria, che si chiama Lete, o fiume dellobblio. Tutte queste belle cose furono contate ai
nostri antichi da coloro che ci tornarono di laggiù. Alceste e Protesilao di Tessaglia, Teseo figliuolo
dEgeo, e lUlisse dOmero, testimoni gravi e degni di fede, i quali, credo, non bevvero di quel fiume,
se no, non si sarien ricordati di tante cose. A detto loro adunque Plutone e Proserpina hanno la piena
signoria sovra di tutti: ed hanno molti ministri che con essi governano, e sono le Furie, le Pene, i
Timori, e Mercurio che per altro non ci sta sempre. Stannovi due governatori e satrapi e giudici,
Minosse e Radamanto, ambedue di Creta, e figliuoli di Giove. Costoro quando si raccoglie un buon
numero di uomini dabbene giusti e vissuti virtuosamente, li mandano, come una colonia, nel campo
Eliso a menarvi insieme una vita felice. Quanti trovano malvagi, li danno in mano alle Furie, che li
menano nel soggiorno degli empi, dove sono puniti secondo i loro delitti, ed uh! che pene hanno,
arrotati, arrostiti, dilaniati dagli avoltoi, altri girano legati ad una ruota, altri sollevano sassi per
forza di poppa: Tantalo sta sul palude e non può bere, e il poveretto corre pericolo di morire di sete.
Coloro poi che hanno vissuto una vita di mezzo (e sono moltissimi questi), vanno errando pel prato
senza i loro corpi, ombre vane, e a toccarle, come fumo vaniscono. Si nutriscono delle libazioni che
noi facciamo su i sepolcri: per forma che se qualcuno non ha lasciato su la terra un amico o un
parente, ei sarà un morto che vivrà digiuno ed affamato.
Di queste fole sì forte è persuaso il volgo, che quando muore uno di casa, gli mettono un obolo
in bocca per pagare il nolo del tragitto, senza prima informarsi che moneta corre laggiù, e quanto ci
vale lobolo, e se lattico, il macedonico, o leginese; e senza pensare che saria molto meglio a non
portar nolo, chè così non ricevuti dal barcaiuolo, sarian rimandati alla vita. Dipoi lavano i cadaveri,
come se la palude non bastasse per bagno a quei di laggiù, li ungono con bellissimi unguenti perchè
già putono forte, li coronano dei fiori della stagione, e li espongono vestiti di splendide vesti,
acciocchè non sentan freddo per via, e non si presentino nudi innanzi a Cerbero. Intanto in ogni
parte lamenti e strida di donne, e piangere, e picchiare di petti, e strappar di capelli, e graffiar di
gote: chi si lacera le vesti, chi si sparge la cenere sul capo, e i vivi si conciano peggio dei morti. E
mentre si voltolano per terra, e battono la testa sul pavimento, il morto tutto parato, bello, coronato
di fiori, sta alto e steso nel cataletto, come per esser menato ad una festa. Ed ecco la madre o anche
il padre in mezzo ai parenti, che gettasi sul cadavere (pognamo che sia dun giovane e bello, affinchè
lo spettacolo sia più commovente) e si lascia andare alle più strane parole e sciocche, alle quali oh!
che risponderia il figliuolo se avesse voce. Ohimè! figliuol mio, dice il padre con voce di pianto, e
chiamandolo a nome, o figliuol mio dolcissimo, tu se morto, tu mi sei rapito nel fiore degli anni, e
mi lasci solo e sconsolato. Tu te ne sei ito senza gustar dolcezza di nozze e di figliuoli, non
esercitasti la milizia, non coltivasti i campi, non giungesti alla vecchiezza: non più spassi per te, non
più amori, non più banchetti coi giovani amici tuoi. Queste ed altrettali goffaggini ei dice credendo
che il figliuolo abbia ancora bisogno di queste cose, e che dopo la morte le desideri e non possa
averle. Ma che dico io? Quanti mai su le tombe sgozzano cavalli, e concubine, e coppieri; e
bruciano vesti ed ornamenti, o le sotterrano, come se i morti ne avesser bisogno e ne usassero
laggiù? Ma il vecchio che disse quelle ed altre parole dolorose, non fa tale scena per amor del
figliuolo, perchè sa che quei non lode quandanche ei lo chiami con voce di Stentore: nè la fa per sè
stesso, perchè poteva pensare e sentire così e non gridare, chè nessuno per sè ha bisogno di gridare.
Egli dunque fa quello sciocco tribolo per i circostanti: e non ha saputo mai che era ciò che è
intervenuto al figliuolo, e dove egli è andato, anzi non ha mai considerato che cosa era la vita che
quei viveva, se no la sua dipartita non gli dorrebbe come un gran male.
Oh! se il figliuolo ottenesse da Eaco e da Plutone di poter fare un po di capolino dalla buca
sotterranea per metter fine agli sciocchi lamenti del padre, gli diria: Perchè schiamazzi, o
sciagurato? e perchè mannoi? Smetti di strapparti i capelli, di sgraffiarti la faccia: e non insultarmi
chiamandomi sfortunato e nato sotto cattiva stella, chè io sto molto meglio di te, e sono più beato.
Forse ti sembro io sfortunato che non mi son fatto vecchio, come se tu, tutto calvo, rugoso, curvo,
balenante su le ginocchia, col corpo disfatto dal tempo, e che dopo aver valicato tanti anni e tante
olimpiadi, giungi a fare queste pazzie innanzi tanta gente! O sciocco, e quali piaceri credi che sien
nella vita, e che io non ho più? forse i vini, i banchetti, le vestimenta, gli amori? e temi che io ne sia
privo e dolente? Ma non sai tu che è meglio non aver sete, che bere; non aver fame, che mangiare;
non aver freddo, che posseder molte vesti? Orsù, giacchè tu nol sai, tinsegnerò io come si fa il
tribolo: ricomincia a piangere, e di a questo modo: Povero figliuolo, che non sentirai più nè fame,
nè sete, nè freddo. Infelice, che ti parti da me, e fuggi le malattie, e non temi più nè febbre, nè
guerra, nè tiranno. O disgrazia, che non sentirai più il martello damore, nè più ti sfinirai con le
femmine menando la spola due e tre volte il dì, non diventerai vecchio, e spregevole, e noioso ai
giovani. Se tu dicessi così, o padre, non ti parrebbe di dire cose più vere e più ingenue di quelle che
hai dette? Forse taffanni a pensare che colà siam tutti nelle tenebre ed in un buio grande, e temi chio
non maffoghi così chiuso nel sepolcro? Ma dovresti sapere che gli occhi miei tosto imputriditi o
bruciati (se avete stabilito di bruciarmi) non potran più vedere nè tenebre nè luce. Per me è tuttuno.
A che dunque mi giovano i vostri lamenti, e il picchiare del petto alla cadenza dei flauti, e le
interminabili cantilene delle donne, ed il sepolcro ornato di ghirlande? Che volete voi con coteste
libazioni di vino? credete che ne scenda a noi, e ne goccioli sino nellinferno? Guardate nei sacrifizi
funebri come la parte migliore delle vittime vassene in fumo su verso il cielo, e non giova punto a
noi altri che stiamo giù. Quel che resta è cenere inutile, se pure non vi date a credere che noi ci
cibiamo di cenere. Non è poi così sterile il regno di Plutone, nè abbiamo tanto a schifo lasfodillo, da
pitoccare il vitto da voi. Io vi giuro per Tisifone, che da gran tempo per le cose che voi fate e dite,
io mi sarei sganasciato delle risa, se voi con fasce di lino e di lana non maveste così tutto
imbavagliato.
Dice, e lombra di morte lo ricopre.
Ma per Giove! se il morto levando la testa e poggiandosi sovra un gomito parlasse così, non
avrebbe tutta la ragione del mondo? Eppure gli sciocchi non si rimangono dai clamori, e mandano
per uno che sa comporre canzoni funebri, e conosce tanti antichi casi di morte, e come costui
intuona, essi cantano a coro.
Sino alle lamentazioni quasi tutti i popoli hanno queste usanze sciocche: ma dipoi ciascuno a
modo suo dà sepoltura ai morti: il Greco li brucia, il Persiano li sotterra, lIndiano li unge di certa
vernice lucida, lo Scita li mangia, lEgiziano li sala. Io stesso ho veduto lEgiziano dopo di aver
disseccato il morto, invitarlo a bere e mangiar con lui; e spesso quando non ha danari, ei li cava
dando in pegno il cadavere del padre o del fratello. I sepolcri, le piramidi, le colonne, le iscrizioni
essendo di breve durata, non sono cose inutili e come balocchi di fanciulli? Ed alcuni hanno stabiliti
anche giuochi nei quali si recitano orazioni funebri sovra le tombe, come se volesser fare da
avvocati e da testimoni al morto presso i giudici di laggiù.
Ultimo viene il banchetto nel quale convengono tutti i parenti, a consolare i genitori del morto e
persuaderli a prendere alcun cibo; e questi non si fan molto pregare perchè son digiuni da tre giorni.
Oh, e fino a quando si piangerà? Lascia in pace quellanima beata. E se hai risoluto di piangerla
sempre, per questo appunto devi gustare un po di cibo, per aver forza a sostenere questo gran
dolore. - E allora ricantano quei versi dOmero che quadrano così bene:
Anche lafflitta ben chiomata Niobe
Si ricordò del cibo.
e
Non suol lAcheo pianger col ventre i morti.
E così quelli stendon la mano, non senza una cotal vergogna che essi paiono, dopo la morte dei loro
cari, ancora soggetti alle necessità umane.
Queste e molte altre usanze più ridicole si trovano osservate nel lutto, perchè comunemente si
crede che il maggiore de mali sia la morte.
Correzione apportata nelledizione elettronica Manuzio:
nota 1: e plaude Acherusia = e palude Acherusia
L.
IL PRECETTORE DEI RETORI.
Mi dimandi, o giovanetto, come potresti divenir retore, ed acquistarti questo splendidissimo e da
tutti onorato nome di sofista. Non sai vivere, tu dici, se non rivestirai il tuo discorso di tale una
forza, che ti renda invincibile, e irresistibile, ed ammirato fra tutti, ed insigne, e tragga tutti Greci ad
ascoltarti: e però vuoi conoscere quali sono le vie che menano a questo fine. Volentieri, o figliuolo:
specialmente quando un giovane, che sinvaghisce dellottimo e non sa come conseguirlo, viene,
come fai tu, a chiedere il santo aiuto dun consiglio. Ascolta adunque ciò che io posso dirti, e sta
sicuro che in breve diventerai un valoroso, pronto a pensare espedienti e sporli chiaramente, se
vorrai stare a ciò che io ti dirò, e meditarvi attentamente, ed animoso continuare la via, finchè non
arrivi al termine.
Tu vai in traccia di cosa che non è piccola, nè vuole poca diligenza, ma fatiche assai, e veglie, e
sofferenze dogni sorte per ottenerla. Infatti vedi quanti, che prima erano niente, furono poi gloriosi,
e ricchi, e tenuti anche nobilissimi per la loro eloquenza. Intanto non temere, nè ti sbigottire per
laltezza delle tue speranze, nè credere di dover prima affaticarti in fatiche infinite, chè io non ti
condurrò per una via aspra, e malagevole, che ti faccia sudare, e a mezzo cammino tornare indietro
per istanchezza: altrimenti non sarei dissimile dagli altri, che conducono per quella solita via lunga,
erta, faticosa, e spesso disperata. Il bello del consiglio che io ti do è questo, che per una via
amenissima insieme e brevissima, e carrozzabile, e piana, con ogni sollazzo e spasso, tra praterie
fiorite e sotto fitte ombre, agiatissimamente salendo, ti troverai in cima senza sudare, ti piglierai
gran premio senza una fatica; e quasi adagiato ad un banchetto, guarderai dallalto quelli che messisi
per laltra via stanno ancora al cominciar della salita, e vanno appena arrampicandosi per greppi e
per isdruccioli, e talvolta fanno giù un capitombolo, e si fiaccono il collo su quellaspre pietre: e tu,
che già sei sopra e coronato, sarai felicissimo, avendo in breve tempo e quasi dormendo ricevuti
tutti beni che la Rettorica può dare. La promessa è grande, sì: ma, per Giove protettore dellamicizia,
credimi pure se ti dico che ti additerò una via facilissima e piacevolissima. Se Esiodo cogliendo
poche frondi di Elicona, subito di pastore diventò poeta, e cantò le genealogie degli Dei e degli eroi
inspirato dalle muse, uno non può in breve tempo diventar retore (che è molto inferiore al poeta
magniloquente), se ei conosce una scorciatoia?
E qui mi viene in taglio di raccontarti una invenzione di un mercatante di Sidone, la quale,
perchè non fu creduta, rimase senza effetto, ed inutile a chi ludì. Era già Alessandro signore de
Persiani, dopo che vinse Dario alla battaglia di Arbela. Si doveva per ogni parte dellimpero spedir
corrieri portanti lettere ed ordini di Alessandro. Dalla Persia in Egitto la via era lunga: si doveva
girare certi monti, poi per la Babilonia in Arabia, e valicato lungo tratto di deserto giungere a pena
in Egitto dopo venti lunghe giornate di buon cammino. Dispiaceva questo ad Alessandro, perchè
aveva saputo che gli Egizi avevano fatto un movimento, ed ei non poteva mandar subito i suoi
ordini ai satrapi. Allora il mercatante di Sidone disse: Io ti prometto, o re, di additarti una via non
lunga di Persia in Egitto: se uno sorpassa queste montagne, che si sorpassano in tre dì, subito è in
Egitto. Così era: ma Alessandro non volle credere, e tenne che il mercatante era un ciarlatano. E
così una promessa mirabile pare a molti incredibile. Non fare che avvenga lo stesso a te: vedrai col
fatto che tu facilmente comparirai retore in meno di un giorno, sorvolando il monte tra Persia ed
Egitto.
Ed in prima voglio, come Cebete, dipingerti con le parole un quadro, e rappresentarti luna via e
laltra; chè due vie ci sono, che menano alla Rettorica, della quale tu mi sembri grandemente
innamorato. Sia adunque ella sopra unaltura, assai bella e vistosa, avente nella mano destra il corno
dAmaltea, riboccante dogni specie di frutti: da un lato immagina di veder vicino a lei la Ricchezza,
tutta doro ed amabile: le stieno anche dappresso la Gloria e la Potenza; ed intorno a lei le Lodi,
come Amorini, vadano a gruppi per ogni parte svolazzando. Se mai vedesti il Nilo come molti lo
dipingono seduto sovra un coccodrillo o un ippopotamo, e certi puttini scherzargli intorno, che gli
Egizi chiamano braccia, così sono le Lodi intorno la Rettorica. Ora avvicinati, o innamorato
garzone, che se tanto desideroso di esser subito lassù, per isposarla dopo che vi sarai salito, ed avere
tutto ciò che ella ha, la ricchezza, la gloria, le lodi: chè per legge tutto è dello sposo.
Come ti avvicini al monte, da prima disperi della salita; e ti pare come lAorno parve ai
Macedoni, che lo vedevano dirupato e scosceso dogni intorno, neppure gli uccelli poterlo sorvolare,
volerci Bacco o Ercole per prenderlo. Così ti parrà da prima: indi a poco vedrai due vie: anzi una è
un sentiero stretto, spinoso, aspro, per dove si ha a sudare e gelare; e questo fu già descritto da
Esiodo prima di me, e non bisogna che io ne dica più; laltra è una strada larga, fiorita, fresca, e
quale pocanzi te la dicevo, e non ripeto per non indugiarti, chè già stai per divenir retore. Ma credo
di dovere aggiungere una cosa, che in quel sentiero aspro ed erto non ci ha molte pedate di
viandanti, e se ce nha, sono molto antiche. Ed io poveretto per esso mi messi a salire, e maffaticai
tanto senza pro: laltra via piana e senza impacci, pur da lontano lho veduta come è fatta, e non ci
sono andato; perchè essendo ancor giovane non vedevo il meglio, e credevo dicesse la verità quel
poeta che dice, dalla fatica nasce il bene. E non era così: perchè io vedo molti che sono tenuti de
maggiori per una fortunata elezione di linguaggio e di viaggio. Venuto al capo delle due vie, so
bene che dubiterai, e già dubiti, quale dèi prendere. Quello adunque che devi fare, per salir
facilmente su la vetta, ed essere felice, e sposo, ed ammirato da tutti, te lo dirò io. Per me basta
quanto mi sono ingannato ed affaticato: per te senza seminare e senza arare deve nascere ogni bene,
come al tempo di Saturno.
Tosto adunque ti si presenta un uomo robusto, duro, composto nellandare, abbronzato dal sole,
di sguardo severo e svegliato, il quale essendo la guida di quellaspro sentiero, ti conta il pazzo certe
sue baie, e ti esorta a seguirlo, additandoti a terra le orme di Demostene, di Platone e di altri pochi,
orme grandi sì, e maggiori delle presenti, ma già poco scernibili e scancellate dal tempo, e dirà che
tu sarai beato e legittimamente sposerai la Rettorica, se camminerai sopra di quelle, come coloro
che camminano su le funi; ma se esci anche un po della linea, o pieghi il piè da una banda, sfallirai
la via diritta e che mena alle nozze. Dipoi vorrà che tu seguiti gli antichi oratori, proponendoti ad
esempi le loro orazioni stantie, non facili ad imitare (come sono le statue di vecchio stile, di Egia, di
Crizia e di Nestocle)(19) severe, nervose, dure, e veramente scolpite: dirà ancora che fatiche,
veglie, sobrietà, perseveranza sono necessarie ed indispensabili, e che senza di esse è impossibile
fornir questa via. Ma il più spiacevole è che egli ti prescriverà un tempo lunghissimo per questo
viaggio, anni assai, contando non a giorni nè a mesi, ma ad olimpiadi intere, per modo che chi ode
si stanca prima, e dispera, e non si cura più di quella sperata felicità. E di più dimanderà non piccola
mercede per queste malinconie, e non ti guiderebbe se prima non ricevesse una gran somma.
Questo ti dirà quel vantatore antiquario, e veramente saturnino, il quale ti propone dimitar cadaveri
vecchi, dissotterrar discorsi già sotterrati, e come una gran bella cosa prendere ad esempio il
figliuolo duno spadaio, e laltro che fu figliuolo dun Atrumeto scrivano:(20) e ciò mentre siamo in
pace, nè Filippo ci assalta, nè Alessandro ci comanda, chè forse allora poteva essere utile quel
modo di dire; senza sapere come oggi è divenuta corta, facile e diretta la via della Rettorica. Tu non
gli credere, nè gli badare, se no ei ti menerà a romperti il collo, o almeno ad invecchiare prima de
giorni tuoi in lunghe fatiche. Se davvero sei innamorato, e vuoi goderti la Rettorica, mentre sei
ancora nel fior degli anni, per essere anche amato da lei, volta le spalle a questispido e salvatico,
digli che vi salga egli e quelli che può ingannare, e lascialo affannare e trafelare a suo talento.
E venendo allaltra via tu troverai molti, e tra gli altri uno tuttosavio e tuttobello, di andatura
spezzata, dinoccolato, di sguardatura languiscente, di voce melata, spirante unguenti, grattantesi il
capo con la punta del dito, con pochi ricciuti e imbionditi capelli acconciati sul capo, un mollissimo
Sardanapalo, o un Cinira, o proprio Agatone lamabile poeta tragico.(21) Ti dico tutti questi segni
acciocchè tu possa riconoscere quella divina persona sì cara a Venere ed alle Grazie. Ma che dico?
Se tu stessi con gli occhi chiusi, ed egli accostandosi dicesse qualcosa, aprendo quella sua bocca
dImetto, e mandando la sua voce consueta, ti accorgeresti che egli non è come uno di noi che
mangiamo i frutti della terra, ma un peregrino spirito nutrito di rugiada e di ambrosia. A costui
dunque se ti avvicini, e ti affidi a lui, subito sarai retore famoso, e, come egli dice, sarai acclamato
re delleloquenza, portato su la quadriga delleloquenza. Egli ti accetterà, e prima tinsegnerà quelle
cose...... Ma ti parli egli stesso: chè saria ridicolo se invece di sì gran retore parlassi io, che forse
sarei cattivo istrione per sì gran personaggio, e sbagliando farei cader leroe che rappresento. Parli
dunque egli a te a questo modo, dopo che si avrà lisciato quel po di chioma che gli rimane, ed
acconciata la bocca a quel suo grazioso e delicato sorriso, imitando la Taide della commedia, o
Maltace, o una Glicera nella soavità della voce; chè il tuono troppo maschio è rozzo, e non fa per un
delicato ed amabil retore. E con molta modestia ei ti dirà:
«Forsechè tu, caro, se venuto da me per consiglio di Apollo, che tindicò il migliore de retori,
come, quando Cherefonte lo dimandò, ei gli additò chi era il più savio di quel tempo? E se questo
non è, e vieni alla fama, udendo tutti strasecolare delle cose nostre, e celebrarle, e stupirne, e
venerarle, ben tosto conoscerai a qual uomo divino se venuto. Non aspettarti di vedere uno che tu
possa paragonarlo a questo ed a quello, ma un Tizio, un Oto, un Efialte rispetto agli altri ti parrà un
nuovo e sovrumano miracolo. Chè tanto lo troverai più degli altri risonare, quanto la tromba del
flauto, le cicale delle api, i cori del corista che intona. Ma giacchè vuoi divenir retore, e questo non
potresti meglio impararlo da altri, segui pure, o bimbo mio, ciò che io ti dirò, e attendi bene ad ogni
cosa; e le regole che io ti comando di usare serbami a puntino. Anzi vieni pure avanti senza peritarti
nè sbigottirti, se non sei iniziato in quegli studi che si fa andare innanzi alla Rettorica, e nei quali
tanta fatica e tempo si spende daglinsensati e dagli sciocchi: chè tu non ne hai bisogno. Entra pure
drento senza lavarti i piedi, come dice il proverbio: chè non fa caso, e neppure se non sapessi affatto
di lettera. Oh, ben altra cosa che tutte queste vuole il retore. Ora ti dirò primamente che specie di
roba devi portar di casa tua nella bisaccia per questo viaggio, e che provvisioni fare per giungere
presto: di poi via via che tavanzi alcune cose additandoti, e di altre avvertendoti, prima che cada il
sole, ti farò retore maggiore di tutti, come sono io, senza fallo il primo, il mezzano, e lultimo di quei
che si mettono a parlare. Porta adunque il più che puoi ignoranza, e appresso presunzione, e
arroganza e sfacciatezza: pudore, modestia, discrezione, verecondia lasciale a casa, chè son cose
inutili, e timpacciano. La voce poi sia grandissima, la modulazione impudente, e landare come il
mio. Queste cose sono necessarissime, e sole talvolta bastano. La veste sia fiorita, e bianca,
sottilissimo lavoro tarantino, sicchè trasparisca la persona; la scarpetta ateniese, femminile,
traforata, o un calzarino sicionio guernito di feltro bianco; e poi molti che ti faccian codazzo, e un
libro sempre in mano. E di questo ti dè i compiutamente fornire: il resto, or che sei entrato in questa
strada, vedi ed ascolta. Io ti spiego le regole, alle quali se tu ti attieni, la Rettorica ti riconoscerà ed
accetterà per suo, e non ti ributterà e scaccerà via come profano e spiatore de suoi arcani. Il primo
tuo pensiero devessere una bella figura, ed un leggiadro vestimento: poi scegliere una quindicina o
una ventina al più di parole attiche, e imparatele bene a mente, aver sempre in punta alla lingua il
checchè, il posciachè, il forsechè, il conciossiachè, il caro mio, e cotali altre, e condiscine ogni
discorso come se fossero una dolcezza: e non pensare alle altre, se sono disparate da queste,
estranie, e discordanti: la porpora sola sia bella e fiorita, e non importa che il mantello sia un
pelliccione. Dipoi raccogli parole misteriose, e forestiere, e di rado usate dagli antichi, e scoccale
tra gli ascoltatori; chè così la moltitudine ti rispetterà, ti terranno un uomo mirabile, e che sai molto
più di loro, se dici, stregghiare invece di pulire, assolatiare il riscaldarsi al sole, gaggio il pegno, e
lalba il bruzzolo. Talvolta fa tu parole nuove e strane, e chiama chi sa ben dire il benedetto; un
uomo sennato saggiomentato, un mimo manisavio. Pe solecismi poi e pe barbarismi un solo rimedio
vè, la sfacciataggine: sfodera subito un nome dun poeta o duno storico, che non cè, nè cè stato mai,
il quale faccia autorità che così si dee dire, ed era un uomo dotto, che sapeva tutte le squisitezze
della lingua. Leggi, i libri vecchi no, o di quel chiacchierone dIsocrate, o dello sgarbato Demostene,
o del freddo Platone, ma i discorsi moderni, e quelle che chiamano declamazioni, dove ti puoi
arricchire, e poi sfoggiare e sparpagliare, prendendo come da un pieno magazzino. Quando devi
parlare, e gli uditori ti danno gli argomenti da ragionarvi, per difficili che questi sieno, tu parla di
tutto, e sprezza tutto, come cose che non si dovevano proporre, e senza indugiare, di ciò che ti viene
alla lingua, non pensando affatto quale cosa è prima e va detta in primo luogo, quale in secondo, e
quale appresso, ma di prima quel che cade prima, se anche ti venisse detto gambiera in capo, ed
elmo in gamba: seguita pure, e parla, e bada solo di non tacere. E se parli in Atene di qualche stupro
o adulterio, di pure ciò che si fa in India e in Ecbatana: ma sopratutto ci sia Maratona e Cinegira,
che non debbono mancar mai; e sempre si navighi monte Ato, e si tragitti a piè lEllesponto, e il sole
sia oscurato dalle saette de Medi, e Serse fugga, e Leonida sia celebrato, e si leggano le lettere di
Otriade, e si ripeta sempre Salamina, Artemisio, Platea, e molte altre battaglie: poi quelle tali
parolette hanno a spiccare e rifiorire, e quel continuo checchè, e in fe mia, ancorchè non ci vadano,
perchè sono belle anche dette a caso. Se poi talvolta ti pare che ci bisogni la cantilena, e tu di tutto
in cantilena; e quando anche non centra il canto, tu chiama per nome i giudici ad uno ad uno in
cantilena, e credi pure che sarà armonia compiuta. Mettici spesso quellohimè, ohimene! e battiti
lanca, e trilla, e gorgheggia, e passeggia, e culeggia. E se non ti applaudiscono, sdegnati e sgridali;
se stanno in piedi e per un po di vergogna non se ne vanno, comanda che si seggano; insomma fa da
signore assoluto. Acciocchè poi il volgo ammiri la tua eloquenza, comincia da Troia, o dalle nozze
di Deucalione e Pirra se vuoi, e così scendi a parlare de tempi moderni. Perchè glintendenti son
pochi, e la maggior parte per benignità si taceranno, e se diranno qualcosa, parrà che lo facciano per
invidia: ma la moltitudine ammira il portamento, la voce, lo spasseggiare, il culeggiare, la cantilena,
la scarpetta, e quel tuo scoccante checchè; e vedendoti sudare ed affannare non potranno non
credere che tu sei un terribilissimo atleta nel parlare. Ma principalmente il dire improvviso fa
moltissime cose scusare, e molte ammirare dalla moltitudine: onde bada di non scrivere mai, nè
pensare prima di presentarti ad aringare; se no lo scacco è certo. Gli amici poi ti battan le mani
sempre, e ti ricambino dei desinari, porgendoti una mano se saccorgono che stai per cadere, ed
aiutandoti a trovare quel che hai a dire neglintervalli degli applausi. Chè devi pensare anche a
questo di avere un coro tuo privato e concertato, il quale ti presti questufficio mentre parli; e
quandesci facciano ala e corteo intorno a te, che fra loro vai ragionando di ciò che hai detto. E se
qualcuno ti scontra per via, digli mirabilia di te, lodati e vantati da fargli increscere di te
buonamente: Chi era il vostro Peaneo(22) a petto a me? e chi degli antichi può starmi a paragone? e
cotali altre iattanze. Ma il meglio ed il più necessario per divenir famoso, quasi quasi me lo
scordavo: disprezza tutti i dicitori, e se uno parla bene: Oh, ei pare che sfoggia dellaltrui non del
suo; se si porta mediocre: Vah, non ci è di buono niente. Dove si recita qualche discorso, tu entra
ultimo di tutti per farti distinguere; e mentre tutti tacciono tu appiccavi una lode sperticata da
rivolgere lattenzione dei presenti, e conturbarli, sì che a tutti venga la nausea per le parole
spropositate, e si turino gli orecchi. Non battere spesso le mani, che è bassezza; nè ti rizzare, se non
due o tre volte al più; sorridi spesso; e fa vista che non ti quadra ciò che si dice: calunniatore che
ascolta trova mille appiccagnoli. Per tuttaltro devi star di buon animo: chè laudacia, limpudenza, la
bugia pronta, il giuramento sempre a fior di labbra, linvidia contro di tutti, lodio, la maldicenza, le
calunnie verisimili ti renderanno celebre in poco tempo e famoso. Questo in pubblico: in privato poi
ti è lecito fare ogni cosa, giocare a dadi, imbriacarti, sporcizie, adulterii; o vantartene se non ne hai
fatte, e parlarne con tutti, e mostrar letterine come scritte da donne. Chè devi fare il bello, e dare a
credere che le donne sono spasimate di te; e così dirassi che la tua Rettorica ha questa virtù di farti
conoscere sin nei quartieri delle donne. Nè vergognarti di unaltra cosa, che per unaltra tua virtù sei
amato dagli uomini, tutto che con la barba, e calvo; anzi abbi teco alcuni a questo effetto: e se non
lhai, i servi bastano. Questo gioverà moltissimo alla Rettorica, perchè ti accrescerà la sfacciataggine
e larroganza. Vedi come più ciarliere sono le donne, e garriscono più degli uomini? Se fai come
esse, vincerai gli altri anche in questo. Ed altresì bisogna pelarti tutte le parti del corpo, e se non
tutte, almeno quelle.... La bocca poi ti sia piacevolmente dischiusa a tutto, e la lingua ti serva non
pure a parlare, ma a ciò che ella può fare. E può non solamente sgrammaticare, e barbareggiare, e
chiacchierare, e spergiurare, e sparlare, e calunniare, e mentire, ma la notte fare un altro servigio, e
specialmente se non puoi bastare a molti amadori. Tutto sappia fare, sia veramente feconda, e non
ischifi nulla. Se queste cose, o giovanotto, imparerai bene (e puoi, chè non sono difficili) io ti
prometto sicuramente che tu fra non molto riuscirai un ottimo retore, e come me, sputato. Del resto
non ti debbo dire io quanti beni tosto ti verranno dalla Rettorica. Vedi me: io ero figliuolo di padre
oscuro, e non schiettamente libero, che aveva servito più che rasoio e cesoie,(23) e di madre che
faceva la sartora ad una cantonata; e benchè io non fossi per leggiadria un putto da scartare, da
prima pure mi messi con un amadore misero ed avaro che mi dava il solo mangiare. Ma come vidi
che questa via era facilissima, ventrai, e tosto mi trovai in cima (perchè non lo dico per vanto, ma la
provvisione che tho detta, io laveva tuttaquanta, e arroganza,
e ignoranza, e impudenza), primamente non mi chiamai più Potino, ma mi messi uno de nomi de
figliuoli di Giove e di Leda;(24) dipoi avendo presa dimestichezza con una vecchia, mempiea la
pancia in casa sua, facendo linnamorato di una donna dottantanni, che aveva soli quattro denti in
bocca e legati con oro. Ma la povertà mi faceva sostenere quella fatica, e la fame mi rendeva
dolcissimi i baci di quel cataletto. E poco mancò che io non divenissi erede di quanto ella aveva, se
un mariuolo di servo non lavesse avvertita di un veleno che avevo comperato per lei. Scacciato
immantinente, pure non mancai del necessario: mi messi a fare il retore, ed affaccendarmi nei
giudizi, spesso intendendomela con le due parti, e promettendo ai gonzi il favore dei giudici. Molte
cause perdo, ma ho anche palme verdi su la porta, e intrecciate a corona: e queste mi servono come
ésca per chiappare gli sfortunati che mi capitano. Ma quellessere odiato da tutti, e conosciuto per
malvagità di costumi, e prima per malvagità di parlare, quellessere mostrato a dito, e dirmi: Ve
questi è colui, quella cima di tutti i furfanti! che vuoi che ti dica? a me pare una gran cosa. Questi
sono i precetti che io ti do, e ti giuro per Venere popolare,(25) che io già me ne giovai, e ne
acquistai non poca riputazione.»
E basti: così detto, il valentuomo finirà. Tu se ti persuaderai di questi detti, fa conto di essere
giunto dove da prima desideravi di venire, e non ci sarà più ostacoli, seguendo questa regola, a
vincer cause ne tribunali, ad essere applaudito dalla moltitudine in parlamento, ad essere amato e
sposare non una vecchia commediante, come il tuo duca e precettore, ma una donna bellissima, la
Rettorica; sicchè potrai dire di te, meglio che Platone non disse di Giove, che anderai pe cieli sovra
un cocchio alato. Io che sono un uomo di piccolo affare, e timido, rimarrò lontano dalla vostra via, e
cesserò di pretendere alla Rettorica, non avendoci il garbo e le disposizioni vostre. Anzi ho già
cessato. Abbiatevi pure la vittoria senza polvere, e gli applausi: ma ricordatevi duna cosa, che voi
sembrate più celeri di noi, non perchè ci vinceste in velocità, ma perchè pigliaste la via più facile ed
il pendio.
LI.
IL VAGO DI BUGIE,
o
LINCREDULO.
Tichiade. Sai dirmi, o Filocle, qualè la cagione che fa molti tanto ghiotti della bugia, che hanno
un diletto a non dir mai una cosa vera, e ad ascoltare più attenti chi le conta più sperticate?
Filocle. Molte, o Tichiade, sono le cagioni che muovono gli uomini a dir la bugia, riguardando
alla loro utilità.
Tichiade. Questo non ci ha che fare. Io non ti parlavo di quelli che mentiscono per cagione di
unutilità: chè ei sono scusabili, e talvolta anche lodabili coloro che o ingannarono i nemici, o con
questo rimedio si cavarono da un pericolo di vita; come sovente fece Ulisse per salvare la vita sua, e
ridurre a salvamento i compagni. Ma io ti parlo di quelli che senza alcuna utilità preferiscono alla
verità la bugia, vi trovano un piacere, e ne usano così senza necessità alcuna. Costoro io vorrei
sapere per qual cagione fan questo.
Filocle. Ed hai tu conosciuti di questi tali che naturalmente hanno una passione per la bugia?
Tichiade. Oh, ce ne ha tanti!
Filocle. Che altro che una stoltezza devessere la cagione che essi non dicono la verità, se invece
del meglio si appigliano al peggio?
Tichiade. Non è questo: perchè io potrei indicarti molti uomini di senno e di non comune
intelligenza, così perduti di questo vizio e così amanti della bugia, che proprio mincresce, come
essi, che son dotati di tutte le buone parti, abbiano poi un piacere matto ad ingannare se stessi ed
altrui. Tu devi sapere meglio di me che quegli antichi Erodoto, e Ctesia di Cnido, e prima di essi i
poeti, ed Omero stesso, illustri uomini, hanno scritto bugie, ed hanno ingannato non pure gli uomini
del tempo loro, ma hanno fatto giungere sino a noi quelle bugie, come uneredità conservata in
bellissimi versi. Sovente mi fanno arrossire per essi quando contano del taglio di Urano, delle
catene di Prometeo, della rivolta dei Giganti, e di tutti gli spauracchi dellinferno; e come Giove per
amore divenne toro o cigno; come una donna fu mutata in uccello, unaltra in orsa; e poi del Pegaso,
e della Chimera, e delle Gorgoni, e dei Ciclopi, e daltrettali strane e portentose favolette, buone ad
acchetare i bimbi che si spauriscono della befana e del lupo. E pei poeti passi pure; ma che le città
intere ed i popoli dicano bugie, come non riderne? I Cretesi non hanno rossore di additare una
tomba di Giove; gli Ateniesi dicono che Erittonio sbucò della terra, e che i primi uomini
sbocciarono dalle zolle dellAttica, come civaie; e con maggiore gravità i Tebani contano che
seminati i denti dun serpente ne germinarono gli uomini. E chi non credesse che tali sciempiezze
son vere, e ripensandovi un po credesse che solo un Corebo o un Margite può persuadersi che
Trittolemo fu trasportato per aria da dragoni alati, che Pane venne dArcadia per combattere con gli
Ateniesi a Maratona, che Oritia fu rapita da Borea, costui parrebbe loro un empio, e un insensato
che non aggiusta fede a cose così chiare e vere. Tanto può la bugia!
Filocle. Eppure i poeti, o Tichiade, e le città sariano scusabili, perchè i poeti mescolano nei loro
scritti lattrattiva bellezza della favola per cattivarsi gli ascoltatori; e gli Ateniesi, i Tebani, e gli altri
popoli rendono più venerande le loro patrie con queste finzioni. Se si togliesse di Grecia queste
favole, quei che le contano si potrian morire di fame, chè i forestieri non vorrebbono udire il vero
neppure gratuitamente. Coloro poi che senza una cagione simigliante si piacciono della bugia, ben
meritano dispregio da tutti.
Tichiade. Sì: ed io ora vengo da quel valentuomo di Eucrate, che mha contato cose grandi di
miracoli e di favole. Non ne potevo più, e me ne sono fuggito come se avessi avuto le furie alle
spalle, mentregli contava ancora prodigi e stupori.
Filocle. Eppure, o Tichiade, Eucrate è uom degno di fede, e non si crederia mai che egli di sì
gran barba, di sessantanni, e di tanto studio in filosofia, sofferisse di udire da altri una bugia, non
che usasse di dirne egli alcuna.
Tichiade. Tu non sai, o amico mio, quante ne ha dette, come voleva farle credere, come giurava
ed attestava pe figliuoli che erano lì presenti: onde io lo guatavo, e non sapeva che pensare, se egli
allora era pazzo e fuori del suo naturale, o se egli è stato sempre un impostore, ed io da tanto tempo
non mero accorto che è una ridicola scimmia vestita duna pelle di lione. Sì grosse le sparpagliava!
Filocle. Dimmi, per Vesta, che contava egli, o Tichiade? Chè io voglio conoscere quanta
ciurmeria ei ricopre sotto quella barba.
Tichiade. Una volta, o Filocle, io solevo andare da lui quando non avevo troppo che fare:
stamane dovendo essere con Leontico, che è mio amico come tu sai, ed avendo udito dal servo che
egli era uscito per tempo ed andato a visitare Eucrate infermo, io sì per abboccarmi con Leontico, e
sì per vedere Eucrate, di cui non sapevo la malattia, sono andato da costui. Non vho trovato
Leontico, che mhan detto, se nera ito allora allora, ma una buona brigata: tra gli altri Cleodemo del
Peripato, Dinomaco lo stoico, e quel Jono che nelle dottrine di Platone vuol essere tenuto mirabile,
e come il solo che ne ha ben inteso i pensieri e può spiegarli agli altri. Vedi che uomini ti dico, che
cime di sapienza e di virtù, il fiore di ciascuna setta, che pur con laspetto mettono riverenza e
timore. Vera ancora il medico Antigono, chiamato forse per la malattia. Eucrate pareva già stare
meglio: la sua malattia era di quelle che nascono con luomo: lumore gli era disceso di nuovo ai
piedi. Siedi vicino a me sovra il letto, mi ha detto Eucrate facendo la voce bassa e fievole, al
vedermi, quando che entrando io lavevo udito gridare e disputare: ed io badando di non toccargli i
piedi, e scusandomi, come si suole, che non sapeva del suo male, e che saputolo era corso subito a
visitarlo, me gli sono seduto vicino. Sera ragionato, ed ancora si ragionava della malattia, e
ciascuno proponeva qualche rimedio.
E Cleodemo ha detto: Se dunque uno con la mano sinistra alza di terra il dente duna donnola
così uccisa come vho detto, e ravvoltolo nella pelle dun lione scoiato di fresco, lapplica intorno le
gambe, subito cessa il dolore. - Non in pelle di lione so io, ha risposto Dinomaco, ma di cerva ancor
vergine ed intatta: e così persuade meglio, perchè la cerva è veloce, ed ha tutta la sua forza nei
piedi: il lione è forte, sì; ed il suo grasso, la branca destra dinnanzi, e i peli ritti della giubba, hanno
una gran virtù se si sanno usare con certi particolari incantesimi, ma non sono indicati per sanare i
piedi. - Anche io, ha ripreso Cleodemo, sapevo così una volta, che si deve adoperare la pelle di
cerva, perchè la cerva è veloce: ma poco fa un Libio, dottissimo in queste cose, mha insegnato
meglio, dicendomi che i lioni sono più veloci delle cerve. Altro! ei mi disse: i lioni le cacciano, e le
pigliano. E la brigata: Bravo, il Libio dice bene.
Allora io ho detto: E credete voi che il dolore cessi per incantesimi, o per rimedii esterni, quando
il male è dentro? - Hanno riso alle mie parole, e parevano compatir buonamente alla mia grande
ignoranza, chè non sapevo cose sì chiare, e che nessun uomo di senno direbbe che non sono così.
Nondimeno il medico Antigono pareva compiaciuto della mia risposta; perchè egli da molto tempo
non curava Eucrate coi rimedii dellarte, ma gli aveva prescritto di astenersi dal vino, cibarsi di
legumi, e togliere ogni irritazione. - Ma Cleodemo con un cotal risolino: Che dici, o Tichiade? Ti
sembra incredibile che questi mezzi rechino qualche utilità nelle malattie? - Ed io: Oh, sì; neppure
un bimbo col moccolo al naso potria credere che rimedii esterni e non aventi niente che fare con le
cause interne delle malattie, uniti a certe parolette, come voi dite, e a certi incantesimi, hanno
grande efficacia, e dove sapplicano sanano. Cotesto non può essere, neppure se nella pelle del lione
di Nemea savvolgessero sedici donnole intere: ed il leone io lho veduto spesso zoppo per dolori,
quantunque stesse dentro tutta la sua pelle. - Tu sei molto ignorante, ha ripreso Dinomaco, se hai
trascurato di apprendere cotali rimedii, e in che modo sadattano per guarire le malattie: e credo non
ammetterai neppure che si taglia la febbre periodica, che sammansisce lerpete, che si sanano i
bubboni, e tante altre cose, che anche le vecchierelle le fanno ognidì. Or se tutte queste cose si
fanno, perchè non crederai che si facciano quelle per simigliante virtù? - Adagio alle conchiusioni,
o Dinomaco, ho detto io; e non cacciare, come si dice, il chiodo col chiodo. Ciò che tu dici farsi,
non è dimostrato che si faccia per questa virtù. Se prima non proverai con buone ragioni poter
essere naturalmente che la febbre o il tumore hanno paura dun nome sacro o duna parola barbarica,
e che per questa paura il bubbone se ne fugge dallanguinaia, tu non mi conterai altro che favole di
vecchierelle. - E Dinomaco: Parmi a quel che dici che tu non credi neppure negli Dei, se non credi
possibili le guarigioni per virtù di parole sacre. - Cotesto non dirlo, o caro mio, ho risposto: perchè
niente ripugna che gli Dei esistano, e che queste cose sieno false. Io venero gli Dei, e vedo le
guarigioni che operano, e i benefizi che fanno agli ammalati, risanandoli coi rimedii e con la
medicina. Ed Esculapio stesso ed i suoi figliuoli curavano gli ammalati con farmaci benigni, non
legandoli con lioni e con donnole.
Altro che Esculapio, ha detto Jono: vi conterò io un fatto maraviglioso. Io ero ancor garzonetto
forse dun quattordici anni: uno venne a dire a mio padre che Mida il nostro vignaiuolo, servo
robusto e laborioso, in su lora che vè più folla in piazza, era stato morso da una vipera, e che
giaceva a terra con una gamba già cancrenata. Legando egli i tralci intorno ai pali, la serpe gli si
avvicina, lo morde nel dito grosso del piede, e subito si rimbuca: e quel poveretto mandava alte
grida, e moriva di spasimi. Dopo questa novella, ecco vediamo proprio Mida portato da suoi
conservi sovra un lettuccio, tutto enfiato e livido, e pareva cancrenato, e respirava appena.
Essendone mio padre afflitto, un amico lì presente a caso: Rassicurati, dissegli, anderò io per un
Babilonese di quelli detti Caldei, il quale te lo risanerà subito. Per non farvela lunga, venne il
Babilonese, e risuscitò Mida, cacciandogli con un incantesimo tutto il veleno dal corpo, e
applicandogli al piede una pietra rotta da una colonna del sepolcro duna vergine. E questo è niente.
Mida stesso alzò di terra il letto su cui lavevano portato, e se ne tornò nei campi: tanta potenza ebbe
quellincantesimo e la pietra di quella colonna. Egli fece ancora altre cose veramente prodigiose.
Una mattina uscì in una campagna, e pronunziando sette parole che erano in un suo libraccio
vecchio, purificata prima quella regione con zolfo ed una face, e giratala per tre volte, fece uscire
quanti rettili erano in quei dintorni. Venivano come tirati da quellincantesimo moltissimi serpenti, e
aspidi, e vipere, e ceraste, ed aconzie, e botte, e rospi. Rimaneva un solo dragone antico, che per la
vecchiaia non potendo trascinarsi, non aveva ubbidito al comando. Il mago disse che non erano tutti
presenti, e scelto il più giovane serpentello, lo mandò ambasciatore al dragone, che indi a poco
anchesso venne. Come furono tutti raccolti, il Babilonese soffiò sovressi, e a quel soffio tutti
diventarono cenere, e noi attoniti per lo stupore.
Ed io: Dimmi, o Jono, quel serpentello ambasciatore menava per mano quel vecchione di drago,
o questo ci venne appoggiato ad un bastone?
Tu, motteggi, disse Cleodemo; io ero più incredulo di te su queste cose una volta, e mi pareva
che per nessun modo vi si potesse credere; ma da che ebbi veduto volare un forestiero, un barbaro,
che si diceva del paese deglIperborei, io ci credetti, e dopo lunga resistenza mi resi. E che altro
potevo fare vedendolo in chiaro giorno volare per laria, camminare su lacqua, passare per mezzo al
fuoco lentamente, come se andasse a spasso?
Tu, ripresi io, tu hai veduto lIperboreo volare, e camminare su lacqua?
Io sì, rispose: anzi aveva gli zoccoli, come li usano colà. Oh, ma queste cose son niente: ei
faceva altro, ispirava amore, evocava gli spiriti, risuscitava le persone morte da più tempo, tirava su
Ecate dallinferno, faceva scender la Luna in terra. Io vi voglio contare ciò che gli vidi fare in casa di
Glaucia figliuolo di Alessicleo. Poco dopo che Glaucia, mortogli il padre, divenne padrone assoluto
del suo, sinnamorò di Criside figliuola di Demeneto. Io ero suo maestro in filosofia; e se quellamore
non me lo avesse sviato, egli ora saprebbe tutta la dottrina del Peripato; chè di diciotto anni sapeva
lanalisi, ed aveva percorsa la fisica tuttaquanta; ma perduto di questo amore, confidò a me le pene
sue. Io, come conveniva a maestro, gli conduco a casa quel mago iperboreo, al quale ei diede
quattro mine subito (chè qualche cosetta si doveva anticipare pei sacrifizi), e ne promise altre
sedici, se giungesse ad avere la Criside. Il mago, aspettata la Luna piena (chè allora
questincantesimi riescono meglio), cavò una fossa in un atrio della casa, e a mezza notte ci chiamò
prima Alessicleo, il padre di Glaucia, morto da più di sette mesi: era assai sdegnato il vecchio per
questo amorazzo, e infuriava, ma infine dovette chetarsi e consentire. Poi tirò su dallinferno Ecate
che conduceva Cerbero, e fece scender giù la Luna che ci apparve in molte forme diverse, prima
prese aspetto di donna, poi divenne una giovenca bellissima, poi si cangiò in cagna. Infine
lIperboreo, rappallottolato un Amorino di creta, Va, disse, e menaci Criside. Lamorin di creta volò:
ed indi a poco ecco battere alla porta, ed entrare la giovane, che come pazza damore abbraccia
Glaucia, e stassi con lui fino a che udimmo cantare i galli. Allora la luna rivolò in cielo: Ecate
sprofondò sotterra, tutto le fantasime sparirono, e noi rimenammo Criside a casa che quasi rompeva
lalba. Se tu avessi vedute queste cose, o Tichiade, ti dico io che ora crederesti nella virtù
deglincantesimi.
Sì, dissi, le crederei se le vedessi; per ora perdonatemi se non ho la vista acuta come la vostra.
Ma io la conosco cotesta Criside, lè una donnetta amorosa e facile, e non vedo a che bisognava per
lei un ambasciatore di creta, un mago iperboreo, e la Luna stessa, se con venti dramme la puoi
menare sino aglIperborei. A questincantesimo si cala ella, tutto al contrario delle fantasime: le quali
al suonare del bronzo o del rame fuggono, come voi dite, ed ella al tintinnir dellargento gettasi. Ma
mi fa maraviglia il mago, che potendo farsi amare dalle più ricche donne, ed averne talenti assai, si
adopera per quattro mine rognose a cavare una voglia amorosa a Glaucia.
Tu così ti rendi ridicolo, disse Jono, non credendo a nulla. Ma io ti dimanderei che dici tu di
quelli che liberano gli ossessi, e pubblicamente scongiurano le fantasime. Non sono cose che le dico
io, ma tutti sanno quel Siro di Palestina, dottissimo in questo, il quale come savviene in coloro che
cadono per mal di Luna, e distorcono gli occhi, e cacciano schiuma dalla bocca, ei li rileva, e per
una buona mercede li manda sani e liberi dal male. Quando ei si avvicina ai giacenti, e dimanda
come il demone è entrato nel corpo, lammalato tace, ma il demone risponde in greco o in barbaro
come e donde egli è entrato in quelluomo: ed egli con iscongiuri, e, se non ubbidisce, con minacce
scaccia il demone. Io stesso ne vidi uscire uno tutto nero ed affumicato.
Non è gran cosa, io dissi, che tu lhai veduto, o Jono, se tu vedi anche le idee di Platone vostro
capoccia, che sono oscure per noi poveri loschi.
Forsecchè solo Jono ha veduto i demoni, disse Eucrate, e tanti altri non li hanno scontrati e di
giorno e di notte? Io non una, ma mille volte ne ho veduti. Da prima ne spiritavo, ma ora che mi ci
sono avvezzo non mi pare più di vedere una cosa strana, specialmente dacchè un Arabo mi diede un
anello fatto del ferro di certe croci, e minsegnò un incantesimo di molte parole: salvo se non credi
neppure a me, o Tichiade.
Oh, come non crederei, dissi, ad Eucrate di Dinone, uomo di tanti anni, che in casa sua discorre
autorevolmente di ciò che gli piace?
Il fatto della statua, disse Eucrate, la quale ogni notte apparisce a tutti di casa, a fanciulli, a
giovani, a vecchi, non solo io lo posso contare, ma tutti i miei familiari.
Di quale statua? risposi.
Ed egli: Non hai veduto entrando nel cortile quella bellissima statua ritta in piè, opera dello
scultore Demetrio?
Forse dici quellatleta, soggiunsi, chinato in atto di lanciare il disco, che si guarda la mano in cui
lo tiene, e piega un po il ginocchio di dietro per dare più forza alla gittata?
Non è desso, rispose: è opera di Mirone quel giocatore di disco, che tu dici: e neppure quellaltra
statua vicina, col capo cinto duna benda, quel bel giovane che è scoltura di Policleto. Ma lascia tutte
quelle che sono a destra entrando, tra le quali i Tirannicidi di Crizia e di Nisioto: hai tu veduto
presso al rivoletto dellacqua quel panciuto, calvo, mezzo nudo, e mezzo coverto dal mantello, con
pochi peli alla barba, con le vene rilevate, che pare proprio un uomo vivo? quello dico; e credo sia
Pelico, capitano de Corintii.
Sì, per Giove, dissi, ne ho veduta a destra di Saturno una tutta armata di bende, di corone
appassite, e col petto dorato di sfoglie doro.
Ed Eucrate: Lho dorato io così, quando in tre giorni mi risanò duna quartana che maveva morto.
Ed io: Era anche medico questo bravo Pelico?
Ei sì, e non celiare, chè subito si può vendicare egli, disse Eucrate: so io che può fare questa
statua di cui tu ridi. Oh, non credi che sta a lui anche il poter mandare la quartana a chi gli piace, se
egli la può levare?
Ed io: Ci sia propizia e benigna questa statua tanto possente. Ma che altro la vedete fare tutti di
casa?
Come è notte, disse, scende dalla base su cui sta, gira per la casa, e tutti lincontrano; talvolta
canta, e non ha fatto mai male a nessuno: solamente bisogna scostarsi, ed egli passa senza dar noia a
chi lo riguarda: spesso si lava, e scherza tutta notte nellacqua, che se node anche lo scroscio.
Bada bene, risposi, che questa statua non sia Pelico, ma il cretese Talo, servo di Minosse, il
quale era di bronzo e andava camminando per Creta. E se questa tua, o Eucrate, non è di bronzo, ma
di legno, ciò non toglie che possa essere non unopera di Demetrio, ma un ingegno di Dedalo, il
quale le faceva che scendono dal loro piedistallo, come tu di della tua.
Bada tu, o Tichiade, che infine non avrai a pentirti di questi scherzi. Io mi ricordo che patì uno
che gli rubò le monete che noi gli offeriamo ogni primo dì di mese.
Allora Jono: Un castigo grande dovette avere questo sacrilego. Come se ne vendicò, o Eucrate?
Vorrei saperlo, benchè Tichiade neppure lo crederà.
E quegli: Molti oboli gli stavano così gittati innanzi ai piedi, e alcune monete dargento gli erano
appiccate con cera ad una coscia, e piastre dargento: tutte offerte e voti di quanti egli aveva risanati
dalla febbre. Avevamo un servo libio, una trista lana di palafreniere, il quale fece disegno di rubarsi
ogni cosa una notte, e la rubò, colto il tempo che la statua era discesa. Come Pelico tornò, subito
saccorse del furto, ed odi in che modo se ne vendicò e fece sorprendere il Libio. Per tutta la notte
quello sciagurato andò girando per latrio, non potendo uscirne come se fosse in un laberinto, finchè
fatto dì fu preso col furto addosso. Convinto del misfatto ebbe non poche battiture: non visse molto,
morì da quel malvagio che egli era; ed era flagellato ogni notte, come ei diceva, sì che la mattina gli
si vedevano i lividori sul corpo. Or va, o Tichiade, e beffa Pelico, e di chio son vecchio quanto
Minosse, e imbarbogito.
O Eucrate, dissio, finchè il bronzo è bronzo, e questa è fattura di Demetrio dAlopeca, che non
faceva Iddii ma statue di uomini, io non temerò mai la statua di Pelico: il quale non temerei neppure
se fosse vivo e meco sdegnato.
A questo il medico Antigono disse: Anchio, o Eucrate, ho un Ippocrate di bronzo, alto un cubito,
il quale quando la lucerna è spenta va per tutta la casa, fa rumore, rovescia i bossoli, mesce i
farmaci, sbatte la porta, specialmente quando trascuriamo il sacrifizio che usiamo di fargli ogni
anno.
Bene, dissio, anche Ippocrate, che fu medico, vuole sacrifizi, e si sdegna se al tempo stabilito
non si fa una scialata delle migliori vittime: eppure ei dovrebbe star contento a qualche libazione
funebre, a un po dacqua e mele, e ad una corona postagli in capo.
Odi ora questo, disse Eucrate, che vidi cinque anni fa, e ne ho testimoni. Era tempo di
vendemmia: ed io verso mezzodì, lasciando i lavoratori a vendemmiare, soletto me ne andai in un
bosco a passeggiare pensando e strologando non so che cosa. Come fui nel più folto, udii da prima
un abbaiar di cani; e credetti che Mnasone mio figliuolo, che soleva sempre divertirsi alla caccia,
fosse venuto coi compagni in quella boscaglia. Ma non era così: dopo un poco ecco un tremuoto, ed
una gran voce come di tuono, e vedo venirmi incontro una donna terribile, alta quasi un mezzo
stadio, con una face nella mano destra, e nella sinistra una spada lunga venti cubiti: allingiù aveva
serpenti per piedi, e allinsù era simile alla Gorgone per la terribilità dellaspetto, e invece di capelli
aveva groppi di serpi che le si avvolgevano intorno al collo, ed alcuni le si attortigliavano anche
intorno agli omeri. Vedete, o amici, come io raccapriccio mentre ve lo racconto?
E così dicendo Eucrate mostrava i peli delle braccia rizzati per la paura: Jono, Dinomaco, e
Cleodemo, a bocca aperta stavano fisi ad ascoltarlo, poveri vecchiardi menati pel naso, quasi
adorassero lo strano colosso, il donnone di mezzo stadio, lo spauracchio di quella gigantessa. Ed io
pensavo tra me: Vedi che uomini insegnano la sapienza ai giovani, e sono in tanta stima
delluniversale! per la sola barba e pei capelli bianchi differiscono dai bimbi: e per tuttaltro anche
più dei bimbi si lasciano infinocchiar con le bugie.
E Dinomaco disse: Dimmi, o Eucrate, i cani della dea quanterano grandi?
E quegli: Più degli elefanti dIndia, neri, pelosi, col vello tutto lordo e brutto. Come io la vidi
ristetti, e rivolsi allintorno del dito la gemma dellanello datomi dallArabo, ed Ecate percosse il
suolo col piè di serpente, vaprì una voragine vasta quanto il Tartaro, e in essa sprofondò e disparve.
Riavutomi dallo spavento, maffacciai su quellabisso, tenendomi ad un albero che quivi era, affinchè
per qualche aggiramento di capo non cadessi giù; e vidi tutto linferno, il fiume di fuoco, il palude,
Cerbero, e i morti, per modo che ne riconobbi alcuni: e vidi benissimo mio padre nelle stesse vesti
che lo seppellimmo.
E che facevano le anime, o Eucrate? disse Jono.
Che altro, ei rispose, se non che per genti e per tribù tra amici e parenti ragionare sdraiati sovra
prati dasfodillo?(26)
E Jono: Contraddicano ora gli Epicurei al divino Platone ed alla sua dottrina delle anime. Ma
Socrate e Platone li vedesti tra i morti?
Socrate sì, quei rispose; ma non lo affermo di certo: lo credetti lui perchè era panciuto e calvo:
ma Platone non lo riconobbi affatto: agli amici debbo dire il vero comè. Mentre io guatavo
attentamente ogni cosa, e la voragine si richiudeva, alcuni de miei servi che mi cercavano, fra i
quali questo Pirria, sovraggiunsero che non era ancora chiusa la voragine. Di, o Pirria, sio dico il
vero.
Sì, per Giove, disse Pirria, ed udii latrati che uscivan di quellabisso, e mi parve di vedervi un
fuoco come duna face.
Io risi del testimone, che del suo vaggiunse i latrati ed il fuoco.
E Cleodemo: Non sono cose nuove queste, nè lhai veduta tu solo: anchio quando non ha guari
fui ammalato, vidi una cosa simile: mi visitava e mi curava Antigono nostro qui. Il settimo giorno la
febbre come infiammatoria era ardentissima: tutti mi avevano lasciato solo, e, chiusa la porta,
aspettavano fuori: così aveva ordinato Antigono, se mai potessi dormire un po. Ed essendo io
svegliato, ecco un giovane oltremodo bellissimo e vestito di bianco, che mi fa levare, e mi conduce
per una voragine nellinferno, dove vidi e subito riconobbi Tantalo, Tizio, Sisifo, e tanti altri, dei
quali a che vi parlo? Poi che fummo innanzi al tribunale (dove erano Eaco, e Caronte, e le Parche, e
le Erinni), uno come un re, (parvemi Plutone), vi si sedette, e recitò i nomi di alcuni che dovevan
morire essendo vissuti di troppo. Il giovane mi presentò, ma Plutone sdegnossi, e disse alla mia
guida: Non ancora è compiuto il filo a costui; però se ne torni. Tu conducimi il fabro Demilo, che
ha già pieno il suo fuso. - Io lieto me ne risalgo; la febbre era già ita: dico a tutti che tra poco saria
morto Demilo, che era nostro vicino, e mavevan detto che era anchegli malato: ed indi a poco
udimmo le strida di coloro che lo piangevano.
Che maraviglia è questa? disse Antigono. Io conosco uno che venti giorni dopo che fu sepolto
risuscitò: e lho curato io prima che ei morisse, e dopo che fu risuscitato.
Come? dissio, in venti giorni non si putrefece il corpo? non si dissolvette, se non altro, per
mancanza di nutrimento? salvo se non hai curato un altro Epimenide.(27)
Mentre così si discorreva sono entrati i figliuoli di Eucrate che tornavano dalla palestra, uno già
adolescente, e laltro su i quindici anni; e salutati tutti noi, si sono seduti sul letto vicino al padre; ed
a me è stata portata una seggiola. Ed Eucrate come ricordandosi di qualche cosa alla vista dei
figliuoli, imponendo sovressi la mano dice: Così possa io vedermi contento di questi figli, come il
vero io ti dirò, o Tichiade. La beata moglie mia, e madre loro, tutti sanno come io lamai; e lho
mostrato in quello che ho fatto per lei, non pure quandera viva, ma poi che ella morì, bruciando con
lei tutti gli arredi suoi, e le vesti che aveva più care mentre visse. Il settimo giorno dopo la sua
morte, io su questo letto, dove ora sono, giacevo, e per consolarmi del mio dolore leggevo
tacitamente il libro di Platone su lanima. Ed ecco entra Demeneta stessa, e mi siede vicino, come
ora sta Eucratide. - Ed additava il minore de figliuoli, che tosto abbrividì fanciullescamente: ed era
già pallido dal cominciare di quel discorso. - Io, seguitò Eucrate, come la vidi, abbracciandola mi
messi a piangere e a lamentare; ma ella mi fece tacere, e mi rimproverò che io le avevo fatto dono
di tutto il suo arredo, e non le avevo bruciato luno dei sandali ricamati doro: e mi disse che stava
sotto il forziere dove era caduto: però noi non avendolo trovato, ne avevamo bruciato uno solo.
Mentre parlavamo ancora, un maladetto cagnuolo maltese, che era sotto il letto, abbaiò, ed ella a
quellabbaiare sparì. Fu trovato il sandalo sotto il forziere, e fu anchesso bruciato. E vorrai ancora, o
Tichiade, non credere a queste visioni così chiare, e che appariscono ogni giorno?
Per Giove! risposi: e meriteriano, come i bimbi, una sculacciata col sandalo ricamato doro quelli
che non ci credono, e non si vergognano di negare queste verità.
In questo mezzo entra il pitagorico Arignoto, con la lunga chioma, con laspetto venerando: tu lo
conosci, quel famoso sapiente cognominato il divino. Come io vidi costui respirai, e dissi tra me:
Ecco la scure che taglierà tante bugie, questuomo sapiente chiuderà la bocca a questi cianciatori
sciocchi! e, come si dice, credetti che un dio per macchina fosse a me mandato dalla Fortuna. Poi
che egli si fu seduto, ritraendosi Cleodemo un cotal poco per dargli luogo, dimandò della malattia; e
udito che Eucrate stava meglio: E di che ragionavate? disse. Entrando vho uditi, e parmi che stavate
sovra un bel ragionamento.
Volevamo persuadere a questuomo di diamante, rispose Eucrate additando me, che ci sono i
demoni, e che le fantasime e le anime dei morti vanno vagando su la terra, e si fanno vedere a chi
vogliono.
Io arrossii e bassai gli occhi per rispetto dArignoto: il quale disse: Bada, o Eucrate; forse vuol
dire Tichiade che solo le anime dei morti violentemente vanno vagando, come quello deglimpiccati,
dei decapitati, dei crocifissi, o di altri che per simigliante modo usciron di vita: ma dei morti
naturalmente no. Se dice questo non dice poi uno sproposito.
Per Giove, rispose Dinomaco, ei crede che di tali cose non ci sia niente, e che niente se ne vegga.
Che dici tu! voltommisi Arignoto con un piglio bieco: non ci è niente di queste cose, quando
tutti, per dir così, le vedono?
Tu fai la causa mia, io risposi: non lo credo, perchè non lo vedo: se vedessi, crederei come voi.
Orbè, dissegli, se vai a Corinto, dimanda dovè la casa di Eubatide, e poi che te lavranno additata
presso il Craneo, entravi, e di al portinaio Tibia che vuoi vedere il luogo donde il pitagorico
Arignoto cavò un demone e lo scacciò, e rendette abitabile la casa.
Che è cotesto, o Arignoto? dimandò Eucrate.
Da molti anni, ei rispose, quella casa era deserta per paura delle fantasime. Chi sattentava di
abitarvi subito era battuto, cacciato, perseguitato da un terribile e spaventevole spettro: onde era
cadente, il tetto sfondato, e la gente si spiritava di pure avvicinarsi. Come io nebbi molto, prendo un
libro (e nho di molti egiziani che trattano di questa materia), e vado a questa casa in su lora del
primo sonno, benchè me ne dissuadesse e quasi mi sforzasse il mio ospite come seppe dove io
andava, che era a un pericolo certo, secondo ei credeva. Ma io con una lucerna in mano e tutto solo
entro, e nel più grande stanzone pongo giù il lume, mi siedo sul pavimento, e mi metto a leggere
tranquillamente. Ed ecco il demone, che credendo di avere a mano un uomo come gli altri e di
spaurire anche me, mapparisce bruttissimo, con lunghi capelli, e più nero della notte. Tenta di
assalirmi per ogni verso per vincermi, e diventa ora cane, ora toro, ora lione. Ma io scoccandogli
una terribilissima maladizione, che pronunzio in egiziano, lo caccio con iscongiuri nellangolo più
scuro dello stanzone. Notai il luogo dove sera sprofondato, e pel restante della notte dormii. Il
dimani mentre tutti mi tenevano per ispacciato e credevano di trovarmi morto come gli altri, io esco
inaspettato a tutti, e vado da Eubatide a dirgli che la casa era purificata, liberata da ogni paura, e
potersi abitare. E conducendo lui stesso, e molti altri che per meraviglia ci seguivano, a quel luogo
dove avevo veduto inabissarsi il demone, feci ivi scavare con zappe e picconi. Non sandò giù un sei
piedi, e fu trovato un antico cadavere, anzi uno scheletro, che noi cavammo di là e seppellimmo: e
da allora in poi la casa non fu più infestata dagli spiriti.
Come ebbe ciò detto Arignoto, che era un celebrato e spiritato sapiente, non ci fu uno della
brigata che non mi desse del pazzo, perchè io non credevo a tali cose, e poi dette da un Arignoto.
Ma io senza un rispetto a quella sua gran chioma e fama: e come, o Arignoto, gli dissi, anche tu sei
uno che fai sperare la verità, e poi dài fumo ed ombra? tu avveri il proverbio: cerchiam tesoro, e
troviam carboni.
Or bene, rispose Arignoto, se tu non credi nè alle mie parole nè a Dinomaco, nè a Cleodemo, nè
ad Eucrate stesso, via, dinne un uomo di maggiore autorità, che in questo dica contrario di noi.
Ed io: Sì, per Giove, quel mirabil uomo di Democrito dAbdera, il quale era così persuaso che
non ci può esser nulla di tutto questo, che essendosi chiuso in un sepolcro fuori le porte della città
per quivi attendere a scrivere e comporre notte e giorno; e alcuni giovanastri per fargli una beffa e
una paura, vestiti di robe nere per sembrare morti e con maschere di teschi, essendogli andati
intorno stranamente saltando e ballonzolando; egli senza turbarsi a quel che facevano, senza
neppure guardarli, ma continuando a scrivere, disse: Basti ora lo scherzo. Tanto fermamente
credeva che le anime uscite del corpo non sono più nulla.
Ciò che tu dici, rispose Eucrate, prova che Democrito era uno stolto se la pensava così. Vi
racconterò io un altro caso avvenuto a me, non narratomi da altri. Forse anche tu, o Tichiade, sarai
sforzato dalla verità del racconto. Quando nella mia gioventù, io ero in Egitto, dove mio padre mi
aveva mandato a studiare, mi venne vaghezza di rimontare a Copto, e di là andare a vedere la statua
di Mennone, per udire quella gran maraviglia dei suoni che ella manda al levarsi del sole. E la udii
mandare non un suono inarticolato come tutti lodono, ma Mennone aprì la bocca e mi diede un
oracolo in sette parole: e se non fosse soverchio i ve le direi quelle parole. Nel rimontare il fiume si
trovò a navigar con noi un uomo di Menfi, uno dei sacri scribi, mirabile per sapienza, e dotto in
tutta la dottrina egiziana. Dicevano che egli era stato ventitre anni negli aditi sotterranei, e aveva
imparata la magia da Iside. - Questi è Pancrate, disse Arignoto, il mio maestro: un sacerdote, tutto
raso, vestito di lino, pensoso, parlante bene il greco, di alta statura, col naso schiacciato, le labbra
sporte, le gambe sottili.
È desso, rispose, è Pancrate. Da prima non sapevo chi ei fosse; ma poi che lo vidi, quando la
barca approdava, far maraviglie grandi, cavalcar coccodrilli, con un richiamo ragunar le belve che
lubbidivano e lo carezzavano brandendo le code, io maccorsi che era un uomo divino. Gli feci
cortesia, me gli avvicinai, e a poco a poco gli divenni amico ed intrinseco, per modo che mi confidò
tutti i segreti suoi, ed infine mi persuase a lasciare tutti i miei servi in Menfi, e andare solo con lui,
dicendomi che di servitori ne avremmo assai. Ed infatti ecco come noi vivevamo. Quando
giungevamo in un albergo ei prendeva la sbarra della porta, o una granata, o un pestello, lo
ravvolgeva in un mantello, vi diceva certe parole, e lo faceva camminare sì che a tutti pareva un
uomo: e quello andava ad attingere lacqua, ci preparava il cotto, ci rassettava le masserizie, ci
faceva tutti i fatti di casa, come un ottimo servitore. Quando non cera più bisogno di servigi, tosto
egli con altre parole tornava granata la granata, e pestello il pestello. Io avevo una grande curiosità,
e non sapeva come fare per imparar questo segreto, il solo che egli mi celasse, essendo facilissimo
in tuttaltro. Un dì appiattatomi in un luogo scuro, udii lincantesimo che era una parola di tre sillabe.
Egli commesse al pestello ciò che si doveva fare, e uscì in piazza. Il dimani mentre egli per sue
faccende stava fuori, io prendo il pestello, lo rivesto, gli dico le tre sillabe, e gli comando di portare
acqua. Poichè ne portò e ne riempì le anfore: Basta, dissi, non portarne più, e torna subito pestello.
Ma niente, non mi voleva più ubbidire, e portava acqua, e ne versava, e allagava la casa. Io non
sapendo che farmi e temendo che se tornasse Pancrate non si sdegnerebbe meco per questo fatto,
prendo unaccetta, e spacco il pestello in due pezzi: ma ciascun pezzo prende un anfora e porta
acqua: onde invece duno diventarono due servitori. In questa giunge Pancrate, che capita la
faccenda, li tornò legni, come erano prima dellincantesimo: e poi senza chio me ne avvedessi di
botto mi piantò.
Ed ora, disse Dinomaco, tu lo sapresti anche fare, mutare in uomo un pestello?
So certamente, ei rispose, ma a mezzo; chè non saprei poi tornarlo come era: e una volta
mandato per acqua allagherebbe la casa.
Non finirete, dissio, questi discorsi vani, e siete uomini vecchi? Se non per altro, almeno per
rispetto di questi fanciulli, serbate ad altro tempo il racconto di tali stranezze e paure, affinchè non
sempiano la testa di terrori e di sciocche favole. Bisogna avere un po di riguardo ai giovani, e non
avvezzarli a udire siffatte cose, le quali poi rimangono loro fitte nella mente, e li rendono paurosi
dogni rumore e pieni di superstizioni.
Oh, a proposito di superstizioni, riprese Eucrate, tu mi fai ricordar duna cosa. E di questo che te
ne pare, o Tichiade, dico degli oracoli, delle profezie, dei responsi divini, dati da alcuni ispirati, o
che si odono uscire dai profondi penetrali, o che la vergine sacerdotessa dice in versi profetando
lavvenire? Neppure a questi crederai? Io non ti voglio dire che io ho un anello sacro con un Apollo
Pitio inciso su la pietra, e che questo Apollo mi parla, per non parere di vantarmi di cose incredibili:
ma ciò che ho udito nel tempio dAnfiloco nella Malea, dove quel semidio in una visione parlò meco
e mi diede certi consigli, ciò che ho veduto io stesso, ben voglio contarvelo a tutti: e poi vi dirò
quali cose vidi in Pergamo, e quali mi furono contate in Patara. Quando io tornavo dEgitto in patria,
udendo che questoracolo della Malea era famosissimo e veracissimo, e che rispondeva in chiare
parole alle dimande scritte in una polizza e consegnate al profeta, io pensai di provare loracolo, e
consultare il dio su lavvenire.
Mentre Eucrate parlava, io vedendo dove la cosa andava a parare, e come non indarno egli aveva
fatto quel gran preambolo su gli oracoli; e di più non parendomi buona creanza di fare io solo il ser
appuntino ad ogni cosa, te lo lascio che dEgitto navigava a vele gonfie verso la Malea. Capii che
non avevan piacere che io stessi lì a rimbeccare lo loro bugie, onde: Io me ne vado, dissi, a cercar
Leontico, chè debbo essere con lui per certo affare. Voi che non siete contenti dei consueti
avvenimenti umani, chiamate pure gliddii che vaiutino a contar favole. Così dicendo sono uscito:
essi lieti e senza impaccio si avran fatta una scialata, una scorpacciata di bugie.
Eccoti, o mio Filocle, ciò che ho udito in casa dEucrate: e, per Giove, come quei che han bevuto
mosto, io nho lo stomaco pieno, ed avrei bisogno di vomitare. Quanto pagherei un farmaco che
avesse virtù di farmi dimenticare le cose udite: perchè temo che se me ne dura la memoria, non mi
venga una malattia. E già non mi pare di vedere altro che Ecate, e demoni, e fantasime.
Filocle. Ed anchio, o Tichiade, ho provato lo stesso effetto al tuo racconto. Dicono che chi è
morso da un cane arrabbiato non solamente egli arrabbia e teme lacqua, ma se morde un altruomo
gli dà la stessa rabbia e lo stesso timore. Così tu che in casa di Eucrate sei stato come morso da
tante bugie, hai morso anche me, e mhai empiuta lanima di demoni.
Tichiade. Rassicuriamoci, o amico: abbiamo contro questo male il gran farmaco della verità e
della retta ragione: usiamolo, e non avrem paura di queste vane e sciocche menzogne.
LII.
IPPIA,
O
IL BAGNO.
Tra i savi quelli specialmente io dico doversi lodare, che non pure parlano acconciamente di
ciascuna cosa, ma con acconce opere confermano quanto promettono con le parole. Tra i medici
non manda un uomo di senno a chiamare in una malattia quelli che sanno ragionar benissimo
dellarte, ma quelli che ci hanno qualche pratica. E musico migliore di chi sintende di ritmi e di
armonie credo che sia chi può egli cantare e citarizzare. Non ti dico niente de capitani che
meritamente furono tenuti ottimi, perchè non solo eran buoni ad ordinare ed animare un esercito,
ma a combattere in prima fila e mostrar opere di mano, come sappiamo che anticamente furono
Agamennone ed Achille, e più tardi Alessandro e Pirro. Che voglio io dire? Non a caso, nè per
isfoggiare istoria ho ricordato di costoro, ma per dire che anche tra i meccanici sono degni di
ammirazione quelli che diventati illustri per la scienza, lasciarono anche opere e monumenti di arte
agli avvenire: perocchè quei che sono bravi solo a parlare, dovrebbero chiamarsi piuttosto saccenti
che sapienti. Così sappiamo che furono Archimede e Sostrato di Cnido, dei quali questi sottomesse
Menfi a Tolomeo senza assedio col deviare e spartire il fiume,(28) e quegli bruciò le triremi de
nemici con la sua arte.(29) E prima di essi Talete Milesio, avendo promesso a Creso di tragittare
lesercito allasciutto, con un suo espediente in una notte deviò le acque del fiume Ali dietro al
campo; ed ei non era meccanico, ma un savio pieno dingegni e bel parlatore. Il fatto di Epeo è
antichissimo; non pure fabbricò il cavallo agli Achei, ma dicesi che vi fosse entrato con essi. Fra
costoro è degno di ricordanza anche questo Ippia dei nostri giorni, uomo nelle scienze dotto quanto
qualsivoglia di quelli che lo precedettero, ragionatore acuto, chiarissimo spositore, ma porge le
opere meglio assai che le parole, e adempie allintenzione dellarte, non come vadempirono i suoi
predecessori, i quali riuscirono bravi, per dirla con una frase geometrica, a costruire sovra una data
retta un triangolo.(30) Eppure ciascuno degli altri essendosi ristretto a qualche opera particolare
della scienza, ed avendola trattata bene, è stato pure in qualche pregio, ma questi che è valente
meccanico e geometra, si mostra anche peritissimo di armonia e di musica, e con tanta perfezione sa
ciascuna di queste arti, che pare come se non sapesse altro che quella sola. La sua teorica de raggi,
della refrazione e degli specchi, e la sua astronomia, nella quale fa che i suoi predecessori paiano
fanciulli a fronte a lui, ci vorria troppo tempo a lodarle. Ma unopera sua che testè ho veduta ed
ammirata descriverò volentieri.
Comune argomento ed ai tempi nostri frequentissimo è la costruzione di un bagno; ma in questo
comune argomento egli mostra un ingegno e un accorgimento mirabile. Il luogo non era piano, ma
tutto scosceso e ripido, ed egli lha agguagliato gettando nella parte bassa una scarpa saldissima per
sorreggere tutta lopera, e assicurar bene le fondamenta delle fabbriche da sovrapporvi; e con molti
contrafforti e barbacani(31) per maggior sicurezza afforzando tutto. Ledifizio poi proporzionato alla
grandezza del luogo, di struttura conveniente ed elegante, con finestre ragionevoli. Il vestibolo alto,
con innanzi le scalee larghe, e piuttosto basse, e comode a montarvi. Entrandovi si trova una sala
comune ben grande, dove possono stare comodamente servitori e donzelli; e a destra alcune
stanzette destinate al piacere, convenientissime ad un bagno, graziosi ricessi e splendienti di molta
luce. Poi viene unaltra sala, che saria soverchia per chi va a lavarsi, ma è necessaria per accogliere i
ricchi signori. Appresso a questa, di qua e di là camerini per ispogliarsi, e in mezzo un salone
altissimo, luminosissimo, con tre piscine dacqua fredda, ornato di pietra laconica, con due statue di
marmo bianco e dantico lavoro rappresentanti Igea ed Esculapio. Andando innanzi ti accoglie una
sala di piacevole tepore, e non di quel molesto calore che tinveste di botto, lunga ed ovale; e a
destra di questa una stanza molto allegra, dove ti puoi ungere piacevolmente, e che ha due usci
ornati di marmo frigio, uno di qua, ed uno di là per dove entrano quei che vengono dalla palestra.
Dopo questa è unaltra sala, la più bella di tutte le sale, dilettosissima per istarvi e sedervi, e vi puoi
dimorare senza nocumento, e voltolarti comodissimamente, ed è tutta splendida di marmo frigio
sino alla soffitta. Poi sentra in un corridoio caldo, incrostato di marmo di Numidia: nel quale è una
stanza bellissima, piena di luce, e fiorita come porpora: e questa ha tre vasche di acqua calda. Chi si
è lavato può non ritornare per le stesse sale, ma uscire allaria fresca per una via più breve, e
passando per una stanza leggermente tiepida.
Tutte queste stanze sono piene di luce e di giorno; di altezza conveniente, e di larghezza
proporzionata alla lunghezza, e in ogni parte rifiorite dalle Grazie e da Venere. Quel che dice il gran
Pindaro,
Allopra cominciata
Metter dobbiamo luminosa fronte,
si potria dire di questo edifizio massime per il lume, lo splendore, e lingegnosa disposizione delle
finestre. Chè questo savio Ippia fece che la sala dellacqua fredda riguardasse a settentrione, e non la
privò dellaria di mezzogiorno; e le altre poi che han bisogno di molto tepore, le espose a Noto, ad
Euro, e a Zeffiro. E che ti dirò delle palestre, e delle guardarobe comuni, donde si giunge presto alle
stanze dei bagni, provvedendo così al comodo ed alla salubrità insieme? Nè si creda che io abbia
preso a magnificare con parole una piccola opera; perocchè in cose comuni immaginare bellezze
nuove io per me tengo che sia argomento di non poco sapere. E così è questopera che il nostro
mirabile Ippia ci ha fatto vedere, la quale ha tutti i pregi che deve avere un bagno, utilità, comodità,
eleganza, proporzione, è accomodata al luogo, solida, sicura; ed inoltre ornata con molto
accorgimento, ha due cessi, molte uscite, e due orologi, uno ad acqua col muggito, un altro a sole.
Vedere tutte queste cose, e non lodare convenevolmente questopera, mi pareva cosa duomo non
pure di poco intelletto, ma ingrato, anzi invidioso: e però io, secondo mio potere, ho voluto
ricambiare donorate parole lopera, e lartista che larchitettava. E se un dio vorrà che ci laveremo in
questo bagno, io sono certo che molti altri con me lo loderanno.
LIII.
DICERIA,
O
BACCO.
Quando Bacco menò lesercito in India (mè permesso, credio, di contarvi anche una favola
Bacchica), dicesi che gli uomini di quei paesi da prima lo disprezzavano tanto che ridevano di
quella venuta, anzi avevano pietà di quellardire, credendo che tosto ei saria stato pesto dagli
elefanti, se si fosse ordinato a battaglia. Avevano forse udito raccontar dagli esploratori strane cose
di quellesercito; che la falange e le squadre erano composte di femmine pazze e furiose, coronate di
edera, vestite di pelle di cerbiatti, con in mano certe asticciuole senza ferro ed anche invogliate di
edera, e certe rotellette leggiere, che davano un rimbombo come pur si toccavano (chè pigliavano i
timpani per scudi); e fra esse alcuni pochi villanotti nudi, che menavano un ballonchio, e avevano le
code e le cornette come quelle de cavretti testè nati. E che il capitano di questo esercito andava
sovra un cocchio tirato da due pantere, era uno sbarbatello, senza neppure le prime calugini alle
gote, con le corna coronate di grappoli, con la mitra avvolta alle chiome, in veste di porpora, e
calzarin dorato: e aveva due luogotenenti; uno vecchietto, basso, grassotto, panciuto, rincagnato,
con orecchi lunghi e ritti, barcollante, appoggiatesi ad una ferula, spesso a cavallo ad un asino, in
gamurra gialla, e questi era un molto gradito suo generale. Laltro, uno strano figuro, dal mezzo in
giù simile ad un becco, con le gambe vellose, le corna in capo, una lunga barba, cruccioso e
impetuoso, portante nella mano sinistra una siringa, e con la destra brandendo un bastone ricurvo,
andava saltabeccando per tutto lesercito: le femmine ne spiritavano, e squassando le chiome
rabbuffate quandei savvicinava gridavano. Evoè; che forse così si chiamava quel loro signore. E che
già quelle femmine rapivano le greggi, e squartavano gli agnelli, e se li mangiavano vivi vivi.
Udendo questo racconto glIndiani ed il loro re si messero a ridere naturalmente, e stimarono di non
uscire a scontrarle e combatterle; ma se si avvicinassero di più, mandarvi le loro femmine: chè per
essi pareva una vergogna vincere femmine pazze, e quel capitanessa mitrato, e quel vecchiotto
ubbriaco, e quel mezzo soldato, e quei ballonzatori nudi, tutta gente da riso. Ma poi che vennero le
nuove che il dio devastava il paese, bruciava le città con tutti gli abitanti, incendiava le selve, e in
breve tempo aveva empiuta tutta lIndia di fuoco (chè il fuoco è arme di Bacco, e lebbe dal fulmine
paterno), allora in fretta presero le armi, e messe barde e freni agli elefanti, e caricatili delle torri,
uscirono ad oste, disprezzanti anche allora, ma irritati e bramosi di mettersi sotto i piedi
quellesercito e quello sbarbatello di capitano. Come furono dappresso e a vista, glIndiani, schierati
gli elefanti in prima fila, fecero avanzar la falange: Bacco stava egli al centro, Sileno guidava lala
destra, e Pane la sinistra. Alle squadre ed alle bande erano assegnati i satiri; il contrassegno per
tutti, levoè. Tosto il picchiar de timpani e lo strepitar dei cembali suona a battaglia, un satiro piglia
un corno e manda un acutissimo squillo, lasino di Sileno dà un bellicoso ragghio, e le Menadi
ululanti si scagliano allassalto, cinte di serpenti, e dalle punte dei tirsi sfoderando il ferro. GlIndiani
ed i loro elefanti subito rivolgendosi, disordinatamente fuggirono, senza neppure aspettare di venire
alle mani, e infine furono vinti e menati prigioni da quelli stessi che pocanzi avevano derisi,
imparando col fatto che non dovevano di prima informazione disprezzare eserciti forestieri.
Ma che centra qui questo Bacco? dirà taluno. Centra, perchè mi pare (e per le Grazie, non
credete che io vada in visibilio, o sia briaco se mi paragono agliddii) che come accadde a
queglIndiani per quelle strane novelle, così accada a molti per i miei discorsi. Udendo dire che io
recito satire, frottole e frasche di commedia, credono che così sia, per non so quale opinione che
hanno di me: ed alcuni non ci vengono affatto, perchè non vale la pena di attendere a rombazzi di
baccanti, e a cavriole di satiri, scendendo dai loro elefanti; ed altri che ci vengono per udire appunto
qualcosa di queste, trovando invece di edera ferro, non sattentano di lodare, turbati dalla novità
della cosa. Ma io a costoro prometto francamente, che se anche ora come già un tempo vorranno
spesso vedere la festa che io fo, e quei bravi bevitori duna volta ricorderanno del sollazzo che
avemmo insieme, e non torceranno il muso pe satiri e pei Sileni, ma beranno a sazietà di questa
tazza; faranno il baccano anchessi, e con noi grideranno levoè. Costoro adunque, essendo libero
ludire, facciano ciò che loro aggrada: io, giacchè siamo in India, voglio contarvi unaltra cosa di quei
paesi, la quale non è estrania a Bacco nè al nostro proposito.
Tra glIndiani Maclei, che su la sponda sinistra dellIndo, se lo guardi con la corrente, pascolando
si stendono sino alloceano; nel loro paese è un bosco chiuso, non di molta estensione, ma fitto, chè
molta edera e viti vi fanno densa ombra. Quivi sono tre fonti di acqua bellissima e limpidissima,
una detta del Satiro, unaltra di Pane, ed unaltra di Sileno. Ventrano glIndiani una volta lanno, alla
festa del Dio, e bevono alle fontane, non tutti a tutte, ma secondo letà, i garzoni alla fontana del
Satiro, a quella di Pane gli uomini, e a quella di Sileno quei che hanno letà mia. Quel che avviene ai
giovani poi che hanno bevuto, e lardire che acquistano gli uomini compresi da Pane, saria lungo a
dire: ma quel che fanno i vecchi, quando bevono di quellacqua, è il caso nostro. Come il vecchio ha
bevuto ed è preso da Sileno, per molto tempo rimane muto, come imbalordito ed ubbriaco; poi a un
tratto la voce gli diventa chiara, il suono acuto, lo spirito canoro, la mutezza gli si cambia in
parlantina; e neppure a turargli la bocca puoi far che ei non parli, e non isciorini lunghe dicerie; ma
le sue parole sono tutte sennate, ed ornate, ed escono come quelle delloratore dOmero, simili a neve
invernale. Nè basta che li paragoni ai cigni per la loro età, ma a guisa delle cicale fanno un dire
continuo e seguíto fino alla sera tardi. Allora, cessata in essi lubriachezza, tacciono, e tornano come
prima. Ma il più nuovo non ve lho detto ancora. Se il vecchio rimane a mezzo il discorso che ei
faceva, perchè il tramonto del sole glimpedisce di condurlo a fine, lanno appresso ribeendo rappicca
il discorso a quel punto dove lanno innanzi lebrezza gli era mancata. Ecco qui, che io come Momo,
do la baia a me stesso, e, per Giove, non ci vorrei aggiungere di più la spiegazione della favola. Voi
già vedete la simiglianza della favola col fatto mio. Onde se è scappato qualche sproposito,
lubbriachezza ci ha colpa; se è venuta detta qualcosa sennata, Sileno certamente era propizio.
LIV.
DICERIA,
O
ERCOLE.
I Celti danno ad Ercole il nome di Ogmio in lingua loro, e dipingono limmagine di questo dio
assai strana. Per essi è un vecchione con la fronte calva, e tutto canuto negli altri capelli che gli
rimangono, la pelle rugosa, arsa e nera, come lhanno i vecchi marinai. Piuttosto lo crederesti un
Caronte, o un Giapeto, o uno degliddii tartarei, e tuttaltro che Ercole. E benchè di questo aspetto,
pure ha le insegne di Ercole; la pelle del leone in dosso, nella mano destra la clava, la faretra
pendente ad armacollo, larco allentato nella sinistra, e in tutto questo è desso Ercole. Sicchè io
credevo che per oltraggio agliddii dei Greci, i Celti guastassero così la figura di Ercole, facendo con
siffatta pittura una vendetta di lui, che una volta invase e devastò il loro paese, quando cercando i
buoi di Gerione, andò scorrendo tra molte genti di ponente. Eppure il più nuovo di quella pittura
non lho detto ancora. Quel vecchio Ercole tira una gran moltitudine di uomini tutti legati per le
orecchie. I legami sono catenelle sottili fatte di oro e di ambra, simili alle più belle collane. E
benchè per sì debil modo condotti, essi non pensano di fuggire, e potrebbero facilmente, nè
resistono affatto o pontano i piè mostrandosi restii dandare innanzi, ma seguono lieti e gioiosi, e
applaudiscono il conduttore, sospingendosi tutti, e volonterosi di prevenirlo allentano quel legame,
e pare che si dorrebbero se ne fossero sciolti. Ma la cosa che mi parve più strana di tutte, ve la
voglio anche dire. Il pittore non avendo dove attaccare gli altri capi delle catenuzze, perchè nella
mano destra il dio tiene la clava, e nella sinistra larco, gli forò la lingua in punta, e così dipinse che
ei li tira, e volge ad essi la faccia, e sorride. Questo quadro io stetti un pezzo a riguardare tra la
maraviglia, lincertezza, e il dispetto. Ma un Celta lì presente, e delle nostre lettere non ignorante,
come dimostrò parlando bene il greco, forse un filosofo di quei paesi: Io, disse, o forestiere, ti
scioglierò lenigma di questa pittura, chè mi sembri molto impacciato per essa. Il parlare noi altri
Celti non crediamo, come fate voi Greci, che sia Mercurio, ma lo rassomigliamo ad Ercole, perchè
questi è molto più forte di Mercurio. E se qui è rappresentato vecchio, non ti sia maraviglia; perchè
soltanto il parlare mostra in vecchiezza la sua piena forza e maturità, se dicono vero i vostri poeti,
che
La mente dei garzoni è sempre in aria;
ma il vecchio
Sa dire qualche cosa più sennata
Che i giovani non sanno.
Così ancora dalla lingua del vostro Nestore scorre il mele; e gli oratori dei Troiani mandan la
gigliata voce, che vuol dire fiorita, chè gigli, se ben mi ricorda, voi dite ad una specie di fiori. Onde
se questo vecchio Ercole, che è il parlare, tira con la lingua gli uomini legati per le orecchie,
neppure te ne dèi maravigliare, sapendo la parentela che vè tra le orecchie e la lingua. Nè questa gli
è stata traforata per fargli ingiuria. Chè io mi rammento, diceva egli, anche di certi giambi di una
commedia, che udii tra voi.
I chiacchieroni tutti
Hanno in punta la lingua traforata.
Insomma noi crediamo che questo Ercole abbia fatto ogni cosa col parlare, essendo egli un
sapiente, ed abbia vinto tutto con la persuasione. E le sue saette sono le parole, acute, dirette, veloci,
che feriscono lanima: infatti anche voi dite che le parole sono alate.
Così il Celta. Ed io quando sul venire qui ripensava tra me se mi stesse bene, in questa età che
sono e avendo da un pezzo dismesse queste declamazioni, di nuovo cimentarmi innanzi a tanti
giudici, opportunamente mi venne ricordato di quella immagine. Chè fino allora avevo temuto non
paresse ad alcuno di voi che io fo cose convenienti ai giovanotti, e in vecchiaia torno alle
fanciullerie: e poi qualche omerico giovane non mi sgridasse, dicendomi quei versi:
La tua forza è disfatta,
La molesta vecchiezza già ti ha colto,
Fiacco è lauriga, e i corridor son lenti.
chiamando così i piedi per celia. Ma quando ripenso a quel vecchio Ercole, mi spingo a fare ogni
cosa, e non mi vergogno che ardisco tanto, benchè io abbia gli anni di quella figura. Onde e forza, e
sveltezza, e bellezza, e quanti altri beni ha il corpo, vadano pur via; ed il tuo Amore, o poeta di
Tejo, Me veggendo incanutito, con quellali orolucenti, Via comaquila sen voli, come gli pare, chè
io non me ne curo più. Ma il parlare vorrei che ora specialmente mi ringiovanisse, fiorisse,
invigorisse, e tirasse per le orecchie quanti più è possibile, e scagliasse frequenti le sue saette, non
essendovi timore affatto che mi resti vuota la faretra. Ecco come io mi conforto nelletà e nella
vecchiezza in cui sono. E per questa cagione ho ardito di ripingere in mare la mia barchetta, che già
da tempo era tirata in terra; e rifornitala alla meglio, mi sono rimesso in mezzo al pelago. Deh,
spirate propizi, o Dei; chè ora specialmente abbiam bisogno di buon vento che ci favorisca e gonfi
la vela; acciocchè, se mai ne parremo degni, taluno dica anche a noi quel verso dOmero:
Oh! quai fianchi tra i cenci mostra il vecchio! (32)
LV.
DELLAMBRA,
O
DEI CIGNI.
Certamente anche voi credeste alla favola, che lambra stilla da alcuni pioppi che sul fiume
Eridano piangono Fetonte, e che quei pioppi erano sorelle di Fetonte, le quali, per il gran lagrimare
sul giovanetto furono mutate poi in quegli alberi, donde ancora goccia il loro pianto, che è lambra.
Veramente anchio udendo contar queste cose dai poeti, speravo, se mai capitassi su lEridano, di
andare sotto uno dei pioppi, ed aprendo il seno della veste raccogliere poche lagrime, e così aver
lambra, Finalmente non ha guari, ma per unaltra faccenda, capitai in quella contrada, e risalendo in
barca lEridano, non ci vedevo pioppi, per guardare che io facessi dognintorno, nè ambra; anzi
neppure il nome di Fetonte sapevano quei paesani. Infatti io mi volli informare, e dimandai: Quando
verremo a quei pioppi che danno lambra? Mi risero in faccia i barcaiuoli, e risposero dicessi più
chiaro ciò che volevo. Ed io contai loro la favola, come Fetonte era un figliuolo del Sole, e fattosi
grandicello chiese al padre di guidare il carro, per fare anchegli una sola giornata: il padre glielo
diede; ma ei ribaltò e morì; e le sorelle sue piangenti in qualche luogo di questi, dicevo io, perchè ei
cadde sullEridano, diventarono pioppi, e piangono lambra sovra di lui. Qual bugiardo e carotaio ti
ha contato questo? risposero. Noi non vedemmo mai alcun cocchiere ribaltato, nè abbiamo i pioppi
che tu dici. Se fosse una cosa simile, credi tu che noi per due oboli vorremmo remare, o tirar le
barche contracqua, potendo arricchirci con raccogliere le lagrime dei pioppi? Queste parole mi
colpirono forte; e tacqui scornato, che proprio come un fanciullo cera caduto, a credere ai poeti che
dicono le più sperticate bugie, e non mai una verità. Ora fallitami questuna speranza non piccola, mi
affliggevo come se lambra mi fosse proprio sfuggita delle mani; perchè già io avevo immaginato
quali e quanti usi ne dovevo fare. Ma unaltra cosa credevo sì davvero di trovarcela, molti cigni
cantanti su le rive del fiume, e di nuovo dimandai ai barcaiuoli, chè si rimontava ancora: E i cigni a
qualora cantano quel melodioso canto, stando su le sponde del fiume di qua e di là? Dicesi che essi
furono uomini, compagni dApollo, e bravi cantatori, e che in questi luoghi furono mutati in uccelli,
e però cantano ancora non dimentichi della musica. E quei con unaltra risata mi risposero: Oggi, o
galantuomo, non la finirai di dire fandonie contro il nostro paese ed il fiume? Noi che andiam
sempre su lacqua, e che da fanciulli facciamo il mestiere su lEridano, di rado vediamo pochi cigni
nei greti del fiume, ma fanno un po di gracchiare sì scordato e sottile, che i corvi e le cornacchie
sono sirene a fronte ad essi: cantare dolce, e come lhai detto tu, nemmeno per sogno labbiamo
udito: e però ci fa maraviglia come nei paesi vostri corrano queste novelle di noi.
Così spesse volte si cade in inganno, prestando fede a chi esagera le cose. Onde anche io ora
temo per me, che voi testè venuti, e che la prima volta mi ascoltate, sperando di trovare non so quali
ambre e cigni nelle cose mie, tra poco ve ne anderete ridendo di chi vi dava ad intendere che vè
tanta bella roba nei miei discorsi. Ma io chiamo in testimonio tutto il mondo, che nè voi nè alcun
altro mi ha udito, nè mi udirà mai, vantarmi delle cose mie. Altri non pochi incontrerete, veramente
fiumi Eridani, su i quali non ambra, ma oro proprio stilla dai discorsi, e sono più melodiosi dei cigni
poetici: il mio dire lo vedete comè, semplice, alla buona, e senza sonorità alcuna. Onde badate che
aspettandovi troppo da me, non vi accada come a quelli che guardando una cosa nellacqua, credono
che la sia tanto grande quanto pare a vederla da su, dilargandosi limmagine per la luce refratta;(33)
quando la cavano fuori, trovandola molto più piccola, se ne dispiacciono. Io dunque ve lo dico
innanzi, e tolgo lacqua, e mi discopro: non vaspettate di cavar fuori qualche gran cosa, o
accagionate voi stessi della vostra credenza.
LVI.
ENCOMIO DELLA MOSCA.
La mosca non è il più piccolo de volatili, se si paragona alle zanzare, ai tafani, e ad altri più tenui
insetti; ma di tanto è maggiore di questi, di quanto è minore dellape. È alata non come gli altri, che
hanno piume per tutto il corpo, e penne più forti per volare, ma come i grilli, le cicale e le api. Ha le
ali duna membrana tanto più dilicata delle altre, quanto una veste indiana è più sottile e morbida
duna greca; e di color cangiante, come i pavoni, se si guarda bene quando si compiace di sciorinarle
al sole. Vola non come i pipistrelli sbattendo lali continuamente, nè come i grilli a salto, nè come le
vespe con violenza e stridore, ma piegasi facilmente per ogni verso che vuole nellaere. Ed ha
ancora unaltra cosa, che non vola in silenzio, ma fa un certo suono, non acerbo come quello delle
zanzare e dei tafani, non ronzante come delle api, non pauroso e minaccioso come delle vespe, ma
di tanto più melodioso, di quanto il flauto è più soave della tromba e dei cembali. Dellaltre parti del
corpo la testa piccolissima è attaccata al collo, e gira intorno, e non è fissa come quella dei grilli; gli
occhi sporti in fuori, e molto simili al corno; il petto ben formato, donde si spiccano i piedi, non
molto stretti come quei delle vespe; il ventre è munito anchesso, come una corazza, di larghe fasce
e di squame. Si difende non con la coda, come la vespa e lape, ma con la bocca, e la proboscide, che
ha come quella dellelefante, e con la quale si pasce, e piglia, e si attacca, e ci ha come una ciotoletta
alla punta: da questa esce un dente, con cui punge, e poi beve il sangue: beve anche il latte, ma il
sangue le è dolce, ed ella non fa punture molto dolorose. Ha sei piedi, e cammina con soli quattro,
usando de due davanti come di mani: ed è bello vederla camminare su quattro piedi, portante tra le
mani sollevata qualche briciola, proprio a guisa umana e come facciamo noi. Nasce non così come
è, ma prima verme, da cadaveri di uomini e daltri animali; indi a poco spicca i piedi, mette lali, e di
rettile diventa volatile: ingravida, e partorisce un picciol verme, che dipoi è mosca. Vivendo in
compagnia degli uomini, nella stessa casa, alla stessa mensa, si ciba di ogni cosa, tranne lolio, che è
la sua morte, se ne beve. Ed essendo di corta vita (chè brevissimo spazio lè assegnato a vivere),
vuole stare sempre in piena luce, e farvi tutti i fatti suoi. La notte sta cheta, e non vola, nè ronza, ma
per paura si raccoglie e non si move. Di accorgimento posso dire che ne mostra assai quando sfugge
il suo insidiatore e nemico, il ragno; il quale lapposta, ed essa lo guarda di fronte, declinando
lassalto, per non essere presa nelle reti, nè cader tra le branche di quellanimaletto. Del suo coraggio
e della sua forza non dobbiamo parlar noi; ma il più magnifico dei poeti Omero, volendo lodare un
fortissimo eroe, non lo paragona per forza al leone, al pardo, al cinghiale, ma alla mosca, per lardire
e lintrepidezza e la perseveranza del suo assalto: e dice ardire non temerità; chè scacciata, dicegli,
non vassene, ma pur torna al mordere. Tanto si compiace di lodare la mosca, che non una volta sola
nè in poche parole fa menzione di lei, ma spesso, ed il verso si abbellisce quando ne ricorda. Ora
descrive uno sciame di mosche che vola sul latte: ed ora quando Pallade svia la saetta da Menelao
acciocchè non lo colga in parte vitale, rassomigliandola ad una madre che veglia sul suo pargoletto
dormente, ei porta unaltra volta la mosca per paragone. E dice anche bellamente che esse vanno in
serrate frotte, e i loro sciami chiama genti. Tanto poi è gagliarda che quando morde, trapassa non
pure la pelle delluomo, ma del bue ancora e del cavallo, e fa male allelefante entrandogli tra le
rughe, e con la sua proboscide, secondo la sua grandezza, offendendolo. Nel mescolarsi e
congiungersi sono liberissime: e il maschio non come i galli monta e scende subito, ma resta molto
tempo a cavallo alla femmina; ed ella porta il marito, e insieme volano per laria così congiunti
senza che il volo li disturbi. Se le mozzi il capo, la mosca vive molto col resto del corpo, e respira.
Ma la più gran cosa che è nella sua natura voglio dirla io, perchè mi pare che Platone questa sola
cosa trascurò nel suo discorso su limmortalità dellanima. La mosca morta, sparsavi cenere sopra,
risuscita, si rigenera, e rivive unaltra vita da capo; cosa da persuadere tutto il mondo che lanima
anche delle mosche è immortale, perchè ella ritorna, e riconosce, e suscita il corpo, e fa volare la
mosca; e cosa che fa tenere per vera la favola di Ermotimo di Clazomene, il quale aveva una specie
di anima che spesso lo lasciava, e se nandava pe fatti suoi, poi tornava, rientrava nel corpo, e faceva
rizzare Ermotimo.
La mosca oziosa e scioperata fruisce delle fatiche altrui, e da per tutto trova mensa imbandita: le
capre sono munte per lei, lape lavora per lei come per gli uomini, e i cuochi per lei condiscono le
più savorose vivande, che ella assaggia prima dei re, e aggirandosi su le mense, banchetta con loro e
gusta di ogni cosa. Covo o nido non fa in un luogo, ma col vagante volo va errando di qua e di là, a
guisa degli Sciti, e dovunque la notte la sorprende, quivi fa casa e letto. Intanto alloscuro non fa
niente, come ho detto, nè facendo cosa suole nasconderla, nè crede turpe ciò che fa in piena luce.
Conta la favola che una volta cera una donna chiamata Mosca, assai bella, ma ciarliera,
chiacchierina, e canterina, e rivale della Luna, che tutte e due erano innamorate dEndimione. E poi
perchè quando il garzone dormiva ella lo svegliava continuamente ruzzando, cantando, ballando,
quei se ne sdegnò, e la Luna che lodiava la mutò in mosca: e però essa ora rompe il sonno a tutti
quei che dormono, ricordandosi ancora di Endimione, e specialmente ai più giovani e più delicati. E
quel suo mordere, e quel suo desiderio di sangue non è ferocia, ma segno di amore che porta ai
giovani, dei quali ella gode come può, e ne sfiora la bellezza. Fu ancora negli antichi tempi una
donna di questo nome, poetessa, molto bella e savia. Ed unaltra cortigiana famosa in Atene, della
quale il comico poeta diceva:
Questa Mosca gli ha morso proprio il cuore.
Così la comica leggiadria non isdegnò, e la scena non ributtò il nome della mosca: nè i genitori
hanno a vergogna di chiamare così le loro figliuole. Anzi con grande lode la Tragedia ricorda della
mosca in quei versi:
Oh che brutta vergogna! Anche la mosca
Con forte petto salta addosso alluomo,
Ghiotta di sangue; e voi uomini armati,
Voi sbigottir delle nemiche lance!
Avrei molte cose a dire di Mosca la Pitagorica, se la sua istoria non fosse nota a tutti. Ci sono
ancora alcune mosche assai grandi, che alcuni chiamano soldatesche, ed altri canine: fanno un
asprissimo ronzio, ed hanno un volo velocissimo; vivono lungamente, e durano tutto linverno senza
cibo, standosi attaccate specialmente alle soffitte. Una cosa è maravigliosa in queste, che esse fanno
insieme e da maschio e da femmina, e montano ciascuna alla sua volta, come quel figliuolo di
Venere e di Mercurio, che aveva doppia natura e doppia bellezza. Molto altro avrei da dire, ma
basta qui, per non fare, come dice il proverbio, duna mosca un elefante.
LVII.
CONTRO UN IGNORANTE,
CHE COMPERAVA MOLTI LIBRI.
Eppure il contrario di quel che tu vuoi è quello che tu ora fai: credi di passare per dotto
comperando a più potere i migliori libri, e tavviene il rovescio, che questo appunto è un indizio
della tua ignoranza. Principalmente perchè non i migliori tu compri, ma presti fede a chiunque te li
loda, e sei diventato un tesoretto per queste birbe di contraffattori, un guadagno bello e preparato pe
librai. E come potresti altrimenti conoscere quali sono antichi e pregiati, e quali viziati e guasti, se
ne argomenti dal vederli intarlati e bucati, e ti consigli con le tignuole per farne giudizio? chè
dellesattezza e veracità loro che diamine tu puoi sapere? Ti voglio concedere che sappi discernere
quelli che Callino con bella mano, e il celebre Attico con somma accuratezza scrivevano; che ti
giova, o bella gioia, il possederli, se non ne conosci la bellezza, nè puoi usarne, più che un cieco
non goderebbe della bellezza dun garzone? È vero che tu ad occhi aperti guardi i libri, e te ne sazi, e
ne leggi alcuni molto scorrendo, e locchio va innanzi alla bocca; ma questo non mi basta se tu non
conosci dovè buono, dovè cattivo uno scritto, non ne comprendi il concetto generale, e lordine delle
parole, quelle che lo scrittore ha adoperato secondo la buona regola, e quelle che sono magagnate, e
bastarde, e falsate. Dirai forse che queste cose, senza imparare, le conosci? Oh, e come? avesti mai
dalle Muse un ramuscel di lauro, come lantico pastore?(34) Eppure lElicona, dove si dice che
sintrattengono le dee, tu non ludisti nemmeno per nome, a creder mio, nè tintrattenesti mai di tali
studi quando eri fanciullo: e per te anche il ricordare le Muse è unempietà . Esse non isdegnarono di
apparire a quel pastore rozzo, peloso, e tutto abbronzato dal sole; ma ad un tuo pari (ed oh, per la
Libanitide,(35) non mi fare al presente ispiattellare ogni cosa!) ti so dire che non si degneranno
neppure di avvicinarsi, e invece dellalloro, con gambi di tamarigi e di malve sferzandoti, ti
caveranno questo ruzzo dal capo, acciocchè non sinsozzi lOlmeo e lIppocrene,(36) dove bevono
solamente le greggi assetate, e le pure bocche dei pastori. Nè poi, con tutta la fronte invetriata e la
baldanza che hai, sarai ardito di dire che fosti ammaestrato, che leggesti qualche libro più a dentro
del frontespizio, che ti fu maestro il tale, e col tale altro andavi a scuola insieme. Ma credi che una
sola cosa rimedii a tutto, il comperare molti libri. Or via abbiti pure raccolte le opere di Demostene,
quante ne scrisse di sua mano quelloratore, e quelle di Tucidide, che si sono trovate ben otto volte
ricopiate da Demostene: se pure acquistassi tutte quelle che Silla mandò da Atene in Italia, che
dottrina ne acquisteresti, ancorchè ti ci mettessi sopra a dormire, te le cucissi addosso, e ne andassi
vestito? La scimmia è sempre scimmia, dice il proverbio, anche se abbia la guarnacchina doro. Tu
tieni un libro in mano, e leggi sempre, ma di quel che leggi non capisci niente, e sei un asino che
ode sonar la lira e move le orecchie. Se lacquistar molti libri facesse dotto chi li ha, sarebbe un
acquisto davvero prezioso, e solo per voi ricchi, che così voi comprereste la dottrina in piazza, ed
avanzereste noi altri poveri. E poi chi potrebbe contendere in dottrina coi librai e coi rigattieri, che
ne hanno e ne vendono tanti? Ma se ragioni con essi, vedrai che non sono molto più dotti di te, ma
barbari nel parlare, come te, e sciocchi nel pensare, come quelli che non hanno alcun discernimento
del turpe e dellonesto; eppure tu hai due o tre libri comperati da loro, ed essi notte e giorno ne
maneggiano tanti. A che pro dunque li comperi? per farne dotti gli scaffali, che sono pieni zeppi di
tante antiche scritture!
Rispondi un po, se vuoi, alle mie domande; anzì, giacchè non puoi, accenna col capo o sì o no.
Se uno, senza saper sonare di flauto, comperasse i flauti di Timoteo, o pure quelli dIsmenia, che un
altro Ismenia comperò per sette talenti in Corinto,(37) potrebbegli perciò sonarli? o pure un tale
acquisto non gli varrebbe a niente, non sapendo egli usarne secondo larte? Bene accenni di no: chè
neppure chi avesse i flauti di Marsia o di Olimpo, sonerebbe, se non ha imparato. Orbè: e se uno
acquistasse larco e le saette dErcole, senza essere un Filottete, per poterlo tendere e saettar nello
scopo, che ti pare? mostrerà egli un colpo degno dun arciero? Accenni anche di no. E così se uno
che non sa timoneggiare una nave, nè si è esercitato a maneggiar cavalli, facesse acquisto dun
naviglio bellissimo e fatto benissimo per bellezza e sicurezza, o comperasse un cavallo Medo, un
centauretto di Tessaglia, un marchiato del coppa,(38) sarà, credio, biasimato perchè non sa servirsi
nè delluno nè dellaltro. Accenni di sì anche a questo? Persuaditi dunque, ed accenna anche di sì a
questaltra cosa: se un ignorante come se tu comperasse molti libri, non farebbe egli schernire la sua
ignoranza? Perchè tardi ad accennare anche di sì? Questargomento è chiaro, e a chiunque ti vede
subito viene quel detto: che ha che fare il cane col bagno?(39)
Vera non ha guari in Asia un ricco uomo, che per disgrazia era monco di tuttadue i piedi, che gli
si cancrenarono per freddo, poi che gli accadde una volta di viaggiare per una gran neve. Il
poveretto per rimediare a questa sua sventura, si fece fare i piedi di legno, e sovra di questi
camminava sorretto dai servi, ma faceva una cosa ridicola, chè comperava scarpette bellissime
sempre nuove, ed aveva tutta la cura che quei suoi legni, cioè quei suoi piedi avessero una calzatura
attillata. Ora non fai tu il simigliante, che avendo la mente zoppa e di legno di fico, comperi
calzaretti doro, nei quali appena cammineria chi ha i piedi sani?
Giacchè tra gli altri libri hai comperato molte volte anche Omero, fa che uno lo pigli e ti legga il
secondo canto dellIliade: gli altri canti lasciali stare, chè non fanno per te: ma quello dove si fa
parlamentare un ridicolissimo uomo, sbilenco e gobbo. Quel Tersite adunque così scontraffatto, se
vestisse larmi di Achille, credi tu che però diventerebbe subito bello e gagliardo? che salterà la
fiumana, e ne intorbiderà la corrente con la strage de Frigi, ucciderà Ettore, e prima di costui
Licaone ed Asteropeo, ei che non può neppure portare sugli omeri la frassinea lancia? No dirai: ma
desterà riso a zoppicare sotto lo scudo, a cadere di muso a terra per il peso, a mostrare, levando la
fronte sotto lelmo, quei suoi occhi guerci, alla corazza sollevata per la gobba che ha dietro le spalle,
allo strascico degli stinieri, alla vergogna insomma che ei fa allartefice ed al signore di quelle armi.
La stessa cosa non vedi che accade anche a te, quandhai in mano un libro bellissimo, in pergamena
porporina, e con borchie doro, e tu lo leggi in modo barbaro, guastando, e storpiando, schernito dai
dotti, lodato dagli adulatori che ti accerchiano, e che talvolta anchessi si sguardano tra loro e se la
ridono?
Voglio contarti un fatto avvenuto in Delfo. Un Tarantino, a nome Evángelo, della nobiltà di
Taranto, aveva gran voglia duna vittoria nei giuochi Pitii. Mettersi nudo a qualche cimento vide
tosto che non era per lui, non essendo nè a forza nè a celerità naturalmente atto; ma che egli
vincerebbe facilmente alla cetra ed al canto, se ne lasciò persuadere da certi ribaldi che gli erano
intorno, e che lodavanlo e schiamazzavano ad ogni po che ei toccava le corde. Venne adunque in
Delfo, tutto sfarzoso, in vestone di broccato doro, con una corona di lauro doro bellissima, e che
invece delle orbacche aveva smeraldi grossi quanto esse coccole. La cetra stessa era un miracolo di
bellezza o di ricchezza, tutta doro massiccio, ornata di gemme, e di pulitissimi intagli, tra quali
verano cesellate le Muse e Apollo e Orfeo; gran maraviglia a vedersi. Quando finalmente venne il
giorno del cimento, furono tre: ed Evángelo sortì il secondo a cantare, dopo Tespi tebano, che non
si portò male. Esce fuori adunque tutto sfolgorante di oro, di smeraldi, di berilli, e di giacinti, ed in
vestone di porpora che intessuta con oro più bella splendeva. Avendo così abbagliato il teatro, e
pieni di mirabile aspettazione gli spettatori, quando fu al dover cantare e citarizzare, comincia una
ricercata discorde e scomposta; spezzansi tre corde ad una volta per premere troppo la cetra; poi si
fa a cantare con una vocetta così stonata e sottile, che tutti gli spettatori scoppiarono a ridere, ed i
preposti dei giuochi, sdegnati di quel suo ardire, lo fecero a frustate cacciar del teatro. Allora più
ridicolo parve il dorato Evángelo, piangente, tirato dai frustatori per la scena, insanguinato le gambe
dalle frustate, e raccogliente di terra le gemme della cetra, cadute perchè le frustate toccavano anche
a lei. Poco appresso a lui esce un Eumelo di Elea, avente una vecchia cetra in mano con i bischeri di
legno, e indosso una veste che insieme con la corona valeva appena dieci dramme, ma questi
avendo cantato bellamente, e citarizzato secondo le regole dellarte, fu gridato vincitore; ed ei derise
Evángelo, che aveva fatta quella vana pompa della cetra e di quelle gioie. E contano che gli disse: O
Evángelo, tu sei cinto di lauro doro, perchè sei ricco, ed io, che son povero, del delfico: ma tu col
ricco arnese ci hai guadagnato questo, che te ne vai neppur compatito per la sconfitta, anzi di più
odiato per la tua imperizia e cotesto inutile sfarzo. A capello ti va questo Evángelo, se non che tu
non ti curi neppure un fico del riso degli spettatori.
Non sarà fuori di proposito che io ti racconti anche unantica favola Lesbia. Quando Orfeo fu
sbranato dalle donne di Tracia, è fama che il suo capo caduto con la lira nellEbro, fu portato nel
nereggiante golfo, e che la testa andava galleggiando vicino alla lira, e cantava un lamento sul caso
dOrfeo, mentre la lira sonava pe venti che movevano le corde: e così cantando arrivarono a Lesbo
dove quelle genti, preso quel capo, lo seppellirono dove oggi è il loro tempio di Bacco, e la lira
appesero nel tempio dApollo, dove fu serbata lungamente. Con landare del tempo Neanto, figliuolo
del tiranno Pittaco, avendo udito che quella lira aveva ammollito le fiere e le piante e i sassi, e che
dopo la morte di Orfeo nessuno laveva tocca e fatta sonare, saccese del desiderio di possederla, e
corrotto il sacerdote con molti doni, lo indusse a sostituire unaltra lira simigliante, e dargli quella
dOrfeo. Avutala, pensò di bene non convenire usarla di giorno in città, ma la notte se la messe sotto
il mantello, e soletto se ne uscì nei sobborghi; dove arrecatasela fra le mani si diede a strappare e
strapazzar le corde lignorante e sciocco giovane; il qual sera immaginato che la lira da sè doveva
mandare una divina melodia da carezzare e indolciare tutti, e che egli sarebbe il beato erede della
musica dOrfeo: finchè si raccolsero i cani a quella zolfa (che quivi eran molti), e lo fecero a brani.
Infatti in questo ebbe la ventura di Orfeo, e nel chiamarsi i soli cani addosso. E allora si vide
chiaramente non esser la lira che dilettava, ma larte ed il canto soli, che in grado eccellente Orfeo
ebbe dalla madre; la lira non era roba migliore di qualunque altra cetra. Ma a che ti parlo di Orfeo e
di Neanto, quando cè stato uno ai nostri dì, e forse cè ancora, che comperò per tremila dramme la
lucerna dello stoico Epitteto, la quale era di creta? Sperava forse che leggendo egli la notte a quella
lucerna, gli verrebbe come per influsso la sapienza di Epitteto, e diventerebbe simile a quel mirabile
vecchio. Ieri poi o laltrieri un altro comperava per un talento il bastone, che Proteo il Cinico lasciò,
quando si gettò nel fuoco, e serba quellarnese, e lo mostra, come i Tegeati mostrano la pelle del
cinghiale di Caledonia, i Tebani le ossa di Gerione,(40) e i Menfiti le trecce dIside. E il possessore
di quella cosa mirabile salta a piè pari innanzi a te per ignoranza e sporcizie (vedi fior di roba che ei
devessere) e vorria davvero quel bastone sul capo.(41)
Si conta che Dionisio fece anchegli una tragedia, ma così sciocca e ridicola che per essa
Filosseno andò molte volte nelle latomie non potendo contenere il riso. Accortosi che era beffato,
con molta diligenza comperò la tavoletta su la quale Eschilo scriveva, credendo che lestro e
lentusiasmo gli verrebbe dalla tavoletta. Ma appunto sopra di questa egli scrisse scempiaggini più
sguaiate; come quel verso:
Dori mori, la donna di Dionisio;
e quellaltro:
Misero me! persi una buona donna,
che fu scritto proprio su la tavoletta; e laltro:
Gli uomini sciocchi illudono sè stessi.
Questo parrebbe che Dionisio lavesse scritto proprio per te, e per questo verso conveniva
indorare quella tavoletta. Ma che speri tu dai libri, che sempre li svolgi, e incolli le carte, e ritagli,
ed ungi di croco e di cedro, e li avvolgi in pergamena, e vi apponi i tasselli, come se ne cavassi
qualche pro? Infatti sei diventato molto migliore per questa compera, e parli di tali cose.... oh! tu sei
più muto dei pesci, e vivi in modo che non dire è bello, e tutti ti hanno in odio mortale per le tue
sozzure: sicchè se i libri rendessero gli uomini come te, sarìa da fuggirli quanto più si può lontano.
Due sono le cose che si acquistano dalle opere antiche, il poter ben ragionare, e bene operare,
imitando gli ottimi esempi, e fuggendo i cattivi; quando nè questa utilità nè quella uno cava da esse,
che altro egli fa che comperar occupazioni ai topi, case alle tignuole, e mazzate ai servi che non vi
badano?
E non è unaltra vergogna, se uno vedendo che tu hai un libro in mano (e sempre devi averne
uno) ti dimanda: è un oratore, uno storico, un poeta? tu che conosci il frontespizio, civilmente
rispondi, è questo: poi, come suole avvenire ragionando che una parola tira unaltra, quegli loda o
biasima il tale o tal luogo, tu ti smarrisci e non sai che dire; e non vorresti che ti si aprisse la terra,
perchè tu stesso, come Bellerofonte, porti il libro che ti accusa? Demetrio il cinico vedendo in
Corinto un ignorante che leggeva la bellissima tragedia di Euripide, le Baccanti, e stava al nunzio
che racconta il caso di Penteo, e il fatto di Agave,(42) gli strappò il libro e lacerò dicendo: È meglio
che Penteo sia squartato una volta da me, che molte da te.
Vo sempre cercando, e finoggi non ho potuto ancora trovare la cagione di questa cura che poni
nel comperar libri. Che tu abbi a giovartene ed usarne, nessuno di quelli che ti conoscono anche
pochissimo lo crederebbe: piuttosto un calvo comprerebbe un pettine, un cieco uno specchio, un
sordo un flautista, un eunuco una concubina, un montanaro un remo, un pilota un aratro. Sarebbe
forse uno sfoggio di ricchezza, e vorresti dare ad intendere a tutti che spendi in cose disutili perchè
hai soverchio e da sprecare? Eppure a quanto conosco io, che son Siro come te, se tu non ti fossi
intruso nel testamento di quel vecchio, già saresti morto di fame, e avresti venduto allincanto i libri.
Rimane adunque che tu gonfiato dagli adulatori, che non pure sei bello ed amabile, ma e filosofo,
ed oratore, e storico senza pari, comperi libri per confermare le loro lodi. E si dice che tu nei conviti
reciti loro certi tuoi discorsi, ed essi a guisa di ranocchie seccherecce gracidano per sete, e non
bevono se prima non iscoppiano a gridare. Sei così facile a farti tirare pel naso, e inghiottirti ogni
cosa che ti dicono, che una volta credesti ancora di rassomigliare ad un certo re nellaspetto, come il
falso Alessandro, o il falso Filippo, che era un tintore, o al tempo de nostri avi il falso Nerone, e
tutta la schiera di quei che falsano le persone. Eppure non è maraviglia se questo interviene a te, che
sei uno sciocco ignorante, e cammini pettoruto, imitando landare, il portamento e il guardo di colui
cui volevi rassomigliare; quando dicesi che anche Pirro epirota, uomo per tuttaltro mirabile, in
questa faccenda del rassomigliare fu così infatuato dagli adulatori, che ei si teneva di rassomigliare
ad Alessandro. Cerano due ottave di mezzo, come dicono i musici; chè io ho veduto il ritratto di
Pirro; eppure egli si credeva un Alessandro sputato. Ma in questa cosa io ho oltraggiato Pirro,
paragonandolo a te: quel che viene appresso fa meglio al caso tuo. Essendosi dunque Pirro fitto in
testa questa opinione di sè , non cera nessuno che non pensasse e non credesse anche così; finchè in
Larissa una vecchia forestiera dicendogli la verità, gli cavò del capo quella pazzia. Chè Pirro le
mostrava i ritratti di Filippo, di Perdicca, di Alessandro, di Cassandro, e di altri re, e le dimandava a
quale ei rassomigliasse, certissimo che ella verrebbe ad Alessandro; ma ella stata alquanto sopra di
sè, risposegli: A Ranocchino il cuoco. E cera veramente in Larissa un cuoco, a nome Ranocchino,
che rassomigliava a Pirro. Io non dirò a quale dei bagascioni che stanno alle voglie dei pantomimi
tu rassomigli: ma so bene che a tutti sembra che tu anche ora vai matto di quella somiglianza. Non è
dunque a maravigliare, se tu essendo un intendente così sciocco di ritratti, vuoi pigliare anche laria
degli uomini dotti, e presti fede a chi te lo dice e te ne loda.
Ma che ciance vo io dicendo? Chiara è la cagione di questa cura che tu hai pe libri, ed io per
isciocchezza non la capivo. Lhai pensata da savio, come tu credi, e ci hai fondate grandi speranze,
se viene a saper questo limperatore, che è un uomo savio ed ha in gran pregio la dottrina. Se egli
viene a saper questo di te, che tu comperi libri e ne fai una grande collezione, tu ti tieni già intimo
suo. O pezzo di bagascione, e credi che ei sia tanto addormentato da udir questo, e non saper le altre
cose di te, che vita è la tua vita cotidiana, che cene fai, che notti passi, e con chi e quanti ti corchi? E
non sai che i re hanno molte orecchie e molti occhi? I fatti tuoi sono così conosciuti, che anche i
ciechi ed i sordi li sanno: chè se tu parlassi soltanto, se tu ti spogliassi, anche dopo di esserti lavato,
anzi non tu, se vuoi, ma se si spogliassero i servi tuoi, che credi? che non sarebbero subito
manifeste tutte le tue notturne nefandezze! Dimmi un po: se Basso, il vostro gran dottore, o Batalo
il flautista, o il bardassa Semideo il Sibarita, che vi scrisse quelle leggi mirabili, come si deve
andare in fregola, e pelarsi, e patire, ed agire; se uno di costoro andasse con la pelle del leone
indosso e la clava in mano, chi credi tu che ei parrebbe a chi lo vedesse? forse un Ercole? No,
neppure ai mucini che stanno con gli occhi chiusi: chè a mille segni lo riconosci, allandatura, alla
guardatura, alla voce, al collo piegato alla banda, alla biacca, alle pasticche, al rossetto con che vi
fate belli: e insomma, come dice il proverbio, piuttosto puoi nascondere cinque elefanti sotto
unascella, che un sol bagascione. E se la pelle del leone non nasconderebbe costui, credi tu di
coprirti e nasconderti con un libro? Non è possibile: ti tradiranno e scopriranno gli altri segni che
voi avete.
Insomma parmi che tu ignori, che le buone speranze non devi fondarle su i librai, ma sovra te
stesso, e su la tua vita cotidiana. E tu credi che saranno tuoi pubblici avvocati e testimoni Attico e
Callino scrittori di libri? No, ma certi crudeli uomini, che ti stritoleranno, se agli Dei piacerà, e ti
ridurranno allultima povertà. Dovresti da ora facendo senno vendere a qualche persona istruita
cotesti libri, e con essi la casa fabbricata nuova; e pagare ai mercanti di schiavi una parte dei molti
debiti. Chè tu a due cose attendi con passione, ad acquistar libri preziosi, e comperar giovanastri già
fatti e robusti: e non attendi nè vai a caccia ad altro. Ma è impossibile che essendo povero tu possa
bastare a queste due cose. Eccoti adunque il santo aiuto dun consiglio. Io dico che tu debba lasciare
le cose che non fanno per te, e carezzare quel vizietto che hai, e comperar pure di quei giovanastri;
acciocchè se quelli che hai in casa ti lasciano, tu non debba mandare a chiamar persone libere, che
non senza tuo pericolo, quando si partono, se non hanno buona paga, pubblicano tutto ciò che avete
fatto dopo il bere. Così laltrieri contava sozzi vituperii di te quel bardassa che uscì di casa tua, e ne
mostrava ancora i segni. Ed io vorrei qui testimoni quelle persone che verano presenti, come io mi
sdegnai e per poco non gli ruppi lossa di bastonate, dispiacendomi per te, specialmente quandegli
chiamava un altro testimonio dello stesso fatto, ed un altro, e quei ripetevano la stessa canzone. E
però, o gioia, risparmia il danaro e serbalo a questuso per potere in casa e con tutta sicurezza fare e
patire quelle cose. Chè a non fartele fare chi ti potria persuadere? La cagna avvezza a rodere i
correggiuoli non si divezza mai. Laltra cosa è più facile, non comperare più libri. Sei bene
ammaestrato, ti basti tanta sapienza; chè quasi al sommo delle labbra hai tutta lantichità, conosci
tutta la storia, tutti gli artifizi, e le bellezze, ed i vizi del parlare, e luso delle parole attiche; e con
tanti libri sei divenuto una cima di sapiente, un fior di dottrina. Oh, voglio darti un po di soia
anchio, giacchè ti piace di essere soiato.
Or io volentieri ti dimanderei: avendo tanti libri, quali specialmente tu leggi? quei di Platone? o
di Antistene? o di Antiloco?(43) dIpponalte? o questi curi poco, ed hai per mano gli oratori?
Dimmi, e leggi lorazione di Eschine contro Timarco?(44) O pure tutti questi li sai, e li conosci uno
per uno, ma Aristofane ed Eupoli tentrano più in cuore? e leggesti tutto il dramma i Bapti?(45) E
nessuna di quelle cose che lì sono ti colpì, nè arrossisti in te riconoscendole? Infatti la maggior
maraviglia è questa: con quale animo tu tocchi i libri? con quali mani li svolgi? quando li leggi? Di
giorno? ma nessuno ti ha veduto far questo: di notte? forse dopo la lunga durata di quelle tue
sozzure? o prima di accendere i lumi, ed anche prima di sera? Oh, non aver più questo ardire: lascia
i libri, e attendi solo al tuo sozzo mestiere. Benchè non dovresti più neppure a questo, ma temere di
quelle parole della Fedra di Euripide, che sdegnasi contro le donne, e dice:
Nè temon che le complici tenébre
E le pareti della casa alfine
Non mandino una voce.(46)
Ma se pur sei deliberato di rimanere in cotesta pazzia, va, compra libri, tienili chiusi in casa, e
goditi la gloria di possederli: ma ti basti questo, e non toccarli mai, nè leggerli, nè sommettere alla
tua lingua le antiche prose e poesie, che non ti han fatto alcun male.
So bene che queste sono parole al vento, e che io pretendo di addirizzar le gambe ai cani; perchè
tu ne comprerai, e non ne userai per niente, e sarai schernito dai dotti, i quali vogliono trarre utile
non dalla formosità dei libri e dal loro prezzo, ma dalla lingua e dai concetti delle scritture. Tu credi
di rimediare alla tua ignoranza, e di nasconderla con queste mostre che fai, e di abbagliare con la
gran quantità de libri, e non sai che i medici più ignoranti fanno come fai tu, hanno scatoline
davorio, ventose dargento, lancette ornate doro, e quando debbono adoperarle, non sanno neppur
tenerle in mano. Uno poi che sa larte si fa innanzi con una lancetta ben aguzza, benchè arrugginita,
e libera dal dolore lammalato. Ma per assomigliare il fatto tuo ad una cosa più ridicola, guarda i
barbieri, e vedi, quelli che sanno fare larte hanno pettini, rasoi, e specchio ragionevoli; glignoranti e
gli sciocchi mettono in mostra moltissimi rasoi e grandissimi specchi, nè per questo non si sa che
essi non conoscono larte; anzi accade loro una cosa da ridere, che la gente si fa tondere ad un
barbiere vicino, e va innanzi allo specchio loro per racconciarsi i capelli. Così anche tu servirai di
libri chi ne ha bisogno, ma servirtene tu non potrai. Sebbene non hai servito mai nessuno di libri, e
fai come il can della stalla, che non mangia orzo, e non lascia mangiarne al cavallo. E basta per ora
la sbrigliata che pe soli libri tho data: per le altre tue sozzure e brutture te ne darò qualche altra in
avvenire.
LVIII.
DI NON CREDERE FACILMENTE ALLA DINUNZIA
Tristo male è lignoranza, e cagione di molti mali agli uomini: essa diffonde quasi una caligine su
le cose, oscura la verità, e getta unombra su la vita di ogni uomo. Noi sembriamo come quelli che
vanno al buio, anzi siam come ciechi, e dove intoppiamo a caso, dove trapassiamo alla ventura,
questo che ci è vicino e innanzi a piedi non vediamo, quello che è lontano e molto discosto temiamo
come ci fosse molesto. Insomma in tutte le azioni noi stiamo sempre per cadere. Or questo ha dato
ai poeti tragici innumerevoli argomenti di drammi, i Labdacidi, i Pelopidi, ed altri simili; chè quasi
la maggior parte delle sventure messe in su la scena, tu trovi che lignoranza, a guisa di un tragico
demone, le fornisce. Dico questo considerando altre cose, e specialmente le false denunzie contro
amici e famigliari; per le quali già furono e case rovinate, e città spiantate, e padri infuriarono
contro figliuoli, e fratelli contro fratelli, e figliuoli contro genitori, e amanti contro le persone
amate: molte amicizie si ruppero, e molte case sprofondarono per essersi creduto a calunnie
verisimili.
Affinchè dunque quanto meno è possibile vinciampiamo, io voglio in questo ragionamento,
come in una dipintura, mostrare che cosa è la dinunzia, donde si origina, e quali effetti produce.
Anzi Apelle di Efeso(47) prima di me già fece un tal quadro; perchè anchegli fu dinunziato a
Tolomeo di avere avuto parte nella congiura di Teodoto in Tiro. Apelle non aveva veduto mai Tiro,
nè sapeva chi si fosse Teodoto, se non per udita che era un legato di Tolomeo, governatore della
Fenicia: eppure un suo rivale, a nome Antifilo, per invidia dellonore che aveva dal re, e per gelosia
nellarte, lo accusò a Tolomeo, come ei fosse stato messo a parte di tutto, e come una persona lo
avesse veduto in Fenicia ad un banchetto con Teodoto, e durante il convito parlarsi allorecchio; ed
infine fece vedere che la rivolta di Tiro e loccupazione di Pelusio erano state per consiglio di
Apelle. Tolomeo, che non era molto savio, e come padrone era vissuto sempre fra adulatori, tanto
saccese e conturbò a questa strana calunnia, che non pensando nè se la cosa era verisimile, nè che il
dinunziante era un rivale, nè che un pittore era troppo piccola persona per un sì gran tradimento, e
poi un beneficato da lui ed onorato più di tutti di quellarte; anzi non essendosi neppure informato se
Apelle aveva mai navigato a Tiro, subito andò in furore, empì di grida e di schiamazzi la reggia,
chiamandolo ingrato, traditore, congiurato. E se uno de prigioni sdegnato dellimpudenza di Antifilo,
e commiserando il povero Apelle, non diceva che questi non aveva avuto niente che fare con loro, il
poveretto avrebbe avuto mozzo il capo e pagata la diffalta di Tiro, senza averci colpa. E si dice che
Tolomeo si pentì tanto di questo fatto, che donò ad Apelle cento talenti, e gli diede schiavo Antifilo.
Apelle poi ricordando di qual pericolo era scampato, con questa dipintura fe vendetta della
dinunzia.
Nella destra parte del quadro siede un uomo che ha le orecchie grandissime, simili a quelle di
Mida, e stende la mano alla Dinunzia, che ancora lontana si avanza: vicino a lui stanno due donne,
lIgnoranza, credo, e la Sospicione. Dallaltra parte viene innanzi la Dinunzia, donnetta oltremisura
bella, ma infocata in volto ed agitata, che pare piena di rabbia e di furore, tenendo nella mano
sinistra una face accesa, e con laltra strascinando pei capelli un giovanetto, che tende le mani al
cielo e chiama in testimoni gli Dei. Innanzi a lei va una donna gialla, deforme, dacuta vista, e magra
come per lunga malattia; che ognuno riconosce essere lInvidia. E due altre donne seguono,
spingono, affiancano, adornano la Dinunzia; e, come mi spiegò chi mi mostrava il quadro, luna era
lInsidia e laltra la Frode. Dietro seguiva un uomo dolente nellaspetto, in veste nera e lacera, il quale
chiamasi il Pentimento, e si volgeva indietro piangendo, e con molta vergogna riguardava la Verità,
che veniva allultimo. Così Apelle figurò il proprio caso in pittura.
Ora anche noi, se vi pare, secondo lartifizio del dipintore di Efeso, ragioniamo della Dinunzia,
prima con un certo contorno designandola; chè così la sua figura ci parrà più spiccata. È dunque la
Dinunzia unaccusa contro un assente, ignota allaccusato, creduta sopra informazione duna sola
parte senza contradittorio. E questo è il soggetto del mio ragionamento. Ma essendoci tre persone in
scena, come nelle commedie, il dinunziante, il dinunziato, e colui appo il quale si fa la dinunzia,
consideriamo la parte di ciascuno.
E primamente, se volete, facciam comparire il protagonista del dramma, dico lautore della
dinunzia. Che costui non sia un uomo dabbene, a tutti, credo, è chiaro. Perchè nessun uomo
dabbene cagionerebbe male al prossimo; ma gli uomini dabbene col beneficare gli amici, non
collincolparli a torto, e farli odiare, vengono in riputazione e acquistano fama di bontà. Ma quanto
costui sia ingiusto, iniquo, empio, e nocevole a chi simpaccia con lui, di leggieri si vede. Nessuno
può negare che la giustizia consiste nelleguaglianza in ogni cosa, e nel niente di soverchio,(48) e la
ingiustizia nella disuguaglianza e soverchianza. Or colui che di soppiatto dinunzia i lontani, come
non è soverchiatore, se egli fa suo interamente chi lo ascolta, ne preoccupa le orecchie, le chiude, le
rende inaccessibili al secondo discorso, riempiutele già della dinunzia? Suprema ingiustizia è
questa, come direbbero quegli ottimi legislatori Solone e Dracone, i quali obbligavano col
giuramento i giudici ad ascoltare le due parti nel modo stesso, ed attendere con eguale benevolenza
allaccusatore ed allaccusato, finchè bilanciato il primo detto ed il secondo, apparisse dovè la
ragione e dove il torto. Prima di contrapporre la difesa allaccusa, credevano che sarebbe del tutto
empia e scellerata una sentenza. Imperocchè si può dire che anche gli Dei si sdegnerebbero, se
lasciassimo dire sicuramente allaccusatore ciò che egli vuole, e turandoci le orecchie alle difese
dellaccusato, o imponendogli silenzio, lo condannassimo persuasi al primo discorso. Onde si può
conchiudere che contro il giusto, contro la legge, contro il giuramento giudiziale si fanno le
dinunzie. E se a taluno non basta lautorità de legislatori, i quali vogliono che così si facciano i
giudizi giusti ed imparziali, io recherò in mezzo quella dun gran poeta, il quale dichiara la stessa
cosa, anzi la pone come legge; e dice:
Non sentenziar sentenza, se non odi
prima parlare tutte e due le parti.(49)
Sapeva anchegli, credo, che tra le tante ingiustizie che sono nel mondo, non se ne potrebbe trovare
una più brutta e più ingiusta, di condannare uno senza conoscerne le ragioni, e senza farlo parlare: e
questo appunto sforzasi di fare il dinunziante, il quale espone il dinunziato allo sdegno di chi
ascolta, senza farlo giudicare, e col segreto dellaccusa gli toglie la difesa. Tutti gli uomini di questa
risma ingenerosi e codardi, non vengono mai allo scoperto, ma come imboscati saettano da luogo
coperto, per modo che non puoi schierarti e combattere, ma ci sei ammazzato sprovveduto e nuovo
di questa guerra. Il che è un grandissimo indizio che i dinunzianti non dicono mai il vero: perchè se
uno ha coscienza che egli accusa del vero, credo che egli accusa allaperto, ed esamina, discute,
ragiona: come nessuno mai che può vincere scopertamente, usa di agguati e dinganni contro i
nemici.
Cosiffatti uomini si vedono specialmente nei palagi dei re, nelle corti dei principi e dei signori,
dove è molta invidia, infiniti sospetti, e moltissimi argomenti agli adulatori ed ai calunniatori. Chè
dove maggiori sono le speranze, quivi le invidie più acerbe, gli odi più pericolosi, le gelosie più
furbe. Tutti si squadrano tra loro, e come i duellanti, spiano se parte del corpo è scoverta; e ciascuno
volendo essere il primo, dà spinte e gomitate al vicino, e, se può, tira giù e soppianta chi lo precede.
Quivi luom dabbene e semplice tosto è rovesciato, strapazzato, e infine scacciato inonoratamente;
ed il più rotto adulatore, usato a tali ribalderie, sale in maggior grazia, e favore, e potenza. E qui sta
bene quel verso dOmero:
Comune è il rischio della zuffa, e spesso
Chi uccidere volea rimane ucciso.
Contendendo adunque di non piccola cosa, per isgararsi vanno escogitando diverse vie, delle quali
la più corta e pericolosa è quella della dinunzia, che pigliando capo da invidia, da odio, o da
speranza, mena a miserando e tragico fine, ed è piena di sventure.
Nè una dinunzia è cosa leggiera e semplice a farsi, come altri potria credere, ma vuole di molta
arte, non poca avvedutezza, e di certo fine discernimento. Perocchè non farebbe tanto male la
calunnia, se non fosse credibile in qualche modo, nè avrebbe forza contro la verità, che è più forte
dogni cosa, se di molte attrattive, e di probabilità, e di mille altri scaltrimenti non si fornisse per
insinuarsi nellanimo di chi lascolta. È calunniato adunque specialmente chi è più onorato, e però
invidiato da quelli che gli rimangono indietro; i quali tutti saettano in lui, che riguardano come un
ostacolo ed un impedimento; e ciascuno crede, che, scavalcato colui, sarà egli il primo favorito. Il
somigliante accade nel giuoco della corsa: quivi il buon corridore come cade la funicella,
spingendosi pure innanzi, con lanimo inteso alla meta, ed avendo nei piedi suoi la speranza della
vittoria, non fa alcun male a chi gli è dappresso, nè si briga di chi gli va dietro; ma il cattivo e
inabile corridore, lasciata la speranza della prestezza, si rivolge alle male arti, e pensa solo come
trattenere o impacciare quello che gli corre innanzi, acciocchè sfallisca e non possa più vincere.
Così anche avviene nelle corti dei signori, chi sta innanzi tosto ha un tranello teso, e quando meno
se laspetta vi cade, colto da suoi nemici, che si rallegrano, e tra loro si tengono amici da che si sono
accordati a nuocergli.
E per far credere la calunnia, non la foggiano così a caso, ma vi mettono tutta la scaltrezza, e si
guardano di aggiungervi cosa discordante o strana. Spesso col malignare le qualità di uno, rendono
verisimile laccusa; così dicono che il medico è avvelenatore, il ricco vuol farsi tiranno, il ministro
medita un tradimento. Talvolta ancora chi ascolta porge egli le occasioni alla calunnia, ed i maligni
accomodandosi al suo umore tirano al segno. Se vedono che il messere è geloso, dicono:
Occhieggiava alla donna tua durante il convito, e guatandola fiso sospirava, e Stratonica se ne
compiaceva, e facevagli viso damore; ed anche qualche calunnia dadulterio. Se pizzica del poeta, e
se ne tiene: Oh, giuro a Giove, che Filosseno rideva ai tuoi versi, e ne ha sparlato, e ha detto che
sono prosa, e mal cuciti. Se egli è pio e timorato, gli vanno a zufolare che lamico è un ateo, un
empio che sprezza la divinità e nega la provvidenza; e come egli ode ciò, e sentesi questa zanzara
nellorecchio, tosto va in furie, come è naturale, e scaccia lamico senza aspettare esatte informazioni.
Insomma inventano e dicono di tali cose, che sanno più potenti ad eccitare lo sdegno in chi li
ascolta; e conoscendo dove uno può esser ferito, lì mirano e lì colpiscono; per modo che quei
turbato dal subitaneo sdegno, non ha più tempo di ricercare la verità: e se uno volesse giustificarsi,
ei non lammette, preoccupato delle inaspettate cose che ha udite, e che tiene per vere.
Efficacissima è quella specie di dinunzia che rappresenta cose contrarie alla passione di chi
lascolta. A Tolomeo soprannominato il Bacco(50) uno riferì, che il platonico Demetrio beveva
acqua, e non sera vestito da femmina nei Baccanali. E se Demetrio, chiamato il mattino appresso
alla presenza del re, non avesse bevuto, e, vestito dun gamurrin di Taranto, non avesse sonato il
cembalo e ballato, saria morto come colui che non approvava la vita del re, e professava altre
massime contrarie ai piaceri di Tolomeo. Una volta il più gran delitto che si poteva denunziare ad
Alessandro, era che uno non venerava ed adorava Efestione. Poi che Efestione morì, Alessandro per
lamore che gli portava, volle aggiungere questaltra grandezza alle tante che aveva, e crear dio il
morto. Subito adunque le città rizzarono templi, sagrarono luoghi; e furono dedicate are, fatti
sacrifizi e feste a questo nuovo dio, e il più grande giuramento per tutti era Efestione. E se uno ne
sorrideva, o non si mostrava molto riverente, vera pena la morte. Profittando gli adulatori di questa
giovanile passione dAlessandro, tosto accesero più il fuoco, e mantacarono, raccontando sogni e
certe apparizioni di Efestione, attribuendogli guarigioni, spacciandone oracoli: e infine gli
offerivano sacrifizi come a un dio che ci assiste e ci libera dalle malattie. Alessandro si compiaceva
a udire queste cose, e infine le credette, e si gonfiò che non pure era egli figliuolo dun dio, ma
poteva anche creare altri dei. Immaginiamo ora quanti degli amici di Alessandro in quel tempo
ebbero guai per la divinità di Efestione, denunziati che non onoravano il comune iddio, e però
scacciati e privati della grazia del re! Allora anche Agatocle di Samo, uno de capitanì dAlessandro,
e pregiato da lui, poco mancò che non fu gettato ai leoni, per essere stato dinunziato che aveva
pianto nel passare innanzi il sepolcro di Efestione. Ma si dice che lo aiutò Perdicca, il quale giurò
per tutti gli Dei e per Efestione, che essendo egli a caccia, gli era apparito chiaramente il dio, e gli
aveva imposto di dire ad Alessandro che perdonasse ad Agatocle; il quale non come incredulo, nè
come sopra un morto aveva pianto, ma ricordandosi della loro antica dimestichezza. Ladulazione
adunque e la calunnia allora specialmente ebbero luogo appo Alessandro, quando si accomodarono
al suo umore.
Come in un assedio i nemici non savvicinano dove il muro è alto, dirupato, munito, ma dove
saccorgono che vè qualche parte indifesa, fiacca, o bassa, lì con ogni sforzo assaltano per potere più
facilmente cacciarsi dentro e prendere la città; così i dinunzianti dove vedono che lanimo è debole e
fiacco, e facile a superarsi, quivi assaltano, e spingono le loro macchine, e infine lespugnano, senza
contrasto alcuno, senza che neppure si senta lassalto. E poi che una volta son dentro, devastano
tutto, ardono, uccidono, portano via, come suole avvenire in un animo vinto e fatto servo. Le
macchine che essi rivolgono contro chi li ascolta sono linganno, la bugia, lo spergiuro, linstanza,
limpudenza, e mille furberie, delle quali tutte la maggiore è ladulazione, che è parente anzi sorella
della calunnia, Infatti non vè uomo sì generoso, e che abbia lanima cinta di un muro dadamante, il
quale non ceda agli urti delladulazione, mentre la calunnia scalza e indebolisce le fondamenta. Di
fuori questi: di dentro poi molti traditori aiutano, e dànno mano, ed aprono le porte, e con ogni
modo studiano di perdere colui che ascolta. Primo è lamor di novità, naturale in tutti gli uomini, e la
noia; poi la propensione a udir cose straordinarie, chè non so come a tutti quanti ci piace udirci dire
allorecchio cose segrete e piene di sospetto; ed io conosco alcuni ai quali piace tanto di avere il
titillamento della maldicenza nellorecchio, quanto il solletico di una penna. Quando adunque con
tutte queste forze assaltano, essi espugnano la fortezza; e credo la vittoria non potrebbe essere
difficile, non ci essendo nessuno che faccia petto e ributti lassalto, anzi quei che ascolta
arrendendosi volentieri, ed il dinunziato non sapendo nulla dellinsidia. E veramente come in città
presa di notte dormendo sono uccisi i dinunziati. E la cosa più misera di tutte è che uno ignorando
quel che ci cova, avvicinasi lieto allamico, come quegli che non ha coscienza di nessun male, e dice
e fa secondo il solito; e il poveretto è già colto nel laccio. E colui se ha punto di generosità, di
libertà di animo e di franchezza, tosto rompe nello sdegno, e versa fuori la sua ira, ed infine ne
ascolta la difesa, e riconosce che a torto saccese contro lamico. Ma se è ingeneroso e basso,
savvicina, e gli sorride a fior di labbra, ma in cuor suo lodia, e di soppiatto arrota i denti, e, come
dice il poeta, preme ira profonda in petto. Io non credo ci sia cosa più ingiusta e più servile di
questa, mordersi le labbra, nudrir la collera in segreto, rugumar lo sdegno chiuso, altro ascondendo
in cuor, altro dicendo, e rappresentare con lieta e comica maschera una trista e luttuosa tragedia.
Sinfingono a questo modo specialmente quando credono che il dinunziante sia amico al
dinunziato, e sì lo accusi. Allora neppur la voce vogliono più udire del dinunziato che si scagiona;
degna di fede supponendo laccusa che viene da chi pare amico di lungo tempo; senza riflettere che
spesso tra amicissimi intervengono molte cagioni di odio nascoste agli altri. E spesso ancora taluno
quel peccato di cui egli è reo, si affretta di appiccare ad altri, tentando così sfuggire accusa. In
generale nessuno si mette a dinunziare un nemico scoperto: chè subito pare falsa laccusa, essendone
manifesta la cagione; ma tutti assaltano i creduti amici, fingendo così di mostrare benevolenza a chi
li ascolta, se per bene di costui non la risparmiano nemmeno agli intimi loro. Ci ha poi alcuni i quali
ancorchè conoscano finalmente che i loro amici furono a torto calunniati, pure per vergogna di aver
creduto alla calunnia, non osano più avvicinarli nè guardarli in faccia, come offesi di averli trovati
innocenti. Sicchè il mondo è pieno di molti mali per le dinunzie credule così facilmente e senza
considerazione. Antea dice al marito:
Sei morto, o Preto; o pur Bellorofonte
Uccidi, che volea meco in amore
Mescolarsi per forza;
ed ella prima laveva tentato, e ne fu ributtata. E per poco il giovanetto non perì nel conflitto con la
chimera, avendo questo premio della sua modestia, e del suo rispetto verso lospite, che ei fu
insidiato da unadultera. E Fedra anchella dicendo una cosa simile contro il figliastro, fece che il
padre maladisse Ippolito, che non aveva un peccato, o Dei, il minimo peccato!
Sì, dirà alcuno; ma talvolta chi dinunzia è un uomo degno di fede; nelle altre cose pare giusto e
prudente, e bisogna credergli, chè non commise mai una ribalderia di queste. - Ci è uno più giusto
dAristide? Eppure egli parteggiò contro Temistocle, e gli concitò il popolo contro, per lambizione,
si dice, che anchegli aveva di governar la città. Intanto Aristide verso gli altri era giusto, ma
anchegli era uomo, ed aveva collera, ed amava alcuni, ed odiava altri. E, se è vero il fatto di
Palamede, si vede il più prudente degli Achei ed ottimo per altri versi, tendere per invidia quella
tranelleria e quellagguato contro un consanguineo, un amico, uno che sera imbarcato agli stessi
pericoli. Tanto naturale a tutti gli uomini è il peccare in questo!
E che diremo di Socrate ingiustamente accusato appo gli Ateniesi come empio ed insidiatore? o
di Temistocle e di Milziade dopo quelle vittorie venuti in sospetto di traditori alla Grecia? Questi
esempi sono infiniti, e quasi la maggior parte conosciuti.(51)
Che dunque deve fare un uomo prudente, quando dubita della virtù di alcuno, o della verità duna
cosa? Quello, credio, che Omero significò in enigma con la favola delle Sirene: voga fuori, non
fermarti ad ascoltare cose che tanto nocciono piacendo; turati le orecchie, e non aprirle di leggieri a
quelli che sono occupati da una passione; mettivi come vigile portinaia la ragione, la quale di tutte
le cose che si dicono quelle che essa approva, fa entrare e riceve, e quelle che disapprova chiude
fuori e ributta. Sarebbe veramente ridicolo avere i portinai alla casa, e gli orecchi e lanimo lasciare
aperti. Quando adunque uno ti viene a dire una cosa di queste, devi fra te considerare essa cosa,
senza guardare alletà di chi la dice, nè alla sua vita, nè allefficacia del suo parlare: chè quanto più
luomo è autorevole, tanto più bisogna guardarsi e considerar bene. Non bisogna adunque affidarsi
allaltrui giudizio, o piuttosto allodio dellaccusatore, ma riserbare a sè lesame della verità, e lasciare
lastio al dinunziante; e messe in chiaro le pruove dellintenzione delluno e dellaltro, odiare così, ed
amare come ti se chiarito e persuaso. Innanzi di far questo, arrovellarsi ad una prima informazione è
cosa puerile, in fede mia, e bassa, e non poco ingiusta. Ma di tutte queste cose la cagione è quella
che io ho detta in principio, lignoranza, e lessere i costumi di ciascuno allo scuro. Chè se qualcuno
degliddii discoprisse le vite nostre, la dinunzia anderebbe a precipitarsi nel baratro e non troverebbe
altro luogo, perchè le azioni umane sarebbero rischiarate dalla luce della verità.
LIX.
IL CONTO SENZA LOSTE,
O
DEL GIORNO INFAUSTO, CONTRO TIMARCO.
Che tu non sapevi la parola infausto, egli è ben chiaro: se no, come avresti dato del barbaro a
me, quandio dissi che tu sei simile ad un giorno infausto (e il paragone mi venne per i tuoi costumi),
se mai tu avessi conosciuta questa parola? Te linsegnerò io tra breve che vuol significare infausto:
per ora ti dico il motto di Archiloco, che grattasti la pancia alla cicala. Udisti mai nominare un poeta
giambico, detto Archiloco, di Paro, che parlava libero e franco, e subito tagliava a tondo,
specialmente se voleva far dispetto a quelli che gli capitavano sotto la bile de giambi? Ora egli ad
uno di costoro che aveva sparlato di lui, disse, che aveva grattata la pancia alla cicala, paragonando
sè stesso alla cicala, che naturalmente grida senza esser toccata, e se la gratti stride di più. E tu, o
sciagurato, soggiungeva egli, a che vai stuzzicando contro di te un poeta linguacciuto, che cerca
occasione ed argomenti ai giambi? Così ti dico anchio, che non mi paragono affatto ad Archiloco,
ve (ci vuol altro tra me e lui!), ma conosco assai dei fatti tuoi degni di giambo, e credo che
Archiloco medesimo non basterebbe, anche chiamando Simonide ed Ipponatte in aiuto, a dire una
sola delle tue malvagità; tanto in tutte le sporcizie mostri che eran fanciulli a petto a te Orodocide e
Licambe e Bupalo, già bersagli de costoro giambi. Ei pare che un qualche iddio ti pose sul labbro il
riso a quellinfausto che io dissi, chè così ti fai conoscere dessere più ignorante duno Scita, e non
sapere quel che sa tutto il mondo, e dài contro di te il capo in mano ad un uomo che parla
liberamente, e ti conosce bene a dentro, e niente lo ritiene che non vuoti tutto il sacco, anzi non
pubblichi le cose che ora fai e la notte ed il giorno, dopo le tante e tante che ne hai fatte.
Quantunque forse un galantuomo ci spreca le buone e franche parole con te; perchè nè tu
diventeresti mai migliore per riprensione, e sei come lo scarafaggio che non si può svezzare da
quelle pallottole, nè credo ci sia alcuno che ignori le tue sfacciataggini, e la vergogna che sei
vecchio e fai a te stesso. Le tue sozzure non sono nè caute nè nascoste: e non ci è bisogno che uno ti
spogli della pelle del leone per parere quel somiere che sei, se pure non ci capitasse ora qualcuno
deglIperborei, o un baggeo tale, che a prima vista non ti riconoscesse pel più insolente asino del
mondo, e non aspettasse di udirti ragghiare: tanto le tue valenterie da lungo tempo, e prima di me,
sono state strombettate molte volte per tutto il mondo, e sei per esse famoso più di Arifrade, più del
sibarita Mistone, e più di quel Basta di Chio, che fu il dottore dellarte vostra. Nondimeno dirò
quattro parole, benchè parrà di cose vecchie, per non essere tacciato che io solo non le conosco.
Ma piuttosto invocheremo uno dei prologhi di Menandro, lAccusa, dea amica alla Verità ed alla
Franchezza, non ignobile tra quanti prologhi montano su la scena, nemica soltanto a voi che temete
la lingua sua, che sa e ridice apertamente tutti i fatti vostri. Saria bello infatti, se ella volesse uscire
innanzi a voi spettatori e raccontarvi tutto lintreccio del dramma. Su via, o Accusa, ottima dei
prologhi e delle dee, vedi come informar chiaramente gli ascoltatori, che non senza ragione, nè per
astio, nè senza prima lavarmi i piedi, come dice il proverbio, io son venuto in questa contesa, ma
per vendicarmi duna ingiuria privata, e per abborrire un uomo sozzissimo pubblicamente abborrito.
Dopo che avrai esposte soltanto queste cose, vattene subito, e lascia a me il resto: chè io timiterò, e
lo accuserò di molte altre; e così nessuno potrà incolparti che manchi di verità e di franchezza. Nè
lodare me innanzi a loro, o carissima Accusa; nè svertare tu così le turpitudini di costui, perchè non
conviene a te che sei Dea lordarti la bocca parlando di tali sozzure.
Ed ecco il Prologo dice così:
Costui che si spaccia per sofista venne una volta in Olimpia per recitare un suo discorso scritto
molto tempo prima alla gente radunata per la festa. Argomento dello scritto era Pitagora impedito,
forse da qualche Ateniese, di essere iniziato nei misteri di Eleusi, come barbaro, avendo detto egli
stesso che prima di essere Pitagora era già stato Euforbo. Era quel discorso, come la cornacchia di
Esopo, raffazzonato di varie penne altrui. Or volendo ei parere di non isciorinar roba vecchia, ma di
dire allimprovviso il libro, prega un suo familiare (che era di Patrasso, e faceva lavvocatuzzo) che
quando egli chiederebbe argomenti da ragionarvi sopra, gli proponesse Pitagora. Quei così fece, e
indusse gli spettatori a volere ascoltare quel discorso sopra Pitagora. Intanto ei si messe a recitare in
modo che la finzione si scopriva, precipitando una diceria già bene studiata e lambiccata; benchè
egli con una grande impudenza continuava, e saiutava, e sarrabattava. Ridevano gli uditori, e alcuni
sguardando in viso quel di Patrasso, mostravano di essersi accorti della gherminella; ed altri
riconoscendo le cose che egli diceva, per tutto il tempo che stettero ad ascoltare, facevano a chi di
loro avesse miglior memoria e distinguesse questo e quel brano di chi fosse de recenti sofisti più
lodati per quelle che chiamansi declamazioni. Tra tutti questi che ridevano era ancora chi ha scritto
questo discorso, e anchei rideva. E chi non doveva ridere di così manifesta e sciocca e sfacciata
prosunzione? E come, se il riso non si poteva tenere? che egli mutata la voce in canto, come a lui
pareva, cantava la nenia a Pitagora? E vedendo un asino trattar la cetra, come dice il proverbio,
scoppia in una grassa risata il mio poeta:(52) quei si volge, e lo guata. Ed ecco dichiarata la guerra
tra loro. Indi a poco tempo era il principio dellanno, e proprio il terzo giorno del mese, nel quale i
Romani, secondo loro costume antico, fanno le preghiere per tutto lanno e i sacrifizi prescritti dal
loro re Numa, e credono che gli Dei specialmente in quel giorno esaudiscono chi li prega. In cotal
festa e solennità, quei che in Olimpia si fece quella risata pel supposito Pitagora, vedendo
avvicinare quellabbietto e vanitoso recitatore de discorsi altrui, e conoscendone bene i costumi, e la
vita sozza e sfacciata, e i fatti che se ne contavano, e le vergogne in cui lavevano colto, voltosi ad
uno degli amici: Scansiamo questa vista di malagurio, disse; la presenza di costui ci renderebbe
infausto un giorno bellissimo. Udendo il sofista questa parola infausto, come se la fosse forestiera e
nuova ai Greci, si messe a ridere credendo di vendicarsi di quella tale risata, e andava dicendo a
tutti: che cosè questinfausto? è un frutto? unerba? un arnese? forse è una cosa da mangiare o da
bere questinfausto? Io non lho udito mai, e non intendo che voglia dire. - E così egli credette di
rimbeccare costui, e ripeteva infausto, e rideva; senza accorgersi che così egli dava lultima pruova
della sua ignoranza. Ecco perchè il mio autore ha scritto questo discorso, mandando me innanzi, per
farvi sapere che questo celebre sofista non conosce ciò che conoscono tutti i Greci, anche quelli che
stanno per le botteghe e le taverne.
Così lAccusa: Or io, che riserbai per me le altre parti del dramma, dovrei, come la bocca
delloracolo, dire quante cose facesti nella tua patria, quante in Palestina, quante in Egitto, quante in
Fenicia, e in Siria, e poi in Grecia, ed in Italia, e finalmente quante ne hai fatte ora in Efeso, che
sono le più massiccie, il sommo della tua frenesia, la cima della tua furfanteria. Giacchè, come dice
il proverbio, sei Troiano, e vuoi udir tragedie, udirai ciò che ti dorrà. Ma non ancora di questo:
diciam prima dellinfausto.
Dimmi un po, se ti guardi mamma Venere volgare e genitale, e Cibele,(53) come ti parve degna
di riprensione e di riso la parola infausto? - Oh per Giove, non è propria dei Greci, e fra loro sè
introdotta in questa confusione o dai Celti, o dai Traci, o dagli Sciti. - Tu poi che conosci tutte le
attiche eleganze, subito hai scartata questa parola, e sbanditala di Grecia, e ridi che io da barbaro e
forestiero, esco dei termini dellatticismo. Eppure quelli che ne sanno più di te, diranno: oh, qual
parola è più ateniese di questa? Sicchè potresti dimostrare piuttosto che Eretteo e Cecrope furono
forestieri ed avventicci in Atene, che infausto non sia una parola paesana e nativa dellAttica. Ci ha
molte cose che gli Ateniesi chiamano come tutti gli altri uomini; ma essi soli dicono infausto un
giorno funesto, infelice, feriato, scellerato, e come te. Ed ecco come di passaggio imparasti che
significa per essi un giorno infausto: quando nè i magistrati trattano faccende, nè i tribunali sono
aperti ai giudizi, nè i templi ai sacrifizi, nè insomma si fa niente di prospero, quello è giorno
infausto. Questuso è per varie cagioni; o per grandi battaglie perdute, e poi si stabilì che in quei
giorni nei quali si ebbe quella sventura, ci fosse feriato, e non si trattassero affari: o pure.... ma forse
è fuori stagione e troppo tardi voler ficcare queste cose in capo a un vecchio, che non sa neppure le
altre prima di queste. Forse dirai che ti rimaneva questa parola sola; e che se limpari, saprai tutte le
altre. - Sì? e come? Se anche tu non conoscessi le altre che sono fuori delluso comune e sconosciute
al popolo, potria passare; ma questa parola infausto, neanche volendo, puoi dirla diversamente;
perchè è unica, e sola, e comunissima a tutti. - Sia pure, dirà alcuno; ma delle parole antiche alcune
sono da dire, ed altre no, chè non si usano comunemente, per non confondere chi ci ascolta, non
ferire gli orecchi di chi conversa con noi. - È vero, o gioia, io sbagliai a dire di te quella parola:
doveva, sì, doveva parlarti nel volgare de Paflagoni, de Cappadoci, o de Battri per farmi intendere
da te, e piacere agli orecchi tuoi, ma con gli altri Greci, credo, bisogna parlare in lingua greca. E poi
gli Attici con landare del tempo avendo scartate molte parole dalla lingua loro, ritennero tra le altre
specialmente questa, che sempre da tutti loro è ripetuta. Ed io ti citerei quelli che lusarono prima di
noi, se non sapessi di confonderti allegandoti nomi di poeti, di oratori e di storici a te sconosciuti e
strani: anzi neppur io ti nominerò quelli che ora lusano, perchè tutti li sanno.(54) Ma tu se mi additi
uno degli antichi che non usò di questa parola, meriti una statua doro in Olimpia. Eppure un
vecchio, un attempato che ignora questo, mi pare che non sappia che Atene è una città dellAttica,
Corinto è sullistmo, e Sparta nel Peloponneso. Ti resta a dire unaltra cosa, che tu conoscevi la
parola, ma ne biasimasti luso inopportuno. Via, su di questo voglio anche rispondere, e dartene le
ragioni: tu stammi attento, se pure non ti curi poco di sapere qualcosa. Gli antichi nostri spesso per
simil modo motteggiavano i pari tuoi (chè anche allora ci dovevano essere alcuni di vituperosi
costumi, e di sporca e malvagia vita), ed uno chiamarono Coturno, per la sua indole simile a quel
calzare che saccomoda a tutti e due i piedi; un altro il Fistolo, perchè era un orator tumultuoso che
metteva sossopra il parlamento; un altro il Settimo, perchè come i fanciulli nel settimo giorno(55)
festeggiano, così egli nei parlamenti scherzava, rideva, e volgeva in celia lattenzione del popolo. E
non vuoi concedere anche a me, per Adone, che io paragoni un ribaldissimo uomo cresciuto fra tutti
i vizi, ad un giorno infelice e scellerato? Noi scansiamo gli zoppi del piè destro, specialmente se li
vediam di mattino: e se uno uscendo di casa vede uno spadone, un eunuco, una scimmia, tosto
rivolgesi e rientra, non saugurando di riuscir bene nelle faccende del giorno dopo quel brutto ed
osceno malagurio: e nel principio, sul limitare, su lo spuntare, e quasi sul mattino dellanno se un
uomo vede un sozzo bardassa, famoso per sue infamie, e rotto, e non chiamato altrimenti che col
nome del suo mestiere, impostore, furbo, spergiuro, mariuolo, capestro, ceffo dimpiccato, non
fuggirà, non assomiglierà costui ad un giorno infausto?
E tu non sei tale, tu? Nol negherai, se io ben conosco la tua fronte invetriata; anzi mi pare che ne
vai superbo, chè non perisce la gloria delle tue sporche virtudi, e sei a tutti chiaro e famoso. Se poi
mi fai il viso dellarmi, e ti metti sul niego, che tu non sei, a chi lo darai a credere? Ai tuoi cittadini?
chè da essi è bene incominciare. Ma essi conoscono come da prima ti procacciasti le spese, e come
essendoti dato a quel tristo soldato gli facevi ogni sorta di brutti servigi, fintanto che colui dopo
aver fatto di te uno straccio, ti cacciò via. E debbono ancora ricordarsi che da giovane ti
pavoneggiavi sul teatro, facendo linterpetre ai mimi, e volendo essere un capocompagnia. Infatti tu
primo uscivi sul palco, e annunziavi qual era il nome della rappresentazione, e ben vestito, ravviato,
con le scarpette dorate, il manto reale indosso, ti presentavi a chiedere benevolenza dagli spettatori,
portando corone, e ritirandoti con applausi, chè veri ben riuscito. Ed ora retore e sofista! Onde se
essi udiranno questo di te, crederanno, come dice la tragedia, Doppio il sole vedere, e doppia Tebe,
e tosto tutti diranno: questi è colui? e dopo tutto quello? Sicchè tu prudentemente non ci vai affatto,
nè ti avvicini mai a loro, ma fuggi volontariamente la patria, che non è trista per freddo nè penosa
per caldo,(56) ma bellissima e grandissima fra tutte le città fenicie: perchè quellessere rinfacciato,
quel dover conversare con chi ti conosce, e ricorda tutto il passato, è un vero laccio che timpicca.
Ma che ciance io dico? Di chi tu avresti vergogna? qual turpitudine ti farebbe arrossire? So che ci
hai ancora possessioni grandi, una misera torricella in paragon della quale la botte di Diogene saria
la reggia di Giove. E però i paesani tuoi non si discrederanno mai, che tu non sei la più sozza delle
sozzure, e uno smacco per tutta la città.
Ma forse altri in Siria troverai che ti crederanno, se dirai che nessuna malvagità, nessuna colpa si
può apporre alla tua vita. Oh, altro! Antiochia vide quel tale fatto, quando tu con quel giovanetto
che veniva di Tarso appartandoti.... Oh forse è vergogna per me anche scoprir queste cose. Ma le
sanno e le ricordano quelli che vi colsero sul fatto, e videro te con un ginocchio a terra, e colui, ti
dei pur ricordare se non sei del tutto smemorato, che ti faceva in bocca. Forse in Egitto non ti
conoscono, dove, dopo le mirabili prove che facesti in Siria, ti accolsero fuggito pel fatto che ho
detto, e perseguitato dai rigattieri, da cui avevi comperate ricche vesti per francarti le spese del
viaggio. Ma non minori prove di te vide Alessandria, nè in questo essa doveva cedere ad Antiochia;
chè quivi le tue dissolutezze furono più sfacciate, le turpitudini più furiose, il nome che ne avesti
più grande, e infine mandasti giù la visiera. Uno solo credette alle tue parole, che negavi di aver
commesse queste cose, e fu tuo difensore, e lultimo che ti tenne al suo soldo, quel nobile signore
romano, di cui tacerò il nome, perchè tutti conoscono chi dico. Ciò che egli sofferse per la tua
insolenza mentre fosti con lui, non occorre dirlo: ma quando ti sorprese seduto su le ginocchia dun
suo coppiere,(57) che ti pare? ti credette ancora che non eri tale, vedendo proprio il fatto? Avrebbe
dovuto esser cieco, e non era; e infine mostrò senno a scacciarti subito di casa, e dicesi che vi fece
una purificazione dopo la tua uscita. Tutta lAcaia e lItalia sono piene delle tue imprese, e della tua
gloria, e buon pro ti faccia sì bella fama. Onde a quelli che si maravigliano del gran rumore che hai
menato in Efeso, io dico che non si maraviglierebbero se conoscessero il vero di ciò che hai fatto
prima. Eppure qui hai imparata una cosa nuova, e da sgararne le femmine. - E non calza a costui
chiamarlo infausto?
Ma perchè, giuro a Giove, vuoi anche baciarne con quella bocca sì lorda? Questa è uningiuria
grandissima, e a chi specialmente non dovresti farla, ai tuoi ascoltatori; ai quali bastano le brutte
cose che tescono di bocca, le parole barbare, la voce aspra, le sciocchezze, i garbugli, le
sguaiataggini, ed altre cose somiglianti. E di più avere un bacio da te? un dio me ne scampi! Meglio
da un aspide o da una vipera, chè almeno non cè altro pericolo che il morso, ed il dolore; e chiami
un medico, e ti sana: ma dopo il tuo bacio e il tuo veleno, chi può accostarsi a sacrifizi ed altari?
quale dio ne ascolterà più le preghiere? quanti lavacri, quanti fiumi bisognano? Ed essendo tale tu
ridi delle parole altrui, tu che fai opere tali e tante? Eppure se io non conoscessi che significa
infausto, mi vergognerei piuttosto, non negherei di averlo detto:(58) ma tu da nessuno di noi fosti
biasimato quando dicevi strepiparlanti, vitasbrigliati, verbipesare, ateniesizzo, fiorpotere,
sfombolatare, maniscagliatare. Va che Mercurio ti possa sprofondare con tutte coteste maladette
parole. In quai libri le hai trovate? forse lhai scavate in qualche meschino poeta gettato in un canto e
pieno di tignuole e di ragnateli; o pure nelle Memorie di Filenida, che tieni tra mani, come libro
degno di te e della tua bocca.
Ma giacchè ho mentovato della bocca, che risponderesti, se la tua lingua ti accusasse (pognamo
questo caso) delloltraggio, o almen della contumelia che le fai? dicendo; Io, o ingrato, mentre eri
povero, meschino, e senza aver che mangiare, io ti aiutai, e prima ti feci applaudir nei teatri, e
comparire ora Nino, ora Antioco, e indi a poco Achille: dipoi insegnando i fanciulli a sillabare per
lungo tempo ti procacciai da vivere; ed ora recitando discorsi altrui ti ho fatto parer sofista, e ti ho
appiccato addosso un nome che non ti appartiene affatto. In che dunque puoi lagnarti di me, che mi
tratti così, e mi usi ad operazioni turpissime, a servigi abbominevoli? Non basta quel che fo il
giorno, mentire, spergiurare, versar fuori tante sciocchezze e insipidezze, anzi vomitare quel fango
dei tuoi discorsi? Neppure la notte vuoi chio poveretta stia cheta, ma io sola debbo farti ogni cosa,
io strapazzata, io sporcata, io non più lingua, chè tu mi adoperi alluso della mano, e mi oltraggi
come se fossi di un altro, e mi sommergi in tante lordure. Lufficio mio è solamente parlare: il fare e
patire di tali cose appartiene ad altre membra. Oh che bene mi farebbe se uno mi tagliasse, come
quella di Filomela! Più fortunate di me le lingue di quelli che si mangiarono i propri figliuoli! - Deh
per gli Dei, se dicesse così la lingua, pigliando la favella che lè propria, e chiamasse per avvocata la
tua barba, che le risponderesti? Quello certamente che testè rispondesti a Glauco, il quale ti
biasimava del tuo operare, e tu: Che tu così in breve tempo sei divenuto famoso, e noto al mondo;
che come avresti potuto venire in tanta fama per la eloquenza? che si ha a trovare un modo
qualunque per divenire illustre e rinomato. E le potresti ancora annoverare i soprannomi che hai
avuti dalle diverse genti tra cui sei stato. La mia maraviglia è che ti è saputo agro udire
quellinfausto, e per quei soprannomi non ti offendevi. In Siria ti chiamavano loleandro, il perchè,
per Pallade, ho vergogna a dirlo; onde per parte mia rimanga ignoto: in Palestina fosti chiamato la
Siepaglia, per le spine della barba, forse che nellatto pungeva, perchè allora te la radevi ancora: in
Egitto lo stranguglione, perchè dicono che una volta per poco non taffogasti, avendo trovato un
marinaio con una smisurata antenna che ti turò tutta quanta la bocca. I gentili Ateniesi senza gergo,
ma aggiungendo una lettera innanzi al tuo nome, ti chiamano Atimarco, cioè gran disonorato; e tu
dovevi averla qualcosa di più dellantico Timarco.(59) - In Italia poi, cappita! avesti un soprannome
eroico, il Ciclope, quando volesti oscenamente rappresentare quellantica favola di Omero. Tu
giacevi ubbriaco tenendo in mano una tazza, allupato Polifemo; e un giovanastro pagato, avendo il
palo ritto e bene acuto, era lUlisse che ti assaliva per cavarti locchio;
Ma lo sfalliva, deviò la lancia,
E la punta ficcossi sopra il mento.
(quando si parla di te sta bene ogni freddura). E tu Ciclope con la bocca aperta, anzi spalancata, te
la facevi cecare: anzi come Cariddi avresti voluto con tutti i marinai, i timoni, e gli alberi
inghiottirti Nessuno. E questo fatto fu veduto da altri, che verano presenti: e tu poi la mattina
appresso non trovasti altra scusa che lubbriachezza ed il vino. Ora tu ricco di tali e tanti nomi, ti
vergogni di questo infausto? Deh per gli Dei, dimmi che ti senti quando la gente ti dice che sei
Lesbio e Fenicio?(60) Non lo capisci questo, come non capivi infausto, e credi che ti lodano? e pure
lo sai, per esserci usato, e il solo infausto, come nuovo, dispregi, e scancelli dal catalogo de tuoi
soprannomi? E però non pure da noi altri sei scardassato ben bene, ma celebrato finanche nei
quartieri delle donne. Infatti quando testè in Cizico ardisti di chiedere una in moglie, la valente
donna informata bene de fatti tuoi, rispose: Non voglio un uomo che ha bisogno delluomo.
Ed essendo tu in questi termini, ti curi di una parola, e ridi e dispregi gli altri? Hai ragione: chè
non tutti potremmo parlare come te. E chi saria così ardito dicitore da chiedere contro tre adulteri
invece di una spada un tridente? da dire che Teopompo, il quale dà il suo giudizio su Tricarano,(61)
con tricuspide eloquenza abbattè superbe città: ed ancora che egli tridenteggiò la Grecia, e fu un
Cerbero nel dire? Poco fa avendo accesa una lucerna andavi cercando un certo fratello, credo,
perduto.(62) Ed altri infiniti spropositi, che non meritano di essere ricordati, se non uno soltanto che
molti udirono e lhanno a mente. Un ricco era nemico di due poveri: tu parlando del ricco dicevi:
Uccise lun laltro dei poveri. Ridendo naturalmente tutti quelli che ti udirono, tu, per correggere,
ribattendo lerrore. Non va, dicesti, non va, uccise laltro di essi.(63) Lascio stare quelle anticaglie
Mesi tree, rabbonacciata, bolare, pandere, e le altre gemme di che adorni i tuoi discorsi.
Le cose poi che fai costretto da povertà, Dio mi liberi che te le voglia rinfacciare: perchè è da
compatire se uno sforzato dalla fame, neghi un deposito fattogli da un cittadino e giuri di non aver
nulla ricevuto; o se uno senza una vergogna si metta a chiedere, anzi a dimandare limosina, e fare il
pelamantelli, e lo stradiere. Io non voglio dir questo: perchè si può ben fare ogni arte per fuggire
bisogno: ma quello è brutto, che tu essendo povero, in questi sollazzi solamente spendi i guadagni
della tua impudenza.(64)
Avrei molte cose ancora a dire, ma te le passo; ed aggiungo una sola. Fa tutto quello che ti pare,
sèguita pure ad oltraggiar bruttamente te stesso; ma quella cosa, non farla più; via, no, perchè non è
permesso affatto invitare alla stessa mensa quelli che trattano queste brutte cose, e bere con essi la
tazza dellamicizia, e stendere le mani agli stessi cibi. E neppure quellaltra cosa, dopo i discorsi i
baci, e specialmente a quelli che poco innanzi ti hanno renduta infausta la bocca. E giacchè siamo
venuti pure ad avvertimenti amichevoli, smetti di ungerti dunguento i capelli bianchi, e di pelarti
sole quelle parti. Se lo fai per malattia, bisogna curar tutto il corpo: se non ci sei ammalato, che vuol
dire farti lisce e monde quelle parti che non è lecito vedere? Non hai altro di savio che la canizie, e i
peli che non sono più neri, i quali velano la tua sozzura. E per Giove, risparmiali almeno per questo
riguardo, specialmente quelli della barba; non isporcarla più, non oltraggiarla o almeno, fallo di
notte e al buio, chè di giorno è cosa proprio salvatica e bestiale.
Vedi come era meglio per te non stuzzicare i calabroni, e non ridere dun infausto, che ti renderà
infausta tutta la vita? Ne vuoi più? il sacco, non lho votato ancora. Non sai tu che io non pure un
sacco ma una carretta potrei scaricartene addosso? e dovresti, o mozzorecchi avvolpacchiato,
dovresti tremare, se un uomo che ha i peli in faccia, e, come dicevano gli antichi, le natiche nere pur
ti guarda in cagnesco. Forse riderai ancora di mozzorecchi e davvolpacchiato, come di parole
enimmatiche, e non conosci i nomi dellarte tua. Onde vedi pure di appuntare anche queste, se non ti
basta la misura tripla e quadrupla che hai avuta per infausto. La colpa sarà tutta tua: chè, come
soleva dire il bravo Euripide, lingua sfrenata, sciocchezza e scelleratezza finiscono male.
LX.
DI UNA SALA.
Dunque Alessandro volle bagnarsi nel Cidno, vedendone la bellacqua chiara, di sicuro fondo, di
corrente dolce, piacevole a nuotarvi, e fresca nella state, sicchè se anche avesse saputo di doverne
ammalare, come ne ammalò, credio che non si sarebbe tenuto dal bagnarvisi: ed uno vedendo una
sala grandissima, bellissima, allegra di luce, splendente doro, e rifiorita di pitture, non gli viene
voglia di recitarvi sue dicerie, se questo è il suo mestiere, di esservi lodato, illustrato, riempiuto
dapplausi, e divenire quanto è possibile anchegli una parte di quella bellezza; ma dopo di averla
osservata attentamente ed ammirata soltanto, uno se ne va lasciandola vuota e sorda, e senza dirvi
nulla, senza tenervi ragionamento, come se fosse mutolo, o per invidia risoluto di tacere? In fede
mia, questo non è di persona gentile ed amante del bello, ma di villana, e mancante di buon gusto,
ed anche sciocca, tenersi indegno di cose piacevolissime, mostrarsi estranio a cose bellissime, e non
comprendere che in modo ben diverso le persone colte e le ignoranti riguardano uno spettacolo. A
queste basta pure il vedere, riguardare, girare gli occhi intorno, levarli alla soffitta, dimenar la
mano, e dilettarsi in silenzio per timore di non poter dire parole degne della veduta: ma luomo colto
che si fa a riguardare una cosa bella, non si contenterà, credo, di prenderne diletto solo con gli
occhi, nè rimanersi muto spettatore della bellezza, ma cercherà secondo suo potere di trattenersi a
considerarla, e rimunerarla di parole. E rimunerare non è lodare solamente una sala (chè questo
forse conveniva a quel giovane isolano che tanto maravigliò a veder la casa di Menelao, e paragonò
alle bellezze del cielo lavorio e loro di essa, perchè in terra non aveva veduto nientaltro così bello),
ma tenere in essa un ragionamento, e raccoltevi elette persone recitarvi una diceria, questo sarà
lodarla in parte ed onorarla. Cosa piacevolissima, a creder mio, è la più bella delle sale aperta per
accogliere un discorso; ed essendo piena di lodi e di plausi, dolcemente echeggia come leco degli
antri, segue il discorso, prolunga la voce, fermasi sovra le ultime parole, anzi come attento uditore
va ripetendo i detti, e loda il dicitore, facendone imitazione non punto sgradevole; nella stessa guisa
che ai canti de pastori risuonano le balze, contro cui batte la voce e si ripercuote, e glignoranti
credono che ai canti ed ai gridi risponda una donzella abitante in mezzo le rupi e parlante di sotto le
pietre. Per me credo che con la magnificenza di una sala si sollevi la mente del dicitore, e si ecciti a
parlare, come se lo spettacolo stesso la ispirasse: perocchè appena che lanima riceve per gli occhi
una bellezza, subito secondo questa ella si compone e parla. Crederemo che ad Achille la vista delle
armi accresceva lira contro i Frigi, e quando se le provava indosso si eccitava e desiderava la
battaglia: ed il desiderio del dire non crescerà per la bellezza de luoghi? A Socrate bastava un
platano fronzuto, erba fiorita, ed una chiara fonte, poco lungi dallIlisso; e quivi seduto ironeggiava
con Fedro di Mirrina, disputava con Lisia figliuolo di Cefalo, e chiamava le Muse, e credeva che
dovessero venire in quella solitudine ad aiutarlo in quei ragionamenti damore; e benchè vecchio non
si vergognò dinvocar quelle vergini ad intervenire in ragionamenti intorno allamor de garzoni: ed in
questo luogo così bello non crederemo noi che esse anche non chiamate verranno? Nè questo è un
ricetto bello per ombra soltanto, o per un bel platano, ancorchè, lasciando quello su lIlisso, dicessi il
platano doro del re; il quale era una maraviglia per il gran valore solamente, ma nè arte, nè bellezza,
nè vaghezza, nè proporzione, nè leggiadria era in quel lavoro; barbarico spettacolo di una gran
massa doro, che faceva invidiar chi lo vedeva, e tener beato chi lo possedeva; ma non aveva altro
pregio, chè gli Arsacidi non si curavano di bellezza, nè sfoggiavano per dilettare, nè cercavano che
gli spettatori lodassero, ma che rimanessero abbagliati; perchè non di bellezza ma di ricchezza sono
vaghi i barbari. Per contrario la bellezza di questa sala non è fatta per occhi di barbari, nè secondo
burbanza persiana, o reale ostentazione, nè vuole povero solamente lo spettatore, ma accorto, e che
non abbia il giudizio pure negli occhi, ma sia di certo senno e di buon discorso. Essere esposta alla
parte più bella del giorno (e la più bella ed amabile parte del giorno è il suo principio), avere il sole
come ei spunta, riempirsi tutta di luce aprendosi le finestre, alla quale esposizione gli antichi
facevano anche i templi; la lunghezza corrispondere alla larghezza, e luna e laltra allaltezza; le
finestre libere e riguardanti proprio ai quattro punti, non sono cose piacevoli tutte queste, e degne di
lode? Ammirabile ancora è la soffitta per leggiadra semplicità, per eleganza modesta, per dorature
di conveniente simmetria senza odiosa soverchianza, a guisa di pudica e bella donna cui basta per
rilevar sua bellezza o una sottile collana intorno al collo, o in dito un anello portabile,(65) o
ciondolini agli orecchi, o una fibbia, o un nastro che raccoglia la sparsa chioma, e tanto di
ornamento aggiunge alla sua leggiadria quanto di porpora alla veste: ma le cortigiane, massime le
più brutte, la veste tutta di porpora e il collo fanno tutto doro; cercando di attirare con lo sfoggio, e
di supplire al manco della bellezza con aggiungere fregi esterni; perchè credono che il braccio pare
più pulito se vi risplende loro, che il piede se non è ben fatto si nasconde nel sandalo doro, e che la
faccia stessa pare più amabile fra tanto splendere doro. Così quelle: ma la donna modesta usa
delloro quanto le basta, e quanto pur lè necessario; e credo non si vergognerebbe di mostrare la sua
bellezza anche senza di esso. Il cielo di questa sala adunque, anzi il suo capo, vago per sè stesso, è
così ornato doro come il cielo di notte splende per gli astri sparsivi, e si abbella de loro fuochi: se
fosse tutto fuoco non ci parria bello, ma terribile. E qui si vede che loro non è ozioso, nè messo fra
gli altri ornamenti per solo diletto, ma dà un piacevole splendore, che colora di biondo tutta la sala;
chè quando la luce vi batte, e si mescola con loro, risplendono insieme, e addoppiano la serenità di
quella biondezza. Tale è il palco ed il soffitto di questa sala, che a lodarlo ci vorria Omero il quale
lo direbbe di sublime volta, come il talamo di Elena, o raggiante, come lOlimpo. Per gli altri
ornamenti poi, per le dipinture delle pareti, e per i bei colori, tutti lucenti, puri, e schietti, si potria
ben paragonare ad una veduta di primavera, ad un prato fiorito; se non che lì sfiorisce, seccasi,
mutasi, e la bellezza si perde; e qui la primavera è perpetua, il prato non secca mai, ed il fiore è
immortale, perchè la sola vista lo tocca, e ne raccoglie la dolcezza. Ora tante e tali vaghezze chi non
si diletterebbe a vedere? e chi non bramerebbe, anche con uno sforzo, parlare in mezzo ad esse,
sapendo che è gran vergogna lasciarsi sopraffare dalla veduta? Perocchè assai tira laspetto delle
cose belle, e non pure luomo, ma il cavallo con più brio corre per un campo piano, molle,
accogliente il passo, cedevole sotto il piede, e non resistente allunghia; e allora spiega tutte le sue
forze, si slancia alla carriera, e gareggia con la bellezza del campo. Il pavone venendo ad un prato
sul cominciare della primavera, quando i fiori sbocciano, e sono non pure più vaghi ma si diria
quasi più fioriti, e di più puri colori, anchesso sciorinando le ali e spandendole al sole, sollevando la
coda e spiegandola a ventaglio, fa mostra dei fiori suoi e della primavera delle sue ali, come se il
prato lo sfidasse. Si volge infatti e fa ruote, e pompeggia di sua bellezza; e allora pare più mirabile
per i colori che alla luce cangiano, e mutansi dolcemente, e pigliano unaltra specie di bellezza. E
questo avviene specialmente a quegli occhi che ha in punta delle sue penne, ciascuno dei quali è
circondato come di un iride; sicchè quel colore che pareva bronzo, se ei piegasi un po, diventa oro,
e quello che al sole pareva azzurro, ombrandosi è verde, e così le sue piume cangiano bellezze ai
riflessi della luce. Quando il mare sembra che inviti e attiri con la sua placidezza, voi sapete senza
che io vel dica, che anche un montanaro non andato mai per acqua sente la voglia dimbarcarsi, e di
navigare, e di allargarsi dalla terra, specialmente se vede che una leggera brezza gonfia la vela, e
che la nave snella e presta va come sdrucciolando su le onde. Così questa sala con la sua bellezza
invita a dire, e stimola il dicitore, e porge ogni mezzo per essere applaudito. A questa spinta io
cedo, anzi già ho ceduto, e sono entrato in questa sala per recitare una diceria, tiratovi come da
incanto di cutrettola o di sirena, ed ho molta speranza che se anche il mio dire per laddietro era
rozzo, ora parrà bello, come di bella veste adornato.
Ma una certa altra Diceria, non ignobile anzi nobilissima come ella si vanta, mentre io parlava
picchiavami dentro, e voleva rompermi le parole; e poi che ho finito, ella dice che io non ho detto il
vero; e si meraviglia come io abbia potuto affermare che sia più acconcia ai saggi deloquenza una
sala bella ed ornata di pitture e dorature; quando che appunto avviene il contrario. Or, se vi pare,
venga innanzi questa Diceria, ed a voi conti le sue ragioni, come a giudici; giacchè ella stima che
sia più utile al dicitore una povera sala e rozza. Udiste già quello che ho detto io, e non debbo
ripeterlo: venga ella ora e parli, chè io tacerò, e per poco le cederò il luogo. Adunque la Diceria dice
così:
Loratore che testè parlava, o giudici, ha detto molte e grandi lodi di questa sala, e lha
magnificata col suo discorso ed io tanto sono lontano dal biasimarla, che credo anzi di dovere
aggiungere alcune cose da lui tralasciate; perchè di quanto essa vi parrà più bella, di tanto più
contraria al bisogno di chi parla sarà dimostrata. E primamente giacchè egli ha fatto menzione di
donne, acconciature, e dorerie, permettete che usi anchio di questa immagine. Io dico adunque che
anche le donne belle non sono illeggiadrite ma sfavorite dai molti ornamenti, perchè chi si abbatte a
rimirarle, colpito dalloro e dalle pietre preziose, invece di lodare il colorito, o la guardatura, o il
collo, o il braccio, o il dito, non bada a questo, e guarda lagata, o lo smeraldo, o la collana, o il
braccialetto, per modo che ella deve spiacersi di non essere guardata ella a cagione degli
adornamenti, perchè la gente non ha tempo di lodarla, e solo per un di più attende a lei. Il che parmi
che debba avvenire ancora a chi fra così belle opere di arte vuol dare un saggio di eloquenza:
imperocchè fra tante bellezze la parola si nasconde, soscura, si perde, come se uno mettesse una
lucerna in un grande incendio, o una formica sopra un elefante od un cammello. A questo deve
badare un dicitore. Inoltre si turba la voce di chi parla in così risonante ed echeggiante sala, la quale
ripete, respinge, ribatte, anzi ricopre la voce, come fa la tromba al flauto se suonano insieme, o il
mare ai rematori quando nel furiare della tempesta col canto si animano scambievolmente a vogare:
chè il gran rumore opprime e non fa udire il piccolo. Di quello poi che dice lavversario che la bella
sala sveglia il dicitore e lo rende più voglioso, a me pare che faccia il contrario; perchè sgomenta,
atterrisce, turba la mente, ed avvilisce il pensare che è una gran vergogna se, come il luogo, non
parrà bello anche il discorso. Manifestissimo così è il biasimo, come se uno vestito di armi
bellissime fuggisse innanzi agli altri, farebbe la sua viltà più palese per le armi. E questo parmi che
fu inteso anche da quelloratore dOmero che non badava punto alla apparenza, anzi stava in
sembianza duomo zotico, affinchè paresse più ammirabile la bellezza del suo discorso pel paragone
di quel rozzo aspetto. E poi la mente del dicitore deve necessariamente occuparsi dello spettacolo, e
sviarsi dalla diligente attenzione, perchè il vedere la vince, la chiama a sè, e non le permette di
badare al discorso: onde come si potrebbe non discorrere male quando lanima è distratta da veduta
piacevole? Non dico poi che quelli che vengono per ascoltare, come entrano in questa sala, di
uditori diventano spettatori; e non ci è Demodoco, e Femio, e Tamiri, e Anfione ed Orfeo che tenga,
e che dicendo ritragga la loro mente da ciò che vedono: ma ciascuno come entra la soglia,
trovandosi in mezzo a tante bellezze, pare che tuttaltra cura lo stringa e morda, che quei discorsi e
lascoltare: ma è tutto inteso a ciò che si vede, se per caso ei non è cieco del tutto, o se non si ascolta
di notte, come nel tribunale dellAreopago. Che la potenza del discorso non possa stare a petto alla
veduta, ce lo insegna anche la favola delle Sirene paragonata con quella delle Gorgoni: quelle
allettavano i naviganti con le soavi e lusinghevoli canzoni, e chi approdava intrattenevano, ed in
somma volevano alcun tempo a far loro effetto; e talvolta ancora tuluno passò oltre, e non si curò
del canto: ma la bellezza delle Gorgoni, come quella che colpiva più forte e nella parte più nobile
dellanima, subito rendeva immobile e senza voce chi la mirava; e come vuole la favola e si dice,
divenivan di sasso per la maraviglia. Sicchè ciò che egli diceva del pavone poco innanzi, io credo
che confermi il detto mio; perchè il pavone piace per la veduta, non per la voce. Infatti se uno piglia
un rosignuolo o un cigno e lo fa cantare, e mentre cantano piglia un pavone che non canta, io so che
lattenzione si rivolge a questo, e non bada ai gorgheggi di quelli: tanto il piacere della veduta vince
tutti gli altri, Ed io, se volete, vi allegherò per testimone un savio uomo, il quale subito mi attesterà
che le cose vedute sono più potenti delle udite. Tu, o banditore, chiama Erodoto figliuolo di Lisso,
dAlicarnasso. Ecco, il testimone ha udito, e si è presentato. Concedetegli che ei vi parli in Giono,
come è sua usanza: - Vere cose, o giudici, vi narra questa istoria, e credete che di quante essa ne
racconta preferisce le vedute alle udite; perocchè meno delle orecchie ingannano gli occhi: Udite il
testimone che dice? come dà il primato alla veduta? Ed a ragione: chè le parole sono alate, e come
escono, se ne passano e volano via; ma il diletto della veduta, rimanendo sempre e durando, attira
interamente lo spettatore. Come dunque non sarà pericolosa avversaria al dicitore una sala sì bella e
sì vistosa? Ma il forte non lho detto ancora. Voi stessi, o giudici, mentre noi parlavamo, guardavate
nella soffitta, ammiravate le pareti, osservandone le pitture ad una ad una. Nè avete a vergognarvi: è
cosa cotesta che avverrebbe a tutti gli uomini, e specialmente per questi subbietti sì belli e sì varii.
Arte così fine, antiche istorie così utili, sono veramente attrattive, e vogliono esser mirate da colte
persone. Ed affinchè non riguardiate sempre lì, dimenticando di noi, su via, ve le descriverò, come
posso, con le parole: chè vi diletterete, credo, udendo le cose che ora pur vedendo ammirate. E forse
per questa cagione a me darete lode, e vittoria su lavversario, chè ve le spiego e ve ne addoppio il
diletto. Vedete pericoloso ardire, senza colori, senza disegno, così in aria, presentarvi tante
immagini: chè esile pittura è quella della parola. A destra adunque di chi entra, ad una favola
Argolica è misto un caso pietoso avvenuto in Etiopia, Perseo uccide la balena, libera Andromeda,
che tra poco ei deve sposare, e vassene con lei; impresa che ei fece quando passando rivolava dalle
Gorgoni. In breve spazio lartista rappresentò molte cose; il pudore e la paura della vergine che
rimira la battaglia dallalto duno scoglio, lardire dellamoroso garzone, e lorribile aspetto della bestia
che si avventa irta di spine e con una gran bocca spalancata. Perseo con la sinistra le presenta la
Gorgone, e con la destra la percuote della spada; e già quanta parte della balena ha veduto Medusa è
già pietra, e quanta ne rimane animata, è ferita dalla falciata spada. Appresso a questa unaltra istoria
è dipinta naturalissima, la cui prima idea parmi che il pittore tolse da Sofocle o da Euripide, i quali
rappresentarono un quadro simile. Due giovani amici, Pilade il Focese, e Oreste tenuto già per
morto, entrano nella reggia nascostamente, e tutti e due uccidono Egisto: Clitennestra giù morta
giace sovra un letto mezza nuda, e le ancelle spaurite al fatto quali in atto di gridare, e quali di
cercare dove fuggire. Bello è laccorgimento del pittore, il quale accennò solamente la parte empia
di quel fatto, passandovi sopra come già compiuta, e tutti intesi rappresentò i giovani alluccisione
delladultero. Dipoi è un dio leggiadro, ed un vago garzonetto; uno scherzo amoroso. Branco seduto
sovra unalta pietra, tiene fra le mani una lepre, e scherza con un cane, il quale pare che salti verso di
lui su quellalto: vicino è Apollo che sorride, e si compiace dello scherzo del fanciullo, e degli sforzi
del cane. Appresso a queste pitture è unaltra impresa di Perseo, che fu prima di quella della balena;
Medusa cui è troncato il capo, e Minerva che difende Perseo: il quale ha già compiuta questa
impresa, ma non ha guardato mai in altro che nellimmagine della Gorgone su lo scudo, perchè
sapeva la pena di vederla viva. Nella parete di mezzo dirimpetto la porta in alto è un tempietto di
Minerva: la dea è di bianco marmo, di aspetto non guerresco, ma quale sarebbe questa dea guerriera
che apportasse pace. Dopo di questa unaltra Minerva, non di marmo, ma dipinta; Vulcano
innamorato la insegue, ella fugge, e di questo inseguimento nasce Erittonio. A questa segue unaltra
pittura di antica istoria. Orione cieco porta su le spalle Cedalione, il quale così lo guida per la via
che mena alla luce: il Sole apparisce, e risana lo storpio, e Vulcano da Lenno riguarda il fatto.(66)
Indi è Ulisse quando fece il pazzo per non andare alla guerra con gli Atridi: gli stanno innanzi i
messi venuti a chiamarlo. Tutto fa credere la sua finzione, il giogo, la coppia dispaiata, lignoranza
di ciò che ei fa; ma si scopre pel bambino. Chè quel furbo di Palamede di Nauplio, accortosi di che
si tratta, piglia Telemaco, e minaccia di ucciderlo tenendo la spada nuda in mano, e col finto pazzo
ei si finge furioso. Ulisse per questo timore rinsavisce, torna padre, e lascia la simulazione. Ultima è
dipinta Medea, che accesa di gelosia, guarda bieca i due fanciulli, e medita terribil opra con la spada
che tiene in mano, e quelle creaturine le sorridono senza sapere la loro sorte, e guardano quella
spada. Tutte queste dipinture, o giudici, non vedete voi come distornano luditore, e lo traggono a
guardarle, e lasciano solo chi parla? Ed io ve le ho esposte non affine che voi reputando il mio
avversario audace e prosuntuoso per essersi messo in questo impaccio, lo condanniate, labbiate in
uggia, lo lasciate sul meglio del suo discorso, ma affine che piuttosto gli porgiate aiuto, e serrando
gli occhi come potete, ascoltiate le sue parole tenendo conto della difficoltà dellimpresa. Che
appena così, avendovi non per giudici ma per aiutatori, egli potrà essere tenuto non del tutto
indegno della magnificenza di questa sala. E se io così vi prego pel mio avversario, non vi
maravigliate: chè per amore di questa sala io vorrei che chi parla in essa, chiunque egli sia, fosse
applaudito.
LXI.
I LONGEVI.
Un sogno, o nobilissimo Quintilio, mi comanda di offerirti questo dono de Longevi; un sogno
che già io feci e raccontai agli amici quando tu ponesti il nome al tuo secondo figliuolo; ma non
sapendo indovinare quali longevi mi era comandato di offerirti, pregai allora gli Dei di concedervi
lunghissima vita a te ed ai figliuoli tuoi, credendo che questa sia utile a tutto il genere umano, e in
particolare a me ed a tutti i miei: perchè parevami che anche a me presagisse il dio un qualche bene.
Poi considerando tra me venni a pensare che gli Dei comandando questo ad un uomo che attende
agli studi delle lettere, forse vogliono che io ti offerisca qualche frutto dellarte mia. Credendo
adunque felicissimo questo giorno del tuo natale, ti presento in dono uno scritto in cui si narra di
quelli che pervennero a lunga vecchiezza con mente sana e corpo integro. Ed un utile doppio ti
verrà da questo scritto: un certo desiderio ed una buona speranza di potere anche tu vivere
lunghissimamente, ed un certo insegnamento da questi esempi, se consideri che coloro i quali più
attesero alla cura del corpo e dellanima loro, giunsero alla più lunga vecchiezza in salute perfetta.
Adunque Nestore, il più savio degli Achei, dilungò la vita per tre generazioni, come dice Omero,
il quale ce lo rappresenta esercitato in forti esercizii di anima e di corpo. Lindovino Tiresia, dice la
tragedia, giunse fino a sei generazioni, ed è verisimile che un uomo tutto degli Dei, e di purissima
vita come Tiresia, sia pervenuto a tardissima vecchiezza. E si racconta esserci intere genti longeve
per il modo onde vivono; come tra gli Egizi quelli che sono chiamati scribisacri; tra gli Assirii e gli
Arabi glinterpetri dei miti; tra glIndi i Bramani che attendono interamente alla filosofia; e quelli che
si chiamano Magi, gente fatidica e timorata degli Dei, appo i Persiani, ed i Parti, e i Battri, e i
Corasmi, e gli Arii, e i Sachi, e i Medi, e molti altri popoli barbari, vivono prosperosi e molto
tempo, usando per la magia unesatta regola nel vivere. Già anche nazioni intere ci ha longevissime;
come i Seri è fama che vivono sino a trecento anni, o che laere o che la terra sia cagione di sì lunga
vecchiezza, o ancora il modo di vivere, perchè dicesi che tutta questa nazione beve acqua. E gli
Atoti si scrive che vivano sino a cento trentanni, ed i Caldei oltre i cento: e questi usano pane dorzo
per serbarsi la vista acuta, e per questa regola si dice che abbiano anche gli altri sensi più squisiti
che gli altri uomini. E ciò delle genti e delle nazioni longeve, le quali toccano a tardissima
vecchiezza chi dice per la terra e per laere, chi per la regola del vivere, e chi per luna cosa e laltra.
Ma io debbo darti una buona speranza narrandoti come in tutta la terra ed in ogni aere furono
uomini longevi, i quali con esercizi convenevoli e acconcia maniera di vivere serbarono buona
salute.
Dividerò questo discorso secondo le condizioni delle persone, e prima dirò delle persone reali e
dei capitani, uno dei quali il nostro pio, augusto, felice imperatore innalzò alla sublime dignità , e
fece grandissimo benefizio allimpero;(67) e così anche tu rimirando in questi longevi per
simiglianza di complessione e di fortuna, più volentieri spererai una vecchiezza sana e lunga, ed
imitandoli ti procurerai con la regola una lunghissima e validissima vita.
Numa Pompilio, il più felice dei re di Roma, che attese principalmente al culto degli Dei, si narra
che visse oltre gli ottantanni. E Servio Tullio, altro re di Roma, dicesi che visse anche sopra gli
ottanta. Tarquinio poi, lultimo re di Roma, che fu scacciato e si ritirò in Cuma, dicono che visse più
de novanta anni gagliardissimo. Questi sono i re di Roma, ai quali aggiungerò altri re, che
pervennero a tarda vecchiezza, e le particolarità di ciascuno. Infine scriverò degli altri romani che
ebbero una lunga vecchiaia, e ad essi unirò gli altri che nel resto dItalia vissero più lungamente.
Così con la testimonianza della storia si confutano quelli che vogliono calunniare questaria;(68) e
noi possiamo sperare di vedere esauditi i nostri voti, che il Signore della terra tutta e del mare
giunga allultima e piena vecchiezza, il quale già vecchio regge il suo impero.(69)
Adunque Argantonio re de Tartessii visse centocinquantanni, a detta di Erodoto storico, e del
lirico Anacreonte: benchè a molti ciò paia una favola. Agatocle tiranno di Sicilia morì di
novantacinque anni, come raccontano Democare e Timeo. Gerone tiranno di Siracusa, essendo
attempato di novantadue anni morì di malattia, avendone regnato settanta, come Demetrio Calatiano
ed altri dicono. Atea re degli Sciti, pugnando contro Filippo presso il fiume Istro, cadde, che aveva
oltre novantanni. E Barduli, re deglIllirii dicesi che combattè a cavallo nella guerra contro Filippo,
avendo novantanni compiuti. Terete, re degli Odrisii, a dire di Teopompo, morì di novantadue anni.
Antigono di Filippo, il monocolo, re de Macedoni, combattendo in Frigia contro Seleuco e
Lisimaco, trapassato di molte ferite cadde morto avendo ottantunanno, come racconta Ieronimo che
fu con lui a quella guerra. E Lisimaco re dei Macedoni, nella battaglia contro Seleuco, morì di
ottantanni compiuti, come dice lo stesso Ieronimo. Antigono poi, che era figliuolo di Demetrio e
nipote di Antigono il monocolo, resse quarantaquattranni i Macedoni, e ne visse ottanta, come narra
Medio ed altri storici. Così ancora Antipatro di Iolao, che ebbe gran potere e fu tutore di molti re di
Macedonia, essendo vissuto sopra ottantanni, si morì. Tolomeo di Lago, il più felice dei re del suo
tempo, resse lEgitto sino allottantaquattresimo anno, e due anni prima di morire cesse il regno al
figliuolo Tolomeo cognominato Filadelfo, che solo de fratelli successe nel paterno regno. Filetero
eunuco fu il primo che fondò e tenne il regno di Pergamo, e lasciò la vita di ottantanni. Ed Attalo,
soprannominato Filadelfo, anche re di Pergamo, presso il quale andò Scipione capitano romano, di
ottandue anni finì i giorni suoi. Mitridate re di Ponto, detto il fondatore, fuggendo da Antigono il
Monocolo, morì nel Ponto, essendo vissuto ottantaquattro anni, come riferisce Ieronimo ed altri
storici. Ariarate re di Cappadocia visse ottantadue anni, secondo narra Ieronimo; e poteva forse
vivere di più, ma nella battaglia contro Perdicca fu fatto prigione e messo in croce. Ciro il vecchio,
re de Persiani, come narrano gli annali persiani ed assirii, coi quali pare che si accordi Onesicrito
che scrisse le geste di Alessandro, pervenuto al suo centesimo anno, chiese conto di ciascuno de
suoi amici; e venendo a sapere che molti di essi erano stati spenti da Cambise suo figliuolo, e
dicendo Cambise che per comando di lui aveva ciò fatto, sia per questa crudeltà appostagli dal
figliuolo, sia per biasimarlo di questa ingiustizia, si morì di tristezza. Artaserse soprannominato il
Memorioso, contro il quale fece guerra il fratello Ciro, regnando su i Persi, finì di malattia,
attempato di ottantasei anni, o, come scrive Dinone, di novantaquattro. Artaserse secondo, re de
Persi, il quale, dice lo storico Isidoro Caraceno, regnò al tempo de padri suoi, essendo vissuto
novantatrè anni, fu ucciso per insidia tesagli dal fratello Gositro. Sinatrocle re de Partiei, essendo
nel suo ottantesimo anno, fu ricondotto nel suo regno dai Sacauraci sciti, e ricominciò a regnare, e
regnò sette anni. Tigrane re dArmenia, che guerreggiò con Lucullo, aveva ottantacinque anni
quando morì di malattia. Ispasine, che resse Caracia e le contrade su lEritreo, di ottantacinque anni
ammalossi e morì. Tireo, terzo re dopo Ispasine di novantadue anni morì per malattia. Ed Artabazo,
settimo dopo Tireo, che regnò in Caracia, di ottantasei anni ricondottovi dai Parti, tenne quel regno.
E Mnascire re de Partiei visse novantasei anni. Massinissa re dei Mauri, visse novantanni. Asandro
da divo Augusto dichiarato, invece di etnarca, re del Bosforo, di novantanni non pareva secondo a
nessun cavaliere nè fante; ma come vide che i suoi si davano alle parti di Scribonio, si astenne dal
cibo e morì in età di novantatrè anni. Goeso che, come dice Isidoro Caraceno, al suo tempo tenne la
terra dOman produttrice daromi, di cento quindici anni si morì duna malattia.
E questi sono i re che vissero più lungo tempo, come raccontano i nostri antichi. Ma poi che e
filosofi, e in generale quelli che attendono a varie discipline, avendo cura di sè stessi, giunsero a
tarda vecchiezza, scriverò anche di questi, ciò che si racconta, e prima dei filosofi. Democrito di
Abdera venuto a cento e quattro anni si astenne dal cibo, e morì. Zenofilo il musico, valente nella
filosofia di Pitagora, come dice Aristosseno, visse oltre centocinque anni in Atene. Solone, Talete, e
Pittaco, che sono tra i sette chiamati savi, vissero ciascuno cento anni. E Zenone, capo della
filosofia stoica, novantotto: del quale si racconta che nellentrare in parlamento essendo caduto per
un inciampo, disse: A che mi chiami? e tornato a casa si astenne dal cibo, e si morì. Cleante
discepolo e successore di Zenone, avendo novantanove anni, gli nacque un enfiato sul labbro, e
deliberossi per non sofferirlo di morire dinedia; ma essendogli venute lettere da alcuni amici,
riprese cibo, fece quello che gli amici volevano, e di nuovo astenendosi da ogni nutrimento, lasciò
la vita. Senofane, figliuolo di Dessino, e discepolo di Archelao il fisico, visse novantunanno.
Senocrate, che fu discepolo di Platone, ottantaquattro. Carneade, il capo della nuova Academia,
ottantacinque. Crisippo ottantuno. Diogene di Seleucia sul Tigri, filosofo stoico, ottantotto.
Posidonio dApamea in Siria, e cittadino di Rodi, filosofo ed istorico insieme, ottantaquattro: e
Critolao il peripatetico, oltre gli ottantadue. Il divino Platone ottantuno. Atenodoro figliuolo di
Sandone, di Tarso, stoico, il quale fu maestro del divo Cesare Augusto, e ne ottenne che la città di
Tarso fosse alleviata di tributi, dopo ottantadue anni di vita si morì nella sua patria; ed il popolo di
Tarso ogni anno gli rende onori come ad un eroe. Nestore, stoico, di Tarso, maestro di Cesare
Tiberio, novantadue anni: e Senofonte, figliuolo di Grillo, visse oltre i novanta. E questi sono i
filosofi più chiari.
Tra gli storici poi Ctesibio di centoventiquattranni morì nel Peripato, come narra Apollodoro
nelle Cronache. Ieronimo, che fu in mezzo a guerre, e sostenne fatiche e ferite, pur visse cento e
quattro anni, come dice Agatarchide nel nono delle istorie di Asia, ed ammira questuomo che sino
allultimo giorno usava gagliardo, ed ebbe tutti i sensi sempre sani e perfetti. Ellanico di Lesbo
ottantacinque; e Ferecide il Siro parimente ottantacinque. Timeo di Tauromenio dicesi essere
vissuto novantasei anni, e cominciò a scrivere listoria avendone ottantaquattro, come egli stesso
dice nel principio dellopera. Polibio, figliuol di Licorta, di Megalopoli, tornando di contado a
cavallo cadde, e della caduta ammalò, e morissi di ottantadue anni. Ipsicrate, Amiseno, storico, e
pieno di molta dottrina, di novantadue anni.
Tra i retori Gorgia, che alcuni chiamano sofista, di cento ed otto anni morì dinedia: il quale
dicono che dimandato come fosse giunto a sì tarda vecchiezza, e sana, e con tutti i sensi, rispose,
che non era mai andato a banchettare con altri. Isocrate di novantasei anni scrisse il panegirico; e
verso il suo novantanovesimo, come seppe che gli Ateniesi erano stati vinti da Filippo alla battaglia
di Cheronea, con dolorosa voce profferì quel verso di Euripide, appropriandolo a se stesso:
La Sidonia città Cadmo lasciando,
e soggiungendo: la Grecia sarà serva, finì di vivere. Apollodoro di Pergamo, retore, che fu maestro
del divo Cesare Augusto, e col filosofo Atenodoro di Tarso lo educò, visse quanto Atenodoro,
ottandue anni. E Potamone, non ignobil retore, novanta.
Sofocle il tragico poeta nellinghiottire un acino duva si soffogò, ed era di novantacinque anni.
Verso il fine de giorni accusato come demente dal figliuolo Iofonte, lesse ai giudici il suo Edipo a
Colono, mostrando con quel dramma quanto egli era sano di mente: sicchè i giudici dopo di averlo
grandemente ammirato, sentenziarono che il figliuolo era pazzo. Cratino il poeta comico visse
novantasette anni, e presso al suo termine avendo dettata la sua Pitina, riportò vittoria, e indi a poco
morì. Filemone il comico, aveva novantasette anni come Cratino, e giaceva sul letto
tranquillamente; vedendo un asino mangiare certi fichi preparati per lui, prorompe in una gran
risata; e chiamato il servo, continuando a ridere, comanda di porgere anche bere allasino, e così dal
continuo e gran ridere soffogato morì. Anche Epicarmo poeta comico dicesi che visse novantasette
anni. Anacreonte il lirico visse ottantacinque; e Stesicoro il lirico altrettanti; e Simonide di Ceo
oltre i novanta. Dei grammatici poi Eratostene figliuolo dAglao, Cirenese, che non pure
grammatico, ma può esser chiamato poeta, e filosofo, e geometra, visse ottantadue anni. E Licurgo
il legislatore dei Lacedemoni si narra che visse ottantacinque anni.
Questi re ed uomini dotti ho potuto raccogliere: e giacchè ho promesso di scrivere ancora di
alcuni Romani e di altri Italiani lungamente vissuti, di essi, col volere deglIddii, o venerando
Quintilio, io ti conterò in un altro libro.
Correzioni apportate nelledizione elettronica Manuzio:
giunga allulma e piena vecchiezza = giunga allultima e piena vecchiezza
Fereeide il Siro = Ferecide il Siro
LXII.
ENCOMIO DELLA PATRIA.
Che niente sia più dolce della patria, è proverbio già trito. E se niente è più dolce; vè forse altra
cosa più veneranda e più sacra? Eppure quante cose gli uomini tengono per venerande e sacre, di
esse è cagione e maestra la patria che ci generò, ci nutrì, ci educò. Sicchè una città per grandezza,
splendidezze, e ricchezza di edifizi ammirano molti, ma la patria amano tutti; e nessuno si lascia
tanto ingannare dal piacere di vedere il mondo, che per maraviglie vedute in altri paesi ei
dimentichi la patria. Quegli adunque che si gloria di essere cittadino duna città felice, parmi che non
sappia quale onore si deve alla patria: e dimostra chiaro come ei si dispiacerebbe se la sorte gliene
avesse data una più modesta. Per me è dolce onorare anche il nome della patria. Quando si vuol far
paragone di città tra loro conviene esaminare grandezza, bellezza, abbondanza di grasce e di merci;
ma quando si tratta di scelta di città, nessuno eleggerebbe una più splendida lasciando la patria:
bramerà sì che la patria sia come le altre città fortunate, ma la preferirà qualunque ella sia. Così
fanno i figliuoli discreti, ed i buoni padri. Un buono e bravo giovane non onorerà un altro più di suo
padre; e un padre non trascurerà il figliuolo ed amerà unaltro giovane: anzi i padri si lasciano tanto
vincere dallaffetto pe loro figliuoli, che i più belli, i più grandi, i più adorni di virtù sembrano ad
essi i figliuoli loro. E chiunque non giudica così del figliuol suo a me pare che non abbia occhi di
padre. Inoltre il nome di patria è il primo ed il più caro fra tutti. Imperocchè nessuno è più caro del
padre: e se uno onora rispettosamente suo padre, come la legge e la natura comanda,
convenientemente onorerà la patria; giacchè il padre stesso è un bene che ci è dato dalla patria, e il
padre del padre, e tutti gli antenati nostri; e sino agliddii patrii risale questo nome e li abbraccia.
Anche gliddii amano le patrie loro; e mentre essi, come è da credere, riguardano a tutti gli uomini,
stimando che appartenga a loro la terra tutta ed il mare, ciascuno di essi fra tutte le altre città
preferisce quella in cui egli nacque: e le città patrie degli dei sono più venerate, e più sante sono le
isole nelle quali festeggiasi il natale di qualche iddio: infatti si tiene che sono più graditi agli dei i
sacrifizi, quando uno va ad offerirli nei luoghi dovessi abitano. E se agliddii è caro il nome della
patria, come non devessere agli uomini molto di più? Perocchè ognuno vide la prima volta il Sole
dalla patria sua, per modo che anche questo dio, quantunque sia comune, pure a ciascuno pare che
sia un dio patrio, perchè la prima volta lo mirò dal suo luogo natio: quivi cominciò a parlare,
imparando le prime parole del suo idioma; quivi a conoscere gli dei. E se uno ha sortito una patria
tale, che egli deve andare in altra città per imparar cose maggiori, per averci imparato pur queste sia
grato alla patria sua; perchè non avrebbe conosciuto neppure il nome di città, se la patria non gli
avesse insegnato esservi una città. Tutte le discipline e le conoscenze gli uomini vanno
raccogliendo, per rendersi con queste più utili alle patrie loro: acquistano ricchezza per una certa
ambizione di spenderle in patria: ed a ragione, credio; perchè non debbono essere ingrati, avendo
avuti sì grandi benefizi. Se tra privati uno resta obbligato, come è dovere, quando riceve un
benefizio da alcuno, tanto più si deve compensare convenientemente la patria. Per lingratitudine ai
genitori ci sono leggi in ogni città: comune genitrice e madre di tutte si dee reputare la patria, e
renderle il compenso del nutrimento che ci ha dato, e delle leggi onde ci ha educati. Non si è veduto
mai nessuno così dimentico della patria, che, stabilitosi in altra città, non più se ne curi: anzi quelli
che in paesi stranieri incontrano sventure, invocano sempre, come il maggiore dei beni, la patria; e
quelli che fanno fortuna, benchè abbiano tutte le felicità, pure credono che manchi loro una che è la
più grande, che essi non abitano in patria, ma sono forestieri; perchè la qualità di forestiere è
unonta: e quelli i quali nel tempo della loro peregrinazione divennero illustri per acquisto di
ricchezze, per gloria di onori, per pruove di dottrina, per lode di fortezza, tutti quanti li vedi
affrettarsi di ritornare in patria, perchè quivi vogliono sopratutto mostrare i beni che hanno
acquistato: e più si affretta di toccare la patria sua, chi più stimato ed onorato è tra forestieri.
Cara ai giovani è la patria; ed ai vecchi quanto più senno hanno dei giovani, tanto essa è più
diletta. Ogni vecchio desidera e prega di finire i giorni suoi nella patria sua, acciocchè dove egli
cominciò a vivere quivi il suo corpo ritorni alla terra che lo nutrì, e si congiunga ai padri suoi nel
sepolcro; chè brutta cosa è lessere forestiere anche dopo la morte, giacendo in terra straniera.
Quanto sia laffetto che i veri cittadini hanno per la patria loro, si vede neglindigeni: chè gli
avveniticci, come bastardi, facilmente mutano stanza, senza conoscere nome di patria e senza
amarla, stimando che in ogni luogo avranno da vivere, ponendo la misura della felicità nei piaceri
del ventre. Ma quelli cui la patria è madre, amano la terra in cui sono nati e cresciuti, benchè
piccola, benchè aspra, e povera ella sia; e se non possono lodare la virtù della terra, per la patria
loro sanno trovare altre lodi. E se vedono che altri vanta la sua lieta di larghi pascoli, e di campi
sparsi dalberi dogni maniera, essi non mancano di lodare la patria loro; dispregiano quella che è
nutrice di cavalli, ed esaltano la loro che è nutrice di garzoni. È tirato ognuno alla patria sua,
ancorchè sia un isolano, ancorchè possa vivere felice altrove, e rifiuta limmortalità che gli è offerta,
e preferisce il sepolcro nella patria sua; e il fumo della patria sua gli pare più lucente che il fuoco tra
gli stranieri. Tanto cara sopra tutte le cose sembra la patria, che tutti i legislatori del mondo ai più
grandi misfatti danno come la più gran pena lesilio. Nè diversamente dai legislatori pensano i
capitani degli eserciti, e nelle battaglie la maggior cosa che dicono per incuorare le schiere, è che
combattono per la patria: e nessuno vè che a udir questa, voglia esser codardo; chè anche i paurosi
rende animosi il nome della patria.
LXIII.
DEI DIPSI.
La parte meridionale della Libia è unarena profonda, ed una terra bruciata, deserta in gran parte,
interamente sterile, pianura tutta, senza filo derba, senza piante, senzacqua; chè se dopo le piogge
ne rimane qualche poco nei fossi impantanata, è così grossa e fetente, che un uomo neppure assetato
la beverebbe. Però è disabitata: e come potria abitarsi essendo così aspra, ed arida, e infruttuosa, e
tutta uno squallore? Il calore stesso, unaria che è infocata ed avvampante, e larena che bolle, fanno
quella regione del tutto impraticabile. I Garamanti soli che vi stanno al confine, gente spedita e
leggiera, che abitano sotto le tende, e vivono per lo più di caccia, essi talvolta ventrano cacciando
nella stagione dinverno, aspettate le piogge, quando il gran caldo si smorza, larena sinumidisce, e vi
si può camminare. La caccia loro è di asini selvaggi, di struzzi, e specialmente di scimmie, e talora
delefanti: chè questi soli animali durano alla sete ed alla gran fersa di quel sole. Eppure i Garamanti
quando hanno consumate le provvisioni di cibo che si portano, tornano subito indietro, temendo che
non si riaccenda larena, e non vi possano più camminare, e così colti come in una rete non muoiano
insiem con la preda. E la morte è inevitabile, se il sole attraendo lumore e subito disseccando il
paese, accresce i bollori con le saette de suoi raggi, che sono più gagliardi per lumidità, la quale è
nutrimento del fuoco. Nondimeno tutte queste cose che ho dette, il caldo, la sete, il deserto, la
sterilità della terra vi sembreranno meno orribili di una che vi dirò, e per la quale è da fuggire quella
contrada. Serpenti vari, di sformata grandezza, moltissimi di numero, di forme strane, e dinvincibile
veleno nutrisce quella terra; alcuni appiattati in tane sotto larena, altri vi strisciano sopra; rospi, ed
aspidi, e vipere, e ceraste, e bupresti, e jaculi, e anfesibene, e dragoni, e scorpioni di due specie,
luna che cammina per terra e sono grandissimi e di molte vertebre, e laltra che va volando per laria
e hanno le ali membranose, come i grilli, le cicale, e i pipistrelli: e questi volando a schiere per ogni
dove rendono inaccessibile quella parte della Libia. Ma il più terribile di tutti i rettili che larena
nutrisce, è il dipsa, serpentello non molto grande, simile ad una vipera, che savventa e morde e
lascia un veleno denso, che subito arreca dolori incessanti, che brucia, e imputridisce, e fa che
ardano e gridino, come quelli che cascano nel fuoco. E la cosa che più li travaglia e li strugge è una
sete grandissima, onde il dipsa ha preso il nome:(70) ed il mirabile è che quanto più si bee, più si
vorria bere, e la sete più cresce, e non si spegnerebbe beendo tutto il Nilo e lIstro; anzi lacqua più
laccende, come lolio sul fuoco. Dicono i medici la cagione esser questa: essendo il veleno denso,
poi che si scioglie nellacqua, diventa più scorrevole, perchè fatto più liquido, e più si diffonde.
Io, a dire il vero, non vidi mai nessuno che patì questo, e prego gli Dei che io non vegga mai un
uomo così straziato: e buon per me che non messi mai piede in Libia; ma udii un epigramma, che
un mio amico dissemi di aver letto egli sul sepolcro dun uomo così morto. Ei mi contava che
andando di Libia in Egitto dovette fare la via rasente la gran Sirti, perchè non ce nè altra. Quivi
sabbattè in un sepolcro presso al lido, proprio dove batte il mare; e vera rizzata una colonnetta, che
spiegava quella specie di morte. Vera scolpito un uomo, come dipingono Tantalo nel palude, che
attigneva acqua, certamente per bere; il serpente dipsa gli sta avvinghiato intorno al piede, e alcune
donne con le idrie che tutte insieme gli versano acqua per farlo bere: vicino gli stanno alcune uova,
che sono di quegli struzzi, di cui ho detto che i Garamanti vanno a caccia. Vè poi scritto un
epigramma, anzi è meglio recitarvelo:
Così Tantalo ancora sofferiva
Forse per nero tossico le angosce
Dorribil sete che non cessa mai;
E le figlie di Danao un simil doglio,
Versandovi acqua, non riempion mai.
Ci sono ancora altri quattro versi intorno alle uova, e come uno per prenderle fu morso, ma non me
ne ricorda più. Raccolgono le uova e le hanno in molto pregio quelle genti confinanti, non pure per
mangiarle, ma per servirsi dei gusci come arnesi, e ne fanno tazze, non avendo creta, chè la terra è
tutta arena. E se ne trovano grandi, se ne fanno cappelli, dogni uovo due, chè un mezzo guscio basta
per un cappello. Quivi dunque sacquattano i dipsi presso le uova, e quando savvicina luomo, escono
dellarena, e mordono il misero; al quale avviene ciò che diceva poco fa, che sempre beve, e più ha
sete, e non è sazio mai.
Vho raccontato questo non per emulare al poeta Nicandro, nè per farvi sapere che io non ho
trascurato di conoscere le nature dei serpenti di Libia, chè piuttosto ai medici converrebbe questa
lode, i quali debbono conoscere siffatte cose, per apporvi i rimedii dellarte loro. Ma a me pare (e
per Giove non vi offenda il paragone selvaggio) che voi facciate in me lo stesso effetto che lacqua
in quelli morsicati dal dipsa. Chè quanto più io vengo innanzi a voi, tanto più desidero di venirvi, ne
ho una sete intollerabile, che mi arde, e credo non potrò mai spegnerla. Ed a ragione: chè dove
troverei unacqua sì limpida e pura? Onde perdonatemi se io essendo morso allanima di così soave
morso e salutare, mi fo delle bevute larghe, e attuffo il capo nella fonte. Vorrei solamente che non
mi mancasse mai il fiume che viene da voi, non passasse questo favore con cui mi ascoltate, nè poi
io avessi a rimanere con la bocca aperta ed ancora assetato; acciocchè avendo io tanta sete di voi,
potessi sempre bere liberamente. Chè, secondo il savio Platone, il bello non sazia mai.
LXIV.
UNA CHIACCHIERATA CON ESIODO.
Licino. Sì, o Esiodo: che tu sei un ottimo poeta, e che dalle Muse ricevesti questo dono insiem
con lalloro, tu stesso lo dimostri nelle tue poesie, le quali sono tutte ispirate e sacre, e ci fanno
credere che sia così. Ma ti si può fare una difficoltà. Tu hai detto di te stesso, che per due cagioni
ricevesti quel divino canto dagliddii, per celebrare ed inneggiare il passato, e per divinare il futuro:
e luna cosa hai benissimo adempiuta, contandoci lorigine degliddii fin da quegli antichi il Caos, la
Terra, il Cielo ed Amore, e ancora le virtù delle donne, ed avvertimenti su lagricoltura, e parlandoci
delle Pleiadi, e qual è stagione darare, di mietere, di navigare, e tante altre belle cose: laltra poi, che
era più utile alla vita, e dono veramente divino, dico la predizione dellavvenire, non lhai toccata
affatto, ti sei del tutto scordato di questa parte, e in nessun luogo delle tue poesie hai imitato nè
Calcante, nè Telemo, nè Poliido, nè Fineo, i quali non ebbero tanto bene dalle muse, e pure
profetavano e davano oracoli a chi ne voleva. Onde una delle tre, e sempre colpa hai; o hai detto
una bugia (benchè sia amaro a dire) che le muse ti promisero di poter predire il futuro: o ti diedero
come ti promisero, e tu per invidia nascondi quel dono, e te lo tieni in saccoccia, e non vuoi farne
parte a chi ne ha bisogno; o pure hai scritte molte profezie, ma non hai voluto mai pubblicarle nel
mondo, serbandole per non so quale altro tempo. Ce ne saria una quarta, ma non mi attenterei
neppure a dirla; che le Muse avendoti promesse due cose, luna ti diedero, e ritrattarono la promessa
a mezzo, dico della conoscenza del futuro, mentre che prima te lavevano promessa nel canto.
Questa cosa adunque da chi altro che da te, o Esiodo, si potria sapere? Come gli Dei sono datori di
beni, così voi che siete loro amici e discepoli, dovreste anche voi con tutta verità spiegare le cose
che sapete, e scioglierci i dubbi che abbiamo.
Esiodo. Io potrei, o uomo dabbene, con una facile risposta risponderti a tutto, che nessuna delle
cose cantate da me è propria mia, ma delle muse, e da esse dovresti dimandar ragione di quelle che
ho dette, e di quelle che ho tralasciate: chè io per le sole cose che sapevo da me (come a dire
pascere, pasturare, guidar la greggia, mungere, e quanto altro è faccenda e mestiere de pastori)
dovrei difendermi; e che le dee dispensano i loro doni a chi esse vogliono, e come meglio credono.
Pure non mi mancherà con te anche una poetica difesa. Non bisogna, credio, coi poeti guardarla
troppo nel sottile, pretendere che pesino persino le sillabe, e se qualcosa scappa nella foga del
poetare, avventarvisi sopra acerbamente; ma bisogna sapere che molte parole noi le ficchiamo per
compiere il verso e rendere bel suono; e talune che sono scorrevoli il verso stesso talora non so
come se le piglia. Tu ci togli il maggiore dei beni che abbiamo, dico la libertà e larbitrio nel
poetare: non guardi quante altre bellezze ha la poesia, ma raccogli fruscoli e spine, e cerchi
appiccagnoli per calunniare. Nè se tu solo che fai così, nè contro me solo, ma molti ed altri
strapazzano i versi del mio compagno Omero, volendoci vedere proprio il sottil del sottile. Ma per
farmi più dappresso allaccusa, e ribatterla con dirittissima difesa, leggi tu le Opere mie ed i Giorni,
e vedrai quanti pronostichi e profezie in quel poema ho fatto, presagendo la buona riuscita delle
opere che si fanno bene ed a tempo, ed il danno di quelle che si trascurano. E quel verso:
In una cesta porterai, e pochi
Ti mireranno dei vicini,
e altrove tutti quei beni che verranno a chi ben coltiva, si deve tenere come una predizione
utilissima al mondo.
Licino. Questa sì, o ammirabile Esiodo, lhai detta proprio da pecoraio; e pare che sia vero che le
Muse timboccavano, se da te non sai difendere i tuoi versi. Noi non aspettavamo da te e dalle muse
cotesta divinazione: chè in tali faccende sono più indovini di voi gli agricoltori, e indovinano
benissimo, per esempio, che se Dio manda la pioggia, i covoni saranno pieni; se viene la state, e la
terra è secca, è impossibile che non venga la fame dopo quel secco: che nel mezzo della state non
bisogna arare, e non fa utile, perchè si sperderebbero le sementi; nè mietere la spiga quando è
verde, se no si trova vuota di frutto. Nè ci è bisogno di divinazione per sapere che se non ricopri la
sementa, se il garzone con la zappa non vi mette la terra sopra, verranno gli uccelli e si beccheranno
tutta la speranza della messe. In queste tali cose a dar precetti e consigli non si sbaglia; ma questo
pare a me sia tuttaltro che pronosticare. Il pronosticare è il prevedere chiaramente le cose oscure e
che non appariscano in veruno modo: come predire a Minosse che il figliuolo affogherà in una botte
di mele; presagire agli Achei la cagione dello sdegno di Apollo, e dopo dieci anni la presa di Troia.
Questa è divinazione. Se no, se coteste tue baie sono divinazione, sono indovino anchio: e predirò e
profeteggerò, anche senza la fonte Castalia, il lauro, ed il tripode Delfico, che se uno di verno va
camminando nudo mentre piove e grandina, gli verrà addosso un freddo ed un tremito grande; ed
una predizione più profetica è, che poi gli verrà un gran caldo, come è naturale: e così molte altre
predizioni di questa fatta, che saria ridicolo a dire. Onde lascia stare cotali difese e pronostichi:
forse quel che hai detto da prima è più accettabile, che non sapevi nulla di ciò che hai detto, ma
facevi versi per una certa vena felice, e che non era gagliarda molto: se no, non avresti adempiuta
una parte delle tue promesse, ed una parte tralasciata.
LXV.
IL NAVIGLIO,
O
I CASTELLI IN ARIA.
Licino, Timolao, Samippo, ed Adimanto.
Licino. Non lo dicevo io, che piuttosto una carogna giacente allo scoperto sfuggirebbe agli
avoltoi, che uno spettacolo straordinario a Timolao; dovesse egli per vederlo correre dun fiato sino
a Corinto? Tanto ti piacciono le novità, e ti fan vivo!
Timolao. E che potevo far di meglio, o Licino, essendo scioperato, e sapendo approdata nel
Pireo una nave grandissima e smisurata, una di quelle che vengon dEgitto cariche di grano per
lItalia? Credo che anche voi due, tu e Samippo, non per altro siete usciti di città che per vedere il
naviglio.
Licino. Sì, veramente: ed era con noi anche Adamanto di Mirrina: ma non so dove sia, e si sarà
smarrito nella folla. Fino alla nave siamo venuti insieme, e montando in essa, tu, credo, o Samippo,
andavi innanzi, dopo di te Adimanto, poi io che con ambo le mani mi teneva a lui: e per tutta la
scala egli mha guidato e sostenuto con la mano, essendo io calzato ed egli scalzo. Da allora in poi
non lho veduto più, nè dentro la nave, nè dopo che siamo discesi.
Samippo. Sai, o Licino, dove ci ha lasciati? forse quando è uscito del camerotto quel bel
giovanetto, vestito di lino schietto, coi capelli legati indietro e cascanti in due trecce su le tempie. Io
conosco Adimanto, io: a veder quel leggiadro, ha piantato legiziano che ci guidava e ci mostrava il
naviglio, ed è andato a far gli occhi imbambolati al suo solito: chè egli lha al suo comando la
lagrimetta amorosa.
Licino. Eppure non mi è paruto sì bello, o Samippo, quel garzonetto da fare gran colpo in
Adimanto, che in Atene ne ha tanti belli, che gli vanno attorno, tutti liberi, di grazioso parlare, che
odorano di palestra, vicino ai quali non è vergogna limbambolarsi. Costui è brunastro, con le labbra
sporgenti, con le gambe sottili, e parlava col naso, a singhiozzi, prestissimo, greco sì, ma col tuono
e laccento del suo paese. E poi quella chioma e quel ciuffo raccolto in su, non lo dicono libero.
Timolao. Anzi, o Licino, quella chioma è segno di nobiltà fra gli egiziani. Tutti i giovanetti liberi
la portano a quella foggia sino alla pubertà. Al contrario i nostri maggiori credevano che la chioma
stesse bene ai vecchi soli, e raccoglievano ed abbellivano i capelli con una cicala doro.
Samippo. Bene, o Timolao, tu ci fai ricordare delle storie di Tucidide, e di ciò che nel proemio
egli scrive dellantico lusso dei nostri nella Ionia, quando vennero qui ad accasarsi.
Licino. Ah, ora mi ricorda, o Samippo, a che punto ci ha lasciati Adimanto: quando siamo stati
un pezzo vicino allalbero a riguardare e contare le pelli che forman la vela, a maravigliarci di quel
marinaio che sarrampicava pel sartiame, e poi correva svelto su per lantenna tenendosi ai canapi
che la governano.
Samippo. Ben dici: ma ora che si fa noi? laspettiamo, o vuoi che io torni per lui su la nave?
Timolao. No, camminiamo: forse egli ha trottato innanzi, e già è giunto in città, poi che non ha
potuto trovarci. E se no, la via Adimanto la sa, e non cè paura che senza di noi ei si sperda.
Licino. Badate che non sia una scortesia lasciare un amico ed andarcene. Ma se anche Samippo
vuole così, camminiamo.
Samippo. Io vorrei che noi potessimo trovare la palestra ancora aperta. Ma giacchè siamo su
questo discorso, che nave, eh? Centoventi cubiti di lunghezza diceva la guida, e più che trenta di
larghezza; e dalla coperta alla stiva, dove è più profonda la sentina, ben ventinove. E poi che corpo
di albero! che antenna esso sostiene! che canapo lo tiene a prua! Come la poppa si rialza con dolce
curvatura sormontata da un paperino dorato!(71) e dallaltra parte come la prua si solleva allo stesso
modo e spiccasi innanzi, avendo ai due lati limmagine dIside, onde prende nome la nave. Gli altri
ornamenti, le pitture, il pennoncello fiammante sullalbero, e specialmente le ancore, gli argani, le
ruote, le camere di poppa, tutto mi pareva una maraviglia. E poi tanti marinai parevano proprio
unarmata. Han detto che porta tanto grano che basteria a nutrire per un anno tutti gli abitanti
dellAttica. E tutta quella gran macchina un vecchietto lha salvata, facendo girare sotto un
bastoncello sì grandi timoni. Me lhanno additato, con la fronte calva, fatticcio, e credo si chiami
Erone.
Timolao. È mirabile nellarte sua, come dicevano i marinai, e conosce il mare meglio di Proteo.
Udiste come egli ha poggiato qui, che traversia hanno sofferta, e come lastro li ha salvati?
Licino. No, o Timolao, e ludirei volentieri.
Timolao. Il padrone stesso me lha contato, dabbene uomo, e garbato nel ragionare. Mha detto
adunque che avendo salpato dal Faro con buon vento, il settimo dì erano a vista del promontorio
dAcumante,(72) ma poi messosi un ponente a prua li deviò sino a Sidone: di là battuti da una gran
burrasca il decimo giorno per lAulone vennero alle Chelidonie,(73) dove poco mancò che non si
sommersero tutti. Mi ricorda, perchè una volta passai anchio le Chelidonie, come in quel luogo il
mare si solleva, massime quando il vento di Libia si scontra col Noto. Quel punto proprio separa il
mare di Pamfilia da quel di Licia: e le onde spinte da molte correnti vengono a frangersi intorno al
promontorio, dove sono a fior dacqua scogli acuti e coperti dalla marea, e vè un terribile
ribollimento, e un rumore grande, e a volte londa sinnalza quanto la rupe. Così capitarono anchessi,
diceva il padrone, e di notte, e di fitto buio: ma alle loro grida inteneriti gli Dei mostrarono un fuoco
dalla Licia, onde essi riconobbero quel luogo; e lo splendido astro di uno dei Dioscuri venuto a
posarsi in cima allalbero volse a sinistra in alto la nave che già correva di posta alli scogli. Da allora
usciti del retto cammino si sono iti aggirando per lEgeo, bordeggiando per le etesie contrarie, e
settanta giorni dopo che partirono dEgitto, ieri approdarono nel Pireo. Sono stati troppo trasportati
sotto vento, mentre che avrian dovuto rasentar Creta a destra, voltar la Malea, ed esser subito in
Italia.
Licino. Per Giove! tu me lo fai mirabile pilota quellErone vecchio quanto Nereo, e svia tanto dal
suo cammino. Ma che? non è quegli Adimanto?
Timolao. È desso, è Adimanto: chiamiamolo. O Adimanto, ehi! Mirrinese, figliuol di Strobico.
Licino. Una dello due, o è ingrognato con noi, o è insordito. Adimanto è, non altri: io lo
riconosco bene: è il suo mantello, la sua andatura, il suo zuccone. Stendiamo il passo per
raggiungerlo. Se non ti pigliamo ai panni non ti volgi, o Adimanto: ci sgoliamo, e non ci odi. Ma tu
mhai laria pensosa: un gran che deve frullarti pel capo.
Adimanto. Non è niente, o Licino: una certa idea matta che mè venuta così camminando non
mha fatto udire: mero distratto a strolagare.
Licino. E di che? Oh, diccelo, se non è qualche segreto: benchè sai che noi siamo iniziati, e
imparammo a tacere.
Adimanto. Io stesso ho vergogna a dirvelo, chè vi parrà un pensiero puerile.
Licino. Forse un mistero damore? Non lo svelerai a profani, chè allo splendor della sua face
fummo iniziati anche noi.
Adimanto. Niente di questo, o amico mio. Io mavevo fabbricato in aria un castello doro, come
dicono: e mentre sguazzavo tra ricchezze e grandezze, mi siete venuti voi addosso.
Licino. E noi ti diciam quel proverbio: Mercurio è comune. Mettila in mezzo cotesta ricchezza:
gli amici debbono avere una parte delle grandezze dAdimanto.
Adimanto. Mi sono disgiunto da voi come prima siam saliti su la nave, dopo che tho aiutato e
messo su, o Licino: chè mentre misuravo la grossezza dun ancora, non so voi dove diamine siete
andati. Pure avendo veduto ogni cosa, ho dimandato uno dei marinai, quanto suol fruttare ogni anno
questa nave al padrone, ed egli mha risposto: Dodici talenti attici a fare un conto al minimo.
Ripensando a questo mentre me ne tornavo, io facevo un altro conto tra me: Se un Dio mo proprio
facesse mia questa nave, che vita felice io viverei, beneficando i miei amici, facendomi talvolta
qualche viaggio, o talvolta mandandovi i servi! Già con quei dodici talenti mavevo fabbricata una
casa in un bel sito poco sopra il Pecile, abbandonata la mia casa paterna su le sponde dellIlisso, e
avevo comperati servi, vestimenta, cocchi e cavalli. Ora mero già imbarcato, i passeggieri mi
dicevano beato, i marinai mi rispettavano e mi tenevano come un re; io già davo ordini, e salpavo, e
guardavo da lontano il porto, e tu mi sei venuto addosso, o Licino, hai affondata la mia ricchezza,
mhai rovesciata la barca che andava ratta, spinta dal vento del mio desiderio.
Licino. Dunque afferrami pel collo, e menami allAmmiraglio come un pirata che tho affondato,
tho cagionato sì gran naufragio, ma in terra tra il Pireo e la città. Ma ecco qui come ti ristorerò del
danno. Abbiti, se vuoi, cinque navigli più belli e più grandi di questo egiziano, e specialmente che
non possano affondare, e che cinque volte lanno ti vengano carichi di grano dallEgitto. Allora sarai
veramente insopportabile, o gran padrone di tante barche: se ora che nhai una, fai sembiante di non
udirci, quando navrai cinque a tre vele e che non possono perdersi, tu neppure li guarderai gli amici.
Ma pure va, buon viaggio, o amico: noi altri ci sederem nel Pireo, e ai naviganti che ci capiteranno
dEgitto o dItalia dimanderemo, se alcuno ha veduto lIside, la gran nave dAdimanto.
Adimanto. Vedi? Perciò non volevo dirti il mio pensiero, sapevo che avresti riso alle spalle mie,
e messo in canzone il mio desiderio. Onde io mi fermo un po, e quando voi vi sarete allontanati,
rimonterò su la nave e salperò: chè è molto meglio chiacchierar coi marinai, che essere canzonato
da voi.
Licino. Niente affatto: noi resteremo, e cimbarcheremo con te.
Adimanto. Ma io tirerò la scala su, come sarò montato.
Licino. E noi ti seguiremo a nuoto. Non ti credere che tu puoi posseder tante navi senza averle
nè comperate nè fabbricate, e che noi non potremo ottener dagli Dei di poter nuotare per molti
stadii senza stancarci. Eppure non ha guari quando andammo in Egina alla festa di Nettuno, ti
ricordi in che battelletto tragittammo il mare, tutti amici, pagando quattroboli ciascuno, e tu non
isdegnavi di navigar con noi? ora ti viene la mosca che ci vogliamo imbarcar con te, e montato su
tiri la scala. Troppa boria, o Adimanto: e non ti sputi in seno? da che sei diveduto padron di barca,
tu non sei più tu: ti sei troppo gonfiato per la casa fabbricata in un bel sito della città, e per il
codazzo dei servitori. Deh per la tua Iside, ricordati, o caro, di portarci dEgitto quei pesciolini salati
del Nilo, o dellunguento di Canopo, o un ibi di Menfi, e, se la nave può, una delle piramidi.
Timolao. Via, basti la celia, o Licino. Vedi come hai fatto far rosso Adimanto: gli hai inondato
di motti il naviglio, sì che non può aggottare, nè resistere alla piena. Ma giacchè ci resta ancor
molto cammino sino alla città, dividiamolo in quattro parti, e durante gli stadii che toccheranno a
ciascuno fabbrichiamoci un castello, cerchiam dagli Dei ciò che ci pare. Così non sentiremo
stanchezza, e ci spasseremo quasi volontariamente sognando quanti piaceri e felicità vogliamo.
Ciascuno se lo fabbrichi a suo talento: pognamo che gli Dei ci diano ogni cosa, anche limpossibile.
Il meglio è che così si vedrà chi saprebbe usar meglio delle ricchezze, o di altro che ei desidera; e
dimostrerà chi diventerebbe egli, se arricchisse.
Samippo. Benissimo, o Timolao: approvo; e quando toccherà a me farò il mio castello. Se
Adimanto vuole non bisogna dimandarglielo, chè egli ha già un piede nella nave: ma deve piacere
anche a Licino.
Licino. Sì, diventiamo pur ricchi, se questo è il meglio: io non voglio parere invidioso del bene
comune.
Adimanto. Chi dunque comincerà?
Licino. Tu proprio, o Adimanto; poi Samippo, appresso Timolao; io poi pel mio castello mi
prenderò quel piccolo mezzo stadio che è innanzi al Dipilo, e mi sbrigherò alla meglio.
Adimanto. Dunque io non lascerò la nave; e giacchè mi è permesso, aggrandirò il mio castello.
Mercurio datore di guadagni me li faccia riuscir tutti questi desiderii. La nave, e tutto ciò che vè
dentro, sia mio, il carico, i mercatanti, le donne, i marinai, e tuttaltro che vè di buono.
Samippo. Tu vhai un pezzo di cuore, e nol sai.
Adimanto. Vuoi dire, o Samippo, quel garzonetto con quella chioma? Bene, sia anche mio.
Quanto frumento è nella nave diventi tutto oro coniato, ogni granello un darico.
Licino. Che razza di desiderii son cotesti, o Adimanto? La barca taffonderà; chè tanto grano non
pesa quanto tantoro.
Adimanto. Senza invidia, o Licino: quando toccherà a te, fatti doro tutto il monte Parneto, ed io
non fiaterò.
Licino. Lho detto per tua sicurezza, per non farvi perire tutti quanti insieme con loro. E per noi
non tanto: ma quel bel giovane morrebbe annegato, povera creatura, per non saper nuotare.
Timolao. Oh, non temere, o Licino: i delfini se lo porranno sul dorso, e lo porteranno a terra.
Credi tu che un citarista fu salvato da essi per premio del suo canto; che un fanciullo annegato fu
portato anche così da un delfino allIstmo; e non credi che il novello servo di Adimanto troverà un
delfino che se ne innamori?
Adimanto. Anche tu, o Timolao, imiti Licino, e ci metti il tuo motto di giunta, quando tu stesso
hai fatto la proposta?
Timolao. Saria meglio una cosa più verisimile, trovare un tesoro sotto il letto per non avere
limpaccio di trasportare loro dalla nave in città.
Adimanto. Ben dici. Che io trovi un tesoro sotto quel Mercurio di pietra che abbiam nel cortile,
mille medinni di monete doro. Subito, come dice Esiodo, la casa prima, voglio abitare una casa
bellissima. Già mho comperato tutto il contado dAtene, fuori dove è timo e sassi:(74) i campi
eleusini che stanno sul mare, pochi poderi sullIstmo per vedervi i giuochi, se mai mi viene la voglia
dandarvi, tutta la pianura di Sicione: insomma se ci ha in Grecia campi alberati, innaffiati, fertili
sieno tutti di Adimanto. Io mangio in vasellame doro; e le tazze non sono leggiere, come quelle di
Echecrate, ma ciascuna pesa due talenti.
Licino. E il coppiere come ti porgerà piena una tazza così pesante? e tu come prenderai da esso
non un bicchiere, ma un masso come quelli che Sisifo solleva per forza di poppa?
Adimanto. Auf! tu minterrompi sempre nel meglio. Sì, mi farò le mense tutte doro, i letti doro, e,
se parli, anche i donzelli.
Licino. Bada che, come a Mida, anche il mangiare ed il bere non ti diventi oro, e ricco
miserabile morirai stecchito di fame suntuosa.
Adimanto. Oh, i fatti tuoi tu te li accomoderai meglio al verisimile or ora che ci dirai ciò che
desideri. Dunque io sono vestito di porpora, fo vita morbidissima, sonni piacevolissimi: gli amici
mi visitano e mi chiedono: tutti mi ubbidiscono e mi adorano: il mattino innanzi la porta di casa mia
molti passeggiano su e giù, tra i quali quei superbi di Cleaneto e Democrate. E quando questi
verranno e si crederanno desser ricevuti i primi, sette portinai omaccioni barbari sbatteranno loro la
porta in faccia, come ora fanno essi. Io poi quando mi piacerà uscirò raggiante come il sole, e a
molti non getterò neppure uno sguardo; ma se vedrò un povero, come ero io prima del tesoro, i gli
farò carezze, lo inviterò a venire dopo il bagno a cenar meco: i ricchi creperanno a veder cocchi,
cavalli, e tanti bei donzelli, più di duemila, detà floridissima. Dipoi su la mia tavola tutto il
vasellame è doro (largento è vile e non da me); vè salumi dIberia, vino dItalia, olio anche dIberia;
mele nostrale ma cavato senza fuoco, vivande dogni parte del mondo, e cinghiale, e lepre ed ogni
maniera di pollame, luccello del Fasi, il paone dIndia, il gallo di Numidia: e cuochi spertissimi in
tutti i punti saran sempre sul fare intingoli e savori. Se io dimando un bicchiere o una tazza e invito
uno a bere, chi vuoterà la tazza se la prenderà. I ricchi moderni rispetto a me son tutti Iri e pitocchi:
e Dionico non mostrerà più per una spampanata nelle processioni il suo desco e il suo bicchiere
dargento, vedendo che i servi miei largento lo buttano. Alla città poi farò larghezze grandi: un
donativo ogni mese, cento dramme per uno ai cittadini, la metà ai forestieri: per abbellirla farò teatri
e bagni pubblici; venire il mare sino al Dipilo; essere qui il porto, e portarvi lacqua per un gran
canale; acciocchè la mia nave approdi proprio innanzi il mio palazzo, e sia veduta dal Ceramico.
Per voi altri miei amici io ho ordinato al mio siniscalco di misurar venti medinni di monete doro a
Samippo, cinque sestieri a Timolao, ed a Licino uno e raso, perchè è un chiacchierone, e vuol
sempre la baia del fatto mio. Questa vita io vorrei fare, ricchezze immense, morbidezze, e pigliarmi
tutti i piaceri del mondo. Ho detto: così Mercurio mel faccia succedere!
Licino. Ma sai tu, o Adimanto, a che debil filo è sospesa tutta cotesta ricchezza, e che se esso
rompesi, tutto va in fumo, e il tuo tesoro sarà carboni ?
Adimanto. Che vuoi dire, o Licino?
Licino. Che è incerto, o caro mio, quanto tempo ci vivrai tra le ricchezze. Chi sa se sedendoti a
quella mensa doro prima di stender la mano, o di assaggiare del paone o del gallo di Numidia, in
uno sbadiglio non tesca lanimuccia, lasciando ogni cosa ai corvi ed agli avoltoi? Vuoi tu chio
tannoveri quanti son morti di subito prima di godersi le ricchezze; e quanti ancor vivi ne sono
rimasti brutti per un demone invidioso del loro bene? Hai udito certamente che Creso e Policrate,
assai più ricchi di te, caddero giù in un attimo dal pinacolo della fortuna. Ma per lasciare anche
questi, credi tu di aver fatto qualche patto di star sempre sano e robusto? Non vedi che vita
angosciata menano i più dei ricchi, male andati per dolori, chi non può camminare, chi è cieco, chi
ha spasimi di visceri? E son certo che non vorresti mai, neppure per una ricchezza doppia di cotesta,
patir la vergogna del ricco Fanomaco, e far da femmina come lui. Non parlo poi di quante insidie
seguono le ricchezze; de ladri, dellinvidia, dellodio che esse ti attirano. Vedi tu in che ginepraio ti
mette cotesto tesoro?
Adimanto. E tu sempre mi avversi, o Licino: onde non avrai neppure il sestiere; chè lo vuoi
proprio smantellare il mio castello.
Licino. Ecco, hai già preso il costume dei ricchi, e ritratti la promessa. Ma via, o Samippo, dinne
che vorresti tu.
Samippo. Io, che sono di terraferma ed Arcade di Mantinea, come sapete, io non cercherò dagli
Dei una nave che non potrò mostrare ai miei cittadini, nè li seccherò per aver tesori e staia di
monete; ma giacchè tutto è possibile agli Dei, anche ciò che a noi pare difficilissimo, e giacchè
Timolao ha messo per legge che si può cercare da essi ogni cosa senza temere che ce la rifiutino, io
chiedo di divenir re, non come Alessandro di Filippo, o Tolomeo, o Mitridate, o altri che ricevettero
il regno dal padre, ma vorrei cominciare da masnadiere, con una trentina di bravi e fedeli compagni:
a poco a poco altri si uniscono a noi, e siam trecento, poi mille, indi a poco diecimila; infine siam
cinquantamila fanti di grave armatura, e intorno a cinquemila cavalli. Tutti col braccio disteso mi
eleggono a loro capitano, come il più bravo, e loro guidatore e signore: e così io sono maggiore
degli altri re, che per la virtù mia sono eletto a capitanare lesercito, e non sono erede di uno che con
sue fatiche ha fondato limpero. Tutto questo è simile al tesoro dAdimanto, ma dà maggiore
soddisfazione; perchè uno sa di avere egli stesso creata la sua potenza.
Licino. Bravo, o Samippo! questo è castello! hai desiderato il più gran bene del mondo,
comandarti un tanto esercito, ed essere giudicato il più prode di cinquantamila uomini. Vera un sì
mirabil re e capitano in Mantinea, e noi nol sapevamo. Regna pure, capitaneggia, squadrona i
cavalli, schiera i fanti gravemente armati: voglio sapere dove andate quanduscite dArcadia tutti
quanti, su quali sfortunati anderete primamente a piombare.
Samippo. Lo saprai: ma è meglio, o Licino, che tu venga con noi; chè io ti farò capitano di
cinquemila cavalli.
Licino. Grazie di questonore, o re; ed inchinandomi alla persiana io ti adoro mettendomi le mani
dietro il dorso, ed onoro lalta tiara ed il diadema: ma preponi alla cavalleria un altro di questi
valorosi. Io sono un pessimo cavaliere, e non sono stato mai saldo a cavallo: onde temo che quando
la tromba suona a battaglia io non cada o sia calpestato sotto tante squadre; o, se il cavallo è
bizzarro, che non mi vinca il freno e mi porti in mezzo ai nemici; o pure converrà legarmi su la sella
per rimaner ritto e tener la briglia.
Adimanto. Io, o Samippo, ti comanderò io la cavalleria: Licino lala destra. È giusto che io abbia
da te un grande uffizio, che tho donati tanti medinni di monete doro.
Samippo. Dimandiam gli stessi cavalieri, o Adimanto, se ti vogliono per capitano. O Cavalieri,
chi vuole Adimanto per capitano levi la mano.
Adimanto. Ecco, o Samippo, tutti lhanno levata.
Samippo. Ebbene, tu comanda la cavalleria: Licino abbia lala destra, Timolao guidi la sinistra; io
il centro, come usano i re di Persia quando ci sono essi. Ma via su marciamo a Corinto per la via dei
monti, fatte prima nostre preghiere a Giove re. Giacchè tutta la Grecia è sottomessa (chè nessuno
ardiria prender le armi contro unoste sì grande, e noi vinciam senza combattere) imbarchiamoci su
le triremi, imbarchiamo i cavalli su le onerarie (chè già in Cencrea è pronto vettovaglia, navi, e ogni
altra cosa), valichiamo lEgeo, sbarchiamo nella Ionia. Quivi, fatti sacrifizi a Diana, occupate
facilmente le città non murate, e lasciativi governatori, ci avanziam su la Siria, percorrendo la
Caria, poi la Lidia, la Panfilia, la regione dei Pisidi, le marine e i monti della Cilicia, infine
giungiamo su lEufrate.
Licino. Per me, o Maestà, lasciami Satrapo della Grecia, chè io son timido e non vorrei molto
dilungarmi di casa; e tu mhai laria di voler correre su gli Armeni e su i Parti, genti guerriere e
bravissimi saettatori. Onde affida ad un altro lala destra, e lasciami in Grecia, come un altro
Antipatro; perchè io temo che intorno Susa o Battra qualche arciero non mimberci in qualche parte
scoperta, e non trapassi il povero capitano della tua falange.
Samippo. Tu manchi alla rassegna, o Licino, e sei un vigliacco. La legge è: sia tagliato il capo a
chi è chiarito disertore. Ma giacchè siamo su lEufrate, e vè gittato il ponte, e dietro le spalle tutto il
paese trascorso è sicuro, e i luogotenenti che io vho messi infrenano i popoli, e già sono partite
certe schiere che in tanto mi debbono conquistare la Fenicia, la Palestina, e lEgitto; passa il fiume tu
primo con lala destra, o Licino; poi io, poi Timolao, ultimo Adimanto con la cavalleria. Per la
Mesopotamia non incontriamo alcun nemico: le genti vengono spontanee a dar sè stesse e le loro
fortezze nelle nostre mani: e già venuti a Babilonia, allimprovviso entriam nelle mura, ed abbiam la
città. Il re standosi a Ctesifonte ode la nostra invasione, e corso a Seleucia, manda a far leva di
quanti più può cavalli, arcieri, e frombolieri. Riferiscono gli esploratori che già sè raccolto da un
milione di combattenti, fra i quali dugentomila arcieri a cavallo; e pure non ci sono ancora gli
Armeni, e quelli che abitano sul mar Caspio, e quelli che debbono venire da Battreo, ma è tutta
gente di province vicine e suburbane: e in sì breve tempo se nè raccolta cotanta. Or bisogna tener
consiglio su che dobbiam fare.
Adimanto. Per me dico che voi coi fanti dovreste andar contro Ctesifonte, e noi coi cavalli
rimaner qui a guardia di Babilonia.
Samippo. Hai paura anche tu, o Adimanto, allavvicinarsi del pericolo. E tu che ne pensi, o
Timolao?
Timolao. Andar con tutta loste contro il nemico, non dargli tempo di afforzarsi meglio
ragunando altri combattenti, ma mentre questi sono ancora in marcia, assalirlo.
Samippo. Ben dici: E a te che ne, pare, o Licino?
Licino. Ti dirò. Giacchè siamo stanchi per aver camminato continuamente, chè da stamane siam
discesi nel Pireo, ed abbiam fatto quasi trenta stadii sotto questa fersa di sole, e nel fitto meriggio,
riposiamoci un po sotto questi ulivi, sedendo su questa colonna rovesciata; poi ci leveremo, e pian
piano faremo il resto della via sino alla città.
Samippo. Tu ti credi ancora in Atene, e tu se nella pianura di Babilonia, innanzi le mura, con a
fronte un esercito innumerabile, e consultando sul dare battaglia.
Licino. Oh, me ne fai ricordare. Io credevo dessere ancora digiuno come te, e non dover parlare
a sproposito.
Samippo. Ebbene, andiamo ora. Siate prodi nei pericoli, e mostratevi di gente valorosa: già
anche i nemici vengono allassalto. Il nostro contrassegno sia, Marte. Voi, come la tromba dà il
segno, levate il grido, picchiate gli scudi con laste, scagliatevi, mescolatevi, non date tempo agli
arcieri di ferirci saettandoci da lontano. Ed ecco siam venuti alle mani: Timolao con lala sinistra ha
ricacciati i Medi, che gli erano a fronte: intorno a me la pugna è ancora incerta, chè vi sono i Persi,
e il re tra essi: ma tutta la cavalleria barbara investe la nostra ala destra. Coraggio, o Licino, ed
esorta i tuoi a sostenere questurto.
Licino. O sventura! Sovra di me tutta la cavalleria, e si son fitti in capo di assaltare me solo; ma i
mi son fitto unaltra cosa, io: se mi sforzano, me la svigno, mi rifuggirò in questa palestra, e lascerò
voi a combattere.
Samippo. Bah, no: già li hai vinti anche tu: io poi, come vedi, fo un duello col re; egli mha
sfidato, e ritrarmi saria vergogna.
Licino. Sì, per Giove, e subito sarai ferito da lui, chè è cosa da re lesser ferito combattendo per
limpero.
Samippo. Ben dici: ma la ferita non è profonda nè in parte apparente del corpo; sicchè
rammarginata non farà sfregio: ma vedi come io lo investo, e con una lanciata trapasso lui ed il
cavallo; e poi troncatagli la testa, e toltogli il diadema, divento re, e sono adorato da tutti. I barbari
madorano: voi, secondo luso greco, mi ubbidirete come signore, e mi chiamerete capitan generale.
Dopo di questa vittoria immaginate voi quante città fabbricherò e le chiamerò col mio nome, quante
altre ne smantellerò dopo fieri assalti perchè hanno spregiata la mia potenza: ma specialmente mi
vendicherò del ricco Cidia, che essendo già mio confinante mi scacciò dal suo campo mentre io
passavo un po dentro i suoi termini.
Licino. Ripòsati ora, o Samippo: chè dopo di aver vinta sì gran battaglia è tempo di tornare in
Babilonia per celebrarvi la vittoria in un banchetto. Il tuo impero è uscito oltre gli stadii che ti
toccavano: spetta ora a Timolao.
Samippo. Ma di, o Licino: che castello!
Licino. Molto più faticoso, o gran re, e più forte di quello di Adimanto. Costui almeno scialava
in piaceri e morbidezze, presentando ai suoi convivanti coppe di due talenti, ma tu eri ferito in un
duello, temevi e taffannavi dì e notte, ti dovevi guardare non pure dai nemici, ma dalle insidie
coperte, dallinvidia, dallodio, dalladulazione di chi ti accerchiava; non avevi un amico vero; tutti
per timore o speranza ti facevano gli affezionati. Non godevi un piacer vero neppure in sogno:
avevi solamente uno sprazzo di gloria, una veste di porpora ricamata doro, un nastro bianco intorno
la fronte, e guardie che ti precedevano: poi un gran fascio di fatiche e di noie su le spalle: dare
udienza ai legati dei nemici, giudicar di tante cose, spedir ordini ai tuoi uffiziali: ora un popolo sè
ribellato, ora hanno fatta una scorreria nellimpero: tutto temere, di tutto sospettare, insomma dagli
altri piuttosto che da te stesso se tenuto beato. E poi che umiliazione non è quella di cascare
ammalato come gli altri; la febbre non conoscere che tu sei re; e la morte non ispaurirsi delle tue
guardie, ma venirsene quando le pare, e sorda ai tuoi lamenti, scoparti senza un rispetto al tuo
diadema? E tu caduto da tanta altezza, strappato dal trono reale, te ne vai per la via comune, e
simile agli altri sei costretto a trottare nel gregge dei morti; lasciando su la terra un tumolo, unalta
colonna, o una piramide ben disegnata negli angoli, onori fuori tempo e non più sentiti. Le statue e i
templi rizzati dalle città per onorarti, la grande fama, tutto in breve sparisce, e va nellobblio: e se
anche durasse assai, che ne gode chi non sente più? Eccoti che fastidii, che timori, che pensieri, che
fatiche avrai ancor vivo, e che avrai dopo la morte. Ma fanne udire il castello tuo, o Timolao; e bada
di sorpassar costoro, da uomo prudente e che sai usar del vantaggio che hai.
Timolao. Vedi, o Licino, se vi si potria riprendere e correggere alcuna cosa. Oro, tesori, staia di
monete, o regni, battaglie, e tutti gli affanni che tu ci hai mostrati sul trono, io non vorrò nulla di
questo; chè le son cose instabili, ci metttono a molti pericoli, e ci danno più noie che gioie. Io vorrei
che Mercurio mi venisse innanzi e mi desse alcuni anelli di particolari virtù: uno mi facesse star
sempre bene, col corpo sano, invulnerabile, insensibile al dolore; un altro, che, come quello di Gige,
portandolo, mi rendesse invisibile; ed un altro che mi desse più forza di diecimila uomini, sì che un
peso che diecimila uomini insieme potrebbero muovere appena, io solo lo solleverei facilmente.
Vorrei anche volare molto alto dalla terra, e però bisogneria un altro anello; vorrei addormentare la
gente a mio piacere, e che accostandomi ad una porta, la mi si aprisse, schiudendosi il serrame da
sè, e togliendosi la sbarra; e un solo anello potria avere queste due virtù. Ma specialmente ne vorrei
uno, e mi sarebbe il più caro, che, messolo in dito, mi rendesse amabile a tutte le donne, a tutti i
garzoni, a tutti i popoli: sicchè non saria alcuno che non mi amasse, non avesse il mio nome su la
bocca: le donne per passione simpiccherebbero, i garzoni ammattirebbero; saria tenuto beato chi
avesse pure unocchiata da me; il mio disprezzo farla morire dangoscia; insomma io sarei più bello
di Iacinto, dIla, e di Faone di Chio. E tutte queste cose non averle per poco tempo, nè per quanto
vive un uomo, ma per mille anni, vivendo sempre giovane, ogni diciassette anni gittando lo scoglio
vecchio, come i serpi. Avendo questo non mi mancherebbe niente, perchè tutte le cose altrui
sarebbon mie, perchè io potrei aprir le porte, addormentare i custodi, entrare senza esser veduto. Se
tra glIndi o glIperborei è qualche maraviglia a vedere, qualche cosa preziosa, qualche vivanda o
bevanda squisita, non vi mando, ma vi volo io stesso, e ne godo, e me ne sazio. Il Grifone,
quadrupede alato, la Fenice, uccello dellIndia non mai veduto da nessuno, io li vedrei: ed io solo
saprei dove sono le sorgenti del Nilo, e quanto vè di terra inabitata, e se vi sono antipodi
nellemisfero australe. Conoscerei ancora la natura degli astri, della luna, del sole stesso, chè sarei
insensibile al suo fuoco. Ma il più bello saria nello stesso giorno andare in Babilonia a recar la
nuova di chi ha vinto in Olimpia, e tornando fare una colazione in Siria, e andare a cenare in Italia.
Se ho un nemico, me ne vendico occultamente gettandogli da su un sasso in capo da sfracellargli il
cranio: ma agli amici farei tutto il bene del mondo e mentre dormono verserei su di essi le sacca
doro. Se vè qualche superbo ricco, qualche tiranno soverchiatore, te lo ciuffo, lo levo in su venti
stadii, e lo lascio cadere sovra uno scoglio. Coi zanzeri potrei sollazzarmi liberamente, entrando
invisibile, addormentando tutti, tranne essi soli. E che piacere saria quello di riguardare una
battaglia dallalto fuori la gittata de dardi? a mio talento incuorerei chi perde, sgomenterei chi vince,
darei la vittoria a chi fuggiva e poi volta faccia. Insomma io terrei gli uomini come uno scherzo,
ogni cosa sarebbe mia, e sarei stimato un dio. Questa è felicità perfetta, che non può essere nè
perduta nè insidiata, specialmente con buona salute, e lunga vita. Or che potresti riprendere, o
Licino, in questo castello?
Licino. Niente, o Timolao. Canzoni! a pigliarmela con uno che vola, ed ha più forza di
diecimila? Ma una cosa ti dimanderò, se fra le tante genti su cui volavi, hai veduto un vecchio
impazzito per modo da credersi di volare trasportato da un anellino, di poter volgere sossopra le
montagne con la punta dun dito, di essere bello ed amabile, a tutti, benchè abbia il zuccone e il naso
rincagnato? E dimmi anche questo: perchè un solo anello non potria operar tutte queste maraviglie,
ma devi caricartene di tanti, che ciascun dito della mano sinistra nè coverto, e la destra dovrà
scaricarne dalquanti laltra? Eppure ti manca lanello più necessario, che portandolo in dito, ti
torrebbe cotesto ruzzo del capo, ti faria spurgar cotesto catarro; pel quale ti gioveria anche una
buona dose delleboro.
Timolao. Ma infine, o Licino, ce lo dirai una volta il tuo castello, per farci vedere come è
irreprensibile ed incensurabile, tu che tagli così i panni addosso agli altri?
Licino. Io non debbo far castelli, io, perchè già siamo al Dipilo: questo bravo Samippo duellando
innanzi a Babilonia, e tu, o Timolao, facendo colezioni in Siria e cenando in Italia, vi avete presi gli
stadii che toccavano a me, e avete fatto bene. E poi io non vorrei arricchire duna breve ricchezza
che se ne va col vento, ed indi a poco affliggermi mangiando una magra focaccia, come or ora
accaderà a voi, che vedrete tutta la vostra ricchezza andare in fumo. Spogliati dei tesori e dei
diademi, come risvegliati da un bellissimo sogno, troverete ben altro in casa vostra: come
queglistrioni che rappresentavano la parte di re nella tragedia, quandescon di teatro si muoion di
fame, essi che testè erano Agamennoni e Creonti. Ben vi dovrà dispiacere ed increscere quel di casa
vostra; specialmente a te, o Timolao, quando ti accaderà come ad Icaro, che spennacchiato cascando
dal cielo dovrai pur camminare su la terra, e senza quegli anelli che ti sfuggiranno dalle dita. A me
più di tutti i tesori e di tutta Babilonia, a me basta di ridere piacevolmente di cotesti sciocchi castelli
che fate voi altri, che pur pregiate la filosofia.
Correzioni apportate nelledizione elettronica Manuzio:
a che punto ci ha lasciati Aclimanto = ...Adimanto
chi vuole Adiamanto per capitano = chi vuole Adimanto per capitano
LXVI.
DIALOGHI DELLE CORTIGIANE.
1.
Glicera e Taide.
Glicera. Quel soldato dAcarnania che una volta si teneva la Preziosa e poi sinnamorò di me,
quegli che aveva quella bella e ricca clamide, te lo ricordi, o Taide, o te ne se dimenticata?
Taide. No, i me lo ricordo, o Glicerina: bevve anche con noi lanno passato alle feste di Cerere.
Ma perchè me ne dimandi? Pare che vuoi contarmi qualche cosa di lui.
Glicera. Quella tristaccia della Gorgona, che mi faceva lamica, me lo ha tolto con inganno.
Taide. Ed ora ei non viene più da te, e si tiene la Gorgona?
Glicera. Sì, o Taide: e questa cosa me lho sentita proprio assai.
Taide. È brutta sì, ma dovevi aspettartela, o Glicerina mia; chè si suol fare di questi giuochi tra
noi cortigiane. Via, non bisogna andar troppo in collera, nè ti crucciar con la Gorgona: chè neppure
la Preziosa si crucciò teco per colui, ed ora siete amiche voi. Ma io mi maraviglio duna cosa, che ha
trovato di bello in lei questo soldato, salvo se non è cieco in tutto, da non vedere che ella ha pochi
capelli in capo che le fanno comparir tanto di fronte, e le labbra livide come duna morta, e poi quel
collo sottile con le vene sporte in fuori, e il naso lungo. Una cosa ha, che ella è alta e diritta, e
quando ride tattrae.
Glicera. Oh, e credi, o Taide, che lAcarnano se nè innamorato per la bellezza? Non rammenti
che quella strega della Crisaria sua madre sa certe canzoni tessale, e fa scendere anche la Luna in
terra? Dicono pure che ella voli la notte. Ella lo ha fatto impazzire dandogli qualche beveraggio
amoroso: ed ora te lo pelano.
Taide. Ed anche tu pelane un altro, o Glicerina; e lascia alla malora costui.
2.
Mirtina, Panfilo e Moride.
Mirtina. Tu sposi, o Panfilo, la figliuola di padron Filone, anzi dicono che lhai già sposata: e i
giuramenti che mi facevi, e le lagrime, in un momento tutto è ito, e già ti se dimenticato di Mirtina.
E mi fai questo mentre io son gravida dotto mesi. Ecco il frutto che ho cavato dallamor tuo, che
mhai fatta questa pancia, e tra poco dovrò allevare un figliuolo, cosa gravissima per una cortigiana.
No, io non esporrò il mio parto, specialmente se è maschio, ma gli metterò nome Panfilo, e me lo
terrò per consolarmi di questa passione; ed esso dovrà un giorno venire a rinfacciarti che tu fosti
infedele alla madre sua sventurata. Sposassi almeno una bella giovane! I lho veduta testè nelle
Tesmoforie insieme con la madre;(75) e non sapevo ancora che per colei i non vedrò più Panfilo.
Guardala anche tu, guardala prima in faccia, come è brutta con quegli occhi bianchi, e guerci, e che
si guardano tra loro. Hai veduto mai Filone il padre della sninfia? Se ti ricordi la faccia sua, non tè
più bisogno di veder la figliuola.
Panfilo. Che baie son coteste, o Mirtina? che giovane, che nozze, che padron di barca tu mi
conti? Che so io di sposa brutta o bella? Che so io se Filone dAlopeca (forse parli di lui ) ha una
figliuola già da marito? Ei non è neppure amico di mio padre: e mi ricorda che una volta cebbe una
lite per un negozio marittimo, e fu condannato. Egli doveva circa un talento a mio padre, e non
glielo voleva dare: ma chiamato innanzi ai giudici marittimi, pagò, ma neppur tutto, come il babbo
diceva. E poi sio avessi voluto tor moglie, non avrei lasciata la figliuola di Demea che lanno passato
fu generale della repubblica, e la è anche cugina di mia madre, per isposar la figliuola di Filone. Ma
tu donde hai saputo questo? E come tè venuta in capo questa vana gelosia per tormentarti?
Mirtina. Dunque tu non tammogli, o Panfilo?
Panfilo. Tu se pazza, o Mirtina, o sei ubbriaca: eppur ieri non bevemmo assai.
Mirtina. Ecco qui, Doride mha così sbigottita. I lho mandata a comperar certi panni di lana pel
ventre, e a fare una preghiera per me a Diana, ed ella mha detto che ha scontrata Lesbia..... ma di tu
stessa, o Doride, ciò che hai udito, se pure non lhai inventato.
Doride. Possa morire io, o padrona, se ho detta una bugia. Come io son giunta presso al Pritaneo,
ho scontrato Lesbia, che così sorridendo mha detto: Panfilo vostro oggi sposa la figliuola di Filone.
Io non la credeva, ed ella mha spinto ad affacciarmi nel chiassetto che è innanzi casa vostra, e
vedere tutto parato, e i suonatori, e la folla, e alcuni che cantavano limeneo.
Panfilo. E vi ti sei affacciata, o Doride?
Doride. Sì, e ho veduto tutto come ella diceva.
Panfilo. Capisco linganno. Non è tutto bugia ciò che tha detto Lesbia, e tu, o Doride, hai riferito
il vero a Mirtina. Ma vi siete turbate per nulla: le nozze non sono in casa nostra. Ora mi ricordo che
iersera quando mi ritirai da voi, la mamma mi disse: O Panfilo, il figliuolo dAristeneto nostro
vicino, Carmide che ha letà tua, già prende moglie, e mette il capo a partito: e tu fino a quando
starai con lamica? I la lasciai dire, chè avevo gran sonno. Stamane sono uscito di casa per tempo, e
non ho veduto niente di ciò che Doride ha veduto più tardi. Se non mi credi, ritornavi, o Doride; e
guarda non solo il chiassetto, ma le porte, vedi quale è parata; e troverai che è quella de vicini.
Mirtina. Tu mhai resuscitata, o Panfilo: i mi sarei impiccata se fosse stata questa cosa.
Panfilo. Oh, non potevessere: ed io non sarei così pazzo da scordarmi di Mirtina, che è gravida, e
dovrà farmi un bel naccherino.
3.
Filinna e la Madre.
La Madre. Eri pazza, o che avevi al banchetto ieri, o Filinna? È venuto Difilo da me stamane
piangendo, e mha contato che gli hai fatto patire. Che bevesti bene, e ti levasti, e uscisti in mezzo a
ballare, mentregli te lo vietava: che poi baciasti Lampria suo compagno; che come ei ti si mostrò
sdegnato, tu lo piantasti, te ne andasti vicino a Lampria, e lo abbracciasti: e lui la rabbia lo
soffocava. E credo che non ti se neppure corcata con lui stanotte; che lhai lasciato a piangere, e ti se
seduta sola sovra il vicino sgabello, e cantavi per fargli dispetto.
Filinna. E il suo, o mamma, non te lha contato, il suo? Oh, non lo difendere quel birbante. Egli
staccatosi da me andò a parlare con Taide lamica di Lampria, prima che costui venisse; e poichè
vide chio mi sdegnava e con gli occhi lo minacciava, egli che stava con la bocca proprio allorecchio
di Taide, come ella piegò il collo, vattaccò tale un bacio che non ne voleva più spiccare le labbra. E
poi i piangeva, ed ei rideva, e seguitava il pissi pissi allorecchio di Taide, contro di me certamente,
chè Taide mi guardava e sorrideva. Quando poi saccorsero che Lampria stava per giungere, se ne
satollarono di baci entrambi. Eppure io a tavola madagiai vicino a lui per togliere questultima
occasione. Taide poi si levò e ballò essa prima, facendosi veder molto delle gambe, la sola cosa
bella che ha. Quando ella finì, Lampria taceva, e non diceva niente: ma Difilo si sbracciava a
lodarla: che grazia, che maestria, come il piè va a tempo con la cetera, che bella gamba! e mille
altre cose, come se ei lodasse la Sosandra di Calamide, e non Taide, che anche tu la vedesti, quando
si lavò con noi, come ella è fatta. E poi sai che mal bottone mi gettò Taide? Disse così: Chi non si
vergogna di aver le gambe sottili esca in mezzo a ballare. Che posso dirti, o mamma? Mi levai, e
ballai. Che doveva fare? Tenermelo, per mostrar vero il frizzo, e lasciar Taide regina del banchetto?
La Madre. Troppa furia, o figliuola: non ci dovevi badare. Ma dimmi che fu dipoi.
Filinna. Tutti gli altri mi lodavano, e Difilo solo sdraiato così alla supina guardava la soffitta;
finchè stanca cessai.
La Madre. Ed è vero che baciasti Lampria, ed andasti ad abbracciarlo? Tu taci? Questo poi non è
perdonabile.
Filinna. I volevo rendere il dispetto a lui.
La Madre. E poi neppure corcarti con lui, e cantare mentregli piangeva? E non capisci, o
figliuola, che noi siamo povere? e non ricordi quanto bene abbiamo ricevuto da lui, e come
avremmo passato questo inverno, se Venere non ci avesse mandato questo aiuto?
Filinna. E che? debbo tenermi per ciò glinsulti suoi?
La Madre. Sdégnati sì, ma non fargli altri insulti. Tu non sai che gli amanti insultati cessano, e
rientrano in sè stessi? Tu se troppo acerba con lui sempre: bada, che chi troppo la tira la spezza.
4.
Melissa e Bacchide.
Melissa. Se conosci, o Bacchide, qualche vecchia di queste Tessale, che sanno affatturare e legar
glinnamorati, e fare amare anche la donna più odiata, fammi il favore di condurmela qui. Io darei
volentieri tutte le robe mie e questoro, sio pur vedessi unaltra volta tornato a me Carino, e odiar
Simmiche, come ora odia me.
Bacchide. Oh, che mi dici, o Melissa? Dunque Carino tha lasciata, e va da Simmiche? egli che
per amor tuo sostenne quella gran furia dai suoi genitori, perchè non volle sposare quella ricca, che
gli portava, come dicevano, cinque talenti di dote? Mi ricorda che tu me lo contasti questo.
Melissa. E tutto è svanito, o Bacchide: son cinque giorni che non lho veduto affatto: ed oggi
fanno banchetto in casa di Parmeno suo compagno, egli e Simmiche.
Bacchide. Povera Melissa! Ma perchè questa discordia? La cagione ha dovuto essere grande.
Melissa. Io non la so neppur dire. Ultimamente ei risalendo dal Pireo (dovera sceso, credo, per
esigere un debito, per commissione di suo padre) quando entrò non mi guardò in faccia, non mi
accolse secondo il solito mentre io gli andai incontro, ma scacciandomi che volevo baciarlo: Va,
disse, da padron Ermotimo, o leggi quel che è scritto sulle mura del Ceramico, dove i vostri nomi
stanno su i pilastri. - Chi Ermotimo, io risposi, chi? che pilastri dici? Egli non mi rispose, e senza
cenare si corcò voltandomi le spalle. Che credi che io feci ad abbracciarlo, a smuoverlo, a baciargli
le spalle per farlo voltare? Niente: non ci fu verso di rabbonirlo; anzi: Se più mannoi, disse, me ne
vado ora, benchè è mezzanotte.
Bacchide. Ma tu conoscevi Ermotimo?
Melissa. Che tu mi possa vedere, o Bacchide, più misera chio non sono ora, se io conosco alcun
padrone Ermotimo. La mattina al canto del gallo si levò, e se ne andò. I mi ricordai che maveva
parlato dun nome scritto sopra un muro nel Ceramico, e tosto mandai Acide a vedere. Essa non
trovò altro che questo scritto, quando sentra, a destra verso il Dipilo, Melissa ama Ermotimo, e
poco più sotto, Padron Ermotimo ama Melissa.
Bacchide. Scapataggini di giovani! Ho capito. Qualcuno volendo far dispetto a Carino, lha
scritto per farlo ingelosire, ed egli tosto lha creduto. Ma se lo vedrò, gli parlerò io. Ei non ha
mondo, è fanciullo ancora.
Melissa. E dove lo vedrai, se egli sè chiuso e stassene con Simmiche? E per giunta i parenti suoi
lo cercano da me. Oh, se io trovassi una vecchia, come tho detto, o Bacchide, i mi crederei salva.
Bacchide. Cè, o cara, una fattucchiera veramente brava, una Sira, ancor verde detà e tarchiata, la
quale quando Fania mio si crucciò meco, anche per niente, come Carino, mi fece far pace con lui
dopo quattro mesi, che io già ne disperava; ma per forza dincantesimi egli tornò a me.
Melissa. E che fece la vecchia, se ancora te ne ricordi?
Bacchide. Non si piglia molto, o Melissa; una dramma e un pane; ma si deve apparecchiarle
ancora sette oboli sopra alquanto sale, e dello zolfo, e una teda. Questo si piglia la vecchia, e si deve
mescerle anche una tazza, si deve, e la beve ella sola. Sarà pure necessario un oggetto appartenente
alluomo, come una veste, o le scarpette, o una ciocca di capelli, o altra cosa simile.
Melissa. Io ho le scarpette sue.
Bacchide. E queste ella le appende ad un chiodo, e le suffumica con lo zolfo, spargendo il sale
sul fuoco, e ripetendo tuttadue i nomi vostri, il tuo e il suo. Poi cavandosi del seno una rotella
magica,(76) che ella porta a questuso, la gira dicendo certe parole incantate prestissimamente con la
lingua, certi nomi barbari e spaventevoli. Questo fece allora. E indi a poco Fania tutto che dissuaso
dai compagni e carezzato tanto da Febida lamica sua, a me tornò tirato da quellincantesimo. E
minsegnò ancora un altro gran segreto contro Febida, per fargliela odiare: osservar le pedate che
ella lascia, e cogli occhi chiusi metter la pedata mia destra su la sua sinistra, e la mia sinistra su la
sua destra, dicendo così: Tu sotto mi stai, io sopra ti sto. Ed io così feci appunto.
Melissa. Presto, presto, o Bacchide; chiamami la Sira. E tu, o Acide, prepara il pane, lo zolfo, e
ogni altra cosa per lincantesimo.
5.
Clonetta e Lena.
Clonetta. Odo una novità sul conto tuo, o Lena, che Megilla, quella ricca di Lesbo, è innamorata
di te come un uomo, e che state insieme, e non so che fate tra voi. Che è? ti se fatta rossa? Dimmi, è
vero questo?
Lena. È vero, o Clonetta; ma mi vergogno, che è una cosa sconcia.
Clonetta. Per Cerere, che faccenda è cotesta, e che vuole quella donna? Che fate quando siete
insieme? Vedi? Non mi vuoi bene; se no, me lo diresti.
Lena. Ti voglio bene tanto! Quella donna è fieramente mascolina.
Clonetta. Non intendo bene che vuoi dire: forse è una tribade? Chè in Lesbo, dicesi, vi sono
queste donne che non vogliono luomo, ma si accozzano con le donne a guisa duomini.
Lena. Una cosa simile.
Clonetta. Dunque, o Lena, contami tutto, come prima ti tentò, come ti persuase, e in seguito ogni
cosa.
Lena. Avendo apparecchiata una gozzoviglia ella e Demonassa, quella di Corinto che anche è
ricca e fa la stessarte di Megilla, tolsero me per sollazzarle con la cetra. Poi che sonai, ed era notte,
e già ora di andare a letto, ed esse erano ubbriache: Via, o Lena, disse Megilla, è ora di dormire,
corcati qui con noi, in mezzo a tutte e due.
Clonetta. Ti corcasti già: e poi che avvenne?
Lena. Mi cominciarono a baciare come fanno gli uomini, non solo attaccando le labbra, ma
aprendo un poco la bocca, e mi abbracciavano, e mi titillavano i capezzoli, e Demonassa mi
mordeva ancora mentre mi dava baci. Io non poteva capire che volevano fare. Indi a poco Megilla
essendosi riscaldata, si toglie del capo una parrucca, che non le pareva ed era capelli naturali, e
resta con la testa rasa come una mano, come lhanno i più robusti atleti. Io mi spiritai a vederla, ed
ella: Hai veduto mai, o Lena, un così bel giovanotto? - Io non vedo, dissi, qui giovanotto, o Megilla.
- Ed essa: Non mi fare femmina, chè io mi chiamo Megillo, e già sposai questa Demonassa, ed ella
è moglie mia. - A questo, o Clonetta, io mi messi a ridere, e risposi: Tu dunque, o Megillo, eri
uomo, e noi nol sapevamo, e come dicono dAchille, ti nascondevi sotto gonna di donzella. Ed hai
quello delluomo? e fai a Demonassa quel che fanno gli uomini? - Quello proprio, o Lena, non lho,
rispose; ma non ne ho bisogno, e vedrai che fo in un modo particolare, e molto più dolce. - Ed io:
Sei tu forse un Ermafrodito, di cui si dice che ne sono tanti, che hanno luno e laltro? - Perchè io, o
Clonetta mia, non sapevo ancora che faccenda era quella. - No, dissella, io sono uomo schietto. - Mi
ricorda, soggiunsi io, che Ismenodora di Beozia la sonatrice di flauto contandomi le cose del suo
paese, mi diceva come in Tebe ci fu uno che di femmina diventò maschio, ed era un grande
indovino, e se non erro si chiama Tiresia. Fosse accaduto così anche a te? - No, Lena mia,
risposella; io son nata come tutte voi, ma linclinazione, il desiderio, e tutto il resto in me è duomo. -
Ed io: E ti basta il desiderio? Risposemi: Statti, o Lena, se non credi, e saprai che non sono da meno
degli uomini: ho un altro strumento che fa lo stesso giuoco: statti, che vedrai. - Mi stetti, o Clonetta,
per tante preghiere che mi fece, e mi regalò una bella collana, e un paio di camice fine. Io
labbracciai come fosse un uomo, ed ella mi baciava, e faceva, e anelava, e mi pareva si struggesse
del piacere.
Clonetta. Che faceva, o Lena, e in qual maniera? chè questo proprio mi dei dire.
Lena. Non mi fare tante dimande: è una vergogna: ed io, per la Venere Celeste, non dirò niente
più.
6.
Ciuffetta e Corinna.
Ciuffetta. O Corinna, e non era quel gran male che tu credevi di vergine diventar donna: lhai
veduto già, che ti se stata con un bel giovanotto, e mhai portata la prima volta una mina, della quale
ti compererò subito una collana.
Corinna. Sì, o mammuccia mia. Ma con le pietre rosse e lucenti, ve, come quella di Filenida.
Ciuffetta. Così sarà. Ma odimi che ti vo dire unaltra cosa; che devi fare, e come comportarti con
gli uomini. Noi non abbiamo altro rifugio per vivere, o figliuola mia. Son due anni da che è morto
la buona memoria di tuo padre, e ti ricordi come siamo vissute? Quando viveva egli, non ci
mancava niente: faceva il fabbro, e aveva un nome grande nel Pireo, e tutti dicono ancora che dopo
Filino non ci verrà un altro fabbro come lui. Dopo la morte sua vendei le tanaglie, lincudine e il
martello per due mine, e così campammo: poi ora col tessere, ora col filare o col torcere la lana,
abbiamo avuto da mangiare appena. Ma io allevavo te, o figliuola mia, e aspettavo con questa
speranza.
Corinna. Della mina dici?
Ciuffetta. No: ma pensavo che tu fatta grande darai vivere a me, e tu farai subito la signora, sarai
ricca, avrai vesti di porpora, e serve.
Corinna. Ma come, o mamma, che dici?
Ciuffetta. Congiungendoti coi giovanotti, cenando e dormendo con essi buscherai be danari.
Corinna. Come Lira la figliuola di Dafnida?
Ciuffetta. Sì.
Corinna. Ma ella è cortigiana.
Ciuffetta. E che male cè? Anche tu sarai ricca, come lei, ed avrai molti amatori. Ma perchè
piangi, o Corinna? Non vedi quante fanno le cortigiane, e come son carezzate, e quante ricchezze
hanno? I mi ricordo Dafnida, non sia detto per male, prima che fosse cresciuta la figliuola, con un
po di cencerello intorno: ed ora vedila come va, oro, vesti ricamate, e quattro serve.
Corinna. Ma come ha acquistato tanto la Lira?
Ciuffetta. Prima col mostrarsi pulita, garbata, pronta, allegra con tutti, non fino ad isganasciarsi
di risa per niente, come fai tu, ma con un sorriso dolce ed aggraziato: poi con le buone maniere nel
trattare, senza canzonare chi le si avvicina, o chi le manda unambasciata, e senza innamorarsi degli
uomini. Se mai va a qualche banchetto facendosi ben pagare, ella non simbriaca (oh, questo è brutto
assai, e gli uomini abborriscono le bevone), non si riempie di vivande come una scostumata, ma le
tocca con le punte delle dita, non mette il capo sotto, e senza parlare macina a due gote; beve a poco
a poco, non dun fiato, ma a sorsi.
Corinna. Anche se ha sete, o mamma?
Ciuffetta. Allora specialmente, o Corinna. Ed ella non parla mai troppo, nè frizza i commensali,
e guarda in faccia solo a chi la paga: e però tutti le vogliono bene. E quando dee coricarsi con
alcuno, ella non fa sporcizie nè scostumatezze; ma pensa ad una cosa sola, ad attirarlo e farselo
innamorato; e così tutti la lodano. Se impari a far questo anche tu, saremo felici anche noi. Per
tuttaltro poi tu più di lei.... ma no, no; non voglio dir male di nessuna, voglio che tu mi viva
solamente.
Corinna. Dimmi, o Mamma, quelli che mi daranno i danari son tutti come Eucrito, con cui ho
dormito ieri?
Ciuffetta. Non tutti: alcuni sono migliori, altri sono uomini fatti; ed altri ancora non sono troppo
belli.
Corinna. Ed anche con questi dovrò dormire?
Ciuffetta. Sì, o figliuola mia; chè questi danno di più: i belli vogliono esser tenuti belli, e niente
altro. Tu fa sempre più carezze a chi più dà, se vuoi che in breve tutti dicano mostrandoti a dito:
«Non vedi Corinna la figliuola di Ciuffetta come è straricca, e come ha fatta felicissima la mamma
sua?» Che dici? lo farai? Sì, io so che lo farai, e sarai la regina di tuttequante. Ora va a lavarti, se
viene anchoggi quel giovane Eucrito; chè lo promise.
7.
Musetta e la Madre.
La Madre. Se troviamo, o Musetta, un altro amante come Cherea, ci converrà sacrificare una
bianca agnella a Pallade Protettrice, una giovenca alla Venere degli Orti, coronare la buona Fortuna,
e saremo davvero beatissime e felicissime. Che gioia di giovane! quanto nabbiamo avuto! Non ti ha
dato mai un obolo, nè una veste, nè un paio di scarpette, nè un bossolino dunguento, ma sempre
parole, promesse e speranze lunghe. Se mio padre..... se divento io padrone, tutto è tuo. Tu dici
ancora che ha giurato di sposarti.
Musetta. Lha giurato, o mamma, per le due Dee, e per Minerva.(77)
La Madre. E tu gli credi già? E per questo poco fa non avendo egli come pagar lo scotto, tu gli
desti lanello senza saputa mia: ed ei lo vendette, e si divertì: unaltra volta due collane gioniche, che
ciascuna pesava due darici,(78) e te le portò padron Prassia di Chio, che te le fece fare a posta in
Efeso. Eh! Cherea doveva pagar la sua parte, e non scomparire fra i compagni. Di tante lenzuola e
camice che parlo a fare? Una gran fortuna cè venuta addosso, che non ce lattendevamo.
Musetta. Ma è un bel giovane, e senza barba, e dice che mi vuol bene, e piange, e poi è figliuolo
di Dinomaca e di Lachete lAreopagita, e dice che mi sposerà, ed abbiamo grandi speranze da lui se
il vecchio chiude gli occhi.
La Madre. Dunque, o Musetta, se avrem bisogno di calzari, e il calzolaio ci chiederà le due
dramme, noi gli risponderemo: Danari non ne abbiamo, ti diamo speranze, prendile. Al panattiere
diremo anche così: e se ci si richiede la pigione, diremo: Aspetta finchè muoia Lachete di Colitta: ti
pagherem dopo le nozze. Non ti vergogni che tu sola fra le cortigiane non hai nè un paio di
orecchini, nè una collana, nè una robetta tarantina?(79)
Musetta. E per questo, o mamma, le altre sono più fortunate e più belle di me?
La Madre. No: ma più giudiziose, e sanno fare le cortigiane: non credono a parolette ed ai
giovani che han sempre i giuramenti su le labbra: tu se credula, e gli ami troppo gli uomini, e non
vuoi starti con nessun altro se non col solo Cherea. Poco fa quando venne quel campagnuolo
dAcarnania, che portava due mine, e neppur egli aveva barba (laveva mandato il padre per esigere il
prezzo del vino), tu lo canzonasti quel povero giovane, e ti giacesti con quellAdone del tuo Cherea.
Musetta. Eh? doveva lasciar Cherea, e ricevere quel villano cho puzzava di caprone? Vuoi
mettere il pesce col porco, Cherea mio con quellAcarnese?
La Madre. E sia pure che colui puzzava del salvatico: ma e Antifonte di Menecrate che
prometteva una mina, perchè non lo ricevesti? Non è egli bello, e gentile, e delletà di Cherea?
Musetta. Ma Cherea mi minacciò che ci avria scannati tuttadue, se mavesse colta con lui.
La Madre. Oh, quanti altri le fanno queste minacce! Perciò dunque rimarrai senza amatori, e ti
terrai casta, non come cortigiana, ma come una sacerdotessa di Cerere? Ma via, a proposito: oggi è
la festa di Cerere: che tha dato egli?
Musetta. Non ha niente, o mamma.
La Madre. Solo costui non ha trovato larte di cavar danari dal padre, dindettare un servo per
ingannarlo, di chiederli alla mamma minacciando di andare a farsi soldato se non gliene dà: ma si
sta a smungere noi poverette, e non ci dà egli, nè ci fa dare da altri. E credi, o Musetta, che tu sarai
sempre di diciotto anni; e che Cherea penserà anche così quando sarà ricco, e la madre gli avrà
trovato un partito di molti talenti? Credi che si ricorderà più delle lagrime, de baci, de giuramenti,
vedendo un cinque talenti di dote?
Musetta. Se ne ricorderà, sì: e nè prova che testè non sè ammogliato, mentre lo costringevano, lo
sforzavano, ed egli no.
La Madre. Vorrei chei non tavesse detto una bugia. Ma io te lo ricorderò allora, o Musetta.
8.
Vitina e Biondina.(80)
Vitina. Chi non è geloso, o Biondina mia, chi non va in furie, chi non tha dato mai uno schiaffo,
non tha tagliato i capelli, non tha stracciate le vesti, ei non è ancora innamorato egli.
Biondina. Dunque solo a questi segni si conosce chi ama, o Vitina?
Vitina. Sì, così si conosce luomo che arde: chè i baci, le lagrime, i giuramenti, il venire spesso
sono segni damore che comincia ed è ancora nascente: ma tutto il fuoco viene dalla gelosia. Onde
se, come mi dici, Gorgia ti batte ed è geloso, statti allegra, chè buon per te: facesse sempre così!
Biondina. Così? che dici? battermi sempre?
Vitina. No: ma smaniare se non guardi lui solo. Se egli non tamasse, perchè anderebbe in furia
che tu hai un altro innamorato?
Biondina. Ma io non lho. Egli vanamente ha supposto che quel ricco è innamorato di me, perchè
una volta a caso io lo ricordai.
Vitina. Tanto meglio se ti crede ricercata dai ricchi. Così gli cresceranno le smanie, e si metterà
sul punto di non farsi superar dai rivali.
Biondina. Eh, costui sa solamente montare in bestia e picchiarmi, ma dare niente.
Vitina. Darà, darà: i gelosi si sdegnano facilmente.
Biondina. I non so perchè tu vuoi chio sia battuta, o Vitina.
Vitina. Battuta no: ma io credo che lamore grande nasce quando uno si persuade che poco lo
curi; se è sicuro di possederti egli solo, la passione si smorza. Senti me, che fo la cortigiana da
ventanni, e tu nhai forse diciotto o meno. E se vuoi, io ti conterò un caso che mavvenne a me non ha
molti anni. Sera innamorato di me Demofante lusuraio che sta di casa dietro il Pecile. Costui non mi
dava mai più di cinque dramme, e si pensava di farmi il padrone. Lamor suo, o Biondina, era un
amore leggero; ei non sospirava, non piangeva, non mi stava innanzi la porta ad ora insolita, ma di
tanto in tanto si giaceva meco, stava un po, e via. Ma un dì che egli venne ed io non laprii, perchè
vera dentro Calliade il pittore, che maveva mandate dieci dramme, ei se nandò la prima volta
sdegnato e dicendomi villania. Passarono parecchi giorni, e io non mandai per lui: ed essendo
dentro Calliade la seconda volta, Demofante che sera ben riscaldato, avvampa di sdegno, spia
quando sapre la porta, entra, piange, mi batte, minaccia duccidermi, mi lacera le vesti, va in furori;
infine mi dà un talento, e mi si tiene egli solo per otto mesi interi. La moglie andava dicendo a tutti
che io con una fattura lo aveva fatto impazzire. La fattura era la gelosia. Onde, o Biondina mia, usa
anche tu questa fattura con Gorgia. Il giovane sarà ricco, se accaderà qualche cosa a suo padre.
9.
Cavretta, Vegliantina,(81) Filostrato e Polemone.
Cavretta. Uh, meschine noi, o padrona, siamo perdute! Polemone è tornato dalla guerra, e ricco,
come dicono. Lho veduto anchio con indosso un mantello di porpora con fibbiaglio doro, e tanti che
laccompagnavano. Gli amici, come lo vedevano, correvano a salutarlo. Io adocchiando nella folla il
familiare che dietro lo seguiva, e che partì con lui, gli ho dimandato, e: Dimmi, o Parmenone, gli ho
detto salutandolo prima, come lavete passata, e che ci portate di buono dalla guerra?
Vegliantina. Subito questo: hai fatto male: dovevi dirgli così: Siete tornati salvi, ne ringraziamo
gli Dei, e Giove ospitale, e Minerva guerriera. La padrona dimandava sempre di voi: chi sa che
fanno? dove saranno? Se avessi aggiunto ancora: Essa piangeva, e si ricordava sempre di
Polemone; saria stato molto meglio.
Cavretta. Glielho detto prima tutto questo, e non te lo ripeteva, perchè voleva contarti ciò che
mha detto egli. Con Parmenone ho cominciato così: Non vi fischiavano gli orecchi, o Polemone? La
padrona se ne ricordava sempre, e piangeva, specialmente se alcuno tornava dalla battaglia e si
diceva che vera morti tanti, ella si stracciava i capelli, si batteva il petto, e saddolorava ad ogni
novella.
Vegliantina. Brava, o Cavretta: bene così.
Cavretta. E dipoi gli ho fatta quella dimanda, ed ei mha risposto: Siam tornati signori.
Vegliantina. E non tha detto niente se Polemone si ricordava di me, se mi desiderava, e faceva
voti per trovarmi viva.
Cavretta. Uh, me ne ha dette tante! Ma quel che importa, mha contato di ricchezze grandi, oro,
vestimenta, servi, avorio; largento poi nha portato a staia; e non lo conta ma lo misura a staia.
Anche Parmenone stesso aveva nel dito mignolo un anello grossissimo, affaccettato, e vera
incastonata una gemma tricolore che tirava più al rosso. Ei mi voleva raccontare una storia lunga,
come passarono lAli, come uccisero un certo Tiridate, e le gran bravure che fece Polemone nella
battaglia contro i Pisidi, ma io lho lasciato e son corsa ad annunziartelo, acciocchè tu veda come
fare ora. Chè se vien Polemone (e verrà certamente come si sarà sbrigato dagli amici) se viene e
dimanda di te, e trova Filostrato dentro, che nabisso non farà egli?
Vegliantina. Troviamo, o Cavretta mia, un mezzo per uscir di questo imbroglio. Licenziar costui
non va bene, testè mha dato un talento, e poi è mercatante, e mha promesso molto. Non ricever
Polemone al suo ritorno è un altro male, perchè egli è anche geloso; e se quandera povero non si
poteva sopportare, or che farebbe egli ora?
Cavretta. Oh, eccolo che viene.
Vegliantina. I mi sento, o Cavretta, venir meno per la confusione, e tremo.
Cavretta. E viene anche Filostrato.
Vegliantina. O me perduta! perchè la terra non minghiotte?
Filostrato. Beviamo un fiaschetto, o Vegliantina.
Vegliantina. Oh, tu mhai rovinata! Salute, o Polemone vieni ben tardi.
Polemone. E chi è costui che sappressa a voi? Tu taci? Brava Vegliantina! Ed io in cinque giorni
son corso da Pilo a rotta di collo per venire ad una tal donna! Ma ben mi sta, e te ne ringrazio: i non
sarò più menato pel naso da te.
Filostrato. Tu chi sei, o buon uomo?
Polemone. I son Polemone lo Stirieo, della tribù di Pandione, già capitano di mille, ora
condottiero di cinque mila scudati, amante di Vegliantina quando credeva che ella avesse un cuore.
Filostrato. Ma ora, o Condottiero, Vegliantina è mia, e sha preso un talento, e ne avrà un altro
dopo che avrem venduto il carico. Vieni meco, o Vegliantina, e mandalo fra i Traci questo capitano.
Cavretta. Oh, ella è libera, e verrà se le piacerà.
Vegliantina. Che farò, o Cavretta?
Cavretta. È meglio entrartene: non faresti nulla con Polemone che ora è sdegnato: la gelosia farà
tutto.
Vegliantina. Entriamo, se così vuoi.
Polemone. Ed io vi annunzio che oggi è lultimo fiaschetto che berete, o non son io che ne ho
uccisi tanti. Olà, i Traci, o Parmenone.
Parmenone. Eccoli pronti, han serrato il chiassuolo con la falange: di fronte è la fanteria grave,
ai fianchi i frombolieri e gli arcieri, gli altri al retroguardo.
Filostrato. O Scannapane, ci hai presi per bimbi che ci spaurisci con le baie? Tu non hai ucciso
mai un galletto, e sei stato alla guerra, tu? Stavi a guardia di qualche castelluccio, perchè forse avevi
doppia paga, chè questo te lo voglio concedere.
Polemone. Saprai tosto chi son io, che ci vedrai avanzare con un giro a destra sfolgoranti nelle
armi.
Filostrato. Avanzatevi: chè io e questo mio compagno Tibio, vi scaglierem tanti sassi e cocci da
sperdervi, e non farvi trovare neppur la via di fuggire.
10.
Rondinella e Rugiadosa.(82)
Rondinella. Non viene più da te, o Rugiadosa, il giovanetto Clinia? Da molto tempo io non ce
lho veduto.
Rugiadosa. Non viene più, o Rondinella: il maestro gli ha proibito di più accostarsi a me.
Bandinella. Chi? il maestro di scuola Diotimo? oh, egli è cosa mia.
Rugiadosa. No, ma Aristeneto; che pigli un malanno a lui e a tutti i filosofi.
Rondinella. Quel viso arcigno tu dici? quel gran barbone, che suole passeggiar co giovani nel
Pecile.
Rugiadosa. Lui, quel chiacchierone! che lo possa veder morire di mala morte, lo possano
trascinar per la barba.
Rondinella. E perchè ha messo in capo a Clinia queste cose?
Rugiadosa. Io nol so, o Rondinella. Egli che non è stato mai una notte senza dormire con me,
dacchè ha conosciuto donne, e conobbe me prima, da tre giorni non si è neppure avvicinato al
chiassuolo. Io stavo tanto mesta, e avevo il cuore tanto scuro; onde mandai la Nebrida a vedere se
egli stesse in piazza o nel Pecile: ed ella mi riferì, come vedendolo passeggiar con Aristeneto, da
lontano gli fece un cenno, ed egli arrossendo guardò a terra, e non levò più gli occhi. Traversarono
insieme la città, ed ella dietro sino al Dipilo; ma vedendo che egli non si rivolgeva mai, se ne tornò
non potendo dirmi niente di certo. Figurati a questo come io entrai tutta sossopra, non sapendo
immaginare che avesse il ragazzo. Sè preso collera per qualche cosa? dicevo tra me: sè innamorato
di qualche altra, e ristuccato di me? Glielavesse vietato suo padre? Mi perdeva in mille pensieri. Ma
iersera verso tardi venne Dromone, e mi portò questa lettera sua. To, leggila, o Rondinella; chè tu
sai leggere.
Rondinella. Dammi, vediamo: oh, è uno scarabocchio scritto proprio in fretta. Dice così: «Come
io tho amata, o Rugiadosa, ne sono testimoni gli Dei.»
Rugiadosa. Ahi misera me! non comincia nemmeno col saluto.
Rondinella. «Ed ora non per odio, ma per necessità mi allontano da te. Mio padre mi ha affidato
ad Aristeneto, per farmi apprendere filosofia: e questi che ha saputo di noi ogni cosa, mi ha molto
sgridato, e mha detto che non conviene a me che son figliuolo di Architele e di Erasiclea vivere con
una cortigiana: e che è molto meglio preferire la virtù alla voluttà
Rugiadosa. Lo colga un accidente! queste chiacchiere insegna al ragazzo!
Rondinella. «Onde son costretto ad ubbidirlo, perchè mi accompagna sempre, e mi guarda
attentamente, e non mi permette di guardare altri che lui. Se mi correggo e gli ubbidisco in ogni
cosa, mi promette chio sarò felicissimo, e diventerò virtuoso ed illustre dopo di aver ben faticato. Ti
scrivo queste poche righe appena, e di nascosto. Tu sii felice, e ricordati di Clinia.»
Rugiadosa. Che ti pare la lettera, o Rondinella?
Rondinella. È una cosa da Scita: ma quel ricordati di Clima dà qualche speranza.
Rugiadosa. Anche a me è paruto così: ah io me ne moro per questo amore. Intanto Dromone mha
detto che Aristeneto è un pederasta, e che sotto colore di studii egli si gode i bei garzoni; e che
gliene dice tante a Clinia, e gli promette di farlo diventar pari ad un dio; e che gli fa leggere certi
discorsi amorosi che gli antichi filosofi facevano ai loro discepoli: insomma è sempre intorno al
garzone. Oh, ma egli ha minacciato di dire ogni cosa al padre di Clinia.
Rondinella. Bisogna, o Rugiadosa, imboccar Dromone.
Rugiadosa, I lho imboccato; ma senza di questo egli è mio, chè anche egli è cotto della Nebrida.
Rondinella. E non dubitare, chè tutto anderà bene. Io ho fatto un pensiero, di scrivere sul muro
del Ceramico, dove Architele suol passeggiare, Aristeneto contamina Clinia. Così aiuteremo un po
laccusa di Dromone.
Rugiadosa. Ma come scriverai senza farti vedere?
Rondinella. Di notte, o Rugiadosa, pigliando un carbone a caso.
Rugiadosa. Bene, o Rondinella: aiutami anche tu a combattere quel tristaccio dAristeneto.
11.
Trifena e Carmide.
Trifena. Chi mai si prende una cortigiana, le dà cinque dramme, e si corica volgendole le spalle,
piangendo e sospirando? Non hai bevuto, non hai voluto toccar briciola di cibo, tho veduto versar
lagrime durante tutta la cena: ed ora non cessi di guaiolare come un fanciullo. E perchè fai questo, o
Carmide? Va, dimmelo: chè almeno passerò così la nottata, vegliando con te.
Carmide. Lamore mi uccide, o Trifena; e non posso più sopportarne le smanie.
Trifena. Che non ami me, si vede; perchè avendomi in poter tuo non mi curi, e mi scacci che ti
voglio abbracciare, anzi hai fatto qui in mezzo a noi come un muro con la coltre, temendo chio non
ti tocchi. Ma chi è ella, dimmela. Forse i ti potrei aiutare in cotesto amore, chè so come si hanno a
menare simili faccende.
Carmide. Tu la sai certamente, ed ella te: ella è cortigiana conosciuta.
Trifena. Dimmene il nome, o Carmide.
Carmide. La Baciozza, o Trifena.
Trifena. Quale dici? chè sono due; quella del Pireo, testè sverginata, e di cui è innamorato Difillo
il figliuolo del generale di questanno, e quellaltra che chiaman la Trappola.
Carmide. Questa: ed io misero a me, son morto, son perduto di lei.
Trifena. E per lei piangevi?
Carmide. Sì.
Trifena. È molto che lami, o se novello ancora?
Carmide. Novello no: son otto mesi che nelle Dionisiache la vidi la prima volta.
Trifena. Ma la vedesti ben tutta quanta la Baciozza? o le vedesti la sola faccia e le altre parti
apparenti del corpo? Tu certamente non sei andato più in là con una donna che ha sopra i
quarantacinque anni.
Carmide. Eppure ella giura che ne compirà ventidue a Febbraio che viene.
Trifena. E tu a chi più crederai, ai giuramenti suoi, o agli occhi tuoi? Rimirala bene, guardala un
po alle tempie dove solamente ha capelli suoi, e il resto è una gran parrucca. Intorno alle tempie,
quando svanisce il colore col quale ella si tinge, i capelli compariscon bianchi di sotto. Ma che ti sto
a dire? Falle un po di forza per vederla nuda una volta.
Carmide. Non mai ha voluto compiacermi di tanto.
Trifiina. Con ragione: sapeva che avresti schifate le sue impetigini: dal collo alle ginocchia nè
tutta chiazzata come una pantera. E tu piangevi che non ti giaci con lei? Oh di, te lo vendeva caro
ella, e ti faceva la contegnosa?
Carmide. Sì, o Trifena: e quanto sha preso da me! Ora maveva cercato un migliaio,(83) ed io
non avendo come darglielo, perchè mio padre è un uomo assegnato, ella sha preso Moschione, e mi
ha scacciato: onde io per farle dispetto mho preso te.
Trifena. Oh, per Venere, i non ci sarei venuta se mavesser detto che io era presa per questo, per
fare un dispetto a unaltra, e poi alla Baciozza, a quella vecchiaccia. Ma ora me ne vado, chè già il
gallo ha cantato la terza volta.
Carmide. Non andar sì di fretta, o Trifena. Se è vero ciò che dici della Baciozza, e della
parrucca, e che si tinge, e che ha le impetigini, i non potrei più guardarla in faccia.
Trifena. Dimandane tua madre, se mai sè lavata con lei: degli anni poi, te ne parlerà anche tuo
nonno, se è vivo ancora.
Carmide. Dunque giacchè ella è così fatta, leviam questo muro di mezzo a noi, abbracciamoci,
baciamoci, facciamo davvero; e la Baciozza vada alla malora.
12.
Violetta,(84) Pitia e Lisia.
Violetta. E mi maltratti, o Lisia! Ben mi sta, perchè io non tho chiesto mai danari, non tho tenuto
mai la porta, dicendoti, un altro è dentro; non tho costretto mai ad ingannar tuo padre, o rubare tua
madre, e portarlo a me, come fanno le altre; ma subito fin da prima tho ammesso in casa senza voler
mai nulla, mai. Tu li sai quanti innamorati io ho licenziati: Etocle che ora è de Pritani, Pasione il
padron di barca, e Melisso che è giovane come te, ed ora gli è morto il padre, ed è padrone assoluto
di tutto il suo: ma per me il mio Faone se stato tu, non ho guardato nessun altro, non sono stata che
con te: perchè, sciocca a me, io credeva veri i giuramenti tuoi, e mi ti son mantenuta come una
Penelope, benchè la mamma mi sgridasse, e le amiche me ne garrissero. E tu come ti sei accorto
che io sono una pasta nelle mani tue, e di me fai quello che vuoi, ora scherzi con Licena innanzi agli
occhi miei per farmi dispetto, ed ora mentre ti giaci con me lodi Magina la sonatrice. I nho pianto
per questo, e pure benchè insultata son sempre pronta alle tue voglie. E giorni sono, quando beveste
insieme tu, Trasone e Difilo, ci erano ancora Cimbalina la zufolatrice, e Pirallide la nemica mia; e
tu lo sapevi. I non mi curai tanto che tu desti cinque baci alla Cimbalina, perchè offendesti te stesso
a baciar colei: quanto che tu facevi tanti segni a Pirallide, e bevendo le accennavi il bicchiero, e poi
dando il bicchiero al servo, gli dicevi: Mescivi solamente per Pirallide quando chiede bere e a
nessun altro. Infine desti un morso ad una mela, e quando vedesti Difilo intento a parlar con
Trasone, la lanciasti diritto in seno a lei, senza nemmeno cercare di non farti veder da me. Ella la
baciò, e se la mise in mezzo alle mammelle sotto la pettiera. Or questo tu perchè me lo fai? Tho
dato mai un minimo dispiacere? tho fatta una minima offesa mai? chi altro ho guardato? non vivo
solo per te? Non fai una bella cosa, o Lisia, ad affliggere così una povera donna che è pazza per te:
e cè una dea Nemesi, che le guarda queste cose. Ma tu ti affliggerai forse quando saprai chio son
morta, che mi sono impiccata ad un laccio, o gettata nel pozzo, o morta in qualche altro modo, per
levarti questa noia dinanzi agli occhi. Oh, allora sarai contento che avrai fatta questa gran prodezza.
Ma perchè mi sguardi bieco, e arroti i denti? Se tho mancato in qualche cosa, parla: qui cè Pitia, che
ci giudicherà. Ma che? Non mi rispondi, e te ne vai, e mi lasci? Vedi, o Pitia, che mi fa Lisia?
Pitia. Che crudele! Non muoversi a queste lagrime. È sasso, non uomo, costui. Ma a dirti il vero,
tu stessa, o Violetta, lhai guasto col volergli tanto bene, ed a mostrarglielo. Dovevi non farti vedere
così accesa di lui: ei lo sa, e se ne tiene. Non piangere, o poveretta, e senti me: per una o due volte
scaccialo quando viene: e lo vedrai acceso davvero ed impazzito di te.
Violetta. Va, non lo dire neppure: io scacciar Lisia? Oh, non sallontanasse egli da me!
Pitia. Torna di nuovo.
Violetta. Tu mhai perduta, o Pitia: forse ha udito che hai detto: scaccialo.
Lisia. I non sono tornato per costei, chè io non la guarderò in faccia mai più, ma per te, o Pitia,
affinchè tu non mi condanni, e non dica, Lisia è un crudele.
Pitia. Già lho detto, o Lisia.
Lisia. E volevi, o Pitia, che io avessi sofferta questa Violetta, che ora piange, ora, e che io stesso
ho sorpresa a dormire con un giovane quandio non cera?
Pitia. Infine, o Lisia, ella è cortigiana. Ma quando li hai sorpresi a dormire insieme?
Lisia. Son forse sette giorni, sì sette, era il secondo del mese: oggi ne abbiamo otto. Mio padre
sapendomi perduto di questa gioia, mi chiuse, e comandò al portinaio di non maprire: ma io che non
potevo star senza di lei, me la intesi con Dromone, lo feci curvare vicino al muro del cortile dove è
più basso, per salirgli sul dorso, e così facilmente scavalcare. Per non farla lunga, scavalcai, venni,
trovai la porta ben chiusa, chè era già mezza notte: non picchiai, ma aperta piano piano la porta con
la chiave comune, come avevo fatto altre volte, entro senza far rumore: tutti dormivano: io con le
mani tastando le mura mi accosto al letto.
Violetta. Che dici? o mamma mia! mi sento i sudori della morte.
Lisia. Come maccorsi che non era un fiato solo, da prima credetti che ci fosse anche Lida
corcata: ma non era così, o Pitia: che tastando toccai uno senza barba, liscio, tonduto, che anche
odorava dunguento. A questo se io ci fossi venuto con un coltello ti dico che non avrei dubitato....
Perchè ridete, o Pitia? Ti dico cose da ridere io?
Violetta. E per questo, o Lisia, teri preso collera? Era Pitia che dormiva con me.
Pitia. Non dirglielo, o Violetta.
Violetta. Perchè non dirglielo? Era Pitia, o caro, chiamata da me per coricarci insieme, chè io mi
struggevo a non averti vicino.
Lisia. Pitia così tonduta? E poi in sette giorni le son cresciuti tanti capelli?
Violetta. Per una malattia si è rasa, o Lisia, perchè le cadevano i capelli: ella ora ha la parrucca.
Fagliela vedere, o Pitia, fagliela vedere per persuaderlo. Ecco chi era quel giovane, quel mio ganzo,
di cui eri geloso.
Lisia. E non fu bene, o Violetta, fare una toccatina a questo tuo ganzo?
Violetta. Dunque ti se persuaso. Ma vuoi che vada in collera io ora? che mi sdegni con ragione
anchio?
Lisia. No, no: via, beviamo ora: e Pitia stia con noi: ella deve assistere alla pace.
Violetta. Ci sarà. Che mhai fatto soffrire, o mio bel giovane Pitia!
Pitia. Ma io vho anche rappattumati: onde non me ne voler male. Duna cosa ti prego, o Lisia; de
capelli, ve, non parlarne a nessuno.
13.
Leontico, Chenida ed Innide.
Leontico. In quella battaglia contro i Galati, dillo tu, o Chenida, come io uscii innanzi a tutti
cavalcando un cavallo bianco, e come i Galati, benchè gagliardi, tosto si scombuiarono al vedermi,
e nessuno più tenne il fermo. Allora io mi scaglio contro il capitano della cavalleria, e con una
lanciata trapasso fuor fuora lui e il cavallo: e contro alcuni rimasti ancora piantati (ed erano un
pugno che, sciolta la falange, si mantenevano stretti ed annodati), contro costoro io, sfoderata la
spada, e a tutta furia investendoli, ne rovescio quasi sette urtandoli col cavallo; e poi menando la
spada, spaccai ad un caporale il capo in due con tutto il collo. Voi poi, o Chenida, poco appresso vi
deste ad inseguire i fuggiaschi.
Chenida, o Paperino. E nella Paflagonia, o Leontico, in quel duello contro il Satrapo non
mostrasti allora una gran prodezza?
Leontico. Ah, sì, tu mi hai ricordato un fatto non poco glorioso. Il Satrapo che era un omaccione
grande, e pareva un guerriero assai bravo, tenendo per niente i Greci, si fece in mezzo, e sfidò chi
volesse combattere con lui a corpo a corpo. Tutti si sbigottirono, caporali, colonnelli, il generale
stesso che non era un vile. Ei si chiamava Aristecmo il generale, era Etolo, e maneggiava bene la
lancia: io ero ancora capitano di mille uomini. Arditamente adunque, io sviluppatomi dagli amici
che mi trattenevano.... -temevano per me, vedendo quel barbaro tutto rilucente nelle armi dorate,
che aveva uno spennacchio terribile, e squassava la lancia.....
Chenida. Anchio temei allora, o Leontico, e ti ricordi come ti pregavo di non metterti a quel
pericolo: chè se morivi tu, volevo morire anchio.
Leontico. Ma io arditamente esco in mezzo armato di tutto punto come il Paflagone, e tuttoro
anchio. Tosto si levò un grido dai nostri e dai barbari, i quali mi riconobbero allo scudo, alle
bardature, allo spennacchio. Di, o Chenida, a chi massomigliavano tutti allora?
Chenida. A chi? Ad Achille; sì, al figliuolo di Teti e di Peleo: così ti stava bene lelmo in testa, la
porpora ti era dipinta al corpo, e lo scudo sfolgorava.
Leontico. Poi che venimmo a fronte, il barbaro prima ferisce me, sfiorandomi un po con la
lancia alquanto sopra il ginocchio: ma io trapassatogli lo scudo con la sarissa gli sprofondo il petto,
e poi gli vo sopra, gli tronco netto il capo con la spada, gli prendo le armi, e me ne torno, portando
il capo infilzato su la sarissa, che mi lordava di sangue.
Innide. Va, va, o Leontico: che sozzure ed orrori mi conti! E chi ti vuol guardare in faccia,
quando ti piace tanto il sangue? chi vuole più bere e corcarsi con te? I me ne vado, io.
Leontico. Ti darò il doppio del patto.
Innide. I non potrei mai dormire con un omicida.
Leontico. Non temere, o Innide: le son cose fatte tra Paflagoni: ora io sono pacifico uomo.
Innide. Sei un abbominevole uomo, che il sangue ti gocciolava sopra da quella testa del barbaro
che portavi su la sarissa. Ed un tale uomo io abbracciarlo e baciarlo? No, no: liberatemene, o
Grazie: costui non è diverso dal boia.
Leontico. Eppure se tu mi vedessi armato, ti dico tinnamoreresti di me.
Innide. Al solo udirti, o Leontico, mi viene la nausea ed il raccapriccio; e parmi di vedere
linferno, e le ombre degli uccisi, specialmente quel povero caporale col capo spaccato in due: oh,
che saria sio vedessi davvero il sangue, e i cadaveri per terra? Certo ne morirei: io non ho veduto
mai uccidere neppure una gallina.
Leontico. Sei così tenera, e pusillanime, o Innina? I credevo che ti piaceva udire.
Innide. Fa cotesti racconti alle donne di Lenno o alle Danaidi; a cui posson piacere: io per me,
torno a mamma mia, chè ancora è dì. Vieni meco, o Grammide. E tu, io ti saluto, o bravo capitano,
uccidine quanti ne vuoi.
Leontico. Rimani, o Innina, rimani. Se nè ita.
Chenida. Tu lhai spaurita la semplice fanciulla, o Leontico, con tanto agitar di spennacchi, e
contare dincredibili braverie: io vedevo comella impallidiva quando tu contavi il fatto di quel
caporale, e come tutta si stringeva ed abbrividiva quandhai detto che tagliasti la testa.
Leontico. I credevo di farmene bello con lei. E tu mhai aiutato a rovinarmi, o Chenida,
suggerendomi quel maledetto duello.
Chenida. Non doveva aiutarti a dire una bugia, vedendo che avevi tanta voglia di cianciare? Ma
tu hai fatto unorribilità grande. Passi pure che tagliasti il capo a quel povero Paflagone, perchè poi
infilzarlo su la sarissa, e farti gocciolare il sangue addosso?
Leontico. Questo è sozzo veramente, o Chenida: tuttaltro è stato bene inventato. Ma va, e
persuadila a dormire con me.
Chenida. Le dirò dunque che son tutte bugie, e che lhai dette per parer prode?
Leontico. Così è vergogna, o Chenida.
Chenida. E altrimente non viene. Scegli dunque una delle due: o essere odiato e rimanerti bravo,
o dormir con Innide e confessarti bugiardo.
Leontìco. Brutte tuttedue: ma scelgo Innide. Va dunque, o Chenida, e dille che son bugie, ma
non tutte, ve.
14.
Dorione e Mirtale.
Dorione. Ora mi scacci, o Mirtale, ora che son divenuto povero per te: quando ti portavo tante
cose, allora io ero linnamorato, io luomo tuo, io il signore, tutto io. Poi chio son ridotto al verde,
thai trovato per amico il mercatante Bitino: io sono scacciato, e ti sto innanzi la porta a piangere, ed
egli ogni notte è dentro, e si sollazza, tu gli fai carezze, e gli dici che se gravida di lui.
Mirtale. Questo non posso patire, o Dorione, quando dici che mhai dato tanto, e che se povero
per cagion mia. Facciamo un po il conto di tutte le cose che mhai portate.
Dorione. Sì, o Mirtale, facciámolo. Un paio di scarpette di Sicione in prima, di due dramme:
metti due dramme.
Mirtale. E dormisti meco due notti.
Dorione. E quando venni di Siria un bossoletto dunguento di Fenicia, anche di due dramme, sì
per Nettuno.
Mirtale. Ed io quando salpasti, i ti diedi quella camicetta marinaresca che ti giungeva sin qui alle
cosce, per mettertela quando remavi: se la scordò in casa mia Epiuro il piloto quando dormì con me.
Dorione. La riconobbe Epiuro e se la riprese in Samo e ne avemmo le batoste grandi. E poi ti
portai cipolle da Cipro; e cinque acciughe, e quattro perchie(85) ti portai quando tornammo dal
Bosforo. Che più? otto biscotti secchi in canestro, e un boccale pieno di fichisecchi di Caria; e
infine da Patara un paio di sandali dorati, o ingrata: e una volta mi ricorda ancora una gran girella di
formaggio del Giteo.(86)
Mirtale. Tutto cotesto, o Dorione, è roba di un cinque dramme.
Dorione. Secondo il potere di un marinario, o Mirtale, è grassa paga. Ora che sono il primo remo
del lato destro, ora mi disprezzi. Poco fa nella festa di Venere non posi io per te una dramma
dargento appiè della dea? Unaltra volta alla mamma tua due dramme per le scarpette: e spesso in
mano a Lida ora due, ora quattroboli. Tutte queste cose insieme sono lavere dun marinaio.
Miriate. Le cipolle, e le saperde, o Dorione?
Dorione. Sì: più non avevo per portartelo: se ero ricco io non remavo. A mia madre non le ho
portato mai una sola testa daglio. I ti vorrei proprio sapere i doni che ti fa il Bitino.
Mirtale. Vedi questa vestetta? me lha comperata egli, e questa collana massiccia.
Dorione. Egli? io te la so da tanto tempo la collana.
Mirtale. Quella che sai tu era più leggiera, e senza smeraldi. E questi orecchini, e un tappeto, e
poco fa due mine, ed ha pagato anche la pigione per noi. Altro che zoccoli di Pataro, formaggio del
Giteo, ed altre bagattelluzze.
Dorione. E con chi ti corchi non lo dici questo? Ha sopra cinquantanni, senza un capello in capo,
ha la pelle come il guscio dun granchio. E non vedi bei denti che ha in bocca? Quanto è aggraziato,
o Dioscuri, specialmente quando canta e vuol fare lo spasimato: pare un asino che suona la cetra!
Godilo col buon pro, che ne se degna: e vi possa nascere un granchiolino che sia tutto il padre. Io
macconcerò con Delfida o Cimbalina che fanno per me, o con la vicina nostra la zufolatrice, o mi
troverò qualche altra. I tappeti, le collane, e le paghe di due mine non le danno tutti.
Mirtale. Beata lei che tavrà per innamorato, o Dorione: chè tu le porterai cipolle da Cipro, e
formaggio dal Giteo quando arriverai.
15.
Coclide e Partenide.
Coclide o Conchigliuzza. Perchè piangi, o Partenide? e donde vieni che porti i flauti rotti?
Partenide. Quel soldato Etolo, quel pezzo duomo innamorato di Crocale (di Petruzza), mha dato
tanti schiaffi, trovandomi a sonare in casa la Crocale: i cero perchè Gorgo il rival suo maveva tolta
a prezzo: ed ei mha rotti i flauti, ed ha mandata la mensa sossopra mentre banchettavano, e ha
rovesciate le tazze, con una furia che mai la maggiore. E quel povero villanzone di Gorgo egli lha
afferrato pe capelli, lha tratto giù dalla tavola, se lhan messo sotto, e gli davano il soldato, che si
chiama Dinomaco, e un suo compagno anche soldato. I non so se quel poveretto potrà vivere, o
Coclide: gli scorre tanto sangue dal naso; ed è tutto enfiato e livido.
Coclide. Era pazzo costui, o era ubbriaco, e lha fatto nel vino?
Partenide. È stata una gelosia, o Coclide, un trasporto damore. Crocale gli aveva dimandati due
talenti, se voleva tenersela egli solo: e poi che Dinomaco non gliene dava, ella lo scacciò, e gli
chiuse la porta in faccia come si diceva ancora: si messe ad amoreggiare con un certo Gorgo,
campagnuolo agiato, che da tanto tempo le voleva bene, ed è un buon uomo; e desinando con lui
avevano chiamato anche me per sonare. Già il desinare era più che a mezzo, io sonava dolcemente
unarietta Lidia, il campagnuolo sera levato per ballare, Crocale batteva le mani, era tutta allegria:
quandecco sode picchiare, gridare, sconficcar luscio; ed indi a poco si precipitano dentro un otto
giovani robusti, tra i quali il Megarese. Ogni cosa va sossopra, e Gorgo, come tho detto, steso a
terra aveva pugni e calci assai. Crocale, non so come, se lha svignata fuggendosi da Tespiada sua
vicina. A me poi Dinomaco, dandomi tanti schiaffi: Esci, mi ha detto, e rompendomi i flauti, me lha
gittati. Io ora corro a dire ogni cosa al padrone. Eh, anche il campagnuolo va da certi suoi amici
cittadini, i quali chiameranno innanzi ai Pritani il Megarese.
Coclide. Questo se nha dal far lamore coi soldati, picchiate e querele. Tutti costoro che si
spaccian per generali e per condottieri, se thanno a dar qualche cosa, aspetta la rassegna, dicono,
prenderò la paga, e farò tutto. Alla malora questi spaccamontagne. Fo bene io che con essi non
voglio impacciarmi affatto. È meglio per me un pescatore, un marinaio, o un campagnuolo che sa
carezzare poco, e dare assai. Questi che squassano spennacchi e contano battaglie, son tutti vento, o
Partenide.
Correzioni apportate nelledizione elettronica Manuzio:
6. Ciuffetta e Corinna, ultimo capoverso
Tu fa sempre più carrezze = ...carezze
12. Violetta, Pitia e Lisia
Oh, non sallontasse = allontanasse
LXVII.
DELLA MORTE DI PEREGRINO.
LUCIANO A CRONIO SALUTE.
Lo sciagurato Peregrino, o Proteo (come egli voleva esser chiamato), ha fatto lo stesso che il
Proteo dOmero: divenuto ogni cosa per acquistar fama, e trasformatosi in mille forme, finalmente è
divenuto fuoco: tanta smania aveva di far parlare di sè. Ed ora eccotelo carbonizzato il poveretto,
come Empedocle: se non che Empedocle tentò di non farsi vedere quando si gettò nel cratere del
fuoco; e costui ha bravamente aspettata la più numerosa adunanza dei Greci per avere tanti
testimoni che lo vedessero gettarsi in una gran pira ardente, e ludissero recitare certe sue pappolate
ai Greci per alquanti giorni prima di quella sua pazzia. Già parmi di vederti ridere di quel vecchio
imbarbogito, e già ti odo gridare, come tu suoli gridare. Oh stoltezza! oh vana ostentazione! ed altri
oh! che sogliamo dire in questi casi. Tu li dici da lontano e in sicuro; ma io vicino al fuoco li diceva,
e in mezzo una gran moltitudine di ascoltatori, dei quali parecchi mi sguardavano biechi,
ammirando la mattia di quel vecchio. Ce ne erano ancora che ne ridevano, ma io per poco non fui
sbranato dai Cinici, come Atteone dai cani, o Penteo suo cugino dalle Menadi. Ti voglio narrar
questo dramma: tu conosci il poeta, e sai che nella sua vita ei ne rappresentò tanti, quanti non ne
scrissero Sofocle ed Eschilo.
Come io venni in Elide ed entrai nel ginnasio, udii un cinico che con unaspra vociaccia
sparpagliava le più sciocche e rifritte cose intorno alla virtù, e lacerava tutto il mondo, e dopo molte
grida uscì a parlare di Proteo. Tenterò, come posso, di riferirti ciò che ei diceva: tu ti ricorderai
certamente che spesso hai udito di tali gridatori. «Chi ardisce, diceva, di chiamar Proteo un
vanitoso? o terra, o sole, o fiumi, o mare, o Ercole signor nostro! Proteo, che fu prigione in Siria,
che lasciò alla patria cinquemila talenti, che fu scacciato da Roma, che è più chiaro del sole, che
potrebbe stare al paragone anche con Giove Olimpio? Perchè sè deliberato di uscir di vita per
mezzo del fuoco, però alcuni lo biasimano di vanagloria? Ed Ercole non ne uscì per fuoco? ed
Esculapio e Bacco per fulmine? Ed Empedocle non morì nel vulcano?» Mentre Teagene (così
chiamavasi quel gracchiatore) diceva queste cose, io dimandai ad uno che mera vicino: Che storie
son queste di fuoco, di Ercole, di Empedocle, e che han che fare con Proteo? E quei risposemi: Fra
breve Proteo si brucerà in Olimpia. Oh, e perchè? dissio. E mentre quei provava di rispondermi, il
Cinico mugghiava, e non cera verso chio potessi udire altro che lui; onde macconciai ad udire
quelle gran parole che ei versava a bigonce, e le sperticate lodi che dava a Proteo; nè Diogene nè il
suo maestro Antistene potevano paragonarsi a lui, e neppur Socrate; ma ei sfidava a stargli a fronte
Giove stesso. Poi gli parve di farli eguali tutti e due, e terminò discorso così: «Il mondo ha veduto
due maraviglie, Giove Olimpio e Proteo: quello fu un miracolo dellarte di Fidia, questo della natura.
Ma ora dagli uomini anderà tra gli Dei questo ornamento del mondo, sollevandosi sul fuoco, e
lascerà noi orfani e dolenti.»
Così parlando sudava tutto, e piangeva goffamente, e si strappava i capelli, badando di non tirarli
troppo forte; infine alcuni Cinici gli si fecero dappresso, e consolandolo, così singhiozzante lo
menarono via. Dopo costui subito montò a parlare un altro, che senza dar tempo alla moltitudine di
sperdersi, e mentre il ferro era ancor caldo, si mise a ribatterlo in altro modo. E cominciò con una
grandissima risata, che parve gli uscisse proprio del cuore: poi prese a dire così:
Poichè quel birbon di Teagene ha finito col pianto di Eraclito, io comincerò col riso di
Democrito. E scoppiò in una risata più grande, che fece ridere anche parecchi di noi. Poi
ricomponendosi disse: E che altro si può fare udendo sì ridicoli discorsi, e vedendo uomini vecchi
per un po di meschina glorietta venir quasi a far capitomboli innanzi a voi? Ma per conoscere chi è
questa gioia che vuole arrostirsi, udite me, o ascoltatori, chè io so tutta la storia della sua vita,
dettami da suoi paesani, e da alcuni che lhan conosciuto da vicino. Questo miracolo di natura,
questo capolavoro di Policleto, quando cominciò ad esser uomo, fu colto in adulterio in Armenia, e
tentando di scappare per un tetto, fu preso, bastonato ben bene, ficcatogli un ravanello in culo, e
mandato via. Dipoi sforzò un bel giovanetto, e con tremila dramme ne acchetò i genitori, che eran
povera gente: e così non fu menato innanzi al governatore dellAsia. Queste ed altre inezie
passiamole pure; chè la creta era ancora informe, il capolavoro non ancora perfetto. Ma ciò che fece
a suo padre, si deve dire: benchè tutti voi sapete ed avete udito come egli strangolò quel povero
vecchio, non volendo farlo andare oltre i sessantanni. Divulgato il fatto, ei si condannò da sè stesso
allesilio, ed andò vagando qua e là tramutandosi. Ed allora egli apprese la mirabile sapienza dei
Cristiani, avendo in Palestina stretta amicizia con loro sacerdoti e dottori. Ma che? In breve costoro
parvero fanciulli a petto a lui: egli profeta, egli pontefice, egli capo delle loro adunanze, egli solo
era il tutto; interpetrava e spiegava i libri, ne scriveva anche molti, e quelli lo stimavano come un
Dio, lo tenevano loro legislatore, lo intitolavano loro signore: perocchè essi adorano ancora quel
granduomo crocifisso in Palestina, che introdusse questa novella religione nel mondo. (87)
In quel tempo Proteo fu preso come cristiano e gettato in carcere: la qual cosa gli acquistò
grande autorità dipoi, e fama di santità, di che egli molto si compiaceva. Come ei fu in prigione, i
Cristiani stimando che la sua fosse una comune loro disgrazia, tentarono ogni via per trarnelo, e non
potendo riuscirvi, gli prestavano ogni specie di servigi con somma cura. Da che spuntava il dì era a
vedere innanzi al carcere vecchie, vedove, orfanelli: i loro capi, avendo corrotti i custodi, entravano
e passavan la notte con lui: gli erano portate ogni maniera di vivande: si facevano sacre preghiere
per lui; e lottimo Peregrino (che così era chiamato ancora) era tenuto da essi per un novello Socrate.
Ed anche da alcune città dellAsia vennero messi a nome delle comunità de Cristiani, per
confortarlo, sovvenirlo, difenderlo. Non si può dire quanta sollecitudine mostrano tutti quanti in
simiglianti casi, e come non risparmiano alcuna cosa. Onde Peregrino, sotto pretesto del carcere,
ebbe da loro molte ricchezze, e si fece non piccola provvisione per lavvenire. Dappoichè credono
questi sciagurati che essi saranno immortali, e viveranno nelleternità; e però sprezzano la morte, e
volentieri le vanno incontro. E poi il loro primo legislatore li persuase che sono tutti fratelli tra loro:
e come si sono convertiti, rinnegano gli Dei de Greci, adorano quel sapiente crocifisso, e vivono
secondo le sue leggi. Per la qual cosa disprezzano tutti i beni egualmente, e li credono comuni, e
non se ne curano quando li hanno. Onde se tra loro sorgesse un accorto impostore che sapesse ben
maneggiarli, tosto diventeria ricco, canzonando questa gente credula e sciocca.
Ma Peregrino fu liberato dal Proconsolo che allora governava la Siria, uomo che assai si
dilettava di filosofia, il quale conoscendo quanto costui era pazzo, e che avria sostenuto anche la
morte per lasciar fama di sè, lo mandò via non credendolo degno neppure di pena. Tornato in patria,
trova grandi sdegni ancora accesi per la morte del padre, e molti pronti ad accusarlo. Durante la sua
lontananza la maggior parte dei beni gli erano stati sperperati, e rimanevano solo i campi, che
potevano valere un quindici talenti; perchè tutto lasse rimasto dal padre poteva essere dun trenta
talenti, e non cinquemila, come ha detto quella bestia di Teagene: chè cinquemila non ci varria tutta
la città di Pario con cinque altre attorno, con tutti gli uomini, i bestiami e le suppellettili. Già usciva
laccusa, già sorgeva chi lo chiamava in giudizio; il popolo fremeva, e molti che avevano conosciuto
quel vecchio dabbene, come lo chiamavano, lo deploravano morto così scelleramente. Ora udite che
tiro fece quel furbo di Peregrino, e come si cavò netto di questo pericolo. Presentasi nelladunanza
dei Pariani con lunga chioma, con indosso un mantello sbrandellato, una bisaccia su la spalla, un
bastone in mano, e così comparendo camuffato in modo da teatro, dice che tutte le sostanze
rimastegli dalla buona memoria di suo padre, egli le lasciava al popolo. Come udì questo il popolo,
che erano tutti povera gente ed usati ad aspettar con bocca aperta i donativi, tosto gridarono che egli
era il vero filosofo, il vero amatore della patria, il vero seguace di Diogene e di Crate: ed ai suoi
nemici scese la lingua in gola, e se qualcuno si fosse ardito di ricordare la morte del vecchio, saria
stato lì per lì lapidato. Tornò dunque ad andare vagando alla ventura, avendo ogni aiuto dai
Cristiani che lo servivano, e non lo facevano mancare di niente. Per alcun tempo così visse; ma
dipoi avendo trasgredito qualche loro precetto (pensomi si facesse veder mangiare qualche cibo
vietato), trovandosi piantato da essi, e sprovveduto, mutò il primo proposito, e pensò di
ridomandare le sue sostanze alla patria; ne scrisse dimanda allimperatore, sperando gli fossero
rendute. I cittadini mandarono loro ambasciatori per questa faccenda: egli non ne cavò frutto, e fu
deciso che la donazione era valida perchè era stata spontanea.
Dopo di questo fece un altro viaggio, ed andò in Egitto da Agatobalo, per addottorarsi in quella
mirabile dottrina di portar la zucca mezzo rasa e la faccia lorda di mota, di farsi le seghe innanzi al
popolo e dire che lè una delle cose dette indifferenti, di battersi e farsi battere le natiche con una
ferula, e di fare altre pazzie per destare ammirazione. Di là partissi benissimo instrutto in queste
cose, e navigò per lItalia; dove, come scese di nave, si sbracciò a dir male di tutti, massime
dellimperatore, che ei sapeva essere un uomo bonario ed umano; e però la sicurezza gli cresceva
lardire. Il principe ragionevolmente si curava poco di queste maldicenze, e non voleva punire per
parole uno vestito da filosofo, e che poi faceva larte di sparlare di tutti: egli più ne gonfiava e
ringalluzziva, e gli sciocchi lo ammiravano. Infine il prefetto di Roma, che era uomo di senno, per
le troppe trasmodanze lo cacciò via, dicendo, che la città non aveva bisogno di cotal filosofo. Ma
questo appunto gli accrebbe la fama; e tutti ragionavano del filosofo scacciato per aver parlato
troppo franco ed ardito: paragonavanlo a Musonio, a Dione, ad Epitteto, e ad altri che si trovarono
in caso simile.
Tornato così in Grecia, ora ingiuriava gli Elei, ora persuadeva i Greci a levar larmi contro i
Romani, ed ora lacerava un uomo ragguardevole per sapere e per dignità,(88) perchè, costui tra gli
altri beneficii fatti alla Grecia, aveva condotta lacqua in Olimpia, e ristorata la gran gente che quivi
sadunava e moriva di sete: ed ei diceva che costui infemminiva i Greci; che gli spettatori de giuochi
olimpici debbono sopportare la sete, e crepare ancora delle malattie violente che per laridità della
contrada vi sono frequentissime: e diceva questo mentrei si abbeverava di quellacqua. Tutti gli
corsero addosso, e stavano per accopparlo; ma il prode uomo si rifuggì allaltare di Giove, e vi trovò
uno scampo. Nellolimpiade seguente venne ad isciorinare innanzi ai Greci una sua diceria sciocca,
che era stato quattro anni a comporla, nella quale lodava colui che aveva condotta lacqua, e scusava
sè stesso di quella fuga. Intanto venuto in dispregio di tutti, che se ne erano stucchi nè più lo
riguardavano come prima, non potendo inventar nulla di nuovo per far colpo e maraviglia, ed
agitato da quellantica smania di far parlare di sè, forma finalmente questo pazzo disegno di gettarsi
in una pira ardente, e sparge voce tra i Greci che nella prossima olimpiade egli si brucerebbe vivo.
Ed ora dicono che voglia effettuarla quella bravata, che già cavi una fossa, e la riempia di legna, e
voglia mostrare come si muore da forte. Saria fortezza, pare a me, aspettare la morte, e non fuggire
della vita. Ma se davvero ci vuol levare lincomodo, non bisogna il fuoco, nè questo apparato da
tragedia, ma unaltra maniera di morte, che ce ne ha più di mille. E se gli piace più il fuoco per
imitare Ercole, perchè non se ne va tacitamente sovra una montagna boscosa, ed ivi non si brucia
egli solo, o accompagnato da questo Teagene, che gli potria far da Filottete? Ma no, vuol farsi
vedere in Olimpia, innanzi tanti spettatori, e quasi sovra un teatro. Pure sta bene che egli muoia del
supplizio dei parricidi e degli empi; se non che pare che sia un po tardi, e che già lavrian dovuto
chiudere nel toro di Falaride, non lasciarlo affogar nella fiamma e morire in un attimo: perocchè
questa morte nel fuoco mi dicono che sia prestissima, chè basta pure aprire la bocca, e subito si
muore. Egli sha messo in mente che sarà uno spettacolo nuovo un uomo che si brucia in un luogo
sacro, dove non è lecito di neppur seppellire quelli che ivi muoiono. Voi sapete, pensomi, come una
volta uno volendo una gran nominata, e non trovando altro modo di acquistarla, bruciò il tempio di
Diana in Efeso. Lo stesso pensiero è caduto in mente a costui, la stessa smania dillustrarsi lo
strugge.
Eppur egli dice che fa questo per bene degli uomini, per insegnar loro a disprezzare la morte, e
durare ai tormenti. Or io dimanderei un po non a lui, ma a voi: Vorreste che i malvagi imitassero
questa fortezza, non curassero la morte, stessero saldi fuoco ed ai supplizi? So bene che no. Come
dunque Proteo non discerne che se gioverà ai buoni, renderà i malvagi più audaci e temerari? Ma
pognamo che verranno a vederlo solamente quelli che potranno averne bene; ditemi voi: vorreste
che i vostri figliuoli imitassero costui? Neppure. Ma che vo io dimandando a voi, se de suoi
discepoli stessi nessuno vorrebbe imitarlo? E questo si potria dire a Teagene: Tu che imiti il
maestro in tante cose, perchè nol segui, perchè non laccompagni ora che vassene ad Ercole, come ei
dice, mentre pur potresti in un momento divenir beato, facendo con lui un capitombolo nel fuoco?
Portar bisaccia, bastone e mantello non è imitare: chè cotesto ognuno può farlo: il fine, il più
importante conviene imitare; comporre una catasta di legne di fico, ma delle più verdi, e soffocarsi
nel fumo: perchè il fuoco è cosa non solo di Ercole e di Esculapio, ma anche dei sacrileghi e degli
omicidi, che son condannati ad esser bruciati. Onde è meglio col fumo, che fa proprio per voi.
E poi se Ercole si spinse a far questo, era agitato da furore, e divorato dal sangue del centauro,
come dice la tragedia. Ma costui per qual cagione si getta nel fuoco? Per mostrare fortezza, come i
Bramani. A costoro Teagene ha voluto paragonarlo; come se anche tra glIndiani non ci fossero
uomini stolti e vanitosi. E pure dovria imitarli bene: perchè i Bramani non si slanciano nel fuoco,
come narra Onesicrito pilota dAlessandro che vide Calano bruciarsi, ma poichè è fatta ed accesa la
catasta, vi stanno vicino immobili e si fanno arrostire, poi compostamente vi salgono su, e si
bruciano senza muoversi affatto. Ma costui che gran cosa fa, se slanciasi e muore ravvolto nelle
fiamme? non senza speranza desserne ritratto così mezzo abbrustolato, se, come dicono, non fa la
catasta grande e in una fossa.
Intanto vha chi dice che egli ha mutato pensiero, e che conta certi sogni, pei quali Giove non
vuole che si profani un luogo sacro. Oh! non sia in pena per questo. Lo assicuro io che nessuno
degli Iddii si sdegnerà se Peregrino muore di mala morte. Nè poi gli sarà facile ritrarsene: che quei
cani che gli stanno intorno lo stimolano, e lo spingono al fuoco, glinfiammano la mente, e non lo
farieno indietreggiare per viltà: dei quali se ne afferrasse un paio e con loro si precipitasse nel
fuoco, faria lunica cosa buona in vita sua. Ho udito ancora che egli non vuole più esser chiamato
neppure Proteo, ma Fenice, perchè la fenice uccello indiano dicono che si bruci quando è divenuto
vecchissimo. Anzi va bucinando e spargendo certi vecchi oracoli, che dicono come ei diverrà il
genio tutelare della notte; e mostra chiaramente che vorria altari, e spera che gli rizzeranno statue. E
per Giove non è difficile che fra tanti sciocchi se ne troveranno alcuni che diranno che son guariti
dalla quartana per virtù di lui, e che di notte lo hanno scontrato essi questo genio notturno. Ma
questi ribaldi de suoi discepoli forse vanno già mulinando di rizzargli un tempio e stabilire un
oracolo presso la pira, perchè Proteo figliuolo di Giove, di cui egli ha il nome, era indovino. E vi so
dire io che vedremo i suoi sacerdoti rappresentar flagellazioni, bruciamenti, e cotali altre scede; ne
celebreranno i misteri di notte, e anderanno in processione con le faci in mano intorno al rogo.
Teagene poco fa diceva, come mi ha riferito un amico, che anche la Sibilla ha predette queste
cose. E ne recitava i versi.
Quando Proteo dei Cinici il più grande
Vicino al tempio del tonante Giove
Accenderà gran foco, e nelle fiamme
Gettandosi, verrà nellalto Olimpo;
Voi che mangiate della terra i frutti,
Fate onoranza a questo grande eroe,
Che va vagando nella notte, e in trono
Siede insieme con Ercole e Vulcano.
Questo, dice Teagene, lha udito dalla Sibilla. Ed io vi dirò un oracolo di Bacide, che fa meglio al
caso. Bacide dice così:
Quando il famoso Cinico nel foco
Si getterà per fregola di gloria,
I botoli e le volpi suoi seguaci
Debbono fare il tomo appresso al lupo.
Chi per manco di cuor fugge dal foco
Sia da tutti gli Achivi lapidato,
Acciò che più non isparpagli accese
Parole questo gelido usuriere,
Che ha la bisaccia piena grave doro,
Ed in Patrasso quindici talenti.
Ora che vi pare di questo oracolo? Chi è più verace indovino la Sibilla, o Bacide? Ora dunque è
tempo di vedere dove questi bravi discepoli di Proteo debbano bruciarsi, o come essi dicono
inaerarsi.
Al finire di queste parole tutti gli astanti gridarono: Bruciamoli subito, son degni del fuoco. Egli
discese ridendo; ma Giunse a Nestore il grido. Teagene corse al rumore subito, e rimontato prese a
strepitare e scagliar mille ingiurie contro quel dabben uomo che era disceso, e che io non so come si
chiamava. Io lo fasciai che gridava a scoppiargli una vena in petto, e me nandai a vedere gli atleti:
perchè mi fu detto che già i giudici erano entrati nel circo. E questo accadde in Elide.
Come giunsi in Olimpia, trovai il portico pieno di genti, chi levava i pezzi di Proteo, chi lo
lodava a cielo, e molti tra loro venivano alle mani; finchè comparve Proteo accompagnato da un
gran codazzo di persone; e dal luogo dove stanno i banditori fece un gran discorso su la vita che
aveva vissuta, su i pericoli che aveva corsi, e su quanto aveva patito per amore della filosofia. Le
cose che ei disse furono molte, ma io ne udii poche, perchè la folla era grande. E temendo non mi
schiacciassero, come vidi intervenire a molti, mandai un canchero al sofista che prima di morire si
recitava lorazione funebre, e me ne andai. Ma per quanto mi venne udito, egli diceva, che ad una
vita doro ei voleva mettere una corona doro: esser vissuto come Ercole, voler morire come Ercole, e
vanire nellaere. Voglio, diceva, fare un gran bene agli uomini, mostrando loro come si dee
sprezzare la morte: tutti gli uomini debbono essere Filotteti per me. Certi sciocchi piangevano e gli
gridavano: Vivi per la Grecia: ma certi altri che erano più uomini, gli gridavano: Compi la
promessa. A queste parole il vecchio si smarrì tutto; sperava che tutti gli avrebbero fatto forza,
ritrattolo dal fuoco, e fattolo vivere contro sua voglia: ma quel compi la promessa, così inaspettato,
lo sconturbò, gli fece più pallida quella sua faccia di morto: onde gli venne un tremore, e dovè finire
il discorso. Io, tu puoi immaginare come io ridevo; chè non mi pareva degno di pietà un uomo che
fu il più vanitoso di quanti mai andarono in frega per amor della gloria. Pure egli era accompagnato
da molti, e andava tronfio, e riguardando la moltitudine che lo ammirava, e non sapeva lo
sciagurato che quelli che son menati alla croce per mano del boia sono seguiti da folla più grande.
Finirono i giuochi, che riuscirono i più belli di quanti ne ho veduti in Olimpia, e li ho veduti tre
volte: e non trovando vetture per il gran numero di persone che erano partite, mio malgrado mi
rimasi. Egli, che aveva sempre differito, disse infine che quella notte si brucerebbe: Uno de miei
amici venne a tormi di casa verso mezza notte: io mi levai, e ci avviammo ad Arpina, dovera la pira.
Son quasi venti stadii da Olimpia, prendendo la via dellippodromo verso oriente. Tosto giunti,
trovammo la catasta già costruita in una fossa profonda un braccio, e fatta di legne resinose e di
sarmenti per bruciare più presto. E quando si levò la luna (anche la luna doveva vedere il bellissimo
spettacolo) ecco venir Proteo, nelle sue vesti consuete, accerchiato dal fiore dei Cinici, tra i quali
quel bravo gracchiatore di Patrasso portando una face in mano, rappresentava la seconda parte nel
dramma: Proteo portava anche una face. Giunti alla catasta, da diverse parti vi posero fuoco, che
per le legne resinose ed i sarmenti tosto divampò in gran fiamme. Egli (attento, chè ora viene il
bello) depose la bisaccia, il mantello, la clava dErcole, e rimase in camicia, che era lordissima. Poi
chiese incenso per gettarlo nel fuoco, ed avutolo, ve lo gittò: indi voltosi verso il mezzodì (come se
il mezzodì avesse a fare qualche cosa in questo) disse: O anime di mia madre e di mio padre,
accoglietemi benigne. E così dicendo gettossi nel fuoco, e non fu visto più, che la fiamma lo
ravvolse e lo nascose.
Mi pare di vederti ridere, o mio buon Cronio, a questa catastrofe del dramma. Io, quandegli
invocò lanima della madre, non lo biasimai gran fatto; ma quando chiamò quella di suo padre,
ricordandomi ciò che tho detto della morte del vecchio, non potevo contenere le risa. I Cinici che
stavano intorno alla pira, non piangevano, ma taciti mostravano il loro dolore e guardavano nel
fuoco: finchè io sentendomi soffocare, dissi: Andiamocene, o stolti che siamo: non è certo un bello
spettacolo vedere un vecchio arrostito, e riempirci di fetore e di fumo. O aspettate che venga un
pittore e vi dipinga, come gli amici intorno a Socrate nella prigione? Quelli sdegnaronsi, mi dissero
villania, ed alcuni già levavano i bastoni: ma poi chio li minacciai di afferrarne un paio e mandarli
dietro al maestro nel fuoco, sacchetarono senzaltro.
Mentre io me ne tornavo, andavo ripensando tra me: Che gran passione è cotesto amor della
gloria, dal quale se non possono guardarsi anche gli uomini più stimabili, molto meno potè
questuomo vissuto disordinatamente, e da pazzo, e degnissimo del fuoco. Scontravo molti che
venivano anchessi a vedere, credendo di trovarlo vivo, perchè il giorno innanzi era corsa voce che
egli si saria gettato nella pira dopo di aver salutato il sole nascente, secondo si dice che fanno i
Bramani. Io li facevo tornare, dicendo loro che tutto era finito: ed essi non si curavan daltro, nè di
vedere il luogo, nè di prendersi qualche reliquia del rogo. E qui, o amico mio, io ebbi un gran fare a
contare a tutti come era stato il fatto, ed a rispondere a mille dimande. Se vedevo qualcuno che
maveva un po di viso duomo, gli narrava schietto il fatto, come lho narrato a te; ma se mi
capitavano dei gonzi e che mudivano a bocca aperta, io ci mettevo un po di ciarpa, e dicevo che
quando la catasta bruciava, e Proteo vi si gettò, sintese un gran terremoto con un rombo sotterraneo,
ed un avoltoio volando dal mezzo della fiamma verso il cielo aveva profferito con una gran voce
umana queste parole: Lascio la terra, e me ne salgo al cielo. E quelli allibbivano, e tutti tremanti
facevano atti di adorazione, e mi dimandavano se lavoltoio era volato a levante o a ponente: ed io
rispondeva ciò che mi veniva in capo. Ma mentre io me ne andavo per quella folla, mi fermai presso
un vecchio che alla barba ed ai capelli bianchi maveva laria dun uomo grave e degno di fede, il
quale fra le altre cose che contava di Proteo, diceva come dopo che sera bruciato, egli se lo aveva
veduto proprio innanzi vestito di bianco, e come allora lo aveva lasciato che passeggiava nel portico
dei sette echi tutto lieto e con una corona doleastro in capo: e a questo aggiungeva di quellavoltoio,
e giurava che con gli occhi suoi laveva veduto volare dalla pira. Eppure quellavoltoio lavevo fatto
volare io per ridere un po di quegli sciocchi che mavevan fradicio con tante dimande. Ora da questo
pensa tu quante altre cose si dovranno spargere intorno a lui; quante api si aggrupperanno su quel
luogo, quante cicale vi si uniranno, quante cornacchie vi voleranno, come su la tomba di Esiodo, e
cotali altre fandonie. Ed io credo che gli saranno rizzate anche statue dagli Elei, e dagli altri Greci,
ai quali egli ha mandate sue lettere: perocchè si dice che a quasi tutte le principali città egli abbia
scritte lettere, come fossero il suo testamento, piene di avvertimenti e di precetti, e di averle affidate
ad alcuni suoi amici da lui creati suoi ambasciatori, e chiamati nunzi dei morti e corrieri dellinferno.
Questa fu la fine dello sciagurato Proteo, uomo, a dirne in breve, che non riguardò mai alla
verità, ma soltanto per aver gloria e lode dal volgo, disse e fece sempre ogni cosa, sino a perire nel
fuoco per aver quelle lodi, delle quali non doveva godere perchè non più le sentiva. Ma voglio
contarti unaltra coserella per farti più ridere, e finirò. Tu già ti ricordi, chè io te lo narrai quando
venni di Siria, come io navigando con lui dalla Troade, gli vidi su la nave tra le altre morbidezze un
bel giovanetto, di cui voleva farne un cinico, per avere anchegli il suo Alcibiade; e come una notte
in mezzo lEgeo sopravvenutoci un turbine che levò una gran tempesta, egli spaurito tremava a
verga, e piagnolava con le donne questo bravo disprezzatore della morte. Ora poco prima di morire,
forse un nove giorni, dopo una grande scorpacciata vomitò tutta la notte, e la mattina fu preso da
una febbre gagliardissima. Questo me lo contò il medico Alessandro chiamato per visitarlo; il quale
mi disse come ei lo trovò che si voltolava per terra, non sosteneva quellardore, e chiedeva con
molta passione qualche cosa fredda, ma che ei non gliela diede: e mi contò che gli disse: Se tu hai sì
gran voglia della morte, eccola, che viene a batterti la porta: puoi seguirla senza mestieri del fuoco.
E quei gli rispose: Ma questa maniera di morte non è gloriosa, perchè troppo comune. Questo mi
disse Alessandro. Io stesso poi alquanti giorni prima lo vidi ungersi gli occhi con un collirio per
cavarsi alcune lagrime. Oh, non sai tu che Eaco non li riceve i loschi? Questo è come se uno che
devesser menato alla croce si curasse un patereccio. Che te ne pare? Democrito se avesse mai
saputo questo, non avria riso meritamente di costui? E quanto avria dovuto riderne? Tu dunque, o
amico mio, ridi anche tu, specialmente quando odi alcuni che ammirano questo pazzo.
LXVIII.
I FUGGITIVI.
Apollo, Giove, la Filosofia, Ercole, Mercurio, alcuni Uomini, un Padrone, Orfeo, i Fuggitivi, un
Ospite.
Apollo. È vero ciò che dicono, o padre, che uno si è gettato da sè nel fuoco pubblicamente alla
festa di Olimpia, un vecchio che ha destata una maraviglia grande? La Luna me lha raccontato,
dicendomi che lha veduto ella bruciare.
Giove. È verissimo, o Apollo: ed era meglio non fosse avvenuto.
Apollo. Era egli forse un vecchio dabbene, e non meritava di morire nel fuoco?
Giove. Eh, forse. Ma io mi ricordo il fastidio che mha dato quel fumo puzzolente che suole
uscire dei corpi umani arrostiti. E se non me ne fossi scappato subito in Arabia così come mi
trovavo, ti dico che io sarei morto per la sozzura di quel fumo. Eppure fra tanti odori, e tanta copia
daromi, e tanto incenso, appena il naso voleva dimenticarsi e svezzarsi di quel puzzo: ed anche ora,
per poco che me ne ricorda, mi viene la nausea.
Apollo. Per qual fine, o Giove, ei fece questo? o che bene è gettarsi nella pira a diventar
carbone?
Giove. Questa dimanda, o figliuolo, prima che a lui avresti dovuto farla ad Empedocle, il quale
si gettò nei crateri anchegli in Sicilia.
Apollo. Una fiera malinconia fu quella: ma costui per qual cagione mai ebbe questa brama?
Giove. Ti dirò le proprie parole che egli disse alladunanza per rendere ragione della sua morte.
Disse adunque, se ben mi ricorda.... Ma chi è costei che viene frettolosa, tutta turbata e piangente,
come se avesse ricevuto un oltraggio? Uh, ella è la Filosofia, e chiama a voci dolorose il mio nome.
Perchè piangi, o figliuola? Come! lasci il mondo, e vieni qui? Forse glignoranti unaltra volta ti
hanno tramata uninsidia, come allora che uccisero Socrate accusato da Anito; e però fuggì da loro?
La Filosofia. Non è questo, o padre. Anzi quelli, il popolo, mi lodavano, e mi avevano in onore
ed ammirazione, e quasi madoravano, benchè non capissero molto quel chio dicevo. Ma, quegli altri
(oh come posso chiamarli?), che si spacciano per miei familiari ed amici, e pigliano il nome mio,
quelli mi hanno assai maltrattata.
Giove. I filosofi ti hanno fatto qualche oltraggio?
La Filosofia. No, o padre: anzi sono offesi con me anche essi.
Giove. E chi dunque ti ha offesa, se tu non incolpi nè glignoranti, nè i filosofi?
La Filosofia. Ci ha alcuni, o Giove, di mezzo tra il volgo ed i filosofi, allabito, allaspetto,
allandare simili a noi, e così composti; però si tengono della mia schiera, sarrogano il nome nostro,
dicendosi miei discepoli, compagni e seguaci, mentre la vita loro sozzissima è piena dignoranza, di
prosunzione, dimpudicizie, e sono scorno grande per noi. Da costoro offesa, o padre mio, me ne
sono fuggita.
Giove. Grave è questo, o figliuola; ma che specie doffesa thanno fatta?
La Filosofia. Vedi, o padre, se è piccola. Tu vedendo il mondo pieno dingiustizie e diniquità,
perchè era in mano allignoranza ed alla violenza, e sconvolto da loro, avesti pietà del genere umano
sviato per il suo poco conoscere, e vi mandasti me, raccomandandomi di badare che cessassero di
oltraggiarsi fra loro, e soperchiarsi, e vivere come bestie, ma sollevando lo sguardo alla verità
vivessero più tranquilli. E mi dicevi quando mi mandasti: Tu vedi, figliuola mia, che fanno gli
uomini, e dove li ha condotti lignoranza. Io, perchè ho pietà di loro, e credo te sola capace di
rimediare a questi disordini, scelgo te fra tutti noi, e ti mando per risanarli.
Giove. Mi ricorda che allora ti dissi molte cose cosiffatte. Tu dimmi che avvenne dipoi, come
taccolsero prima quando scendesti, e che ti hanno fatto adesso.
La Filosofia. Non mi lanciai, o padre, di botto su i Greci; ma lopera che mi pareva fosse più
difficile, educare ed ammaestrare i barbari quella prima volli fare. Lasciati adunque i Greci, che io
credevo facili a sottomettere, e subito capaci di ricevere il freno e sottoporsi al giogo, dirizzai il
volo prima tra glIndiani, la più grande delle nazioni del mondo; e senza molta pena li persuasi a
discendere dai loro elefanti, e conversare con me; sicchè tutta la gente dei Bramani, che sono
confinanti ai Necrei ed agli Ossidrachi, tutti seguono la mia insegna e vivono secondo i nostri
precetti, e sono onorati da tutti i vicini. Essi anche muoiono di una morte di nuova specie.
Giove. Parli dei ginnosofisti. Infatti io odo a dire molte cose di loro, che montano sovra una gran
catasta, e si lasciano bruciare senza mutare aspetto nè positura. Ma questo non è gran che: pocanzi
ho veduto in Olimpia un fatto simile, e tu ci dovevi essere quando si bruciava quel vecchio.
La Filosofia. Neppur mi avvicinai, o padre mio, ad Olimpia, per paura di quei tristi che ti ho
detto, e che vidi andarvi in folla per dire ingiurie alla gente quivi adunata, ed empiere di schiamazzi
e di latrati lOpistodomo; e però non vidi colui come morì. Dopo i Bramani adunque ratto in Etiopia,
quindi discesi in Egitto, e avendo conversato con quei sacerdoti e profeti, e ammaestratili nelle cose
divine, volsi per Babilonia: dove iniziati ne miei misteri i Caldei ed i Magi, seguitai per la Scizia, e
quindi discesi in Tracia: colà Eumolpo ed Orfeo conversarono con me; ed io li spedii innanzi di me
fra i Greci; luno, che fu Eumolpo, per iniziarli nelle cose sacre, che tutte le aveva da me imparate, e
laltro per muovere col canto e con la musica quegli animi, e tosto io andai appresso a loro. E
primamente come io giunsi non mi fecero grandi accoglienze i Greci, nè mi ributtarono: ma a poco
a poco io coi miei ragionamenti mi tirai fra tutti quanti sette compagni e discepoli, ed uno di Samo,
uno di Efeso, uno dAbdera(89) affatto pochi. Dopo di questi intorno mi pullulò, non so come, una
turba di sofisti, che non mi amava davvero, nè del tutto mi abborriva, ma come la razza
deglIppocentauri era un composto, un misto dimpostura e di filosofia, non interamente accecati
dallignoranza, e non capaci di tenere gli occhi fissi in me, ma come i loschi per la debolezza della
vista vedevano talvolta unindistinta e scura mia immagine od ombra, si credevano di conoscere
benissimo ogni cosa. Quindi tra essi venne in voga quella sapienza inutile e soverchia, e, come essi
la tenevano, invincibile, quelle accorte, dubbie e strane risposte, e quelle intricate e ravviluppate
dimande. Attraversati e biasimati dai miei amici, si sdegnarono, congiurarono contro di loro, li
condussero innanzi ai tribunali, e li spinsero sino a bere la cicuta. Dovevo forse fin dallora
fuggirmene subito, e non istarmi più con essi; ma prima Antistene e Diogene, e poi Crate e
Menippo mi persuasero a rimanervi un altro poco. Non doveva farlo: chè dipoi non avrei inghiottiti
tanti bocconi amari.
Giove. Non mi dici ancora, o Filosofia, quali offese hai avute, ma ti sdegni solamente.
La Filosofia. Odi, o Giove, quali sono. Una razza di ribaldi, per lo più di servi e di mercenarii,
non usati con me da fanciulli per altre loro occupazioni; perchè o servivano, lavoravano a mercede,
o esercitavano altre arti che questi tali sogliono, come quella del ciabattino, o del fabbro, o di
purgare, o di scardassare le lane per renderle più maneggevoli alle donne e più facili a filare e
stenderle sottili, quando tirano la trama sul filatoio, o filano il liccio: applicati adunque a queste
cose fin da fanciulli, neppure il nome mio conoscevano. Ma poi che si fecero uomini, e videro il
rispetto che tutto il mondo ha per gli amici miei, e come la gente li sopporta parlare con franchezza,
e si piace di essere regolata da loro, e ai loro consigli obbedisce, e se è sgridata si sommette,
pensarono che questo era un comandare veramente da re. Imparare quanto conviene per avere tanta
autorità, era cosa per loro troppo lunga, anzi impossibile: le arti scarse, e con fatica ed a pena
potevano dare il necessario: ad alcuni ancora la servitù pareva grave, e, comè veramente,
insopportabile. Pensando adunque e ripensando si risolvettero a gittar lultima àncora, chiamata
sacra dai marinai; ed afferratala su la bella poltroneria,(90) aitandosi di più con laudacia, lignoranza
e limpudenza, che hanno a bizeffe, e avendosi studiate certe nuove ingiurie per averle sempre
pronte in su la bocca, con queste sole provvisioni (e vedi provvisioni per la filosofia!) pigliano abito
ed aspetto grave, e simile al mio, appunto come Esopo dice aver fatto lasino di Cuma, il quale
copertosi della pelle dun leone, e bravamente ragghiando si credette divenuto anchegli leone: e ci
furono certi gonzi che gli credettero. Ella è cosa molto facile, come sai, ed agevole imitare noi altri,
esternamente dico; e non ci vuol molto a mettersi un mantello indosso, appendersi una bisaccia su
la spalla, tenere una mazza in mano, e gridare, anzi ragghiare e latrare, e ingiuriare tutti. Il rispetto
che si porta allabito dà a loro la sicurezza di non patir nulla per questo: e la libertà è bella ed
assicurata, a dispetto del padrone, che se vorrà ripigliarli, sarà picchiato col bastone: il vitto non più
scarso, nè come per lo innanzi una focaccia magra; il companatico non più salume o aglio, ma
tocchi di carni dogni specie; vino squisitissimo, e danari quanti ne vogliono. Perocchè vanno
riscotendo un tributo, o come essi dicono, tondono le pecore; e molti danno o per rispetto allabito, o
per non udirsi dir male. E forse essi hanno capito ancora unaltra cosa, che essi sono confusi in un
fascio coi veri filosofi; e che nessuno può giudicare o discernere quel di dentro, se quel di fuori è
simile. Non ammettono discussione affatto, se taluno dimanda così pulitamente e breve; ma subito
gridano, e ricorrono alle villanie, che è il loro forte, e mettono mano al bastone. Se cerchi i fatti,
trovi parole assai: se li vuoi giudicar dalle parole, ti dicono di guardare la loro vita. Sicchè tutta la
città è piena di cotali furfanti, specialmente di quelli che si dicono seguaci di Diogene, di Antistene
e di Crate, sotto linsegna del cane; i quali non ritraggono le buone qualità del cane, la vigilanza, la
guardia della casa, la fedeltà al padrone, la memoria, ma si affaticano dimitare il latrato, la
ghiottornìa, la rapacità, la lascivia continua, e ladulazione, e il brandir la coda quanduno dà, e lo star
presso alle mense. Or vedrai tosto che avverrà. Che tutti gli altri lasceranno le botteghe e
abbandoneranno le arti quando vedranno che essi faticano e si stancano da mattina a sera curvi sul
lavoro ed appena ne cavano per campare; e costoro oziosi ed impostori sguazzano fra tutti i beni,
chiedono come fosse roba loro, ricevono prontamente, si sdegnano se non hanno, e neppure
ringraziano quando hanno. Questo pare ad essi un pezzo di vita del secol doro, e che veramente il
mele piove in bocca dal cielo. E pure saria minor male, se questa razza non facesse a noi
nessunaltra ingiuria. Questi figuri sì gravi e severi di fuori e in pubblico, se trovano leggiadro
garzone o bella donna, e ne sperano, oh, non si può dire le cose che fanno. Alcuni ancora dopo di
aver disonorate le mogli dei loro ospiti, le menano via, come il giovanetto troiano, ma ve, per
renderle filosofesse; e poi le accumunano fra tutti i compagni, credendo di mettere in pratica una
dottrina di Platone, senza intendere in qual senso quel divino uomo voleva comuni le donne. Le
sporchezze poi che fanno nei conviti, e le ubbriacature che vi pigliano ci vorria troppo a dire. E
mentre fanno queste cose, che ti credi? condannano lubbriachezza, ladulterio, la lascivia, lavarizia!
Non ci è cosa tanto contraria a cosa, quanto le parole loro ai fatti. Così dicono di abborrire
ladulazione, e in fatto di adulazione passano a piè pari Gnatone e Strutia: raccomandano agli altri di
dire la verità, ed essi non potrebbero muovere la lingua senza dire una bugia: il piacere è nemico a
tutti in parole, ed Epicuro è il grande avversario, ma nel fatto non cercano altro che il piacere.
Stizzosi, pettegoli, collerici più dei fanciulli, fanno veramente ridere a vederli per una cagionuzza
andare in bestia, diventar lividi in volto, guardar fieramente intorno, con la bocca piena di spuma
anzi di veleno. E fatti in là, quando nesce quella feccia di parole: Nè oro nè argento, per Ercole, io
mi curo di avere: un obolo mi basta, per comperar lupini; una fontana o una fiumana mi darà bere.
E dopo un poco chiedono non oboli, nè poche dramme, ma ricchezze intere. Qual mercante
arricchisce tanto col suo traffico, quanto costoro guadagnano con la filosofia? E dopo che hanno
raccolto a sufficienza e sono ingrassati, gettato via il povero mantello, comperano campi talvolta, e
vesti fine, e garzoni chiomati, e fabbricati interi, mandando un canchero alla bisaccia di Crate, al
mantello dAntistene, e alla botte di Diogene. Il volgo che vede questo, già sputa la filosofia, crede
che tutti sieno duna risma, e accusano me che do sì belli precetti. Onde da molto tempo mi è stato
impossibile tirare a me qualcheduno, e mi avviene come a Penelope, che quanto io tesso, tutto in un
momento è disfatto; e lIgnoranza e lIngiustizia se ne ridono, vedendo che fo unopera che non si
compie mai, ed una fatica inutile.
Giove. Quali oltraggi, o Dei, ha sofferto la Filosofia da quei maladetti ribaldi! Bisogna ora
pensare al da fare, e come punirli. Il fulmine in un colpo li spaccia, e la morte saria breve.
Apollo. Propongo io un espediente, o padre: chè anchio abborrisco questimpostori, villani, e
nemici delle muse. Ei non sono degni del fulmine e della tua mano. Concedi, se ti pare, larbitrio di
punirli a Mercurio, e mandalo giù; egli che sintende bene di studi, riconoscerà subito i buoni filosofi
ed i cattivi; e gli uni loderà, come meritano; e gli altri punirà, come gli parrà più conveniente.
Giove. Dici bene, o Apollo. Ma anche tu, o Ercole, accompàgnati alla Filosofia, e andate subito
nel mondo. Fa conto che compirai la tredicesima fatica, se lo spazzerai di così sozze e sfacciate
bestie.
Ercole. Saria meglio, o padre, tornare a spazzar le stalle dAugia, che mettermi in questo
impaccio. Pure andiamo.
La Filosofia. Non vorrei; ma è da ubbidire ai voleri del padre.
Mercurio. Discendiamo, acciocchè almeno pochi ne puniamo per oggi. Ma dove dobbiamo
rivolgerci, o Filosofia? chè tu sai dove sono. O pure è certo che sono in Grecia?
La Filosofia. Non vi sono affatto, o pochissimi che filosofeggiano dirittamente, o Mercurio.
Quelli non hanno che fare della povertà attica: dove si cava oro assai ed argento, quivi dobbiamo
cercarli.
Mercurio. Dunque dobbiam andar diritto in Tracia.
Ercole. Sì, ed io vi sarò guida della via, chè conosco tutta la Tracia, per esserci stato spesso.
Pigliamo per questa via.
Mercurio. Per quale?
Ercole. Vedete, o Mercurio, o Filosofia, quei due monti, i più grandi e i più belli fra tutti i
monti? Il maggiore è lEmo, laltro dirimpetto, il Rodope: in mezzo si distende una pianura
fertilissima, a piè de due monti, e in essa dolcemente si rilevano tre belle colline, che sono come tre
cittadelle della sottoposta città. Ed ecco la città già apparisce.
Mercurio. Per Giove, o Ercole, è grande davvero e bella, e da lungi fa una splendida vista! E
qual è quel gran fiume che ne rasenta le mura?
Ercole. È lEbro, e la città è opera di Filippo. Noi siam vicini alla terra, e stiamo ancor sulle
nuvole: discendiamo col buono augurio.
Mercurio. Scendiamo. Ed ora che fare? come trovar la traccia di quelle belve?
Ercole. Cotesto è ufficio tuo, o Mercurio. Tu sei banditore: fa tosto un bando.
Mercurio. Non ci vuol niente: ma non ne so i nomi. Di tu, o Filosofia, quali nomi hanno, e i
contrassegni ancora.
La Filosofia. Neppure io so bene come si chiamano, perchè non sono stata mai in mezzo a loro;
ma dalla voglia che hanno di acquistare non isbaglierai chiamandoli Ctesoni, o Ctesippi, o Ctesiclei,
o Euctemoni, o Policteti.(91)
Mercurio. Dici bene. Ma chi sono costoro? e che vanno cercando anche essi? Oh, savvicinano, e
vogliono dimandarci qualcosa.
Uomini. Potete dirci, o uomini dabbene, e tu, o bella donna, se avete veduto tre furbi insieme, ed
una donna tonduta alla spartana, di aspetto e modi maschili?
La Filosofia. Oh, questi cercano roba nostra.
Uomini. Come vostra? Quelli sono tutti servi fuggitivi; e noi seguitiamo specialmente la donna,
da essi rubata.
Mercurio. Saprete perchè li cerchiamo anche noi: Facciamo ora il bando per conto vostro e
nostro: «Chi ha veduto uno schiavo Paflagone, dei barbari di Sinope, di un nome che significa
acquisto, faccia pallida, zucca rasa, barba lunga, bisaccia in ispalla, mantello indosso, stizzoso,
zotico, voce rauca, ingiuriatore, lo indichi, e avrà il premio che egli dirà
Il Padrone.(92) Non conosco questo bandito: quegli che era presso di me si chiamava
Scarafaggio,(93) e aveva i capelli, e si svelleva la barba, e conosceva larte mia; chè egli stava nella
tintoria, e tendeva i bioccoli che caccia il panno.
La Filosofìa. Egli è desso, il tuo servo: ed ora pare un filosofo, così ben si è ritinto!
Il Padrone. Oh ardire! Scarafaggio si dice filosofo!
Uomini. E de nostri non si tiene conto?(94)
Mercurio. Non dubitate, li troveremo tutti; perchè filosofeggia, come si dice, anche ella.
La Filosofia. Ma chi è questaltro che si avvicina, o Ercole, questo belluomo con la cetra in
mano?
Ercole. È Orfeo, che navigò meco su la nave Argo. Oh, come egli ci animava col suo piacevole
canto, e non ci faceva sentire la fatica del vogare! Salute, o bravo e sapientissimo Orfeo; non ti sei
dimenticato di Ercole.
Orfeo. E salute a voi, o Filosofia, Ercole, e Mercurio. Mi dovete dare il premio, perchè io
conosco bene colui che cercate.
Mercurio. Dunque, o figliuol di Calliope, additaci dovè: di danaro, credio, non hai bisogno,
perchè sei sapiente.
Orfeo. Ben dici; ma io vi additerò la casa dove abita, lui no, per non udirmi ingiuriare, chè egli è
il più sporco tristo del mondo, e non sa fare altro che questo.
Mercurio. Sol che ladditi.
Orfeo. Questa più vicina. Me ne vo subito per non vederlo.
Mercurio. Zitto. Non è questa una voce di donna, che canta versi di Omero?
La Filosofia. Sì, è, per Giove. Ascoltiamo che dice.
La Fuggitiva. Aborro come il limitar di Dite
Chi ama loro in suo cuore, ed altro dice.
Mercurio. Dunque dovresti aborrir Scarafaggio, il quale
Lospite offese, che lavea raccolto.
LOspite. Questo motto tocca a me, chè egli mi rapì la donna, ed io lavevo ospitato.
Fuggitivo. Briaco, occhio di cane, e cuor di cervo,
Sempre nullo in battaglia ed in consiglio,
Tersite linguacciuto, brutto corvo,
Questo sconviene, e invan coi re contendi.(95)
Il Padrone. Come calzano a quel birbante questi versi!
Il Fuggitivo. Innanzi cagna, leonessa dietro,
In mezzo capra, fetida, spirante
Di tre cani salvatichi la foia.
LOspite. Ohimè, povera donna fra tanti cani, come ti hanno concia! E dicono che ella è gravida
di loro.
Mercurio. E sta lieto, che ella ti partorirà un Cerbero o un Gerione, acciocchè Ercole qui abbia
unaltra fatica. Ma escono fuori, onde non bisogna picchiar la porta.
Il Padrone. Tho preso, o Scarafaggio. Ora taci eh? Via, vediamo che hai nella bisaccia: forse
lupini, o un tozzo di pane.
Mercurio. No, per Giove: ma una cintura doro.
Ercole. Non maravigliarti. Poco fa egli diceva di esser Cinico (cane) in Grecia; qui è tutto
Crisippeo (cerca-oro): onde tra breve lo vedrai Cleante (guaiolante), perchè sarà impiccato per la
barba il sozzo malvagio che egli è.(96)
2° Padrone. E tu, o birbante, non sei tu Orcioletto il mio servo fuggitivo? Sei desso, sì. Oh, mi
fai ridere. E che cosa non potrà essere al mondo, se Orcioletto è filosofo?
Mercurio. E questo terzo non ha padrone tra voi?
3° Padrone. Sono io il padrone, e volentieri lo lascio perdere.
Mercurio. E perchè?
3° Padrone. Perchè è di quelli che han quella magagna. E noi lo chiamavamo il Muschiatino.
Mercurio. O Ercole scacciamali, odi? E poi bisaccia e bastone.... E tu ripigliati la donna tua.
LOspite. Non mai, non ripiglierò una donna che ha in corpo un libro antico.
Mercurio. Come un libro?
LOspite. Caro mio, il Tricipite è un libro.
Mercurio. Non hai detta una stranezza, perchè anche il Triphallo è una commedia.(97)
Ercole. Ora tocca a te, o Mercurio, dar la sentenza.
Mercurio. Ecco la sentenza mia. Costei acciocchè non partorisca un mostro, una bestia di molti
capi, torni al marito in Grecia. Questi due ragazzacci fuggitivi, riconsegnati ai padroni, tornino a far
larte che facevano, Orcioletto a lavare la biancheria sporca; e Muschiatino, flagellato prima con
stipiti di malva, a rimendare i panni sdruciti: costui poi sia dato in mano ai dipelatori, acciocchè si
senta morire quando lo pelano, poi sia impegolato di pece femmina;(98) quindi menato sul monto
Emo, ivi rimanga coi piedi legati.
Il Fuggitivo. Ohi misero me, oh me disfatto!
Il Padrone. Questesclamazione perchè non linserisci nei tuoi tragici dialoghi? Ma vieni ora dai
dipelatori; spógliati prima la pelle del leone, e così sarai conosciuto per quellasino che sei.
LXIX.
I SATURNALI.
Saturno ed un suo Sacerdote.
Il Sacerdote. O Saturno, che oggi sembri essere tu signore, ed a te si fa sacrifizi e preghiere da
noi, nella tua festa che cosa io potrei dimandare ed avere da te?
Saturno. Devi tu pensare ciò che più desideri, e dirmelo; se pure non credi che io abbia signoria
e profezia, e sappia ciò che meglio ti piace. Chiedimi, e se posso, non dirotti no.
Il Sacerdote. Ci ho pensato tanto! Ti dirò le cose che tutti desiderano, e a te è facile il darle,
ricchezze ed oro assai, comandare a molti uomini, posseder molti servi, vestimenta ricamate e fine,
argento, avorio, ed altre cose preziose. Deh, dammene qualcuna di queste, o possente Saturno,
affinchè anchio goda un po della tua signoria: io solo non dovrò avere mai briciola di bene per tutta
la vita?
Saturno. Vedi? mhai dimandato ciò che non è in poter mio: chè non le distribuisco io queste
cose: però non ti crucciare se non le avrai: chiedile a Giove quandei ritornerà signore tra poco. I
prendo la signoria con certi patti, io; non più che per sette giorni, dopo i quali subito ritorno privato
e come uno del popolo. E in questi sette giorni io non debbo impacciarmi di faccende gravi o
pubbliche; ma solamente bere, imbriacare, gridare, scherzare, giucare a dadi, fare al tocco, fare
sguazzare i servi, canterellare ad aria, applaudire pencolando, essere talvolta tuffato col capo giù
nellacqua fredda, aver la faccia inzavardata di fuliggine, questo mi è permesso di fare: quelle cose
grandi, come le ricchezze e loro, le dà Giove a chi gli piace.
Il Sacerdote. Ma egli, o Saturno mio, non è nè facile nè alla mano. Io mi sono stanco a pregarlo,
e sprecar tanto fiato. Ei fa sempre il sordo, e squassando legida, brandendo la folgore, e volgendo
una guardatura in torto spaurisce chi vorria chiederli. E se talvolta si piega a qualcuno e
larricchisce, lo fa senza giudizio, e proprio per istrazio: chè spesso lascia secchi gli uomini dabbene
e sennati, e piove ricchezze su i ribaldi, gli stolti, i bagascioni, la gente da forca, ed altra canaglia.
Ma le cose che puoi dare tu, vorrei saper quali sono.
Saturno. Eh, non sono piccole nè spregevoli le cose che posso fare io nel mio regno. Ti pare
piccola cosa vincer sempre ai dadi, e nel trarli far sempre asso gli altri, e sei tu? Così si sono
straricchiti molti, ai quali il dado andava sempre a favore: ed altri per contrario sono usciti nudi di
questo pelago, avendo rotta la barca a sì piccolo scoglio che è il dado. E poi il bere a piacer tuo, il
passare pel più bravo cantatore in un banchetto, il farsi servire dagli altri e comandare che sieno
tuffati nellacqua in pena della loro goffaggine nel servirti, lessere gridato vincitore, e coronato duna
salsiccia, non è egli un piacer grande? E di più, divenir re di tutti per aver vinto agli aliossi, non
esser trastullo de capricci altrui, ma poterti scapricciare e comandare a bacchetta: Ehi, di tu, che tu
sei un asino: tu spogliati nudo e balla: tu afferrati in collo una zufolatrice, e fa tre giri intorno la
stanza; non sono queste pruove della magnificenza mia? Se ti spiace che questo regno non è nè vero
nè durevole, tu sei uno sciocco, perchè non vedi che io, che lo dò, serbo il mio per poco tempo.
Queste adunque sono le cose che io posso dare; giucare, vincere, cantare, ed altro che tho detto;
dimandami liberamente di queste, chè io non ti spaurisco con legida e con la folgore.
Il Sacerdote. O il più buono dei Titani, di queste io non ho bisogno, ma almeno chiariscimi duna
cosa che specialmente desideravo di sapere: e se me la dirai, mavrai ben compensato dei sacrifizi
che tho fatti, e ti assolverò dogni altro debito.
Saturno. Di pure: ti risponderò, se è cosa che conosco.
Il Sacerdote. Primieramente, è vero ciò che dicono di te, che tu divoravi i figliuoli avuti da Rea,
e che ella, sottratto Giove, e posta una pietra invece del fanciullo, te la diede a mangiare: e che esso
poi cresciuto in età ti tolse la signoria, ed avendoti vinto in una battaglia, ti cacciò nel Tartaro, ivi ti
incatenò, e con te tutti quelli che tennero dalla tua?
Saturno. Ehi tu, se oggi non fosse festa, e lecito dimbriacarsi, e dire ogningiuria ai padroni,
sapresti che posso ancora non farmela passare la mosca pel naso, io: farmi questa sorte di dimande,
senza aver rispetto a un dio così canuto e vecchio!
Il Sacerdote. Io questo, o Saturno, non lo dico io, ma Esiodo ed Omero; e mincresce dirti che
quasi tutti gli uomini lo tengono per vero.
Saturno. E credi tu che quel pecoraio chiacchierone sapesse il vero dei fatti miei? Pensaci un po.
Ci può esser mai un uomo (non dico un Dio) che voglia mangiarsi i figliuoli, se pur non sia un
Tieste, che li mangi per inganno dellempio fratello? Ma sia pure: come non sentir sotto i denti che è
pietra e non carne? Non cè stata mai guerra; non mai Giove mi ha tolto il regno per forza, ma
glielho ceduto io da me, e mi son ritirato. Quai catene, qual Tartaro? io son qui; e tu mi vedi, se non
sei cieco come Omero.
Il Sacerdote. E per qual cagione, o Saturno, lasciasti il regno?
Saturno. Ti dirò. In prima essendo vecchio e perduto di podagra (e questo ha fatto credere al
volgo che io ero incatenato) io non potevo bastare a contenere la gran malvagità che ci è ora: quel
dover sempre correre su e giù, e brandire il fulmine, e sfolgorare gli spergiuri i sacrileghi i violenti,
era una fatica grande e da giovane: onde con tutto il mio piacere la lasciai a Giove. Ed ancora mi
parve bene di dividere il regno tra i miei figliuoli, ed io godermela zitto e quieto, senza aver rotto il
capo da quelli che pregano e che spesso dimandano cose contrarie, senza dover mandare i tuoni, i
lampi, e talora i rovesci di grandine. E così da vecchio meno una vita tranquilla, fo buona cera, bevo
del nettare più schietto, e mi fo un poco di conversazioncella con Giapeto e con gli altri delletà mia:
ed egli si ha il regno e le mille faccende. Se non che mho voluto riservare questi pochi giorni, alle
condizioni che tho dette, e ripiglio il regno per ricordare agli uomini la vita che menavano al tempo
mio, quando senza seminare e senza arare, la terra produceva tutti beni, non spighe ma pane bello e
fatto, e le carni già cotte, e il vino correva a fiumi, e ceran le polle di mele e di latte. Tutti erano
buoni, tutti uomini doro. Questa è la ragione della breve durata del mio regno, e però ogni parte è
pieno di schiamazzi, di canti, di scherzi, e non cè alcuna distinzione di servi e di liberi; chè al tempo
mio nessuno era servo.
Il Sacerdote. Eppure, o Saturno, io credevo che tu avessi tanta pietà dei servi e deglincatenati per
quella tale voce, per consolare quelli che patiscono come te, che già fosti servo e ti ricordi della
catena.
Saturno. E non la finisci con queste stoltezze?
Il Sacerdote. Hai ragione: la finisco. Ma dimmi unaltra coserella. Al tempo tuo gli uomini
usavano di giucare a dadi?
Saturno. Sì, ma non i talenti e le migliaia come fate voi: ma per lo più si giucava a noci; e così il
perditore non saffannava, non piangeva, non rimaneva egli solo sempre digiuno fra tutti gli altri.
Il Sacerdote. Che brave genti! E che cosa savrian potuto giucare, se eran tutti doro? Ma le tue
parole mi han fatto venire un pensiero. Se uno di quegli uomini doro ci vivesse oggi, poveretto lui!
tutti gli darebbero addosso, ed ei sarebbe sbranato, come Penteo dalle Menadi, o Orfeo dalle donne
di Tracia, o Atteone dai cani: farebbero a chi ne arraffa il pezzo più grosso, e vedresti baruffa! chè
oggi neppur nelle feste si lascia lamor del guadagno, e ci si va col pensiero di rasparvi qualcosa: e
chi nesce dopo davere spogliato gli amici a tavola, e chi rimane a bestemmiare senza pro, e a
stritolare i dadi che non han colpa di ciò che egli sha fatto con le mani sue. Ma dimmi questaltra
cosa. Perchè mai tu, che sei un dio sì vecchio e permaloso, thai scelta la stagione più spiacente,
quando i campi biancheggiano per neve, spirano rovai, tutto è rappreso dal gelo, gli alberi son
tronchi nudi e sfrondati, i prati senza bellezza e senza fiori, gli uomini vanno curvi come vecchi o
stanno appollaiati presso al focolare, e tu allora celebri la tua festa? Non è tempo da vecchi questo,
nè acconcio a sollazzi.
Saturno. Oh, tu mi fai tante dimande, e già dovremmo stare a bere. Io ho rubato alla festa un
tempo non breve, filosofando di cose, non buone a nulla. Lasciamole alla malora, mettiamoci a
tavola, facciamo allegria, viviamo alla libera; poi giucheremo a noci secondo lusanza antica, faremo
al tocco, obbediremo a chi sarà il re. E così faremo avverare il proverbio, che i vecchi tornan bimbi.
Il Sacerdote. Possa aver sete e non bere a chi non piace ciò che tu dici, o Saturno. Beviamo pure,
e cionchiamo. Tu me nhai dette anche davanzo: ed io penso di scrivere in un libro questo po di
conversazione, le dimande mie e le cortesi tue risposte, e farlo leggere a quegli amici che son degni
di udire i tuoi discorsi.
IL SATURNOSOLONE.(99)
Questo ve lo dice Saturnosolone, sacerdote e profeta di Saturno, e legislatore della sua festa. Ciò
che i poveri debbono fare, lho mandato loro scritto in unaltra lettera, e so bene che essi staranno alle
leggi; se no, vi saranno costretti dalle gravi pene stabilite contro i disubbidienti. Voi altri, o ricchi,
badate di non trasgredirle, e di non fare i sordi a ciò che è ordinato: chè così facendo, sappiate che
voi non disprezzate le leggi mie, ma di Saturno stesso, il quale ha scelto me a legislatore della sua
festa, essendomi apparso non in sogno, ma ieri quandero ben desto, ed ha ragionato meco di faccia
a faccia. Ei non era incatenato nè pieno di squallore, come lo rappresentano i pittori che si bevono
le chiacchiere dei poeti; ma aveva in mano una falce bene arrotata, ed era lieto, fresco, robusto, e
daspetto regale. In questa forma egli mi è apparso, e mha detto cose veramente divine, e degne di
risapersi da voi.
Vedendomi camminare tristo e pensoso, da dio che egli è, conosce subito la cagione della mia
malinconia, e che io di mala voglia sopporto la povertà, avendo indosso la sola tunica in questa
stagione che fa tanto freddo, fanno continui rovai, e grandine e neve, ed io non posso difendermene
affatto: ed avvicinandosi la festa, vedo gli altri spendere e spandere in apparecchi per sacrifizi e
banchetti, e a me mancare il necessario per celebrarla. Ondegli venendomi dietro le spalle, e
presomi per lorecchio, e tirandomelo, come suole farmisi conoscere: Che hai, o Saturnosolone?
dice; tu sembri afflitto. - E non ne ho ragione, o Signore, io rispondo, quando vedo uomini scellerati
straricchi e sfarzosi, ed io e tante altre oneste persone siamo nel bisogno e nella miseria? E neppure
tu, o Signore, vuoi mettere un riparo a questo, ed acconciare le partite giuste? - Ed egli: Non è facile
mutare le sorti a voi assegnate da Cloto e dalle altre Parche: ma per la festa rimedierò io alla vostra
povertà: ed il rimedio è questo. Va, o Saturnosolone, e scrivi alcune leggi che si debbono osservare
nella festa, affinchè i ricchi non se la godano da sè soli, ma dieno un po di bene anche a voi. Io non
so farle, risposi. - Ed egli: Tinsegnerò io. Così prese ad insegnarmi; e poi che mebbe informato di
tutto, soggiunse: Or va, e di loro che non le osservino le mie leggi, e vedranno perchè porto questa
falce tagliente. Oh bella! Io che feci quel taglio a mio padre Urano, io te li castrerò questi ricchi che
sprezzano le mie leggi: e divenuti eunuchi anderan cercando la limosina per la Madre degli Dei
sonando il flauto e il tamburello. - Di questo vi minaccia; onde è meglio per voi non trasgredirne le
leggi.
Prime Leggi.
Nessuno niente faccia daffari nè pubblici nè privati durante la festa, se non per ischerzo per
galanteria per allegria. I cuochi soli e i pasticcieri sieno affaccendati. - Sia eguaglianza fra tutti, fra
servi e liberi, fra poveri e ricchi. - Adirarsi, sdegnarsi, minacciare non sia lecito a nessuno.
Dimandar conto dai fattori neppure sia lecito nei Saturnali. - Nessuno richiegga danari o vesti date
in prestito, nè risponda a lettere, nè soccupi dalcun lavoro, nè componga o reciti discorsi se non
piacevoli, festosi, pieni di motti e di facezie.
Seconde Leggi.
Molto prima della festa i ricchi scrivano in un libretto tutti i nomi dei loro amici: tengano pronto
in danaro contante il decimo della loro rendita, le vesti soverchie e un po grossolane, altre
suppellettili, e molto vasellame dargento: ed ogni cosa sia preparato. - Nella vigilia della festa si
purifichino ben bene la casa, e ne scopino fuori lavarizia, la gretteria, la spilorceria, e laltre
porcherie che abitano con essi. E così purificata la casa, facciano sacrifizi a Giove dona ricchezze, a
Mercurio donatore, ad Apollo magnifico. Dipoi in su lora di vespro leggano quel libretto, ed
assegnando una cosa a ciascuno amico secondo suo merito, prima che tramonti il sole gliela
mandino. I portatori, non più di tre o quattro, sieno servi fedelissimi e già vecchi. - Si scriva in una
polizza ciò che si manda, e quanto, acciocchè non cada alcun sospetto su i portatori. - Questi servi
non chiedano mance: bevano un solo bicchiere per uno, e vadano via. - Ai letterati si mandi il
doppio dogni cosa, perchè essi meritano due parti. - Nella polizza si parli de doni semplice e
brevemente: non parole offensive, nè lodi di ciò che si manda. - Un ricco non mandi niente ad un
altro ricco, nè inviti ai Saturnali un suo pari. - Assegnati i doni, non si deve serbarne alcuno; nè
mandatili, pentirsene. Se alcuno lanno passato era lontano e non ebbe la parte sua, ne abbia ora due.
- I ricchi paghino i debiti degli amici poveri; anche la pigione se alcuno la deve, e non può pagarla:
e molto tempo prima sinformino di che specialmente hanno bisogno gli amici loro. - Chi riceve un
presente non ne mormori: comunque è, sia tenuto per bello il presente. - Unanfora di vino, una
lepre, una gallina grassa non sieno stimati doni da Saturnali; i doni de Saturnali non sieno pigliati a
gabbo. - Il povero rimandi al ricco: se è letterato, gli mandi una scrittura antica purchè sia bella e
festevole, o una scrittura sua come ei lha potuta fare: e il ricco laccetti con lieto viso, la legga
subito; se la ripone o la gitta, sappia che la minaccia della falce è pronta per lui, ancorchè abbia
mandato ciò che doveva. Gli altri mandino, chi corone di fiori, chi grani dincenso. - Se poi un
povero manda al ricco una veste, un arnese dargento o doro, oltre il suo potere, il presente sia
sequestrato, venduto, e il prezzo deposto nel tesoro di Saturno: e il povero il giorno appresso
riceverà le spalmate in mano dal ricco con una ferula, e non meno di dugentocinquanta.
Leggi Convivali.
Al bagno quando lombra dello gnomone è sei piedi: prima del bagno si giuochi a noci e a dadi. -
A tavola si segga alla rinfusa: a dignità, nobiltà , ricchezza sabbia poco riguardo. - Dello stesso vino
bevano tutti, nè il ricco alleghi scusa di dolore di stomaco o di capo per bere egli solo del pretto. -
Le porzioni delle carni sieno eguali per tutti: gli scalchi non facciano parzialità a nessuno. I servi
non ritardino, non ti lascino innanzi un piatto senza prenderselo mai: nè sia servito ad uno un bel
tocco, ad un altro un pezzetto, ad uno la coscia, ad un altro la mascella del porco: ma parti uguali a
tutti. - Il coppiere giri gli occhi attorno sovra ciascuno, sul padrone meno degli altri, e ascolti subito.
- Ci sieno calici dogni capacità. - Sia lecito a chi vuole far brindisi: ciascuno può bere alla salute di
un altro, dopo un brindisi al ricco: nessuno sia costretto a bere, se ei non può. - Al banchetto si può
menare un danzatore o ceteratore, ma non principiante. - Lo scherzo sia misurato, e non giunga
alloffesa. - Infine si giuochi con le noci: chi giuoca danari starà digiuno sino al dimani. - Ciascuno
rimanga o se ne vada a suo piacere. - Quando il ricco farà fare la scorpacciata ai servitori, anche gli
amici suoi con lui dovranno servirli a tavola.
Queste leggi ogni ricco deve scriverle sovra una colonna di bronzo, piantata nel mezzo del suo
cortile, e leggerle sempre. E dovete sapere che fino a che la colonna rimarrà in piedi, in quella casa
non entrerà nè fame, nè peste, nè fuoco, nè altro malanno: ma se sarà abbattuta (che non sia mai!)
uh, quante maladizioni vi pioveranno!
LETTERE SATURNALI.
1a.
Io a Saturno salute.
Tho scritto unaltra volta per farti sapere in che stato io sono ridotto, e come per la mia povertà
corro pericolo io solo di non prender parte alla festa che tu ci hai annunziata: e vho aggiunto ancora
(me ne ricordo bene) essere cosa irragionevolissima che alcuni di noi sono straricchi e sguazzano
senza dare una briciola ai poveri, ed altri si muoion di fame, anche nei dì dei Saturnali. Giacchè tu
non mi hai risposto affatto, io credo di rinfrescartene la memoria. Tu dovevi, o Saturno mio,
togliere prima questa disuguaglianza e mettere tutti i beni in comune, e poi comandare di celebrarsi
la festa. Come ora, noi siamo o formica o camello, come dice il proverbio. Anzi figurati un istrione
con lun de piedi calzato dellalto coturno tragico, e con laltro scalzo: se così camminasse ei dovria
necessariamente farsi ora alto, ora basso, secondo il poggiare su questo o su quel piè. Così siamo
disuguali noi: quelli che son calzati del coturno hanno le spese da fortuna, fanno i gran signori, e ci
sfatano: tutti noi altri andiamo scalzi e per terra, benchè sai che potremmo rappresentar bene la
parte nostra anche noi, e camminar sul grande, se uno ci calzasse e ci vestisse come loro. Eppure io
odo dire ai poeti che il mondo non andava così quando regnavi tu; che la terra senza seminare e
senza arare menava tutti i beni; il desinare nasceva bello e cotto e da torsene le satolle: i fiumi
correvano alcuni vino, alcuni latte, ed alcuni mele. Ma il meglio è che quegli uomini, come dicono,
erano doro, e la povertà non la conoscevano neppure di nome. Noi altri non siamo neppur di
piombo per chi ben ci stima, anzi da meno assai: stentiamo per un po di mangiare, e siam sempre
meschini, disfatti, disperati: chi dice, ohimè! chi, come farò? chi, o fortuna scellerata! e non odi che
lamenti da noi altri poveri. E questo non ci cuocerebbe tanto se non vedessimo i ricchi sguazzare in
tante felicità, serbar chiusi i monti doro e dargento, aver tante vesti, e servi, e cocchi, e casamenti, e
campi; e di tutti questi beni, che ne hanno e ne hanno, non solamente non darne mai una particella a
noi, ma non degnarsi neppure di guardarci in faccia. Il maggior crucio nostro, la cosa che ci pare
proprio insopportabile, o Saturno mio, è uno che sdraiato su la porpora sta sino alla gola tra
dolcezze e morbidezze, corteggiato, riverito, sempre in feste; ed io ed altri pari miei strolaghiamo
come guadagnar quattroboli per poterci, prima di andare a letto, satollare di pane o di polenta con
un po di nasturzio o di timo per companatico, o una cipolla. Questa cosa, o Saturno, si ha da
mutare; e o devi rifarci tutti eguali, o almeno comandare ai ricchi di non godere essi soli del bene
che hanno, ma di tanti medinni doro sparnicciarne un sestiere sovra di noi; delle vesti darci quelle
rose dalle tignuole: tantè, se queste debbono perdersi e consumarsi pel tempo, è meglio darle a noi
per ricoprircene, che accatastarle negli armadii e nelle ceste a muffire. Ciascuno di essi dovria
convitare a tavola sua ora quattro ora cinque di noi riarsi, e non trattarci come si usa ora nei conviti,
ma un po più alla pari, cioè parti eguali per tutti; non empirsi il sacco egli solo; il servo non restar
impalato dietro a lui finchè egli non voglia più delle vivande, e poi venire a noi, e mostrarcelo
solamente il piatto, e mentre vi stendiamo la mano, passa oltre, e ci lascia pochi bocconi di
focaccia: e quando si serve la porchetta, non mettere innanzi al padrone una buona metà con la
testa, e portare agli altri le ossa con un po di carniccio. Bisogneria raccomandare ai coppieri di non
farsi chiamar sette volte quanduno di noi chiede bere; ma come uno glielha detto una volta, ei
subito mescere, e presentare una tazza grande e colma, come al padrone. Il vino poi devessere uno e
il medesimo per tutti: chè in qual legge è scritto che egli deve ubbriacarsi di vino vecchio odoroso,
e a me il mosto far crepare lo stomaco?
Se questa faccenda la raddrizzerai, o Saturno, e racconcerai, la nostra vita sarà vita, e la tua festa
sarà festa: se no, te la facciano essi la festa. Noi ci corcheremo, e manderem loro mille cancheri;
che quando dopo il bagno si mettono a tavola, un servo rovesci lanfora e la rompa; che il cuoco
faccia il brodo che senta di fumo, e per ismemoraggine versi la salamoia del pesce nelle lenticchie;
che un cane traforatosi in cucina, mentre i cucinieri attendono ad altro, divori tutto il sanguinaccio e
mezza schiacciata; che il cinghiale, il cervo e la porchetta lattante mentre sarrostiscono facciano
quello che Omero dice de buoi del Sole, anzi non solo si strascinino per terra, ma saltino e fuggano
nei monti con tutti gli spiedi: che le galline ingrassate benchè spiumate e preparate se ne volino
anchesse, affinchè non se le godano essi soli; che, per farli più crepare, le formiche, come fanno
quelle dIndia, scavino loro che essi tengono nascosto, e di notte lo spargano nel popolo; che le
vestimenta, per incuria del guardaroba, sieno rosicchiate e crivellate dai cari sorci, proprio come
una rete da tonni; che quei loro garzoni leggiadri e zazzeruti, e che essi chilamano Iacinti, Achilli e
Narcissi, quando presentano la coppa diventino calvi, perdano a un tratto i capelli, si coprano
dunispida barba come è quella dei barbalacchi(100) nelle commedie, poche setole pungenti alle
tempie, e tutta la zucca liscia e nuda. Questi ed altri centomila cancheri noi manderem loro se
penseranno solo a sè stessi, e non vorranno goder con noi delle loro ricchezze, e non darcene una
particella.
2a.
Saturno a Me suo reverendo Sacerdote salute.
Che pazzia è la tua di scrivere a me come va il mondo adesso, e di volere che io faccia una
nuova divisione dei beni? Questo dovresti contarlo ad altri, a chi regna ora. E mi fa maraviglia che
tu solo non sai come io da molto tempo ho cessato di esser re, avendo diviso il regno tra i miei
figliuoli, e che Giove sincarica di queste faccende. Io non mimpaccio più in là dei dadi, del
baccano, delle canzoni, del trincare, ed anche non più che per sette giorni. Onde intorno a quelle
gran cose che tu dici, a togliere lineguaglianza, e fare o tutti poveri o tutti ricchi, vi risponderà
Giove. Se poi qualcuno ha offeso o trasgredite le leggi della festa, questo spetta a me a giudicare: e
scriverò ai ricchi intorno ai conviti, al sestiere delloro, e alle vesti che vi dovrien mandare nella
festa: è giusto questo, ed essi debbono farlo, come voi dite, se pure non hanno ad addurre qualche
ragione in contrario.
Ma del resto sappiate che voi altri poveri siete in errore, e sbagliate assai sul conto dei ricchi, se
credete che sono felicissimi, e che essi soli vivono la vita piacevolmente, perchè fanno banchetti
suntuosi, simbriacano di vini squisiti, si sollazzano con belle donne e con bei zanzeri, e si vestono
di robe fine. Voi non sapete che cè sotto: quanti pensieri per mantenersi la roba; come conviene
vigilar sempre e stare attento che leconomo non trascuri nè rubi nulla, che il vino non inacidisca,
che il grano non impidocchisca, che un ladro non involi il vasellame, che il popolo non creda a chi
ti vuol male e dice che vuoi farti tiranno. E questi pensieri non sono neppure la minima parte dei
loro affanni: se voi sapeste i timori e i crepacuori che hanno, la ricchezza vi parrebbe una disgrazia.
E credi tu che io sarei stato sì balordo, se lesser ricco e re fosse una bella cosa, da lasciarla e cederla
ad altri, per rimanermene privato e sotto laltrui soggezione? Ma perchè io conoscevo tutti quanti
questi mali che di necessità stanno con la ricchezza e la signoria, io lasciai il regno, e me ne trovo
contento. Tu ti lagnavi meco testè, che i ricchi si riempiono di cinghiali e di pasticci, e voi nei dì di
festa non avete altro companatico che del timo, o un porro, o una cipolla: ma riflettivi un po. Nel
mangiarli, e questi cibi e quelli piacciono, e forse non sono molesti; ma dipoi la cosa va al rovescio.
Voi non vi levate con una gravezza di testa la mattina, come essi dopo unimbriacatura; nè per la
troppa pienezza fate rutti e flati fetenti: essi stravizzano, passano le notti tra zanzeri baldracche ed
altre sporcizie, e vedi frutto che raccolgono da queste sregolatezze, una tisi, una pulmonia,
unidropisia. Guardali in viso: puoi additarmene uno che non sia tutto giallo, e non paia un morto?
uno che giunto alla vecchiaia cammini su i piedi suoi, e non si faccia portare da quattro persone;
tuttoro fuori, tutto cenci dentro, come le vesti da teatro rattoppate di tanti stracci? Voi non mangiate
pesci, nè li gustate mai: e non vedete che voi non sofferite nè podagra, nè pulmonia, nè gli altri loro
malanni? E poi essi non sentono più piacere a mangiare ogni giorno quelle squisitezze e li vedi che
talvolta desiderano i legumi ed i porri più che tu i lepri ed i cinghiali. Lascio stare quanti altri
affanni li tormentano: un figliuolo scapestrato, la moglie intabaccata con un servo, un zanzero che
si presta più per forza che per buona voglia, e tante altre cose che non potete immaginare voi altri
che guardate solamente alloro ed alla porpora che essi portano, e se li vedete in cocchio tirato da
una muta di cavalli pomellati, aprite tanto di bocca e li adorate. Se voi sapeste voltar loro tanto di
spalle, sprezzarli, non rivolgervi a riguardare il cocchio sfolgorante dargento; e quando vi parlano
non mirare lo smeraldo che portano in dito, non tastarne le vesti e lodarne la finezza, ma li
mandaste alla malora con le loro ricchezze, oh! sappiate che verrebbero essi da voi a pregarvi di
andare a desinare con loro, per farvi vedere i letti che hanno, e le mense, e il vasellame; le quali
sono tutte cose inutili se non cè a chi mostrarle. Allora vi persuadereste che essi posseggono tante
cose non per usarle essi, ma per farle ammirare a voi.
Vi dico questo per consolarvi, giacchè io conosco la vita vostra e la loro, e per esortarvi a
celebrare la festa, pensando che tra breve tutti dovrete uscir della vita, e lasciare essi le ricchezze
loro, voi la povertà vostra. Nondimeno io ad essi scriverò, come vi ho promesso: e credo che non
terranno poco conto duna lettera mia.
3a.
Saturno ai Ricchi salute.
I poveri ultimamente mi hanno scritto, accusandovi che voi non fate parte a loro di ciò che avete,
e ad ogni modo vogliono che io metta in comune i beni, affinchè ciascuno nabbia la parte sua: chè
per giustizia tutti debbono essere eguali, e non già uno avere il soverchio, e un altro niente. Io ho
risposto che di queste faccende se la intendan con Giove: di tuttaltro poi, e delle offese che essi
credono di avere durante la festa, vedendo che spetta a me giudicarne, ho promesso di scriverne a
voi. Le dimande loro, a parer mio, son moderate: Come, dicono essi, tremanti a questo freddo e
cascanti di fame, come celebreremo la festa? Se dunque io voglio che ci prendano parte anchessi,
chiedono che io vi obblighi a dar loro qualcuna delle vostre vesti se navete soverchie, o grossolane
per voi, e di spruzzar su di essi un poco doro. Se farete questo, essi dicono di smettere da questo
piato innanzi a Giove: se no, minacciano di chiamarvi in giudizio per una nuova divisione, come
prima Giove darà udienza. Questa non è poi una gran cosa per voi: avete tanto, che buon pro vi
faccia!
E dei conviti vogliono che io vi scriva un capo a parte: come essi ci vorrieno essere convitati, e
voi ve li godete voi soli e a porte chiuse: e se talvolta fate lo sforzo dinvitarne alcuni, hanno più
tossico che piacere a tavola; perchè tutto si fa per insultarli, come per esempio, che non bevono lo
stesso vino che voi. Per Ercole! questo si è affronto ad un uomo libero: e sono sciocchi essi che non
si levano e vi piantano con tutto il convito. Dicono che non bevono a sazietà, perchè i vostri
coppieri son come i compagni dUlisse, han turate le orecchie con la cera. Le altre sono spilorcerie,
che mi vergogno a dirle: si lagnano che le vivande non sono spartite al giusto, che i servi stanno
vicino a voi finchè voi vi servite a sazietà, e trapassano subito innanzi a loro; e molte altre di queste
pidocchierie sconvenienti ad uomini liberi. La più bella cosa in un banchetto è leguaglianza, e il dio
che presiede ai conviti chiamasi Spartipari, perchè tutti debbono aver pari la parte loro.
Vedete adunque di non farvi più accusare, ma di farvi onorare ed amare per un po di larghezza:
di che per voi la spesa sarà insensibile, e per essi un dono fatto a tempo sarà sempre ricordato.
Senzachè voi non potrete abitar le città se non coi poveri, che lavorano in tanti modi per i vostri
comodi; nè avrete ammiratori delle vostre ricchezze se ve le chiudete e ve le godete voi soli al buio.
Fate dunque che molti veggano ed ammirino i monti dargenteria su le vostre mense; che bevendo
alla vostra salute, guardino la tazza che tengono in mano, sentano come pesa, ammirino la storia
che vè scolpita, e la massiccezza delloro che più risalta pel lavoro dellarte. Così vi udirete dire: che
buon signore! che amico dellumanità! e non sarete più mal voluti. Chè chi potria voler male ad uno
che ti fa parte del suo, e dona con liberalità onesta? anzi chi non vorria che costui vivesse il più
lungamente, e si godesse i suoi beni? Come fate ora, voi avete felicità senza testimoni, ricchezza
con grande invidia, vita senza piaceri. Chè non è bello certamente lo star solo a riempirsi il ventre
come i lioni o i lupi solitari; come è bello lo stare con persone costumate che singegnano di
piacervi, che primamente non rimangono sordi e muti a tavola, ma mettono in mezzo ragionamenti
piacevoli, gittano motti senza veleno, e con tante maniere leggiadre sono lanima di quelle liete
brigate che tanto piacciono a Bacco, e sono allegrate dal sorriso di Venere e delle Grazie; e poi il
giorno appresso contano gran cose della vostra cortesia, e dispongono tutti ad amarvi. Questo è
piacere che vale un monte doro.
Ora io vi dimando: se i poveri camminassero con gli occhi chiusi (oh! poniamolo questo) non vi
dispiacerebbe di non avere con chi fare spanto delle vesti di porpora, del codazzo dei servi, e delle
grosse anella che avete in dito? Non parlo di quante insidie e di quanto odio dovrete avere dai
poveri se vorrete goder soli. Le maladizioni che vi mandano son cose di fuoco, e guai se ve ne
coglie qualcuna: voi non gusterete più nè sanguinacci nè pasticci se non mezzo divorati dai cani: le
lenticchie saranno guaste dalla salamoia; il cinghiale e il cervo mentre sarrostiscono se ne
fuggiranno dal girarrosto alla montagna; e le galline agitando i mozziconi dellale spiumate
voleranno a casa i poveri. E, quel che è peggio, i vostri bellissimi coppieri in un batter docchio
diverranno calvi, dopo di aver rotte le anfore. Ripensateci dunque, e prendete un partito conveniente
alla festa, e sicuro per voi: alleggerite la loro grande povertà, e con poca spesa avrete non
ispregevoli amici.
4a.
I Ricchi a Saturno salute.
A te solo, o Saturno, credi tu che i poveri hanno scritto quelle baie? Oh! nhanno insordito Giove
da tanto tempo strillando e dimandandogli che faccia una nuova divisione dei beni, incolpando il
destino che non ha spartito giusto, e noi che non vogliam dar loro niente del nostro. Ma egli, che è
Giove, sa di chi è la colpa, e fa sembiante di non udirli. Nondimeno ci vogliamo scolpare con te,
che regni oggi.
Noi avendo innanzi agli occhi tutto ciò che ci hai scritto, come è bello lo spendere per soccorrere
i bisognosi, e come è un piacere a conversare e banchettare coi poveri, abbiamo fatto sempre così, li
abbiam trattati sempre alla pari, affinchè nessuno avesse potuto lagnarsi di avere meno degli altri.
Ma questi che prima dicono di aver bisogno di poco, come noi apriam loro le porte, non rifinano di
chiedere ora questa ora quella cosa: e se non lhanno subito e alla prima parola, singrognano, si
sdegnano, dicono un sacco di villanie; e sebbene dicano menzogne, pure chi li ode li crede, perchè
suppone che come intimi nostri ci conoscano. Onde una delle due, o dovevamo non dar nulla e
farceli nemici, o sparger tutto, e rimanere anche noi poveri come loro. Le altre cose passino pure:
ma a tavola invece di attendere a riempirsi il sacco e satollarsi, divenuti brilli sgraffiavan la mano al
coppiere nel rendergli la tazza, o brancicavano lamica nostra o nostra moglie: e dopo di aver
vomitato in mezzo la sala, il giorno appresso levavano i pezzi di noi, dicendo che seran morti di sete
e di fame. Se credi che noi esageriamo, ricordati del vostro commensale Issione, il quale onorato
della vostra tavola, tenuto pari a voi in onore, quando simbriacò pose le mani addosso a Giunone, il
prode uomo. Per queste e per altre ragioni noi ci eravam determinati per lavvenire, per sicurezza
nostra, di non farli più metter piede in casa nostra. Ma se promettono innanzi a te, di chiedere
moderatamente, come essi dicono, e di non fare scostumatezze a tavola, vengano pure col buon pro
a banchettare con noi. Delle vesti ne manderemo, come ci comandi, e delloro secondo il poter
nostro, e faremo larghe spese, e non risparmieremo niente per contentarli: ma essi lascino i discorsi
artifiziosi con noi, ci sieno amici, non adulatori e parassiti. Tu non avrai a lagnarti di noi, se essi
vorranno essere costumati.
Correzioni apportate nelledizione elettronica Manuzio:
e sprecar tanto fiato. ei fa sempre il sordo = ...Ei fa sempre il sordo
da dio che egli e = da dio che egli è
LXX.
IL BANCHETTO,
O
I LAPITI.
Filone e Licino.
Filone. Mi dicono che vi siete ben divertiti ieri, o Licino, al convito dAristeneto, che certi
filosofi sciorinarono molti ragionamenti su i quali vennero a contesa grande, e, se Carino non ha
mentito, giunsero sino alle ferite, e terminò col sangue il banchetto.
Licinio. E da chi, o Filone, lha saputo Carino, se egli non cenò con noi?
Filone. Dice di averlo udito dal medico Dionico: e credo che Dionico era dei convitati.
Licinio. Sì, era: sebbene non al principio e non vide tutto; ma giunse tardi quasi nel mezzo del
tafferuglio, poco prima delle botte. Onde non so se ha potuto contar bene tutto il fatto, non essendo
egli stato presente quando nacque la contesa che finì col sangue.
Filone. E Carino mha consigliato di venire da te, o Licino, per sapere il vero e ogni cosa per filo
come è andata. Dionico stesso gli ha detto di non essere stato presente a tutto, ma che tu sai bene il
fatto, e ti ricordi anche i discorsi, ai quali stai sempre con le orecchie tese, e non te ne scappa un
ette. Tu dunque non puoi fare di non convitare anche me a cotesto piacevole convito, dove io
scialerei, perchè restando digiuni e in pace, e senza sangue e fuori le botte, noi farem veramente un
banchetto a veder vecchi ubbriachi bisticciarsi a tavola, o giovani riscaldati dal vino dire e fare
indecenze.
Licino. È curiosità da fanciullo, o Filone, volere che io pubblichi e racconti fatti avvenuti nel
vino e nellubbriachezza, che piuttosto si deve obbliarli e tenerli come opera di Bacco, il quale non
so se lascia che alcuno non sia iniziato nelle suo orgie, e non si ubbriachi mai. Bada adunque che
non sia da uomo maligno di voler sapere di queste cose, che conviene lasciar nel convito e
dimenticarle. Odio, dice il poeta, un convivante che ha memoria. E Dionico non ha fatto bene a
narrarle a Carino, e versare tutta la sgocciolatura dei bicchieri in capo ai filosofi. Per me, oh, io nol
dirò mai.
Filone. Sì, fammi il ritroso, o Licino. Ma non dovresti farlo con me, perchè io so che hai più
desiderio tu di parlare, che io di udirti: e credo che se tu non avessi chi tascolta, anderesti ad una
colonna, ad una statua a svertare tutto ciò che hai in corpo. Se me ne vado ora, tu non mi lascerai
partire senza di averti udito, mi tratterrai, mi seguiterai, mi pregherai: ma voglio fare anchio del
ritroso con te; e se poco poco non vuoi, anderò a dimandarne un altro: non dirmi niente tu.
Licino. Via, non andare in collera: ti conterò, giacchè così vuoi. Ma ve, non dirlo a nessuno.
Filone. Se io non ho del tutto dimenticato chi è Licino, questo lo farai piuttosto tu: tu il primo lo
dirai a tutti, e non sarà bisogno che ne parli io. Ma dimmi un po, forse Aristeneto ha dato moglie al
figliuolo, e vha convitati?
Licino. No: ma ha sposata la sua figliuola Cleantide al figliuol dEucrito lusuriere, a quel giovane
che studia filosofia.
Filone. Bel garzonetto, per Giove, ma troppo tenero, e non ancora da nozze.
Licino. Non poteva trovare un miglior partito, a creder mio. Pare un giovane modesto, studia
filosofia, è figliuolo unico del ricco Eucrito: come non scegliere questo sposo?
Filone. La ragion vera è la ricchezza di Eucrito. Ma, o Licino, chi furono i convitati?
Licino. Come potrei dirteli tutti? Ma tra i filosofi e gli oratori, dei quali specialmente credo che
vuoi udir parlare, vera il vecchio Zenotemi lo stoico, e con lui Difilo, chiamato il Laberinto,
maestro di Zenone figliuol dAristeneto: vera il peripatetico Cleodemo, quel linguacciuto
accattabrighe, chiamato dai suoi discepoli Spada e Falce. Ci venne ancora lepicureo Ermone, e
quando egli entrò, gli Stoici lo sguardarono biechi e torsero il viso come se avesser visto un
parricida, un maladetto. Tutti questi erano stati convitati al banchetto come amici e familiari di
Aristeneto; e con essi il grammatico Istieo, ed il retore Dionisodoro. Da parte poi dello sposo
Cherea era stato invitato Iono il platonico, suo maestro, daspetto venerabile e quasi divino, e
maestosissimo della persona. Molti lo chiamano Regola; avendo riguardo al suo diritto e regolato
giudizio. Come egli entrò, tutti si rizzarono, lo accolsero come un gran capoccia, e fu proprio
lapparizione di un dio la venuta del mirabile Iono. Giunse lora di sedere a mensa, essendo quasi
tutti venuti: a destra di chi entra tutti i letti furono occupati dalle donne, che non erano poche, e fra
esse la sposa, tutta velata, e dalle donne attorniata: rimpetto la porta laltra brigata, ciascuno secondo
sua dignità. Di fronte alle donne stava Eucrito, appresso a lui Aristeneto. Poi si disputò chi dovesse
esser primo, se Zenotemi lo stoico, come più vecchio, o Ermone lepicureo, come sacerdote dei
Dioscuri, e della prima nobiltà del paese. Ma Zenotemi sciolse la quistione dicendo: Se tu, o
Aristeneto, mi tieni secondo a costui, che è, per non dir altro, un epicureo, io me ne vo, e ti pianto
con tutto il convito. E chiamato il servo fe sembiante dandarsene. Ma Ermone disse: Abbiti pure il
primo posto, o Zenotemi: eppure saria stata una buona creanza cedere il posto ad un sacerdote, per
non dir altro, giacchè tu disprezzi Epicuro. Io sprezzo un sacerdote epicureo, disse Zenotemi, e si
sedè: dopo di lui Ermone, poi Cleodemo il peripatetico, appresso Jono; dopo costui lo sposo, poi io;
dopo di me Difilo, quindi il suo discepolo Zenone; infine il retore Dionisodoro, ed il grammatico
Istieo.
Filone. Cappita, o Licino! fu un museo questo banchetto, pieno di tanti filosofi. Ed io lodo
Aristeneto che celebrando una carissima festa, ha voluto convitare, invece di altre persone, gli
uomini più sapienti, ha fatto un mazzo di fiori di ciascuna setta: non questi sì, quelli no, ma li ha
mescolati tutti.
Licino. Ei non è un ricco come gli altri, o amico mio, ma sintende di studi, e passa molto della
vita sua fra tali uomini. Cominciammo adunque a desinare quetamente da prima: lapparecchio era
splendido e vario; e non bisogna chio tannoveri le vivande, le salse, i confetti, i sanguinacci; chè
tutto era a bizeffe. Intanto Cleodemo piegandosi verso Jono, gli disse: Ve questo vecchiardo
(parlava di Zenotemi, ed io ludivo) come diluvia, come sha imbrodata la veste, e quali bocconi fa
sdrucciolare al servo che gli sta dietro, credendosi che nessuno lo veda, e scordandosi di chi sta
dopo di lui. Mostralo a Licino, acciocchè ne sia testimone. Io non avevo bisogno che Jono me lo
mostrasse, chè stavo alla vedetta, e scorgevo tutto. Mentre Cleodemo così parlava, eccoti entrare il
cinico Alcidamante non convitato, dicendo la barzelletta: Vien da sè Menelao. A molti questa parve
una sconcezza, e gli gettavano motti; chi, Tu se pazzo, o Menelao; chi, Ma non piacque allAtride
Agamennone; ed altri frizzi a proposito, ma mezzo in aria e sottovoce, perchè tutti temevano
Alcidamante, che con quel suo vocione è il più grande abbaiatore fra tutti i cinici; e però è tenuto un
campione, e fa paura a tutti. Ma Aristeneto gli disse bravo, e lo invitò a prendersi una seggiola e
sedere vicino ad Istieo e Dionisodoro. No, egli rispose, è femminile mollezza seder sovra seggiola o
letto, come voi altri, che su questo soffice tappeto sdraiati quasi supini e sovra coperte di porpora
banchettate. Io anche ritto in piedi cenerò, e camminando per la sala: e se sarò stracco, stenderò a
terra il mantello, e mi vi poggerò sul gomito, come dipingono Ercole. - Fa come taggrada, disse
Aristeneto. Ed allora Alcidamante si messe a girare attorno e mangiare, tramutandosi come gli Sciti
nei pascoli più abbondanti, e ronzando vicino ai servi che portavano in giro le vivande. E mentre
insacccava, era tutto inteso a gracchiare della virtù e del vizio, facevasi beffe delloro e dellargento,
e voltosi ad Aristeneto, dimandavagli: A che servono tali e tante coppe, se poche e di creta son
buone allo stesso uso? - Per farlo finire da quella seccaggine, almeno per allora, Aristeneto fe cenno
ad un servo di mescere e presentargli una gran coppa del pretto. Credette di aver pensato un ottimo
espediente, e non previde quanti mali sarieno usciti di quella coppa. Alcidamante la prese, e
tacquesi un po; poi gettasi a terra mezzonudo, come aveva minacciato di fare, e puntella la testa col
braccio sinistro, tenendo nella mano destra la coppa, in quellatteggiamento che i pittori dipingono
Ercole in casa di Folo.
Già tra i convivanti la tazza andava attorno continuamente, si facevano brindisi, e ragionari, e si
portavano i lumi. In tanto io avendo adocchiato vicino a Cleodemo un bel giovanotto di coppiere
che sorrideva (qualche osservazioncella particolare credo te la posso dire, specialmente se è di cose
galanti), io spiavo perchè facesse quel risolino. Dopo un po egli avvicinossi come per prendere la
tazza da Cleodemo, il quale gli strinse il dito, e con la coppa gli porse una moneta forse di due
dramme: il garzone al sentirsi stringere il dito sorrise, ma non dovette accorgersi della moneta, la
quale cadde, e al suono si fecero rossi tutti e due. Non sapevano i vicini di chi fosse la moneta, che
il giovane diceva non esser caduta a lui, e Cleodemo, vicino al quale sera udito il rumore, faceva lo
scemo. Pure non ci si pensò, non ci si guardò, non essendosene accorti molti; ma credo che
Aristeneto scorse tutto, perchè di lì a poco fece uscire quel giovane segretamente, ed accennò che
dietro a Cleodemo si ponesse un villanzone attempato che pareva un guardaboschi o un mulattiere.
E qui la cosa finì, che saria stata di gran vergogna a Cleodemo se si fosse sparsa fra tutti, e se
Aristeneto con un po di garbo non avesse spento quello scandalo.
Ma il cinico Alcidamante, che aveva già vuotata la tazza, informatosi come si chiama la sposa,
impose silenzio con la sua vociaccia, e guardando dalla parte delle donne, disse: Bevo alla tua
salute, o Cleantide, in nome dErcole protettore. A questo scoppiarono tutti a ridere; ed egli: Voi
ridete, o bestie, perchè io bevendo alla salute della sposa ho invocato Ercole nostro dio? Ebbene
dovete sapere che se ella non accetta il bicchiere da me, ella non avrà mai un figliuolo come me,
duro di forze, libero di animo, e di corpo così vigoroso. E così dicendo, si scopriva di più, quasi
sino alle vergogne: i convivanti più a ridere, ed egli adirato levasi facendo locchio del porco e
minacciando guerra: e forse avria fatto toccare il bastone a qualcuno, se a tempo non avesser
portato una grandissima schiacciatunta, la quale egli adocchiando, si rabbonì, si acchetò, e
seguitandola se ne empiva il sacco.
Già molti eran brilli; e la sala piena di grida e di rumori: loratore Dionisodoro belò certe sue
dicerie e fu applaudito dai servitori che stavano dietro. Istieo il grammatico, seduto allultimo posto
ci fece il poeta, e cuciti insieme versi di Pindaro, dEsiodo e dAnacreonte, ne formò una ridicola
canzone, nella quale quasi profetando diceva: Con gli scudi cozzarono, e Qui si udivano i gemiti e
le strida dei combattenti. Zenotemi si fece dare dal servo e lesse un libretto di caratteri minutissimi.
Essendovi il solito intervallo tra una portata e laltra, Aristeneto per non lasciarci senza diletto
neppure quel tempo, comandò che entrasse un buffone, che con motti e lazzi rallegrasse i
convivanti: ed entrò un brutto omiciattolo con la zucca rasa, e solo un ciuffetto ritto sul cocuzzolo,
il quale ballò dimenandosi e scontorcendosi per parer più ridicolo, e battendo il tempo, recitò certi
anapesti con laccento nasale degli Egiziani, e infine lanciò un frizzo per uno a tutti. Gli altri
quanderan frizzati ridevano, ma quando egli toccò Alcidamante e lo chiamò botolo maltese, quegli
sdegnato (e già gli si vedeva in grinta una certa invidia al buffone, che si aveva attirati gli sguardi e
lattenzione della brigata), e gettato via il mantello, lo sfidò al pancrazio; e se no, disse, laccopperia
di bastonate. Il povero Satirello, che così chiamavasi il buffone, levasi, e comincia il pancrazio. Era
una cosa piacevolissima vedere un filosofo fare alle pugna con un buffone, e darne, e toccarne la
parte sua: e gli spettatori chi arrossiva per la vergogna, chi rideva; finchè stanco Alcidamante ed
ammaccato ben bene da quellometto indurito a questo esercizio, si diede per vinto. Tutti e due ci
fecero fare le più grasse risa del mondo.
A questo punto entrò il medico Dionico, non molto dopo la disfida. Venne tardi, come ci disse,
per aver dovuto curare il flautista Polipreponte preso da una frenesia: e ci contò un fatto ridicolo.
Disse che egli vera andato senza sapere che colui era già pazzo; e che quei tosto che lo vede entrare,
si leva, serra la porta, e sfoderata una spada, gli porge i flauti e dice: suona; e perchè ei non poteva,
il pazzo con una coreggia lo batteva nelle palme delle mani. Il poveruomo vedendosi così male
parato, ricorre ad unastuzia, sfida egli il pazzo, chi suona male avrà tanti colpi, e suona egli prima;
poi dati a lui i flauti, e presagli la spada e la coreggia, le gitta subito per la finestra nel cortile. A
questo safferrano, dibattonsi, ei grida accorruomo, vengono i vicini, sconficcano la porta, e lo
cavano di quel pericolo. E ci mostrava ancora i lividori delle botte avute, e alcuni sgraffi su la
faccia; e col suo racconto sollazzò la brigata non meno che aveva fatto il buffone: poi ficcatosi alla
meglio vicino ad Istieo, si messe a mangiare di ciò che vera rimasto. Dionico ci venne proprio
mandato da un dio, perchè fu utilissimo in ciò che successe dipoi.
In questo mezzo ecco entrare un servo che dice venire da parte di Etimoclete lo stoico con una
lettera, ed avere comando dal padrone di leggerla in pubblico, farla udire a tutti, e subito tornarsi.
Aristeneto gliene diede il permesso, ed egli si fece ad un candeliere, e lesse.
Filone. Forse, o Licino, una lode alla sposa, un epitalamio come si suol fare?
Licino. Altro! anche noi credevamo così, ma neppure per sogno. Lo scritto diceva:
«Etimoclete filosofo ad Aristeneto.
«Quanto io stimi i banchetti, tutta la mia vita passata lo dimostra; chè ogni giorno son noiato da
molti più ricchi assai di te, ed io non ne accetto mai glinviti, sapendo il chiasso e le scostumatezze
che nei banchetti si fanno. Ma con te solo io credo di dovermi giustamente sdegnare perchè da tanto
tempo ti fo continue carezze, e tu non ti degni di annoverarmi tra gli altri amici tuoi, ed io solo non
ho parte in questa festa, benchè ti sia vicino di casa. Mi dispiace non altro che lingratitudine tua;
chè per me io non ripongo la felicità mia in un pezzo di cinghiale, di lepre, o di schiacciata, perchè
di queste cose io posso tormene le satolle in casa di quelli che conoscono la buona creanza. Ed oggi
stesso il mio discepolo Parmeno fa un convito sfarzoso, io poteva andarvi, ei me ne ha pregato, ed
io no; lo sciocco che sono stato a serbarmi per te. Tu mhai lasciato in secco, e fai banchetto con gli
altri. Hai ragione; tu non puoi discernere il meglio, e non hai la fantasia comprensiva. Ma io so
donde mi viene la bolzonata, da cotesti tuoi mirabili filosofi, Zenotemi e il Laberinto, ai quali, non
dico per vanto, con un solo sillogismo turerei la bocca. Che mi dicano solamente: che cosa è
filosofia? o pure una cosa da principiante: in che differisce labito dallabitudine? non parlo di cose
più difficili, come a dire del Cornuto, del Sorite, del Mietitore. Divertiti pure con essi. Io per me
siccome credo che il solo onesto è bello, così sopporterò questa ingiuria. Eppure per non farti
trovare scuse, e dire che in tanta confusione, in tante faccende teri scordato di me, due volte oggi
tho salutato, stamane quando eri sulluscio di casa, e poi quando sacrificavi nel tempio dei Dioscuri.
Tho detto questo per discolparmi innanzi a chi ode. Se credi che io mi sono sdegnato per cagion del
banchetto, ripensa al caso dOineo. Vedrai che Diana si sdegnò perchè essa sola non fu convitata al
sacrifizio che egli fece a tutti gli Dei. Intorno a questo dice Omero:
«Obliata o inavvertita ella sbuffava
«Forte di sdegno.
«ed Euripide:
«Ecco la terra Caledonia, a fronte
«Il paese di Pelope si stende
«In lieti campi.
«e Sofocle:
«Terribile un cinghial dOineo su i campi
«Mandò lirata figlia di Latona,
«Larciera dea.
«Ti ho citati questi pochi versi per farti vedere qual uomo tu hai trascurato, ed hai invitato un
Difilo, al quale hai anche affidato il tuo figliuolo. Benissimo: egli ha saputo cattivarsi il giovanetto,
e stassene con lui piacevolmente. E se non mi fosse vergogna parlare di tali turpitudini, ti direi
altro: ma se tu vuoi, puoi sapere ogni cosa da Zopiro il pedagogo. Ma non debbo io turbare la gioia
delle nozze, nè fare il delatore, specialmente di queste vergogne. Benchè Difilo se lo meriterebbe,
chè mi strappò due discepoli.... ma io per amor della filosofia mi tacerò. Ho ingiunto al servo, che
se tu gli dái una fetta di cinghiale, o di cervo, o di schiacciata di giuggiolena per portarla a me, di
non pigliarsi niente, acciocchè non paia chio lho mandato per questo.»
Durante questa lettura, o amico mio, mi gocciolavano i sudori per la vergogna, e avrei voluto
che la terra mi avesse inghiottito, vedendo la brigata ridere ad ogni parola, e specialmente quelli che
tenevano Etimoclete per un vecchio venerabile e coi capelli bianchi, ed or facevano le maraviglie
come avesse saputo nascondersi e darla a bere a tutti con quella barba e quel sussiego della persona.
Ed io credetti che Aristeneto non lo trascurò per dimenticanza, ma perchè non avria mai pensato
che egli avesse accettato linvito, e si fosse abbassato fino a tanto: onde non sera attentato neppur di
parlargliene.
Poichè dunque il servo finì di leggere, tutti i convivanti volsero gli occhi a Zenone e Difilo, i
quali pallidi e smarriti davano qualche apparenza di vero alle accuse di Etimoclete. Aristeneto era
tutto turbato e sossopra: pure cinvitava a bere, e sforzavasi di riparare allaccaduto facendo un cotal
suo sorriso: licenziò il servo, dicendo, bene, risponderebbe dipoi. Di lì a poco Zenone si levò di
tavola pianamente, perchè il pedagogo gli fe cenno di ritirarsi come per comando del padre.
Ma Cleodemo che da molto cercava unoccasione per attaccarla con gli Stoici, e moriva della
voglia di trovare un appiccagnolo, afferrò questo della lettera, e disse: «Ecco che ti menano il buon
Crisippo, il mirabile Zenone, e Cleante! paroluzze magre, interrogazioncelle, maschere di filosofi, e
quasi tutti come Etimoclete. Poh! vedete lettera degna di un vecchio senno! E poi Aristeneto è
Oineo, ed Etimoclete è Diana. Che galanterie da nozze!» - Per Giove, rispose Ermone che stava
assiso un po più su; i credo che ha saputo che Aristeneto ha fatto apparecchiare un cinghiale pel
convito, e gli è sembrato il caso di parlar di quello di Caledonia. Deh, per Vesta, mandagliene
subito un bel tocco, o Aristeneto, affinchè il povero vecchio non isquagli per fame come Meleagro:
benchè non ci saria male, e saria, come dice Crisippo, una cosa indifferente. - Che parlate voi di
Crisippo? disse Zenotemi levando la persona e la voce. Da un solo uomo, da un filosofante
spropositato, da questo ciurmadore di Etimoclete, misurate voi Cleante e Zenone sapienti? E chi
siete voi che parlate così? Non sei tu, o Ermone, colui che tagliò la chioma doro ai Dioscuri, e per
questo misfatto dovrai pagar la pena in mano al boia? E tu, o Cleodemo, non isvergognasti la
moglie di Sostrato tuo discepolo, e côlto su ladulterio non avesti quel vergognoso castigo? Avete
questi scorpioni in corpo, e non tacete voi? - Almeno io non ho fatto il ruffiano a mia moglie come
tu, rispose Cleodemo; io non avevo in deposito da un discepolo forestiere tutto il danaro della sua
provvisione, e poi ho giurato per Minerva che non avevo avuto niente: io non presto al quattro il
mese, nè impicco i poveri scolari se non mi pagano a puntino. - Almeno tu non potrai negare, disse
Zenotemi, che desti un veleno a Critone, che si volle levar lincomodo del padre. - Così dicendo, e
tenendo in mano il calice di cui aveva bevuto quasi la metà, gettò in faccia a tutti e due quanto ve ne
restava: nandò una zaffata anche a Jono, che era vicino, e non gli stette male. Ermone sasciugava la
testa bagnata dal vino, e bassandola faceva vedere a tutti, e diceva: guardate insulto. Ma Cleodemo
che non aveva calice a mano, voltosi a Zenotemi, gli sputa in faccia, e con la mano sinistra
afferratagli la barba, stava per dargli un gran tempione; e avria stritolato il vecchio, se Aristeneto
non gli avesse tenuta la mano; chè saltando per sopra Zenotemi, si pose in mezzo a quei due, e così
li spartì, e li fece star cheti.
Mentre questo accadeva, io, o Filone, ripensavo tra me a quel detto comune: Niente giova il
sapere le scienze, se la vita non saccorda alla virtù. E vedendo costoro valenti in parole, per le loro
opere giustamente derisi, dicevo tra me: Fosse vero ciò che si dice, che listruzione toglie la retta
ragione a chi riguarda solamente a ciò che è scritto nei libri? Di tanti filosofi che erano lì, non ce ne
fu uno solo senza biasimo: chi la fece brutta, chi la disse più brutta. Nè potevo dare tutta la colpa al
vino, pensando ciò che aveva scritto Etimoclete senza avere ancora nè mangiato nè bevuto. Era il
mondo a rovescio: glignoranti mangiavano moderatamente, non parevano nè ubbriachi nè
scostumati, ma solo ridevano e forse spregiavano quelli che fino allora essi avevano ammirati e
dallaspetto tenuti per baccalari: i sapienti per contrario insolentivano, si bisticciavano, diluviavano,
strillavano, venivano alle mani; e il bravo Alcidamante pisciava in mezzo la stanza senza un rispetto
alle donne. Questo fatto della lettera mi pareva, per fare un gran paragone, tale quale quello della
Discordia; della quale i poeti contano che non essendo invitata alle nozze di Peleo, gettò su la tavola
un pomo, donde nacque sì grande guerra ad Ilio. E così mi pareva che Etimoclete, gettando in
mezzo quella sua lettera, come un altro pomo, fece nascere non minori mali di quelli dellIliade.
Intanto non cessavano Zenotemi e Cleodemo dal contendere, benchè fosse Aristeneto in mezzo a
loro. - Per ora, diceva Cleodemo, mi basta di avervi chiariti ignoranti; dimani poi mi vendicherò di
voi come si conviene. Rispondimi un po tu, o Zenotemi, o pure tu, o elegantissimo Difilo, perchè
mai voi altri che dite esser cosa indifferente lacquisto delle ricchezze, voi non pensate ad altro che
ad acquistarne più e più? e per questo fate sempre la corte ai ricchi, e prestate ad usura, e vi pigliate
linteresse dellinteresse, ed insegnate per prezzo? E da altra parte, voi che odiate il piacere, e dite
vituperii degli epicurei, voi fate e patite ogni vergogna per cagion del piacere: vi sdegnate se non
vinvitano ad un banchetto, invitati mangiate tanto, date tanto ai servi, ecco.... E così dicendo afferra
il tovagliuolo che il servo di Zenotemi teneva pieno di varie carni; e glielavria strappato, e gettato
ogni cosa per terra, se il servo non avesse tenuto forte, e resistito. Ed Ermone: Bene, o Cleodemo: ci
dicano costoro perchè biasimano i piaceri, e poi li vogliono godere più degli altri. - No, di tu, o
Cleodemo, rispose Zenotemi, perchè credi che la ricchezza non sia una cosa indifferente. - Sì tu: no
tu: la batosta durava, finchè Iono sporgendosi per più mostrarsi: Finitela, disse; vi proporrò io un
argomento da ragionare e acconcio a questa festa: ma parlate senza contendere ed ascoltate; come si
faceva in quei bei ragionamenti del nostro Platone. - Tutti lapprovarono i convivanti, massime
Aristeneto ed Eucrito, che speravano che così finirebbero quelle spiacevolezze. Ed Aristeneto tornò
al suo posto, credendo già fatta la pace.
In questo mezzo ci fu servita la portata perfetta, come la chiamano: una pollanca per uno, del
cinghiale, del lepre, pesci fritti, ciambelle di giuggiolena, ed altre ghiottornie da portarsi anche a
casa. Non fu servito un piatto per uno, ma stavano due ad un tagliere, e ciascuno prendeva la parte
sua: ad uno Aristeneto ed Eucrito; ad un altro Zenotemi lo stoico ed Ermone lepicureo; poi
Cleodemo e Iono; appresso lo sposo ed io. Difilo aveva innanzi doppia porzione, perchè Zenone
sera levato. Ricòrdati di questordine, o Filone, perchè è necessario pel racconto.
Filone. Me lo ricordo.
Licino. Iono adunque disse: Comincerò io, se vi pare. E stato alquanto sopra di sè, disse: Forse
converrebbe innanzi a tali uomini parlar delle idee, deglincorporei, e della immortalità dellanima:
ma affinchè non mi contraddicano quelli che non seguono questa filosofia, io dirò la mia opinione
su le nozze. Il meglio saria non torre moglie affatto, ma, seguendo Platone e Socrate, amare
fanciulli, perchè solo così si può essere perfetto nella virtù: ma giacchè è necessario torre donne,
dovriano esse, secondo Platone, esser comuni, per liberarci dalla gelosia. Scoppiò un riso a questi
spropositi; e Dionisodoro: E non smetti, disse, di parlare da barbaro? Dove troveremo cotesta
zelosïa, ed usata da chi?(101) - Anche tu parli, o can vituperato? rispose colui. E credo che
Dionisodoro lavria rimbeccato bene; ma il buon grammatico Istieo: Zittite, disse, che io vi leggerò
un epitalamio. E cominciò a sciorinare unelegia, che se ben mi ricorda fu questa.
Sola nella magion dAristeneto
La divina Cleantide cresceva
Regalmente nutrita, e in leggiadria
Fra tutte laltre vergini splendeva
Di Citerea più bella e della Luna.
E tu sposo gentil, fior di garzoni,
Salve, o sposo gentil, che sei più bello
Del bel Nireo e del figliuol di Teti.
Noi spesso ad ambedue ricanteremo
Questa gioiosa nuzial canzone.
Essendosi riso molto di questi versacci, si venne a prendere il servito. Aristeneto ed Eucrito presero
ciascuno la parte sua; io la mia, e Cherea ciò che gli stava innanzi: così parimente Iono e Cleodemo.
Difilo voleva pigliarsi anche la porzione di Zenone che se nera ito, e diceva che tutto spettava a lui,
e saccapigliava coi servi, e afferrata una pollanca facevano a tira tira, come fosse il cadavere di
Patroclo; ma infine fu vinto egli, e dovette lasciarla: i convivanti ne risero assai, specialmente
perchè egli dipoi tutto sarrovellava, e diceva che gli avevan fatto un torto grandissimo. Ermone e
Zenotemi, che sedevano vicino, come ho detto, luno più su, laltro più giù, di ogni cosa ebbero le
porzioni eguali, e se le presero; se non che la pollanca messa innanzi ad Ermone era forse più
grassa. La buona creanza voleva che ognuno si avesse pigliato così ciò che gli stava innanzi. In
questo mentre Zenotemi (attento, o Filone, che ora viene il bello), Zenotemi adunque lascia la sua, e
piglia quella dErmone che era più grassa: Ermone glielafferra, e non si fa soverchiare. Qui le grida:
sazzuffano, si sbattono la pollanca in faccia, e abbrancatisi per le barbe, chiamano soccorso;
Ermone chiamava Cleodemo, Zenotemi chiamava Difilo ed Alcidamante. Questi accorrono chi per
luno, chi per altro: Iono solo no, e si rimase neutrale. Nella baruffa Zenotemi abbranca una coppa
che stava su la mensa innanzi ad Aristeneto, e scagliala ad Ermone:
Ma lo sfallì, lo rasentò dun pelo,
e spacca il capo allo sposo con una buona e larga ferita. Un grido levasi tra le donne, e alcune si
gettano in mezzo alla mischia, specialmente la madre del giovane quando lo vide insanguinato, e
accorse anche la sposa tutta tremante per lui. Intanto Alcidamante faceva prodezze a pro di
Zenotemi, e menando bastonate da orbo aveva spezzato il capo a Cleodemo, rotta una mascella ad
Ermone, e feriti parecchi servi corsi in aiuto. Nè laltra parte cedeva; chè Cleodemo ficcò un dito in
un occhio a Zenotemi e glielo cavò, e con un morso gli strappò il naso: Ermone, vedendo Difilo
venire in soccorso di Zenotemi, gli fe fare un capitombolo dal letto. Fu ferito anche il grammatico
Istieo, che per volerli separare, toccò un calcio su i denti da Cleodemo, che lo prese per Difilo. Era
gittato a terra il poveretto vomendo sangue, come dice il suo Omero.(102) Tutta la casa rintronava
di tumulti e di pianti: le donne stridevano e saffollavano intorno a Cherea, gli altri cercavano
dacchetare il parapiglia: ma Alcidamante faceva cose da invasato, sbaragliati quanti gli
contrastavano, percuoteva chiunque gli si parava innanzi, e navria sbatacchiati molti per terra se
non gli si fosse rotto il bastone. Io per me tenendomi ritto al muro riguardavo ogni cosa, ma non mi
mescolavo, ammaestrato da Istieo che chi si mette in briga di cani tocca morsi. Figùrati i Lapiti ed i
Centauri, mense rovesciate, sangue versato, tazze scagliate. Infine Alcidamante rovesciò il
candelabro, e ci fece rimanere al buio: lo scompiglio crebbe, non si poteva avere un altro lume, ed
alloscuro si fecero di assai cose e di brutte. Quando finalmente venne uno con una lampada fu visto
Alcidamante che scovriva una suonatrice e voleva sforzarla; fu colto Dionisodoro che naveva fatta
una più nuova: chè mentre salzava di terra gli cadde una tazza dal seno, ed ei per iscusarsi diceva
che Iono in quel parapiglia laveva presa e data a lui per non farla perdere; e Iono prudentemente
rispose che però laveva fatto.
Dopo di questo si sciolse il convito: e le lagrime finirono con una risata alle spalle di
Alcidamante, di Dionisodoro e di Iono. I feriti furono portati via a braccia assai mal conci,
specialmente il vecchio Zenotemi, che con una mano si teneva il naso e con laltra locchio, e gridava
che moriva dal dolore; onde Ermone, quantunque ben concio anchegli e con due denti spezzati,
chiamandoci in testimoni, disse: Ricordati, o Zenotemi, che tu non tieni per indifferente il dolore.
Lo sposo, medicatagli la ferita da Dionico, fu portato a casa con la testa fasciata, e adagiato nella
lettiga che doveva ricondurre la sposa: e così al poveretto tornò amara la festa delle nozze. Gli altri
medicati da Dionico alla meglio e fasciati, furon condotti via: e molti andavan vomitando per le
strade. Alcidamante rimase, chè non fu possibile di cacciarlo: come si gettò traversone sovra un
letto, vi si addormentò.
E così, o caro Filone, ebbe fine il banchetto; al quale stanno bene quei versi del tragico poeta:
Molte vicende ha il Fato.
Gli Dei fan cose assai
Contro il nostro aspettato,
E quello che aspettiam non viene mai.
E veramente nessuno saspettava ciò che avvenne. Ma pure io vho imparato una cosa: che chi vuol
farsi i fatti suoi, non è sicuro a banchettare con simiglianti filosofi.
Correzione apportata nelledizione elettronica Manuzio:
così parimente Iono è Cleodemo = ...Iono e Cleodemo
LXXI.
DELLA DEA SIRIA.
È in Siria una città non molto lungi dal fiume Eufrate, la quale si chiama Sagra,(103) ed è sacra a
Giunone Assiria. Io credo che questo nome non le fu dato dai suoi primi abitatori, e che lantico era
altro; ma che dipoi, per le grandi divozioni che vi sono, fu chiamata con questo nome. Di questa
città adunque io parlerò, e di quanto è in essa: parlerò dei riti sacri che ivi si usano, delle solennità
che ivi si celebrano, e dei sacrifizi che ivi si fanno; e dirò ancora quanto si favoleggia di coloro che
stabilirono quella religione, ed il tempio come fu edificato. Io che scrivo sono Assiro; e delle cose
che narro alcune ho vedute con gli occhi miei, altre dai sacerdoti ho sapute, le quali sono più
antiche del tempo mio, ed io le racconto.
Primi tra gli uomini, che noi sappiamo, dicesi che gli Egizii ebbero conoscenza deglIddii,
rizzarono templi e sacri edifici, e celebrarono sacre solennità: e primi ancora trovarono sacri nomi,
e composero sacre leggende. Indi a non molto dagli Egizii gli Assiri udirono parlar deglIddii, e
murarono templi e sagrati, nei quali posero anche immagini, e rizzarono statue: chè anticamente i
templi egizi erano senza statue. E in Siria ci ha templi poco meno antichi degli egizi; dei quali io ho
veduto parecchi, massime quello di Ercole in Tiro, non lErcole celebrato dai Greci, ma quello che
dico io è molto più antico, ed è un eroe Tirio. Un altro gran tempio è in Fenicia, e lhanno quei di
Sidone, e, come essi dicono, è di Astarte. Astarte io credo sia la Luna; ma, come uno di quei
sacerdoti mi narrò, è Europa sorella di Cadmo. Costei, che era figliuola del re Agenore, poichè
scomparve, i Fenicii lonorarono di un tempio, e su di lei composero una sacra leggenda, come
essendo bella, Giove se ne innamorò, e pigliata la figura di un toro, la rapì, e se la portò in Creta.
Queste cose lho udite contare anche da altri Fenicii; e la moneta che usano i Sidonii ha Europa
seduta sul toro, che è Giove: ma non si accordano a dire che il tempio sia dEuropa. Hanno i Fenicii
un altro tempio non assirio, ma egizio, fabbricato da quelli che di Eliopoli vennero in Fenicia:(104)
io non lho veduto, ma è grande anchesso ed antico. Bensì ho veduto in Bibli un gran tempio di
Venere Biblia, nel quale si celebra la festa di Adone; ed io fui iniziato in quella festa. Dicono
adunque che il fatto di Adone ucciso dal cinghiale accadde nel loro paese, e in memoria di quella
sventura ogni anno si picchiano, fanno triboli e piagnistei, e per tutta la contrada è lutto grande. E
poi che finisce il picchiare ed il piangere, fanno il mortorio di Adone, come fosse morto davvero;
dipoi nel giorno appresso contano che egli rivive, e lo mandano in cielo, e si radono il capo, come
gli Egizii quando muore Api. Le donne che non vogliono radersi hanno questa pena: per un giorno
la loro bellezza è esposta in vendita; ma i soli forestieri possono comperarla, e il prezzo è sacro a
Venere. Ci ha alcuni Biblesi i quali dicono che tra loro fu sepolto Osiride Egiziano, e che tutti quei
triboli e quelle feste si fanno per Osiride, non per Adone: e dirò perchè credono così. Ogni anno una
pignatta(105) viene dallEgitto in Bibli, valicando un mare che si valica in sette giorni: i venti la
portano con velocità miracolosa; e non volge in nessuna parte, e vien difilato in Bibli. È un grande
miracolo; e avviene ogni anno; e quando io ero in Bibli avvenne, e vidi la pignatta del papiro.(106)
Unaltra maraviglia ancora è nel paese di Bibli. Un fiume dal monte Libano corre al mare: il nome
posto a questo fiume è Adone: e questo fiume ogni anno diventa sanguigno, e così, perduto suo
colore, sbocca in mare, e imporpora gran parte di pelago, ed indica ai Biblesi il tempo de piagnistei.
Favoleggiano che in quei giorni appunto Adone è ferito sul Libano, e il sangue venendo nellacqua,
muta il colore del fiume, e gli dà il nome. Questo dicono comunemente: ma un Biblese mi assegnò
unaltra ragione di quel mutamento, e mi parve che dicesse il vero. Mi disse così: Il fiume Adone, o
forestiere, viene dal Libano, ed il Libano ha molta terra rossa. I venti che spirano gagliardi in quei
giorni, portano nel fiume la terra che è di un vermiglio acceso; e questa terra lo rende sanguigno; e
la cagione di questo cangiamento di colore non è il sangue, come dicono, ma la qualità del terreno.
Così mi disse il Biblese; e se mi disse schietta la cosa, a me parve miracoloso anche quel rincontro
del vento. Montai ancora sul Libano da Bibli, che vè un giorno di cammino, avendo saputo esser
quivi lantico tempio di Venere(107) edificato da Cinira; e vidi il tempio, ed era antico. E questi
sono in Siria i templi antichi e grandi.
E benchè sieno tanti, nessuno a me pare maggiore di quello della città Sagra, nè vè tempio più
santo, nè paese più divoto. Vi sono opere magnifiche, e antichi voti, e molte maraviglie, e statue che
rendono oracoli,(108) e dii che chiaramente in esse appariscono. Chè quivi le statue degl iddii
sudano, si muovono, predicono lavvenire: e spesse fiate risonò una voce nel tempio mentre era
chiuso il sagrato, e molti ludirono. Di ricchezze poi, oh, tra quanti ne ho veduti è il primo: chè
ricchezze molte ci vanno dallArabia, dai Fenicii, dai Babilonesi, ed anche dalla Cappadocia: e ce ne
portano ancora i Cilici e gli Assiri. Vidi io stesso in certi ripostigli del tempio assai paramenti, ed
altre suppellettili di argento e doro. Le feste poi e le processioni in nessun altro paese del mondo se
ne fanno tante.
Quandio dimandai degli anni che ha il tempio, e qual dea credono che vi sia, mi si fecero molti
racconti, alcuni sacri, altri volgari, altri del tutto favolosi, ed altri barbari, ed altri ancora concordi a
quelli dei Greci; i quali tutti io dirò, sì, ma non accetto affatto. Volgarmente adunque si dice che
Deucalione lo Scita fabbricò il tempio; quel Deucalione al cui tempo furono le grandi acque. Di
Deucalione ho udito in Grecia il racconto che i Greci ne fanno. La favola è questa. Questa
generazione di uomini che sono al presente non furono prima, ma quella generazione tutti perirono:
questi sono della generazione seconda, che di nuovo dopo Deucalione crebbe in tanta moltitudine.
Di quelli si narra che essendo violenti, facevano opere ingiuste, non serbavano giuramenti, non
accoglievano forestieri, non si movevano per preghiere, e però venne loro una grande calamità.
Subito la terra riversò molte acque, caddero grandi pioggie, i fiumi gonfiarono, e il mare si levò di
molto, sicchè tutto fu acqua, e tutti perirono. Deucalione solo degli uomini fu lasciato per la
seconda generazione, a causa del suo senno e della sua pietà: ed ei si salvò a questo modo. In una
grande Arca che aveva, imbarcati i figliuoli e le donne sue, entrò anchegli. Entrato lui, vennero
cinghiali, cavalli, leoni di varie specie, e serpenti, e gli altri animali che pascono su la terra, tutti a
coppia: egli tutti li accoglieva, e quelli non facevano a lui male, ed erano per divino volere in
grande amicizia tra loro. Così tutti in una arca andarono galleggiando, finchè lacqua dominò su la
terra. E questo raccontano i Greci intorno a Deucalione. In conseguenza di questo raccontano, quelli
della città Sagra una cosa di gran maraviglia; che nel loro paese si aprì una gran voragine, e tutta
lacqua vi si precipitò; che dipoi Deucalione rizzò altari, e sopra la voragine edificò un tempio sacro
a Giunone. Io ho veduta la voragine, che sta sotto il tempio, ed è ben piccola: se prima era più
grande, ed ora è divenuta così, non so; quella che vidi io è piccola. In rimemorazione di questa
istoria si fa che due volte lanno lacqua del mare viene nel tempio: ve la portano non pure i
Sacerdoti, ma tutta la Siria, e lArabia, e sin di là dellEufrate molti uomini vanno al mare, e tutti
portano acqua: e prima la versano nel tempio, poi essa scende nella voragine, e la voragine benchè
piccola riceve gran copia dacqua. E quei che ciò fanno, dicono che Deucalione quando fece il
tempio pose questa legge, in memoria di quella calamità e di quel benefizio. E questo è il loro
racconto antico intorno al tempio.
Altri tengono che Semiramide di Babilonia, della quale molte opere sono in Asia, innalzò questo
tempio, e non a Giunone, ma alla madre sua per nome Derceto. Unimmagine di Derceto io vidi in
Fenicia, una strana vista: sino al mezzo è donna, dai fianchi sino ai piè finisce in una coda di pesce:
ma quella che è nella città Sagra è tutta donna. Le pruove di questo racconto sono molto chiare per
loro. Credono i pesci cosa sacra, e non mai gustano pesci: di tutti gli uccelli si cibano, della
colomba no, perchè è sacra per essi. E questo stimano si faccia per cagione di Derceto e di
Semiramide, chè Derceto ha figura di pesce, e Semiramide finì con trasmutarsi in colomba. Ma io,
che il tempio sia opera di Semiramide, forse posso ammettere, ma che sia sacro a Derceto non me
ne persuado: perchè anche fra gli Egizi ci ha alcuni che non mangiano pesci, e non per amor di
Derceto.
Cè un altro racconto sacro, che io udii da un savio: che la dea è Rea, ed il tempio è fattura di
Atte. Atte, di nazione Lido fu il primo che istituì le feste in onore di Rea: e quelle feste che i Frigi, i
Lidi e i Samotraci sogliono celebrare, le appresero da Atte. Chè come la Dea lo castrò, ei smesse il
vivere maschile, mutossi in sembianza femminile, prese vesti donnesche, e andando per tutta la
terra, celebrava feste, narrava i casi suoi, e cantava Rea. Tra gli altri paesi capitò ancora in Siria: ma
come quelli doltre Eufrate non accettavano nè lui nè le feste, egli in questo luogo fabbricò il tempio.
La pruova è, che la dea dà molta aria a Rea; è tirata da leoni, ha il timpano in mano, il capo turrito,
come i Lidi fanno Rea. E parlandomi dei Galli che sono nel tempio, mi diceva che i Galli si
castrano non per Giunone ma per Rea, e ad imitazione di Atte. Ma queste cose a me paiono
ingegnose sì, vere no: e della castratura seppi unaltra cagione molto più credibile.
A me poi piace ciò che raccontano intorno al tempio quelli che più si accordano coi Greci, e
credono che la dea sia Giunone, e lopera sia fattura di Bacco figliuolo di Semele. Imperocchè Bacco
venne in Siria per quella via onde tornò dallEtiopia: e nel tempio sono molti indizii che Bacco lha
fatto, fra gli altri ci ha vesti barbariche, e gemme dIndia, e corna delefante,(109) cose che Bacco
portò di Etiopia; e nellatrio stanno due falli molto grandi con questa scritta: QUESTI FALLI IO
BACCO A GIUNONE MADRIGNA CONSAGRAI. E per me basta questo. E dico ancora unaltra
cosa, che nel tempio è un segno sacro a Bacco. I Greci rizzano i falli a Bacco, e però sogliono
portare indosso certi nanetti di legno che hanno grossi genitali, e son chiamati burattini.(110) Ora
anche questo è nel tempio: a destra del tempio sta seduto un nano di bronzo con grossi genitali.
E questo si favoleggia dei fondatori del tempio. Ora dirò la fondazione del tempio come
avvenne, e chi lo fece. Dicono che il tempio da prima non era come è al presente, ma che lantico
cadde per vecchiezza, e che il presente fu opera di Stratonica moglie dun re dAssiria. Ed io credo
che Stratonica sia quella della quale sinnamorò il figliastro, scoperto dallaccorgimento del medico.
Come ei cadde in questa disgrazia, non sapendo che si fare, per la vergogna taceva e sofferiva:
giaceva in letto senza alcuna malattia, e il colorito del volto gli si era tutto mutato, ed il corpo di
giorno in giorno smagriva. Il medico vedendo che egli non aveva alcun male manifesto, saccorse
che era male damore: e ci ha molti segni per conoscere un amore nascosto, gli occhi languenti, la
voce, il colorito, le lagrime. Ma per chiarirsene, fece così: Tenendo la mano destra sul cuore del
giovane chiamava ad una ad una tutte le persone di casa: entrando tutti gli altri, egli stava
tranquillissimo, ma come entrò la madrigna, ei si trasmutò di colore, cominciò a sudare, e tremare,
ed il cuore gli palpitava. Questi segni fecero chiaro lamore al medico, il quale così lo risanò.
Chiamato il padre del giovane, che era molto impensierito pel figliuolo: La malattia, disse, che ha il
figliuol tuo, non è malattia, ma pazzia: ei non ha dolore, ma sì amore e frenesia. Desidera cosa che
non avrà mai, è innamorato della donna mia, che io non ripudierò affatto. Diceva questa bugia con
fine accorgimento. Ed il padre subito a pregare: Deh, per la sapienza tua e per la tua medicina, non
far morire il figliuol mio: non lha voluta egli questa sventura, ma è un male involontario. Onde tu
non volere per la tua gelosia destare un lutto in tutto il reame, e non fare tu che sei medico, che per
cagion tua venga biasimo alla medicina. Così incauto pregava. E il medico rispose: Tu chiedi
troppo una cosa empia, togliermi la donna mia, e sforzare un medico. E tu che faresti, se ei
desiderasse la donna tua, tu che tanto mi preghi? E quei disse che non gli negherebbe neppur la sua
donna, e non si curerebbe che il figliuolo, purchè fosse salvo, amasse anche la madrigna: chè non è
eguale sventura perdere una donna e perdere un figliuolo. Come il medico udì questo: A che mi
preghi? rispose. La donna tua egli ama, e quel che ora ti dicevo è una finzione. Allora il padre fa
come ha detto, e lascia al figliuolo la donna ed il regno; poi vassene nel paese di Babilonia, e fatta
su lEufrate una città, cui diede il suo nome, ivi si morì.(111) Ed in tal guisa il medico scopri lamore,
e l risanò. Questa Stratonica adunque essendo ancora col primo marito vide in sogno Giunone, che
le comandò di edificarle un tempio nella città Sagra; e se non ubbidirebbe, la minacciò di molti
mali. Ella in prima non vi fece alcun caso; ma dipoi come fu presa da una grave malattia, raccontò
la visione al marito, placò Giunone, e si botò di fabbricare il tempio. E subito essendosi risanata, il
marito la mandò nella città Sagra, e con lei grande tesoro, e molti soldati, quali per fabbricare, quali
per guardia di lei. Chiamato poi uno de suoi amici, assai bel giovane, a nome Combabo, gli dice: Io,
o Combabo, conoscendoti molto dabbene, ti amo più di tutti gli amici miei, ed ho avuto sempre a
lodarmi del tuo senno e della benevolenza che mi hai dimostrata, ma ora ho bisogno di una gran
fede: però voglio che tu debba accompagnare la donna mia, condurre a fine questopera, compiere il
voto, e comandare i soldati: e quando poi sarai ritornato avrai da me grande onore. A queste parole
Combabo subito a pregare e supplicare che non lo mandasse, non gli affidasse incarichi troppo
gravi per lui, le ricchezze, la donna, unopera sacra: temeva ancora che col tempo infine darebbe
qualche gelosia per Stratonica, la quale egli solo doveva condurre. Ma come non potè svolgerlo, si
appigliò ad unaltra preghiera: dessegli tempo otto giorni, e poi lo manderebbe; avere a sbrigare un
affare che moltissimo gli importava. Ottenuto questo facilmente, torna a casa sua, e gettatosi per
terra, rompe in questi lamenti: Ohimè misero! come tanta fede in me? come questo viaggio, di cui
già vedo la fine? Io son giovane, e accompagnerò una donna bella. Questo sarà per me una grande
sventura, se io non leverò ogni cagione di male. Però mè necessario fare un grande atto, che mi
libererà da ogni timore. Così detto si storpia, e tagliatisi i genitali, poseli in un vasello con mirra,
mele ed altri aromi: e poi che lebbe suggellato con lanello che portava, attese a risanare. Dipoi
quando gli parve di poter viaggiare, viene innanzi dal re, presente tutta la corte, gli dà il vasello, e
dice così: O Signore, qui dentro è un gioiello, che io avevo riposto in casa, ed ho caro assai. Ora
giacchè debbo fare un lungo viaggio, lo consegno a te, e tu me lo serba, chè questo per me è
migliore delloro, e vale quanto la vita mia. Al mio ritorno me lo renderai intatto. Il re lo prese, e
suggellatolo dun altro suggello, comandò ai tesorieri di custodirlo. Combabo dopo di ciò sicuro si
messe in viaggio: e pervenuti nella città Sagra, con molta cura edificarono il tempio, e tre anni
passarono in questopera. Intanto avvenne ciò che Combabo aveva temuto. Chè Stratonica usando
lungo tempo con lui, prese ad amarlo, e lamore diventò furore. E dicono quei della città Sagra che
Giunone fu cagione di tanto, e lo fece a posta, sapendo bene che Combabo era onesto, ma volle
punire Stratonica, che non le aveva subito promesso il tempio. Ella dunque da prima si moderò, e
nascose la passione; ma come la passione non le dava posa, ella struggevasi palesemente, e
piangeva tutto giorno, chiamava e richiamava Combabo, e Combabo era tutto per lei. Infine non
potendo più sopportare questo male, cercava un modo acconcio a richiederlo di amore; chè ad altri
guardavasi di confessare lamor suo, ed ella vergognavasi di tentare. Pensò dunque così:
dinebbriarsi, e poi andare a parlargli, perchè col vino viene lardire, e una repulsa non fa vergogna, e
tutto ciò che si fa è attribuito ad ignoranza. Come pensò così fece. E poi che finirono la cena, andata
nelle stanze dove alloggiava Combabo, diedesi a pregarlo, abbracciargli le ginocchia, manifestargli
lamor suo. Quegli ne accolse le parole fieramente, respinse linvito, la rimproverò che era ubbriaca.
Ma quando ella minacciò che gli farebbe un gran male, ei per paura le dichiarò ogni cosa, le contò
tutto il caso suo, e gliele mostrò col fatto. Vedendo Stratonica ciò che non aveva mai temuto, di
quel furore si rimesse, ma dellamore non potè dimenticarsi, e stando sempre vicino a lui trovava
questo conforto al suo amore vano. Questa specie damore è ancora nella città Sagra, e vi si vede
tuttodì le donne innamorarsi dei Galli, ed i Galli impazzire per le donne: e nessuno ne ha gelosia,
ma da essi si tiene come cosa del tutto sacra. Intanto ciò che Stratonica faceva nella città Sagra non
rimase occulto al re, ma parecchi che di là tornavano le davano varie accuse e contavano ogni cosa.
Onde il re adirato richiamò Combabo, non ancora finita lopera. Altri narra qui unaltra cosa non
punto vera: che Stratonica poi che ebbe repulsa alle sue preghiere, scrisse al marito ed accusò
Combabo, dicendo che laveva tentata: e quanto i Greci contano di Stenobea, e di Fedra di Gnosso,
tutto gli Assiri favoleggiano di Stratonica. Ma io non mi persuado che nè Stenobea nè Fedra fecero
ciò che si dice, se Fedra amava davvero Ippolito. Ma questo vada pure come andò. Come la novella
venne nella città Sagra, capì Combabo la cagione, ed andò sicuro, perchè la difesa gli era rimasta a
casa. E quando ei giunse, il re subito lo fece legare e tenere prigione. Dipoi innanzi la Corte, che era
stata presente quando ei spedì Combabo, fattolo venire, prese ad accusarlo, e gli rinfacciò ladulterio
e limpudicizia; e con gravi lamenti gli disdisse la fede e lamicizia, dicendo che tre colpe aveva
Combabo, era adultero, era mancatore di fede, era empio verso la dea, al cui servizio egli stando
aveva fatto questo. E molti lì presenti lo accusavano di averli veduti palesemente abbracciati
insieme. Infine tutti opinano che subito muoia Combabo, chè il fatto suo era caso di morte. Ei fino
allora era rimasto senza parlare, ma quando lo menavano al supplizio, parlò, e chiese il suo gioiello,
dicendo, che egli era ucciso non per adulterio nè per altra ingiuria, ma perchè si bramava quel
gioiello che egli nel partire aveva depositato. A questo il re chiama il tesoriere, e glimpone di recare
il vasello datogli a custodire. Come fu recato, Combabo trattone il suggello, mostrò quello vera
dentro, e lo storpio che saveva fatto, e disse: O re, questo temeva io quando tu mi mandavi a questo
viaggio ed io non volevo andarvi: e poi che mi sforzasti, io feci cosa che fu bene al signor mio e
non ventura per me: eppure non essendo più uomo, sono reo di ciò che solo chi è uomo può fare. A
tali parole il re pieno di stupore lo abbracciò, e lagrimando gli disse: O Combabo, che gran male
facesti! perchè contro te stesso così brutta cosa hai operato, che nessun uomo ha fatta mai? Io non
posso lodarti, o misero, che hai sofferto tal cosa, che saria stato meglio per te non sofferire, e per
me non la vedere. Chè non ti bisognava con me una tale difesa. Ma giacchè fortuna così volle, io
prima farò la tua vendetta con la morte de tuoi calunniatori: e poi ti manderò un gran dono di molto
oro, e di argento immenso, e vesti assirie, e cavalli reali. Verrai da noi senza che altri mai ti tenga
porta, senza che nessuno timpedisca il nostro cospetto, neppure quando sono in letto con la donna
mia. Queste cose e disse e fece. Quelli subito furono menati a morte, ed a lui dati i doni, ed entrò in
maggiore grazia, e pareva che nessuno degli Assiri fosse di senno e di felicità pari a Combabo.
Dipoi avendo richiesto di compiere il tempio rimasto incompiuto, fu di nuovo mandato, compì il
tempio, e quivi rimase finchè
visse. E volle il re che per tanta virtù e benefizio, egli avesse nel tempio una statua di bronzo: ed in
suo onore vè ancora nel tempio la statua di Combabo, opera di Ermocle di Rodi, la quale ha figura
di donna, e veste duomo. Dicesi che i suoi amici più cari per consolarlo di quella sventura, vollero
averla comune con lui, si castrarono, e vissero allo stesso modo suo. Altri ci mette del miracolo, e
dice, che Giunone volendo bene a Combabo inspirò a molti il pensiero di farsi quel taglio, affinchè
non rimanesse storpio egli solo ed afflitto. Intanto questa usanza messa una volta rimane ancora, e
molti ogni anno nel tempio si castrano, e pigliano maniere femminili sia per consolare Combabo,
sia per gratificarsi Giunone. Certo è che si castrano, e non serbano più vesti maschili, ma portano le
femminili, e fanno i lavorii della femmine. E di questo, per quanto ho udito a dire, si attribuisce la
cagione anche a Combabo; perchè gli accadde questo fatto. Una donna forestiera venuta alla festa
vedendolo ed ancora in veste maschile, se ne innamorò perdutamente; ma dipoi saputo che egli era
eunuco, sammazzò. Onde Combabo afflitto che per essere amato glintervenivano tanti guai, si
messe vesti femminili, acciocchè qualche altra donna non singannasse allo stesso modo. E per
questa cagione i Galli portano la stola femminile. E basti quanto ho detto di Combabo. Dei Galli poi
parlerò più innanzi, e del modo onde si fanno il taglio, e come sono sepolti, e per quale cagione non
entrano nel sagrato: ma prima voglio parlare del sito e della grandezza del tempio, e dirò tutto
puntualmente.
Il luogo dove è costruito il tempio è un poggio che sorge nel mezzo della città, ed è ricinto di due
mura. Di queste mura uno è vecchio, laltro non è molto più antico de tempi nostri. Latrio del tempio
è rivolto a borea, grande circa cento cubiti. In questo atrio stanno i falli, postivi da Bacco, i quali
hanno unaltezza di trecento cubiti. Sovra uno di questi falli due volte lanno monta un uomo, e
rimane in cima al fallo per lo spazio di sette giorni. La cagione del salire dicesi questa. Il volgo
crede che a quellaltezza quei conversa con gliddii, e prega bene per tutta la Siria, e gli dii da vicino
odono le preghiere. Altri stimano che questo si faccia per Deucalione, in memoria di quella
calamità, quando gli uomini salivano su i monti e su gli alberi più alti, spauriti alle molte acque. A
me non quadra, e credo che si faccia per Bacco: e ragiono così. Quei che rizzano falli a Bacco,
pongono su i falli uomini di legno seduti: perchè nol dirò. Or dunque io credo che vi salgano per
imitare quelluomo di legno. Ed il modo onde luomo sale è questo: Con una lunga catena circonda sè
stesso ed il fallo: poi sale per piuoli che sono conficcati nel fallo a fine di poggiarvi la sola punta de
piè: e salendo, si tira in su la catena dalluna parte e dallaltra come se tenesse due redini. Se alcuno
non ha veduto questo, ha veduto almeno quelli che salgono su la palma in Arabia, o in Egitto, o
altrove, e intendo quello che io dico. Quando giunge su la cima, manda giù unaltra catenella, che si
porta seco, ben lunga, e si tira ciò che vuole, legni, vesti, masserizie, con che legando e formandosi
un seggio, come un nido, vi si adagia, e vi rimane per i giorni che ho detto. Viene la gente e porta
oro ed argento, e rame ancora, e depostolo in parte che egli lo veda, lo lasciano dopo di aver detto il
loro nome ciascuno. Un altro lì presente, lo annunzia a quello di su; e quegli, udito il nome, fa la
preghiera per ciascuno: e nel pregare picchia un certo arnese di rame, che movendosi rende un
suono grande ed aspro. Non dorme punto: e se talvolta lo piglia il sonno, uno scorpione sale, e lo
sveglia, mordendolo ove più gli duole: e questa è la pena se ei saddormenta. Il racconto dello
scorpione è sacro, ed ha del miracolo: se è vero, non so dire. A me pare che non lo faccia dormire la
paura di cadere. E questo basti di quei che salgono sul fallo.
Il tempio guarda loriente: di figura e di fattura è come i templi che si fanno nella Ionia. Una
grandaia sorge su la terra un due cubiti, e sovressa siede il tempio. Vi si monta per una scalea di
marmo non molto lunga. Nel salire una gran maraviglia ti presenta il vestibolo adorno di porte
dorate: e dentro il tempio sfolgora di molto oro, ed il palco è tutto doro. Quivi spira un odore soave,
come quello che dicesi del paese dArabia, e quando sali, ancora da lunge tinveste con unaura
piacevolissima, e quando esci non ti lascia, ma ti rimane attaccato alle vesti quellodore, e per molto
tempo te lo senti sempre intorno. Dentro poi il tempio non è schietto, ma vè fatta una cappella,
anche più rilevata, cui si monta per pochi scalini, e non è ornata di porte, ma dogni intorno aperta.
Nel tempio grande entrano tutti; nella cappella i sacerdoti soli, e non tutti i sacerdoti, ma quei che
sono più vicini agliddii, ed hanno il governo dellufficiatura. In questa stanno le statue, quella che è
Giunone, e quello che pure è Giove ed essi chiamano con altro nome. Entrambi sono doro, ed
entrambi stanno seduti. Giunone è tirata da leoni, laltro da tori. La statua di Giove ha tutto laspetto
di Giove, il capo, le vesti, il seggio, ed anche volendo non puoi assomigliarla ad altro. Giunone poi
a riguardarla presenta una varietà di forme: tutta insieme veramente è Giunone, ma ha qualcosa di
Minerva, di Venere, della Luna, di Rea, di Diana, di Nemesi e delle Parche; chè in una mano tiene
uno scettro, nellaltra un fuso; sul capo ha certi raggi, ed una torre, ed il cesto(112) di cui adornano
solamente Venere Celeste. Ella è carica doro, e di pietre preziose, quali bianche, quali azzurre, e
molte rosse come fuoco: ha sardonichi assai, e giacinti, e smeraldi, che a lei portano Egiziani,
Indiani, Etiopi, Medi, Armeni, Babilonesi. Ma ciò che merita maggior conto è questo che ora dico:
ha sul capo una pietra che chiamasi lumiera, e il nome corrisponde alleffetto: di notte risplende di
molta luce, e tutto il tempio, come da lumiere ne è illuminato, ma di giorno lo splendore è debole:
laspetto è di un rosso acceso. Ed unaltra mirabil cosa è nella statua: se fermandoti dirimpetto la
guardi, ella ti riguarda; se trapassi ed ella ti segue con lo sguardo; e se altri la mira da altra parte, fa
lo stesso a quello. In mezzo a queste due statue ce nè unaltra doro, che con le altre statue non ha
alcuna somiglianza. Forma propria non ha, ma sembianza degli altri dei. È chiamata il Segno dagli
Assiri stessi, che non le posero un nome particolare, e non raccontano nulla della sua origine e della
sembianza. Alcuni a Bacco, altri a Deucalione, altri a Semiramide lattribuiscono. Sul vertice del
capo le sta una colomba doro: e però favoleggiano che questa sia la statua di Semiramide. Due volte
lanno viaggia sino al mare quando si trasporta lacqua che ho detta. Nel tempio stesso alla sinistra di
chi entra sta primamente il trono del Sole, ma la sua immagine non vè; perchè solamente al Sole ed
alla Luna non fanno statue. E la cagione io seppi, ed è questa. Dicono che fare immagini agli altri
dei è cosa santa, perchè il loro aspetto non è visibile a tutti; ma il Sole e la Luna chi non li vede?
perchè dunque fare statue ad essi che appariscono in cielo? Dopo questo trono sta la statua di
Apollo, non come la sogliono fare gli altri, che tutti credono Apollo giovane, e lo fanno sbarbato,
ma essi soli lo rappresentano con la barba. E così facendo lodano sè stessi, e biasimano i Greci, e
quanti altri per aggradire ad Apollo lo rappresentano giovanetto. E la cagione è, che pare loro una
sciocchezza grande fare le immagini degli iddii imperfetti, e credono che il giovane sia ancora
imperfetto. Unaltra novità è in questo loro Apollo, che egli è adorno di vesti. Molte cose fa questo
Apollo, e ci vorria molto a dirle tutte, pure dirò le più mirabili: ed in prima parlerò delloracolo.
Oracoli ce ne ha molti fra i Greci e molti fra gli Egizi; ed in Libia, ed in Asia molti; ma non
rispondono senza sacerdoti e senza profeti; ma questo Apollo per contrario si muove, e rende da sè
tutto il responso. Ed il modo è questo. Quando vuole vaticinare muovesi da prima nel suo seggio: i
sacerdoti subito lo tolgono su le spalle. E se non lo tolgono, ei suda, e muovesi anche più innanzi.
Quando lo portano su le spalle, egli li volge e rivolge in ogni parte, saltando dalluno su laltro. Infine
il sommo sacerdote gli va innanzi, e lo dimanda. Se egli vuole che la cosa non si faccia, retrocede;
se lapprova, spinge innanzi i portatori, quasi menandoli a redina. Così raccolgono gli oracoli; e non
fanno alcuna cosa nè sacra nè privata(113) senza di questo. Predice ancora dellanno e delle stagioni,
anche quando non lo dimandano: predice ancora quando il Segno deve fare quel viaggio che ho
detto. Dirò unaltra cosa che fece alla mia presenza. I sacerdoti lo portavano su le spalle, ed egli li
lasciò a terra, e se nandava solo per aria.(114) Dopo lApollo cè la statua dAtlante, poi quelle di
Mercurio e d Ilitia.
Linterno del tempio è così ornato: di fuori poi sta unara grande di bronzo; e ci sono altre statue
di bronzo infinite, e di re, e di sacerdoti: dirò le più notevoli. A sinistra del tempio sta la statua di
Semiramide, che addita il tempio a destra, e vi sta per questa cagione. A tutti gli abitatori della Siria
ella fece una legge, di adorar lei per iddia, e non curarsi degli altri dii, e neppur di Giunone: e quei
così fecero. Ma dipoi come le vennero malattie e disgrazie e dolori, le passò quella pazzia, si
riconobbe mortale, e comandò unaltra volta ai suoi soggetti di rivolgersi a Giunone. Però ella sta in
quellatteggiamento, additando a chi viene di adorare Giunone, e riconoscendo non sè per iddia, ma
quella. Ci vidi ancora i simulacri di Elena, di Ecuba, di Andromaca, di Paride, di Ettore, di Achille:
vidi limmagine di Nireo figliuolo dAglaia, e Filomela e Progne ancora donne, e Tereo già uccello,
ed unaltra statua di Semiramide, e quella di Combabo che ho detta, e quella di Stratonica molto
bella, e quella di Alessandro simigliantissima. Vicino gli era Sardanapalo daltro aspetto e di altre
vesti. Nel cortile van pascendo liberamente grandi buoi, e cavalli, ed aquile, ed orsi, e leoni, e non
fanno male agli uomini, ma sono tutti sacri e mansueti.
Usano di avere molti sacerdoti; alcuni scannano le vittime, altri portano le libazioni, quali sono
addetti al fuoco, e quali attendono allara. Innanzi a me più di trecento vennero al sacrifizio. Il loro
vestimento è tutto bianco, ed hanno un cappello in capo. Il gran sacerdote è rinnovellato ogni anno,
ed egli solo è vestito di porpora, e porta una tiara doro. Evvi poi una gran moltitudine di persone
addette al culto sacro, di flautisti, zufolatori, galli, e donne pazze e fanatiche. Due volte al giorno si
fa un sacrifizio, al quale tutti convengono. A Giove si sacrifica in silenzio, senza cantare nè sonare:
ma quando si fa sacrifizio a Giunone, e cantano, e suonano, e picchiano i timpani. E intorno a
questo non mi potettero dir nulla di certo.
Vè anche un lago non molto lontano dal tempio, ed in esso sono nutriti pesci sacri, che sono
molti e di svariati colori. Ce ne ha di assai grandi, e questi hanno nomi, e chiamati vengono su: e ne
vidi uno che era ornato doro, aveva un arnese doro alla pinna: io lo riguardai più volte, ed aveva
quellarnese. Il lago è profondo assai. Io non lho scandagliato, ma dicono che è più di dugento cubiti.
Nel mezzo vè unara di pietra: a prima vista ti pare che essa galleggi e si mova con lacqua, e molti
così credono. Io poi credo che sotto ci stia un gran pilastro che sostiene lara: la quale ha sempre
corone, e vi ardono profumi. Molti per voto ci vanno ogni giorno a nuoto, e vi portano corone.
Quivi si fanno processioni grandissime che si chiamano discese al lago perchè tutte le sacre
immagini discendono nel lago; fra le quali Giunone giunge la prima per cagione de pesci, acciocchè
non li veda prima Giove: chè se questo avvenisse, dicono che tutti morrebbero. Ci viene anchegli a
vederli, ma ella facendosi innanzi lo allontana, e con molte preghiere ne lo fa andare.
Ma le processioni più grandi sono quelle che vanno al mare: di queste non posso dire niente di
certo, chè io non vandai, nè volli tentare quel viaggio: ma quel che fanno al ritorno io lho veduto, e
lo racconterò. Ciascuno porta una brocca piena dacqua, e suggellata con cera: e non laprono essi, e
poi la versano; ma vè un gallo sacro(115) che abita presso al lago, e che come gli presentano le
brocche, ne osserva i suggelli, e ricevuta una mercede, scioglie la legatura, e manda via la cera: e
molte belle mine per questa operazione raccoglie il gallo. Indi entrati nel tempio, versano
quellacqua a poco a poco, e fatto un sacrifizio, vanno via.
Di tutte le feste che ho vedute, la maggiore è quella che si celebra al cominciar di primavera:
alcuni la chiamano il falò, altri la pira. Il sacrifizio che fanno è questo. Grandi alberi recisi piantano
nellatrio, dipoi menandovi capre, pecore ed altro bestiame, li appendono vivi agli alberi: e vi
aggiungono uccellame, e vesti, e arnesi doro e dargento. Poichè tutto è compiuto, girando
processionalmente con le statue intorno agli alberi, accendono il falò, e subito bruciasi ogni cosa. A
questa festa viene gran gente da tutta la Siria, e quasi da tutti i paesi del mondo; e ciascuno porta in
processione i suoi dii, e quelle immagini che li rappresentano.
Nei giorni solenni la moltitudine si raduna nel tempio. Molti Galli, e gli uomini che dissi addetti
al culto sacro, celebrano le orgie, sintaccano le braccia, si percuotono lun laltro il dorso, mentre
parecchi altri suonano flauti, picchiano timpani, cantano sacre ed ispirate canzoni. Tutto questo
fassi fuori del tempio, e queste persone non entrano nel tempio. In questi medesimi giorni si
castrano e diventano Galli. Mentre quella moltitudine suonano e celebrano le orgie, parecchi sono
presi da furore; e taluno che venne pure a vedere la festa infuriò anchegli, e fece come gli altri. Ed
ecco quel che fanno. Il giovane che va in furore, gettate via le vesti, con grandi urli si fa piazza, e
piglia un coltello. Ma io credo che per parecchi anni è disposto a questo. Pigliato adunque il
coltello, subito tagliasi, e corre per la città, e porta in mano ciò che ha tagliato. In quale casa lo
getta, da quella riceve una veste femminile, e tutto l ornamento da donna. E questo fanno nel
castrarsi. I Galli che muoiono non hanno sepoltura come gli altri, ma quando muore un Gallo, i
compagni lo pigliano su le spalle e lo portano nei sobborghi. Quivi depostolo col feretro in cui
lhanno portato, sopra vi gettano pietre: e fatto questo, se ne tornano; guardandosi per sette giorni di
entrare in sagro, e se ventrano prima, commettono empietà. E per questo ci hanno alcune leggi. Se
uno di loro vede un morto, per quel giorno non entra in sagro: laltro dì, poi che sè purificato, ventra:
i parenti del morto debbono stare trenta giorni, poi si radono il capo, ed entrano: prima di far
questo, l entrare è vietato.
Sacrificano e tori, e vacche, e capre, e pecore: dei soli porci, credendoli immondi, non fanno
sacrifizio nè mangiano: altri poi non li credono immondi ma sacri. Tra gli uccelli la colomba pare a
loro una cosa santissima, da non poterla neppure toccare, e se involontariamente la toccano, si
tengono maladetti per quel giorno. Epperò le colombe abitano con loro, ed entrano nelle stanze, e
van pascolando per terra.
Ora dirò quel che fanno coloro che vengono alla festa. Quanduno giunge nella città Sagra, prima
si rade i capelli e le sopracciglia; poi immolata una pecora, ne fa le carni in pezzi, e ci banchetta.
Stende a terra il vello, sovresso singinocchia, e si mette sul capo suo il capo ed i piedi della pecora;
poi fa suo voto, e prega sia accetto il presente sacrifizio, e ne promette uno maggiore in appresso.
Compiuta questa cerimonia, si corona il capo, e incorona quanti sono venuti con lui. Quando esce di
casa sua per tutto il viaggio usa di acqua fresca per lavanda e per bevanda, e sempre giace a terra,
chè non gli è lecito di toccar letto prima di aver fornito il pellegrinaggio, e di essere tornato a casa.
Nella città Sagra è ricevuto da un ospite, che ei non conosce; perchè quivi sono stabiliti ospiti per
ciascuna città, e accolgono in casa quelli duno stesso paese. Questi dagli Assiri sono chiamati
maestri, perchè insegnano ogni cosa ai forestieri. Fanno il sacrifizio non nel tempio; ma quando uno
ha presentata la vittima allara, e fatte le libazioni, la rimena viva a casa, e quivi fa il sacrifizio e le
preghiere. Usano ancora unaltra maniera di sacrifizio, ed è questa: coronano le vittime consacrate, e
le gettano giù dal vestibolo: e quelle cadono e muoiono. Alcuni vi gettano i loro figliuoli, non come
fanno le bestie, ma messili in una bisaccia, li spingono con mano, e in così fare dicono per loro
istrazio che non sono loro figliuoli, ma bovi.
Tutti si stimmatizzano, quali su le mani, quali sul collo: epperò tutti gli Assiri portano gli
stimmati. Hanno ancora unaltra usanza, che tra i Greci lhanno i soli Trezenii: e dirò quale è. I
Trezenii hanno una legge, che le vergini ed i garzoni non possono altrimente andare a nozze, se
prima non si tagliano le chiome in onore dIppolito: e così fanno. Or questa stessa usanza è nella
città Sagra. I giovani offrono la loro prima barba: ed ai garzonetti lasciano crescere per divozione i
capelli dalla nascita, e quando entrano in sagro, tagliano loro quei capelli, e postili in vaselli
dargento, ed anche doro, li appendono nel tempio, con una scritta che dice il nome di chi sono.
Questo feci anchio quando ero garzonetto; e nel tempio stanno ancora i miei capelli col mio nome.
LXXII.
ENCOMIO DI DEMOSTENE.
Licino e Tersagora.
Passeggiando io nel portico, nella parte sinistra quando sentra, il sedici del mese,(116) poco
innanzi mezzodì, incontro Tersagora. Forse alcuni di voi lo conoscono: è un piccoletto, naso
aquilino, biancastro, fatticcio. Vedendolo avvicinarsi, gli dico: Oh, poeta Tersagora, dove si va, e
donde?
Tersagora. Di casa qui, risponde.
Licino. Ed io: forse per passeggiare?
Tersagora. Appunto, ei dice; e ne ho bisogno, chè stanotte mi sono levato prestissimo, ed ho
voluto nel natale di Omero offerirgli una poesia.
Licino. Fai bene, io dico, a rimeritare chi ti ha educato e nutrito.
Tersagora. Ed egli: E avendo cominciato a quellora, senza avvedermene mi sono trovato
mezzogiorno addosso. Però come tho detto ho bisogno di passeggiare un po. Ma prima vengo a
salutare costui. (E con la mano additava Omero: sapete certamente quella statua, che sta a destra nel
tempio dei Tolomei, coi capelli lunghi.) Vengo adunque a salutarlo, e pregarlo di concedermi larga
vena di versi.
Licino. Se fosse per preghiere, risposi, da un pezzo vorrei anchio importunar Demostene di
aiutarmi un po nel natale suo. Se dunque bastasse il pregare, io mi unirei teco: santi ci sono per
tutti.(117)
Tersagora. Io per me, dissegli, la vena con cui ho poetato stanotte e stamane debbo ascriverla ad
Omero. Ci ho avuto un estro divino: ne giudicherai tu stesso. Chè a posta ho portato meco questo
scritto, se scontravo qualche amico sfaccendato. E credo che tu sia quello, e non abbi nulla da fare.
Licino. Ti sei assicurato tu, gli risposi, ed ora fai come colui che aveva vinta la corsa lunga, il
quale spolveratosi, e godendosi il resto dello spettacolo, voleva chiacchierare con un lottatore che
stava per essere chiamato alla lotta. E quei gli disse: Quando eri tu alla sbarra non chiacchieravi.
Così mi sembri tu che vincitore nella carriera poetica, ti vuoi divertire con un pover uomo che teme
il cimento dello stadio.
Tersagora. Ed ei ridendo: Come se tu dovessi fare unopera delle più difficili!
Licino. Forse, dissio, a te pare che Demostene in paragone di Omero sia piccolo argomento dun
discorso. Ora vai superbo che tu hai lodato Omero; e per me Demostene è piccola cosa e niente?
Tersagora. Mi calunnii, rispose: son tutti e due grandi, ed io non farei differenza tra loro,
sebbene io sono più portato per Omero.
Licino. Bene: e non vuoi che io per Demostene? Ma giacchè tu non disprezzi il discorso per
largomento; egli è chiaro che tu pregi solamente lopera del poeta, e tieni per nulla quella
delloratore, come cavaliere che guarda e passa innanzi ai fanti.
Tersagora. Non sarei sì pazzo, no; benchè una buona dose di pazzia abbisogni a chi va alle porte
della poesia.
Licino. Bisogna anche ai prosatori un certo estro, se non vogliono parere meschini ed inetti.
Tersagora. So questo: e spesso mi piace di mettere a paragone gli altri oratori e Demostene con
Omero, per la forza, per la acerbità, per lentusiasmo. Così, per esempio, quel Briaco marcio,(118) e
quegli ebbri ed osceni dimenamenti di Filippo;(119) quel verso, Ottimo auspicio e solo È il morir
per la patria(120) e quelle parole, I forti uomini debbono mettersi alle belle imprese con animo
confidente:(121) quellaltro verso:
Oh che dolor ne sentirebbe il vecchio
Peleo di cocchi agitator:(122)
e quelle altre parole, Quanto mai gemerebbero quei forti che per la gloria e la libertà
morirono.(123) Io paragono il risonante fiume di Pitone,(124) e le parole di Ulisse come nevi
invernali;(125) quel verso:
Se mai senza vecchiezza e senza morte
Ci fosse dato il vivere,(126)
e quella sentenza, Tutti gli uomini hanno a finire con la morte, ancorchè uno si tenga serrato in una
stia.(127) E in mille altri luoghi si scontrano i pensieri. Mi piace ancora di osservarne le parti
affettuose, le descrizioni, i parlari figurati, quella varietà che toglie la sazietà, quel tornare al
proposito dopo le digressioni, quellacconcezza ed opportunità de paragoni, quella maniera forbita
ed elegante in ogni cosa. E spesso mi è sembrato (a dirtela schietta come la sento) più dignitoso
Demostene quando riprende lignavia degli Ateniesi, e scioglie lo scilinguagnolo, come dicono; che
colui che chiamò Achive gli Achivi;(128) e con più forza e spirito ei rappresenta la tragedia delle
greche sventure, di colui che nel più caldo della mischia finge dialoghi, e con favole disperde la
foga dei combattenti.(129) Spesso ancora i periodi di Demostene per misura, e ritmo, e piedi vanno
non senza una certa vaghezza poetica; e, siccome Omero, non manca di contrapposti, di
rispondenze, di arditezza di figure e di eleganza. Ei pare che per natura tutte le virtù si raccolgano
nei grandi ingegni. Come dunque io dispregerei la tua Calliope, di cui riconosco questi pregi?
Nondimeno lo sforzo che io debbo fare a lodare Omero, io tengo che sia doppio del tuo a lodar
Demostene, non per i versi, ma dico pel subbietto; perchè io non ho un solido piedistallo(130) per
porvi sopra il mio encomio, se non pure la poesia; essendo incerta ogni altra cosa, e la patria, e la
schiatta, e il tempo in cui egli visse. Che se ci fosse qualcosa di certo,
Non ne saria nel mondo sì gran lite;
dandoglisi per patria Colofone di Ionia, o Cuma, o Chio, o Smirne, o Tebe dEgitto, o altre mille
città; e per padre Meone di Lidia, o un fiume, e per madre Melanope, o una ninfa delle Driadi, per
mancanza di stirpe umana, e per il tempo in cui egli visse, quello degli eroi, o dei Gioni. E tanto non
si conosce certo letà sua, rispetto a quella dEsiodo, che preferiscono al nome ondè conosciuto
quello di Melesigene; e lo fanno povero o cieco. Ma sarebbe meglio lasciar tutte queste cose
nellincertezza in cui sono. Però lencomio mio è ben ristretto, lodar la poesia senza alcuna azione, e
andare spigolando sapienza nei versi. Ma il tuo è maneggevole, facile, piano, sopra nomi accertati e
conosciuti, come una torta bella e pronta che vuole da te il solo condimento. Quale cosa non grande
e non splendida la fortuna diede a Demostene? quale non conosciuta? Non gli fu patria Atene, la
leggiadra, la celebrata, la colonna di Grecia? Oh se avessi io per mano Atene, per poetica licenza
entrerei a parlar degli amori degli Dei, del giudizio di Marte, delle prime abitazioni, e del dono
dellulivo, e delle feste Eleusine. Delle leggi poi, e dei tribunali, e delle solennità, e del Pireo, e delle
colonie, e dei trofei marittimi e terrestri nessun uomo al mondo potria giungere a parlarne
convenevolmente, come dice Demostene. Però avrei soverchio di ogni cosa. E non crederei di
allontanarmi dallencomio, essendo regola che la lode della patria torna ad ornamento del lodato: e
così Isocrate nel suo panegirico di Elena vi messe Teseo. I poeti è gente liberissima: ma tu forse hai
paura che facendo sproporzionato il lavoro, non ti motteggino con quel proverbio, che la scritta è
maggiore del sacco. Lasciando Atene, viene nel discorso il padre suo Trierarca, e questo è vero
piedistallo doro, per dirla con Pindaro: chè allora non vera in Atene dignità più splendida di quella
dun trierarca. E se quei morì mentre Demostene era ancora fanciullo, lorfanezza non deve reputarsi
una sventura, ma un argomento di gloria, perchè svelò la nobiltà della sua indole. Di Omero quale
fu leducazione e gli studi non sappiamo dalla storia, e per tesserne le lodi dobbiamo subito porre
mano alla stessa opera sua, non avendo materia per dire come fu allevato, ed esercitato, ed
ammaestrato: e non posso neppure ricorrere al lauro dEsiodo, che ispira versi spontanei anche ai
pastori. Ma tu qui puoi parlar molto di Callistrato,(131) ed hai uno splendido catalogo di nomi,
Alcidamante, Isocrate, Iseo, Eubulide. Essendo in Atene mille piaceri che attirano i giovani anche
frenati dalla patria potestà, essendo letà giovanile facile a sdrucciolar nei diletti, ed avendo egli ogni
licenza di scapricciarsi per la trascuraggine de suoi tutori, non ebbe altro amore che quello della
filosofia e della virtù politica, e questo amore lo condusse alle porte non di Frine, ma di Aristotele,
di Teofrasto, di Senocrate, di Platone. In questo punto, o amico mio, puoi filosofare e dire che gli
uomini stanno tra due correnti di amore, luna dun certo amore marino, vaga, fiera, fluttuante
nellanima, marea di Venere volgare, dove ondeggia la gioventù impetuosa, cosa tutta marina; e
laltra corrente di amore celeste, attraimento di catena doro, che non porta insanabili dolori per ferite
di fuoco o di saetta, ma alla pura e schietta idea della bellezza spinge con certo sennato furore
quelle anime che sono
Più simiglianti a Giove e più divine,
come dice il tragico. Ad amore dunque tutto fu agevole, il tondersi, la spelonca, lo specchio, la
spada, articolar bene con la lingua, imparare lazione essendo già provetto, esercitar la memoria,
spregiare il frastuono, vegliare le notti continuando le fatiche del giorno. Per le quali cose chi non
vede che grande oratore è il tuo Demostene, denso e serrato di pensieri e di parole, e pure chiaro ed
efficace per ordine? splendido per magnificenza, impetuoso di spiriti, sennatissimo nel temperare le
parole ed i concetti, svariatissimo nel maneggiar le figure, unico tra gli oratori, come osò dire
Leostene, che ti presenta un parlare animato e martellato. Non come Eschilo che, al dire di
Callistene, scriveva le sue tragedie nel vino per concitare e riscaldare gli spiriti, non così
Demostene componeva i suoi discorsi bevendo vino, ma acqua; e però dicesi che su questo suo bere
acqua Demade scherzava e diceva che gli altri parlavano a misura di acqua,(132) e Demostene
scriveva bevendo acqua. Benchè a Pitea pareva nella splendidezza delle orazioni di Demostene
sentire lodore della notturna lucerna. E qui il tuo discorso si pareggia al mio per il subbietto, chè
non meno di te ho materia a ragionare su la poesia di Omero. Ma se tu passi ai benefizi che egli
fece, alla sua munificenza nelle ricchezze, e a tutto lo splendore della sua vita pubblica....
E così continuando stava per dire altro, quandio ridendo linterrompo e dico:
Licino. Tu massordi le orecchie, e mi ci rovesci le parole a secchioni, come un bagnaiuolo.
Tersagora. Sì, per Giove, seguitò: e ai pubblici banchetti, alle spese volontarie per le feste, alle
trierarchie, alle mura, al fossato, al riscatto dei prigioni, alle donzelle allogate, allottimo governo
della repubblica, alle ambascerie, alle proposte di leggi, e al gran numero dincarichi pubblici che
aveva addosso.....
Mi veniva a ridere di lui che aggrottava le sopracciglia, e temeva di non isbagliare il conto delle
opere di Demostene; e gli dissi:
Licino. Credi tu, mio caro, che solo io tra quanti ne siamo invecchiati nellarte oratoria, non abbia
le orecchie piene delle azioni di Demostene?
Tersagora. Ma per quel discorso abbiamo bisogno dun qualche aiuto, come tu stesso dicevi,
perchè non ti accada contrario effetto, che trovandoti in mezzo ad una gran luce, tu non possa mirar
fiso in quello splendore glorioso di Demostene. Anche a me fece un effetto simile Omero da prima:
per poco non mi scuorai e mi levai dallimpresa, come impotente a rimirare nel mio subbietto: poi,
non so come, mi son riavuto, e mi pare che a poco a poco mi sono assuefatto a riguardarlo, e non
rivolgendo gli occhi dal sole, non posso essere provato prole bastarda dellaquila omerica. Ma il
fatto tuo a me pare sia molto più facile del mio. Perchè la gloria dOmero, come quella che deriva
dalla sola facoltà poetica, deve necessariamente abbracciarsi tuttaquanta. Ma tu, se volgi lanimo a
tutto Demostene, ti troverai impacciato donde muovere il discorso, non sapendo a qual cosa
attendere prima; come interviene ai ghiotti nelle mense siracusane, o a quei che sono vaghi di udire
e di vedere, e si trovano in mezzo a mille cose che allettano ludito e la vista, ed essi non sanno a
quale appigliarsi, e vogliono e disvogliono continuamente. Così anche tu, credo io, devi saltare qua
e là , non sapendo a quale cosa fermarti in mezzo a tante che ti attirano, lingegno grande, limpeto
focoso, la temperanza della vita, il nerbo delleloquenza, la fortezza nelle azioni, il disprezzare molti
e grandi guadagni, la giustizia, lumanità, la fede, la prudenza, il senno, e ciascuna delle molte e
grandi sue imprese politiche. Forse dunque vedendo di qui decreti, ambascerie, concioni, leggi, e di
qui spedizioni, Eubea, Megara, la Beozia, Chio, Rodi, lEllesponto, Bisanzio, non hai dove volger la
mente, essendo confuso in tanta abbondanza di ottimo. Come Pindaro rivolgendo a molti subietti la
mente, dubitava dicendo:
Ismene, o Melia dal pennecchio doro,
O Cadmo, o degli Sparti il popol sacro,
O Tebe dalla cerchia nereggiante,
O la forza audacissima dAlcide,
O pure il rallegrante onor di Bacco,
O della bianchibraccia
Armonia le nozze inneggeremo?(133)
Così anche tu pare che dubiti, se la parola, o la vita, o leloquenza, o la filosofia, o larte di guidare il
popolo, o la morte di questuomo devi inneggiare. Non vè modo alcuno per guardarti dal divagare:
ma a qualunque di queste cose tu ti appigli, per esempio alla sola eloquenza, puoi farne argomento
del tuo discorso. Non ti basta neppure se la paragoni a quella di Pericle. Di costui sappiamo per
fama che fulminava, tonava e lasciava nellanima il pungiglione della persuasione; ma non leggiamo
la sua eloquenza, segno che oltre di quella appariscenza non aveva niente di solido, e che potesse
durare alla pruova ed al giudizio del tempo: e quella di Demostene.... ma lascio dirlo a te, se
tappigli a questa. Se poi ti volgi alle virtù dellanimo ed alle pubbliche imprese, ti basta scegliere
una qualunque per ragionarne: o pure due o tre al più, se vuoi aver materia più abbondante; chè
tutte quante sono splendidissime. E noi, lodando non il tutto ma una parte, seguitiamo lesempio di
Omero che loda gli eroi da una delle parti del corpo, dai piedi, dal capo, dalla chioma, o dagli
ornamenti che portano e dagli scudi; e gli Dei stessi non ebbero a male di essere celebrati dai poeti
per la conocchia, per le saette, per legida, non che le parti del corpo e dellanimo. Pei benefizi poi
non è possibile narrarli tutti. Dunque neppure Demostene si dispiacerà di essere lodato per un solo
de suoi pregi; chè per tutti neppure egli basterebbe a lodare sè stesso.
Mentre Tersagora così parlava, io gli dissi:
Licino. Credo che tu per volermi dimostrare che non sei solo un valente poeta, ti sei allargato a
parlar di Demostene, paragonando la prosa alla poesia.
Tersagora. Anzi per mostrarti la facilità dellopera tua, mi sono spinto a tracciarti uno schizzo del
discorso, affinchè tu avendoci un po daiuto, volessi ascoltarmi.
Licino. Sappi che non hai fatto alcun pro. E bada che non hai fatto peggio, e cresciuta la
difficoltà.
Tersagora. Saria un bel rimedio, a quanto tu dici.
Licino. Perchè tu non sai la difficoltà mia presente; e a guisa di medico che non conosce la parte
malata, ne curi unaltra.
Tersagora. E come mai?
Licino. Tu hai voluto rimediare a difficoltà che impaccerebbero uno che si mette la prima volta
ad un discorso di questi; ma le sono già svanite da anni assai. Onde il tuo rimedio è vieto.
Tersagora. E però è buono: chè il rimedio è come la via, la più sicura è la più usata.
Licino. Eppure io mi ero proposto il contrario di quello di cui menò vanto Annicero di Cirene
innanzi a Platone ed ai discepoli. Il Cireneo per mostrare la sua perizia nel guidare il carro, fece
molti giri intorno lAccademia, tutti su la stessa rotaia, senza uscirne affatto, per modo che lasciò a
terra la traccia dun solo giro. Io intendo di fare lopposto, scansar le rotaie. E non credo sia molto
facile aprirsi novelle vie, scostandosi dalla battuta.
Tersagora. Allora è savio lespediente di Pausone.
Licino. E quale? io non lo conosco.
Tersagora. Contasi che Pausone pittore ebbe la commissione di dipingere un cavallo che si
voltolava per terra, ed ei lo dipinse che correva, e con molta polvere intorno. Mentre ei dipingeva,
sopraggiunse colui che glielaveva commesso, e vedendo, si lagnò perchè non laveva ordinato così.
Allora Pausono comandò ad un garzone di voltare sossopra la pittura, e fargliela vedere: e così il
cavallo veduto daltro modo parve giacere rivoltato.
Licino. Sei dolce di sale, o Tersagora mio, se credi che io per tanti anni mi sono ingegnato a
voltarla per un verso solo, e che mutando e rimutando tutti i versi e gli aspetti, non abbia temuto che
mi avvenisse il caso di Proteo.
Tersagora. Quale caso?
Licino. Diventare quel che egli diventò, quando cercava di nascondere laspetto umano: chè
mutatosi in tutti gli aspetti di belve, di piante, di elementi, infine per mancanza di altra forma da
pigliare, ritornò Proteo.
Tersagora. E tu ne vai storiando più di Proteo per isfuggire di ascoltarmi.
Licino. No, caro mio, questo no. Eccomi pronto ad ascoltarti, messo da banda quel mio pensiero.
Forse tu, quando ti sarai alquanto spensierito del tuo parto, potrai pensare un po anche ai miei
dolori.
Come dunque a lui piacque, sedutici ad un vicino pilastro, io ascoltavo, ed ei leggeva di molto
bei versi. Ma nel meglio, come un invasato, ripiega lo scritto e dice:
Tersagora. Eccoti il premio dellascoltamento, come in Atene si dà quello del parlamento e del
giudicamento.(134) Oh, tu me ne ringrazierai....
Licino. Ti ringrazio anche prima di sapere che cosa è. Ma che è cotesto che tu dici?
Tersagora. Mi capitarono le Memorie della casa reale di Macedonia, e avendo letto con piacere il
libro, non a caso lo comperai. Ora mi sono ricordato che lho in casa. Fra le altre cose vi sono scritti
alcuni particolari intorno ad Antipatro e intorno a Demostene: e credo che tu avrai piacere a udirli.
Licino. Ed io per questa buona novella da ora ti ringrazio, ed ascolto il rimanente dei versi: dipoi
non ti lascerò prima che non mi avrai adempiuta la promessa. Mhai dato uno splendido banchetto
nel natale di Omero, e pare me ne darai un altro in quel di Demostene.
Poi che dunque egli lesse il resto dello scritto, stati un po per dare le meritate lodi alla poesia,
andammo a casa di Tersagora; che voltò e rivoltò, e infine trovò il libro, che io presi, ed andai via.
Lettolo, mi parve bene di non mutarvi niente, ma con le stesse parole e nomi recitarlo a voi come
sta. Non si fa meno di onore ad Esculapio, se, non essendovi chi gli faccia nuove canzoni, gli si
cantano quelle di Alisodemo Trezenio e di Sofocle: e se in onore di Bacco non si fa più nuova
poesia di tragedie e di commedie, le già composte da altri non rendono meno gradito chi le fa ora
rappresentare, e vuole così onorare il dio. Adunque il libro, cioè la parte delle Memorie che
conviene al caso nostro,(135) e che è un dialogo, dice, come ad Antipatro fu riferito che era giunto
Archia. Questo Archia, se alcuno dei giovani nol sa, aveva avuto lincarico di prendere i fuggiti, con
lespresso comando di persuadere piuttosto che sforzare Demostene a venire dalla Calabria ad
Antipatro. Stava però Antipatro sospeso in questa speranza, ed aspettava ogni giorno Demostene.
Come dunque udì che Archia era tornato di Calabria, subito comandò che venisse a lui. Quegli
entrò, e disse.... ma il libro dirà il resto.
Archia. Sia lieto Antipatro.
Antipatro. E come non sarò io lieto, se mhai condotto Demostene?
Archia. Lho condotto come ho potuto: chè ti porto in unurna le reliquie di Demostene.
Antipatro. Oh! hai ingannato la mia speranza, o Archia. A che le ossa e lurna, se non ho
Demostene?
Archia. Quellanima, o re, non si poteva rattener con la forza.
Antipatro. Ma come non lo prendeste vivo?
Archia. Lo prendemmo.
Antipatro. Dunque morì in viaggio?
Archia. No, ma in Calabria, dove era.
Antipatro. Forse è avvenuto per vostra negligenza, che non gli aveste cura.
Archia. Ma non fu in poter nostro.
Antipatro. Che dici? Tu parli per enimmi, o Archia. Lo pigliaste vivo, e non lavete?
Archia. Il tuo primo comando non fu di non adoperare la forza? Benchè neanche la forza saria
stata niente. Infatti ci preparammo a fargliela.
Antipatro. Faceste male anche a prepararvi; chè forse egli morì per la vostra violenza.
Archia. Noi non lo uccidemmo; ma non persuadendolo ci era necessario adoperar la forza. Ma
tu, o re, che ne vorresti fare, se fosse venuto vivo? Certamente niente altro che ucciderlo.
Antipatro. Adagio, o Archia. Mi pare che tu non hai capito nè chi era Demostene, nè la mia
intenzione: e credi sia la stessa cosa trovare Demostene e cercare quegli sciagurati Imereo di Falero,
Aristonico di Maratona, ed Eucrate del Pireo, simili a precipitosi torrenti, uomini abbietti, che si
levano nei momentanei tumulti, e si gonfiano ad ogni piccola speranza di turbamento, ed indi a
poco cadono e vaniscono come i venticelli della sera: e quel perfido Iperide, quellamico no, ma
adulatore del popolo, quello che non si vergognò per adulare la plebe di calunniare Demostene, e
farsi ministro di ribalderie, delle quali si pentirono quegli stessi, cui egli aveva compiaciuto. Infatti
poco appresso a quella calunnia noi udimmo che Demostene fece un ritorno in patria più splendido
di quello di Alcibiade. Ma quel tristo non si arrestò, nè si vergognò di usare contro uomini già suoi
amicissimi quella lingua che per le sue tristizie gli doveva essere tagliata.(136)
Archia. Ma come? Tra i nemici nostri non era nimicissimo Demostene?
Antipatro. Non si cura tanto di diversità di opinione chi tiene per amico ogni animo integro e
saldo. Chè lonesto anche tra i nemici è onesto; e la virtù dovunque si trova è stimabile. Nè io sono
da meno di Serse che ammirò Buli e Sperchi spartani, e potendo ucciderli, li mandò liberi. E se mai
alcun uomo al mondo io ammirai, ei fu Demostene: io stesso due volte in Atene, benchè per poco
tempo, essendomi trovato con lui, e da altri essendone informato, lo ebbi in ammirazione per le sue
virtù politiche, non come altri potrebbe credere, per la sua eloquenza. Benchè Pitone(137) è niente a
petto a lui, e gli attici oratori poi sono un giuoco al suo paragone per la pienezza, il nerbo,
lacconcezza delle parole, per lesattezza dei concetti, per le dimostrazioni serrate, stringenti,
mirabili. Infatti ci pentimmo di aver convocati in Atene i Greci per redarguire gli Ateniesi,
essendoci confidati in Pitone, e nelle promesse di Pitone, e poi scontrammo Demostene e gli
argomenti di Demostene: non si poteva da noi stare a fronte a quella potenza di parola. Ma io
metteva questa in secondo luogo, considerandola come un istrumento: ed ammiravo Demostene per
la prudenza, pel senno, per unanima che stava salda sul retto cammino in tutte le tempeste della
fortuna, che non veniva mai meno per paura. E so che Filippo aveva la mia opinione intorno a
questuomo. Infatti una volta essendogli riferito che questi in Atene aveva detta unorazione che
fieramente lo mordeva; e risentendosi Parmenione, e rimandando qualche frizzo a Demostene,
Filippo gli disse: «O Parmenione, ha ragione Demostene di parlar così libero, perchè egli solo tra i
capipopolo della Grecia non è stato mai scritto nei registri delle mie spese. Eppure quanto avrei
voluto affidarmi più tosto a lui, che a quei marinari saccenti, ciascuno de quali vè scritto quanto si
piglia da me, danaro, legna, pedaggi, bestiami, terre, chi in Beozia, chi qui. Ma noi prenderemmo
piuttosto le mura di Bisanzio con macchine, che Demostene con oro. Io poi, o Parmenione, se un
Ateniese parlando in Atene antepone me alla patria sua, gli mando oro sì, amicizia no; e se uno per
amore alla sua patria odia me, io combatto contro costui come combatto contro una fortezza, un
muro, un arsenale, uno steccato, ma ne ammiro la virtù, e tengo beata la città che lo possiede.
Quello, non avendone più bisogno, volentieri lascerei perire: costui vorrei che fosse qui dalla parte
nostra, piuttosto che la cavalleria deglIllirii e dei Triballi, e tutti i soldati mercenari, perchè io non
pongo la forza delle armi sopra la persuasion del discorso e la gravità del consiglio.» Così egli a
Parmenione. E simiglianti discorsi fece con me. Essendo stato Diopite spedito da Atene con una
flotta, io era in pensieri, ed ei ridendo mi diceva: «E tu mi temi un capitano o unoste ateniese?
Eppure le triremi, il Pireo, gli arsenali sono per me un giuoco ed una baia. Che potria fare una gente
scarnascialante che vive tra sacrifizi, banchetti e cori? Se Demostene solo non fosse in Atene, io
avrei la città più facilmente che non ebbi i Tebani ed i Tessali, per inganno, per forza, per maneggi,
per danaro: ma ora egli solo vigila, ed è pronto ad ogni caso, e segue i nostri passi, e ad astuzie
contropone astuzie. Nè arti, nè maneggi, nè consigli nostri gli sfuggono: insomma questuomo è un
baluardo, è un propugnacolo che ci arresta, e non ci fa prendere tutto in una correria. Se fosse stato
per lui non avremmo preso Anfipoli, non terremmo Olinto, nè la Focide, nè le Termopili, non
saremmo padroni del Chersoneso, e delle contrade su lEllesponto. Ei risveglia quei suoi cittadini
svogliati e quasi per mandragora addormentati, e con la libera parola taglia e brucia per ispoltrirli,
poco curandosi di ciò che lor piace. Le pubbliche entrate che spendevansi nei teatri, egli trasferisce
allesercito; con savie leggi su la marina crea un navilio che per disordine era quasi distrutto: rialza
la dignità di cittadino prostrata e ridotta alla dramma ed al triobolo,(138) rimena quei tralignati ai
loro maggiori e ad imitare i fatti di Maratona e di Salamina; stabilisce leghe ed alleanze tra i Greci
per aiuto scambievole. A costui non puoi celarti, non ingannarlo, non comperarlo, più che il re de
Persi comperò Aristide. Costui dunque, o Antipatro, è a temere più di tutte le triremi, e di tutti li
ammiragli. Quello che per gli Ateniesi antichi erano Temistocle e Peride, ai moderni è Demostene,
emulo di Temistocle per senno, di Pericle per prudenza. Infatti egli col farsi udire acquistò loro
Eubea, Megara, le contrade su lEllesponto, la Beozia. E buon per noi, continuava egli, che gli
Ateniesi fanno capitani Carete, Diopita, Prosseno, e cotali altri, e si tengono Demostene in casa su
la tribuna, perchè se dessero a questuomo la piena balía delle armi, delle navi, degli eserciti, del
tempo, delle entrate, io temo che ei mi chiederebbe conto anche della Macedonia; se ora coi suoi
decreti combattendoci, accorre per ogni parte, previene, trova espedienti, raccoglie forze, spedisce
grandi flotte, ordina schiere, e mi tiene fronte per tutto.» Queste cose mi disse allora, e spesso mi
ripeteva Filippo, tenendo per un favore di fortuna che non comandava eserciti Demostene: i cui
discorsi come arieti e catapulte spinti da Atene scrollavano e rovesciavano i suoi disegni. E intorno
alla giornata di Cheronea, neppur dopo la vittoria egli rifiniva di dire a noi in quanto pericolo ci
aveva messo questuomo. «Benchè non contro la nostra aspettazione,(139) e per malvagità dei
capitani, e per contumacia dei soldati, e per inopinato colpo della fortuna che in molte imprese ci
aiutò, noi vincemmo; pure in quella sola giornata ei mi messe a pericolo di perdere il regno ed il
capo, avendo unite insieme le città più poderose, raccolte tutte le forze greche, tirati a mettersi in
quel cimento gli Ateniesi, i Tebani, gli altri Beoti, i Corinti, gli Eubeesi, i Megaresi, ed il fiore della
Grecia, ed avendomi impedito di penetrare nellAttica.» Questi erano i discorsi che ei continuamente
faceva di Demostene. Gli dicevano alcuni che egli aveva un grande avversario nel popolo ateniese.
Avversario mio è il solo Demostene, rispondeva; gli Ateniesi senza Demostene sono Eniani e
Tessali. E quando mandava ambasciatori ad una città, e gli Ateniesi gli mandavano contro altri de
loro oratori, in quellambasciata ei prevaleva: ma se vera Demostene, ei diceva: «Ambasceria fallita:
chè contro i discorsi di Demostene non si riporta vittoria.» Così Filippo: e noi che siamo in tutto da
meno di lui,(140) se noi avessimo preso un tale nome, che credi tu, o Archia? che lavremmo menato
qual bue al macello? o piuttosto lavremmo fatto nostro consigliero nelle faccende della Grecia e di
tutto il regno? Naturalmente io mi sentiva da prima inclinato a lui per le sue virtù politiche, e poi
anche per ciò che Aristotele ne diceva. Il quale ad Alessandro e a me soleva dire spesso, che fra
tanti che frequentavano la sua scuola in nessuno mai aveva ammirato tanta grandezza dingegno, e
perseveranza nello studio, e sodezza e prontezza di mente, e franchezza di parlare, e costanza. E
voi, diceva egli, lo pigliate per un Eubulo, un Frinone, un Filocrate;(141) e tentate di svolgere con
doni questuomo che ha consumato il patrimonio paterno per gli Ateniesi dando privatamente ai
bisognosi, e pubblicamente a tutta la città? Ed avendo sbagliato in questo, credete voi di atterrire un
animo da lungo tempo deliberato di correre ogni fortuna con la sua patria? E se ei si scaglia contro
ciò che voi fate, voi ve ne sdegnate? Ma ei non si sommette neppure al popolo ateniese. Voi non
sapete, soggiungeva, che egli per solo amore alla sua patria si è messo a governarla, si ha fatto del
governo un esercizio di filosofia. - Però, o Archia, io bramava tanto di conversare con lui, per
udirgli dire il suo giudizio su lo stato presente delle cose; e, se bisognava, allontanando gli adulatori
in cui sempre mi abbatto, udire la schietta parola di una mente libera, trovare un consiglio verace.
Ed una cosa ancora gli volevo far considerare, chi sono queglingrati Ateniesi, pei quali ei messe a
pericolo tutta la vita sua, potendo attenersi a più riconoscenti e costanti amici.
Archia. Tuttaltro, o re, forse avresti ottenuto, ma per questo avresti sprecato le parole: era pazzo
per Atene, e non vedeva più in là.
Antipatro. Così è, o Archia: e che gli avrei potuto dire? Ma come morì?
Archia. Forse anche di più, o re, lammirerai; perchè noi stessi che lo vedemmo, eravamo come
quelli che vedono stupiti o non credono.(142) Pare che da lungo tempo era così deliberato del suo
ultimo giorno: e lo dimostra lapparecchio che aveva fatto. Stava adunque dentro il tempio, e noi
invano nei giorni innanzi ci avevamo spese le parole.
Antipatro. E che gli dicevate?
Archia. Gli offerivo molte e grandi cortesie, gli promettevo la tua clemenza, non perchè me
laspettassi, chè non sapevo tutto questo, e credevo che tu per ira lo volessi avere in mano; ma
perchè mi pareva cosa utile a persuaderlo.
Antipatro. Ed ei come rispondeva a coteste parole? Non nascondermi nulla; chè io avrei proprio
voluto esservi presente per udirlo con le orecchie mie. Contami tutto minutamente: chè non è
piccola cosa conoscere il contegno dun uomo generoso sul finir della vita, se si abbassò e fiaccò, o
fino allultimo serbò costante lalterezza dellanimo.
Archia. Non si sommesse egli. Altro! Anzi sorridendo e motteggiandomi su la mia vita passata,
disse che io ero un cattivo commediante a rappresentar le tue farse.
Antipatro. Dunque perchè diffidò delle promesse lasciò la vita?
Archia. No; se udirai il resto, non ti parrà che solamente diffidò. Ma giacchè tu mi comandi, o
re, io tel dico. Disse: I Macedoni sempre fecero delle parole fango; e non è maraviglia se prendono
Demostene, come presero Anfipoli, e Olinto, e Oropo. E molte altre cose di queste diceva: ed io
commessi ad alcuni di scrivere le sue parole per recartele. Io, o Archia, ei diceva, non per timore di
tormenti e di morte non verrei al cospetto di Antipatro; ma, se è vero questo che voi dite, molto più
debbo io guardarmi di avere la vita in dono da Antipatro, e lasciare la parte de Greci pei quali ho
parteggiato, e passar in quella de Macedoni. Bella saria per me la vita, se me la offerisse il Pireo, e
la trireme che io diedi, ed il muro ed il fossato rifatti a mie spese, e la tribù Pandionide cui feci tante
spontanee larghezze, e Solone, e Dracene, e il franco parlar dalla tribuna, e un popolo libero, e i
decreti militari, e le leggi navali, e le virtù dei nostri maggiori, e le vittorie, e la benevolenza de
miei cittadini che spesso mi coronarono, e la potenza dei Greci da me finora salvati. Se dovessi
vivere per pietà, saria bassezza sì, ma saria meglio accettar la pietà dai parenti dei prigionieri che io
riscattai, dai padri delle fanciulle che io allogai, o da quelli che io dai debiti liberai. E se non può
salvarmi il magistrato di questa penisola(143) ed il mare, a questo Nettuno io chiedo di essere
salvato, ed a questo altare, ed alle sante leggi. E se pure Nettuno non può serbare inviolato lasilo del
tempio, e non ha vergogna di consegnar Demostene ad Archia, morirò, e non pregherò Antipatro
invece di questo Dio. Potevo io aver per amici più i Macedoni che gli Ateniesi, ed ora essere a parte
della vostra fortuna, se mi metteva nella stessa riga con Callimedonte, con Pitea, con Demade.
Poteva, benchè in tarda età, mutare animo, se le figliuole di Eretteo e Codro(144) non mi facevano
vergognare. No, se fortuna disertò, rimango io. Bel rifugio è morte che ci libera dal pericolo di ogni
turpitudine. Ed ora, o Archia, io per me non isvergognerò Atene, scegliendo volontario la servitù, e
rigettando un bellissimo lenzuolo mortuario, la libertà. E tu puoi ricordarti ben tu di quelle belle
parole della tragedia:
Ella mentre moriva pur badava
A cader con decoro.
Così una donzella:(145) e Demostene ad una decorosa morte preferirà una vita indecorosa,
dimenticando i detti di Senocrate e di Platone su lanima immortale?» E disse cose più amare
scagliandosi contro quelli che insolentiscono per la fortuna. Ma che più debbo io ridirti? Infine ora
con le preghiere, ora con le minaccie, mescevo il dolce e lamaro. Ed egli: «Mi arrenderei a questo,
se fossi Archia; ma perchè sono Demostene, lascia, o sciagurato, chi non è fatto per esser vile.»
Allora veramente, allora mi venne in mente di strapparlo fuori con violenza, e come ei se naccorse
sorridendo e guardando nel Dio, disse: «Parmi che Archia creda che solamente armi, e triremi, e
mura, ed eserciti sieno difese e rifugi alle anime umane, ei sprezza lapparecchio mio, che glIllirici
stessi, e i Triballi, ed i Macedoni non biasimerebbero, e che è più saldo di quel nostro muro di legno
che loracolo disse inespugnabile. Con questa antiveggenza io fui non timido cittadino, non timido
nemico dei Macedoni, non mi curai punto di Eutemone, nè di Aristogitone, nè di Pitea, nè di
Callimedonte, nè di Filippo allora, nè ora di Archia.» Poi soggiunse: «Non mi mettete le mani
addosso: per cagion mia non sarà violato il tempio: pregherò questo iddio, e verrò da me.» Io ero in
questa speranza, e vedendolo appressare la mano alla bocca, credevo non facesse altro che adorare.
Antipatro. E che fece egli?
Archia. Dipoi venimmo a sapere torturando unancella, che egli da molto tempo aveva in serbo
un veleno per morir libero. Non appena aveva varcata la soglia del tempio, e rivoltosi a me: Porta
questo ad Antipatro; Demostene no, non lo porterai, lo giuro.... e mi pareva che stesse per
aggiungere: per i caduti in Maratona. Disse vale, e spirò. E in questo modo, o re, io assediai e presi
Demostene.
Antipatro. Degno di Demostene anche questo, o Archia. Oh anima invitta e beata! che virile
proposito fu il suo, che politica antiveggenza tener pronta una sicuranza di libertà! Egli se nè ito a
vivere nelle isole de Beati insiem con gli eroi, o nel cielo per le vie dove vanno le anime, per
diventare un genio seguace di Giove Liberatore. Il corpo noi manderemo in Atene, ornamento a
quella terra più bello dei caduti in Maratona.
LXXIII.
IL PARLAMENTO DEGLI DEI.
Giove, Mercurio e Momo.
Giove. Non mormorate più, o Dei, non fate cerchielli bisbigliandovi allorecchio, e sdegnandovi
che molti senza meritarlo hanno parte nel nostro banchetto. Giacchè per questo sè chiamato
parlamento, dica ciascuno quel che gli pare, ed accusi ancora. Fa il bando, o Mercurio, secondo la
legge.
Mercurio. Udite, tacete. Chi tra gli schietti Dei, che ne hanno il diritto, vuol parlamentare? Si
delibera intorno ai nuovi venuti ed ai forestieri.
Momo. Voglio io Momo, o Giove; se mi permetti di parlare.
Giove. Il bando già te lha permesso: non hai bisogno di me.
Momo. Io dico adunque che il male lo fanno alcuni di noi, ai quali non basta che di uomini sien
diventati iddii, ma han menato qui un codazzo di servitori e di cagnotti e li han fatti eguali a noi, per
mostrare così che ei son grandi e valenti. I credo, o Giove, che mi si conceda parlar con franchezza:
chè altramente io non potrei: e tutti mi sanno che son libero di lingua, e non taccio quando vedo il
torto, ma taglio, e come la sento la spiattello senza rispetti per alcuno, e senza timore: però a molti
sembro acerbo e calunniatore per indole, e mi chiamano il pubblico accusatore. Ma poichè io nho il
diritto, ed è stato bandito, e tu, o Giove, mi permetti di parlar francamente, io parlerò senza niente
dissimulare. Molti adunque non contenti che essi entrano nel nostro consesso, e seggono al comune
banchetto, benchè sieno mezzo mortali, ci han condotto anche il loro servidorame e squadre di
danzatori; i quali si sono traforati tra i cittadini del cielo, ed ora si pigliano la parte loro de donativi
e de sagrifizi senza pagarci il tributo dei forestieri.
Giove. Lascia gli enimmi, o Momo, parla chiaro e tondo, e di anche i nomi: chè ora stai troppo
su i generali, e sei franteso da molti. Un franco parlatore deve dire netto ogni cosa.
Momo. Bene, o Giove, tu mi sproni a parlar franco: la fai veramente da re e da magnanimo: e sì
li dirò i nomi. Adunque questo gran prode di Bacco, questo mezzuomo, neppur greco per lato di
madre, la quale era nipote dun Cadmo mercatante della Sirofenicia, poichè fu fatto degno
dellimmortalità, io non dico chi egli sia, con quella mitra in capo, così briaco, e balenante; perchè
pensomi che tutti veggiate come è molle e infemminito, e mezzo furioso, e sente di vernaccia sin
dal mattino. Ma costui ci ha menata una tribù intera, ci è venuto traendosi dietro un coro, ed ha
indiati Pane, Sileno, e i Satiri, tutti villanzoni e caprai, che ballonzano, ed hanno facce da far
spiritare: tra essi colui che ha le corna, e dal mezzo in giù è simile ad una capra, ed ha sì gran barba,
è proprio un caprone sputato, quel vecchiotto calvo, col naso schiacciato, e quasi sempre
accavalcato a un asino, è Lidio: i Satiri poi con le orecchie puntute, calvi anchessi, e con certe
cornetta come quelle de cavretti testè nati, sono di Frigia. E tutti quanti hanno le code. Vedete che
razza di Dei ci ha regalati costui. E ci maravigliamo che gli uomini ci disprezzano vedendo iddii
così ridicoli e mostruosi? Non dico che ci ha condotto anche due donne, Arianna sua innamorata,
della quale ha messo la corona tra gli astri, ed una foresozza figliuola dun certo Icario. E la cosa più
ridicola è che anche il cane di costei, anche il cane di Erigone ci ha menato, affinchè la bimba non
stesse di mala voglia in cielo senza il caro cagnoletto che sera cresciuto con lei: e non vi par questa
una sozzura, una ridicola pazzia dubbriaco? Ma veniamo ad altri.
Giove. O Momo, non dir nulla nè dEsculapio, nè dErcole, chè io vedo dove ti traporta il
discorso. Luno risana e scaccia le malattie, ed egli solo vale per molti altri, ed Ercole essendo mio
figliuolo con grandissime fatiche sha acquistata limmortalità. Onde non dir male di questi due.
Momo. Mi starò zitto per amor tuo, o Giove, benchè abbia molto a dire del fatto loro, e
specialmente che essi sono ancora marchiati del fuoco. Oh se mi fosse lecito di rivedere un poco
anche i conti tuoi! direi due parole anche a te.
Giove. A me? lecitissimo. Forse maccuserai che ci son forestiero anchio?
Momo. In Creta dicono non solo questo di te, ma altre cose, e mostrano la tua tomba: ma io non
ho creduto mai nè ai Cretesi, nè agli Egiesi dAcaia i quali spacciano che tu sei un supposito. I conti
che voglio fare con te son questi. La prima origine di tutti questi sconci, la cagione per la quale sè
imbastardito il nostro concilio, sei tu, o Giove, che hai fatta comunella con le donne mortali, e per
mescolarti con esse, discendi giù or sotto una forma or sotto unaltra: e ci hai fatto stare in pensiero
che qualcuno non ti avesse preso quando eri toro, e non ti avesse sacrificato; o che quanderi oro un
orefice non tavesse squagliato e lavorato; e invece di Giove tu ci fossi divenuto una collana, una
smaniglia, o un orecchino. E così tu hai riempito il cielo di questi mezzi-dei, che io non so come
chiamarli altramente. Ma la cosa più ridicola è quando uno ode un tratto che Ercole è stato fatto
iddio, ed Euristeo, che lo comandava a bacchetta, è morto; e che son vicini il tempio dErcole che fu
servo, e la tomba dEuristeo che fu padrone. E così in Tebe Bacco è Dio; ed i suoi cugini Penteo,
Atteone e Learco sono i più disgraziati fra gli uomini. Da che tu, o Giove, hai aperte le porte del
cielo a costoro, e ti sei divertito con le donne, tutti han preso esempio da te, e si son divertiti non
pure gliddii maschi, ma per maggior vergogna anche le dee. Chè chi non sa dAnchise, di Titone, di
Endimione, di Giasione, e di tanti altri? ma lasciam questo discorso, che mi pare che puzzi, e saria
lungo assai.
Giove. Non mi dir niente di Ganimede; chè io mi sdegnerò teco, o Momo, se contristerai questo
fanciullo motteggiandolo su la sua nascita.
Momo. E non debbo dir niente neppure dellaquila, che anchessa è in cielo, e ti sta posata su lo
scettro reale, e per poco non ti fa il nido sul capo, e si tiene anchessa un dio? Ebbene zitto anche di
questo per un riguardo a Ganimede. Ma e Atti, e Coribante, e Sabazio donde son piovuti in mezzo a
noi, o Giove? donde quel Mitra col robone de Medi e con la tiara, che non intende parlar greco, e
non capisce neppur quando gli si fa un brindisi? E però vedendo tanta larghezza per costoro, gli
Sciti ed i Geti ci hanno piantati, ed essi stessi immortalano e divinizzano chi piace a loro, come quel
Zamolchi che è un servo, e sè intruso tra noi non so come. Eppure passi anche questo: ma tu che hai
faccia di cane, tu, o Egiziano vestito di pannilini, chi se tu; e come ti tieni dio, e latri? E che vuole
questo toro tutto chiazzato, che in Memfi è adorato, rende oracoli, ed ha sacerdoti? Mi vergogno a
dire deglibi, delle scimmie, dei caproni, e di altri più ridicoli iddii, dagli Egiziani non so come
ficcati nel cielo, ed i quali voi, o Dei, come li potete patire, vedendoli adorati quanto voi, anzi più di
voi? E tu, o Giove, come stai, dacchè ti è nato un paio di corna di montone?
Giove. Queste cose che tu dici degli Egizii son veramente brutte; ma, o Momo, molte di esse
sono enimmi, e non deve deriderle chi non vè iniziato.
Momo. Sì davvero, o Giove, dobbiamo essere iniziati per sapere che gli Dei son Dei, e i
cinocefali son cinocefali.
Giove. Lascia stare, ti dico, le cose degli Egizii: ne discorreremo unaltra volta a nostro agio.
Parla degli altri.
Momo. Sì, di Trofonio, o Giove: ma colui che non posso proprio patire è Amfiloco, il quale
essendo figliuolo di scelleratissimo matricida, rende oracoli in Cilicia, infinocchiando la gente, e
vendendo sue bugie a due oboli luna. O Apollo mio, tu non conti più: chè già ogni pietra, ed ogni
ara dà responsi, purchè sia unta dolio, ed abbia qualche corona di fiori, ed un impostore che si
spacci profeta; e ce ne ha tanti! Già la statua dellatleta Polidamante in Olimpia, e quella di Teagene
in Taso guariscon dalla febbre: in Ilio si sacrifica ad Ettore, e a Protesilao nel Chersoneso
dirimpetto. Dacchè noi ci siam tanto moltiplicati, gli uomini hanno moltiplicati gli spergiuri e i
sacrilegii, non ci curano più un fico, e fanno bene. E basti di questi bastardi imbrancati tra noi. Ma
io odo ancora molti strani nomi di tali che non sono tra noi, e che non possono affatto sussistere, e
ben me ne rido, o Giove. Chè dovè la Virtù, di che si fa un tanto parlare, e la Natura, ed il Fato, e la
Fortuna, nomi di cose insussistenti, vuoti di senso, inventati da quelle zucche che si dicon filosofi?
E benchè le son parole uscite a caso, pure sono tanto entrate in capo agli sciocchi, che non cè più un
cane che ci faccia sacrifizii, essendo persuaso che quandanche ci offerisse mille ecatombi, la
Fortuna farà sempre quel che è fatato e filato a ciascuno fin da principio. Dimmelo tu, o Giove, se
hai veduto mai la Virtù, la Natura, il Fato: perchè credo che anche tu odi questi nomi nelle dispute
dei filosofi, i quali schiamazzano sì forte che saresti sordo a non udirli. Ma basta qui, sebbene avrei
qualche altra cosa nel sacco: perchè vedo che molti mi fanno il viso dellarmi, e mi fischiano,
specialmente quelli ai quali il mio franco parlare allega i denti. Infine, o Giove, intorno a tutti questi
inconvenienti io ho compilato un decreto, e se tu vuoi, lo leggerò.
Giove. Leggilo: in molte cose hai ragione: ed ei bisogna contenere questi disordini, per non farli
più crescere.
DECRETO.
Che venga bene a tutti. Il parlamento legalmente ragunato nel settimo giorno del mese, essendo
Giove pritano, Nettuno proedro, ed Apollo epistato, Momo figliuol della Notte compilò, ed il Sonno
recitò questo decreto:(146)
Considerando che molti forestieri, non pur Greci ma barbari, immeritamente e furtivamente si
trovano scritti cittadini nostri, e tenendosi per Dei, hanno riempito il cielo, per modo che il nostro
banchetto è una confusione di gente, un frastuono di lingue e dorribili favelle. Considerando che è
venuta a mancare lambrosia, ed il nettare costa una mina il cotilo per il gran numero de bevitori.
Considerando che la costoro baldanza è cresciuta a segno di voler discacciare dai primi seggi gli
Dei antichi e veraci, e sedervisi essi contro ogni diritto e legge, e di volere essi più di tutti essere
onorati su la terra: Il Senato ed il Popolo decreta: Convocarsi parlamento in Olimpo al solstizio
dinverno, per eleggere arbitri sette Dei veraci, tre del vecchio senato sotto Saturno, e quattro dei
dodici, tra i quali Giove. Questi arbitri sederanno, dopo di aver giurato il legale giuramento per
Stige: e Mercurio per bando chiamerà tutti coloro che pretendono di appartenere al consesso degli
Dei, a comparire con testimoni giurati, e titoli di famiglia. Si presenteranno uno per volta: e gli
arbitri, considerata ogni cosa, o li dichiareranno dei, o li rimanderanno giù a riporsi nei loro sepolcri
e nelle urne gentilizie. Se alcuno degli scartati dagli arbitri tenterà risalire in ciclo, sarà subissato
nel Tartaro. Di più ciascuno dovrà fare larte sua: Minerva non far più la medichessa, nè Esculapio il
profeta, nè Apollo far tanti mestieri, ma sceglierne uno solo, o lindovino, o il citarista, o il medico.
Sarà comandato ai filosofi di non inventare nomi vuoti, nè spropositare di cose che non sanno. Dai
templi e dagli altari di questi spodestati saranno tolte le statue loro, e invece messevi quelle di
Giove, di Giunone, di Apollo, o di alcuno degli altri: ad essi la loro città può fare un tumulo, con
sopra una colonna invece di ara. Chi non vorrà ubbidire al bando e presentarsi agli arbitri sarà
condannato in contumacia.
E questo è il nostro decreto.
Giove. È giustissimo, o Momo. Chi lapprova alzi la mano: ma no, sia approvato; perchè so che
molti non lalzerebbero. Andate: ladunanza è sciolta. Quando Mercurio farà il bando, venite,
portando ciascuno pruove liquide, titoli specchiati, coi nomi del padre, della madre, della patria,
della tribù, e come e perchè è divenuto iddio. Se non son pruove lampanti, gli arbitri non terran
conto che uno ha un gran tempio su la terra, e dagli uomini è tenuto per dio.
LXXIV.
IL CINICO.
Il Cinico e Licino.
Licino. O tu, perchè hai barba e chioma, e non hai tunica, e nudo e scalzo meni vita salvatica a
guisa di bestia? A rovescio degli altri, adusi il tuo corpo a tutte le durezze, vai vagando qua e là, e
per corcarti su la nuda terra porti così sozzo cotesto mantello, che neppure è nè fine, nè morbido, nè
nuovo.
Il Cinico. Non ho bisogno che questo sia altramente; mi costa poco, mi dà pochi impacci, e
comè, mi basta. Ma tu dimmi un po: credi tu che la prodigalità sia vizio?
Licino. Sì.
Il Cinico. E la frugalità virtù?
Licino. Sì.
Il Cinico. E perchè dunque vedendo me che vivo frugalmente, e gli altri prodigamente, tu
biasimi me, e non quelli?
Licino. Perchè parmi che tu viva non più frugalmente degli altri ma miseramente, anzi sei
mancante di ogni cosa, e poverissimo. Non sei dissimile da quei mendichi che ogni dì vanno
accattando la vita.
Il Cinico. Vogliam vedere, giacchè siamo su questo discorso, che cosa è il mancante, e che il
sufficiente?
Licino. Come ti pare.
Il Cinico. Il sufficiente è ciò che basta ai bisogni di ciascuno: è altro forse?
Licino. Questo.
Il Cinico. Il mancante è ciò che non basta pel bisogno, ed è meno del necessario.
Licino. Sì.
Il Cinico. Dunque io non manco di niente, perchè ho ciò che basta ai miei bisogni.
Licino. Oh, come dici questo?
Il Cinico. Considera un po perchè son fatte le cose di cui abbiamo bisogno: per esempio la casa
non è fatta per ricoprirci?
Licino. Sì.
Il Cinico. E la veste? non è anche per ricoprirci?
Licino. Anche.
Il Cinico. E perchè abbiam bisogno di ricoprirci? non è per star meglio?
Licino. Mi pare.
Il Cinico. E ti pare che io stia peggio con questi piedi?
Licino. Non so.
Il Cinico. Te lo farò sapere io: qualè luffizio dei piedi?
Licino. Camminare.
Il Cinico. E ti pare che i piedi miei camminano peggio di quelli degli altri?
Licino. Questo no.
Il Cinico. Dunque non istanno peggio, se non adempiono peggio alluffizio loro.
Licino. Giusto.
Il Cinico. E non pare che i piedi miei sieno fatti peggio di quelli degli altri.
Licino. Non pare.
Il Cinico. E che? ed il mio corpo sta forse peggio degli altri? Se stesse peggio saria più debole,
perchè la forza è la virtù del corpo. Ora è debole il mio?
Licino. Pare di no.
Il Cinico. Dunque nè i piedi miei hanno bisogno di star coverti, nè le altre parti del mio corpo: se
navesser bisogno, starebbero male: perchè il bisogno è sempre un male, e rende peggiori le cose cui
sattacca. Nè pare che il corpo mio si nutrisca peggio, perchè si nutrisce di cibi così a caso.
Licino. Si vede.
Il Cinico. Nè sarebbe sano se si nutrisse male: perchè il cattivo nutrimento nuoce ai corpi.
Licino. Così è.
Il Cinico. Se dunque convieni meco su questi punti, perchè mi biasimi, disprezzi il mio modo di
vivere, e mi dici misero?
Licino. Perchè la natura, che tu onori, e gli Dei avendo fatta la terra per gli uomini, e facendo
nascer da essa molte e belle cose, affinchè noi avessimo non pure il necessario ma eziandio il
piacevole, tu di tutte queste cose o della maggior parte di esso, sei privo, o non ne partecipi più che
le bestie: perchè bevi acqua come le bestie, mangi ciò che trovi come i cani; dormi sovra un canile;
un po di paglia ti basta per letto; e porti un mantello che non staria bene neppure a un mendico. Se
contentandoti di questo ti pare desser savio, Dio è stato sciocco quando diede la lana alle pecore, il
dolce vino alle viti, quando ci diede sì mirabili varietà di condimenti, e lolio, e il mele, ed altri, per
farci avere cibi svariati, dolci bevande, comodità, soffice letto, bella casa, e tutte le altre cose
mirabilmente preparate per noi: perocchè anche le opere delle arti sono doni degli Dei. Chi vive
privo di tutti questi beni è misero, benchè ne sia privato da altri, come chi è in carcere: ma molto
più misero è chi se ne priva da sè, anzi egli è pazzo del tutto.
Il Cinico. Forse hai ragione. Ma dimmi un po: se un uomo ricco magnifico e liberale convitasse
moltissime genti, e forestieri dogni paese, ed ammalati e sani, ed essendo apparecchiata gran copia
di diverse vivande, uno de convitati arraffasse tutto, e mangiasse tutto non pure le vivande vicine,
ma le lontane e apparecchiate per gli ammalati, egli che è sano, ed ha un solo ventre, e può nutrirsi
di poco, e crepare pel troppo; quale ti parrebbe costui? forse uomo savio?
Licino. No certamente.
Il Cinico. Forse moderato?
Licino. Neppure.
Il Cinico. E se per contrario un altro convivante senza curarsi dei molti e vari cibi che sono su la
mensa, scegliendone uno che gli è vicino e basta al suo bisogno, ne mangiasse moderatamente,
senza toccare e neppur riguardare gli altri, non credi tu più moderato costui e migliore di quello?
Licino. Io sì.
Il Cinico. Intendi adunque, o debbo spiegarmi?
Licino. Che cosa?
Il Cinico. Che Iddio, simile a quel buon ospite, ci mette innanzi una gran quantità di cibi diversi
dogni paese, convenienti a ciascuno, ed ai sani ed agli ammalati, ed ai forti ed ai deboli, non
affinchè tutti usiamo di tutto, ma affinchè ciascuno usi di ciò che gli confà e gli bisogna. E voi
intemperanti ed insaziabili siete simili a quelluomo che si arraffa tutto, volete usare di tutte le cose
non solo nostrali ma forestiere; credete che non vi basti nè la terra nè il mare, e andate ai confini del
mondo a comperar piaceri; e sempre pregiate più le cose forestiere che le paesane, più le molto che
le poco costose, più le difficili che le facili a procacciare: insomma volete piuttosto aver fatiche ed
affanni che vivere tranquillamente la vita. Quella grande e fastosa apparenza, che voi credete
felicità, e di che tanto superbite, vi costa una grande infelicità e miseria. Considera un po loro tanto
desiderato e largento, considera i ricchi palagi, considera le vesti ricercate, e considera ancora
quante pene, quante fatiche, quanti pericoli costano, anzi quanto sangue, e morte, e distruzione di
uomini: chè non solo molti annegano nel navigare, e patiscono stenti nellandare cercando, e nel
fabbricare, ma si fanno grandi guerre, e gli amici insidiano agli amici, ed i figliuoli ai padri, e le
mogli ai mariti: come Erifile tradì il marito per un poco doro. Eppure tutte coteste cose sono così
fatte che le vesti dei più bei colori non tengono caldo più dellaltre, i dorati palagi non ricoprono
meglio, le tazze dargento non fanno più savorose le bevande, i letti doro e davorio non danno più
dolci sonni, anzi spesso vedrai su i letti davorio e su i preziosi tappeti gli uomini felici non poter
gustare stilla di sonno. E di più i cibi forestieri ricercati con tante fatiche non nutriscono meglio,
anzi rovinano i corpi, e vi cagionano molte malattie. Che dire poi di quante cose gli uomini fanno e
patiscono per i piaceri damore? Eppure è così facile soddisfare a questa passione, quando non si
vuole delicatezze! E neppure in questa si contentano gli uomini di mostrare la loro pazzia e
corruzione, ma stravolgono luso per cui naturalmente son fatte le cose, come colui che in vece di
carro usa di un letto come se fosse carro.
Licino. E chi è costui?
Il Cinico. Voi, che usate degli uomini come di giumenti, che fate loro portar sul collo quei letti a
guisa di carri, sovra i quali voi mollemente sdraiati e con le redini in mano, menate gli uomini come
i muli, facendoli volgere or di qua or di là; e chi più mena di questa pompa, più vi pare beato. E
coloro che usano delle carni degli animali non pure per cibarsene ma per tingere, come fanno i
tintori in porpora, non abusano essi delle cose che Dio fece ad altro uso?
Licino. Oh no per Giove! perchè la carne della porpora è buona a mangiare ed a tingere.
Il Cinico. Ma non fu fatta a questuso: così si potria sforzare allo stesso uso una tazza ed una
pentola, che sono fatte per usi diversi. Ma chi potria discorrere di tutte le stoltezze, che sono tante?
E tu mi biasimi perchè io non voglio parteciparne, e vivo come quel convivante moderato, contento
di ciò che ho innanzi, usando di cibi semplicissimi, non curandomi degli svariati e dei forestieri. Se
ti pare che io vivo come le bestie perchè ho pochi bisogni e pochi desiderii, vè pericolo che gli Dei
sieno peggiori delle bestie, secondo che tu ragioni, perchè non hanno bisogni affatto. Ma per
conoscere che differenza è tra laver pochi bisogni e laverne molti, considera come hanno più
bisogni i fanciulli che gli adulti, più le donne che gli uomini, più i malati che i sani: insomma chi è
da meno ha maggiori bisogni di chi è dappiù. Però gli Dei non ne hanno nessuno, e i più vicini agli
Dei ne hanno pochissimi. Credi tu che Ercole, il maggiore di tutti i mortali, uomo divino, e
meritamente tenuto dio, per miseria andasse vagando pel mondo così nudo, con indosso la sola
pelle del leone, e senza quelle cose che voi credete necessarie? Non era misero egli che liberava gli
altri dalle miserie, non era povero egli signore della terra e del mare, che con chiunque si scontrava
vinceva, che non trovò mai uno eguale a lui o maggiore finchè egli visse tra gli uomini. O ti sembra
che egli per manco di vestimenta e di calzari andasse così nudo e scalzo? No: egli era paziente e
temperante, voleva esser forte, e spregiava mollezza. E Teseo suo discepolo, non era re di tutti gli
Ateniesi, figliuolo di Nettuno, come dicevano, ed il più prode del suo tempo? Eppure anchegli volle
andare scalzo e nudo, e si piacque di portar la barba e la chioma. E non pure egli, ma tutti gli antichi
se ne piacquero, e quelli erano uomini migliori di noi; e nessuno di essi avria sofferto di farsi
radere, non altrimente che i leoni, perchè credevano che le carni rugiadose e morbide stanno bene
alle donne: essi, come erano, volevano parere uomini: e stimavano che la barba è ornamento
delluomo, come la criniera dei cavalli, e la giubba dei leoni, ai quali Iddio la diede per aggiunger
loro una bellezza, e così diede anche agli uomini la barba. Quelli antichi io seguo, e quelli voglio
imitare: ai presenti non invidio la mirabile felicità che godono per le mense, per le vesti, per pulirsi
e levigarsi tutte le membra del corpo, senza lasciar neppure le nascoste come la natura le ha fatte. Io
per me vorrei i piedi simili alle unghie dei cavalli, come li aveva Chirone; non aver bisogno di
coverte, come i leoni; nè daltro cibo che quello dei cani. Possa io avere tutta la terra per letto, il
mondo per casa, e per cibo ciò che è più facile a procacciare. Di oro e di argento possa non aver mai
bisogno nè io, nè alcuno degli amici miei: perchè dal desiderio di queste cose nascono tutti i mali
agli uomini, le nimicizie, le guerre, le uccisioni. La fonte donde scaturiscono tutti è il desiderio di
avere di più il quale sia lungi da me: non si accresca mai quello che ho, ma si diminuisca sempre
più senza mio rammarico. Questo desidero io, ed è ben altro di quello che desiderano gli altri. E non
è maraviglia che differiamo allaspetto, quando differiam tanto nelle dottrine. Ma mi maraviglio di
te, come credi che il citarista debba avere una certa veste ed ornamento, una veste il flautista, una
veste, per Giove, anche listrione; e non credi che luomo dabbene debba avere veste ed ornamento
suo particolare, ma comune agli altri, quando gli altri sono cattivi. Se bisognasse una veste
particolare agli uomini dabbene, quale altra converrebbe loro meglio di quella che gli uomini tristi
hanno più vergogna a portare e più detestano? Però il vestimento mio è questo, essere squallido,
essere peloso, avere un mantellaccio vecchio, farmi crescere i capelli, andare scalzo: il vostro è
simile a quello dei bardassi, e nessuno potria distinguervi da essi pel colore dei mantelli, per la
morbidezza di tante tuniche e tunichette, per le fogge onde le portate, per le scarpette, per
lacconciatura dei capelli, per gli odori che spandete. Sì voi odorate come essi, e specialmente i più
felici tra voi. Oh, che prezzo si daria dun uomo che manda odor di bardassa? Voi non sostenete più
di essi le fatiche, nè meno di essi i piaceri: come essi voi mangiate, vadagiate, camminate, anzi non
camminate ma vi fate portare come fardelli dagli uomini o dai giumenti. Io su i piedi miei vo dove
mi piace, io duro al freddo, sopporto il caldo, non mi lamento di ciò che è opera degli Dei, e sono
misero: voi poi che siete felici, voi non siete contenti di niente, vi lagnate di tutto, non volete
sopportare il presente, desiderate sempre ciò che è lontano: nel verno volete la state, nella state il
verno, nel caldo il freddo, nel freddo il caldo, siete difficili ed incontentabili come gli ammalati: ma
questi son tali per una malattia, voi per un mal vezzo. E voi volete correggere noi, e rimutarci
perchè male ci consigliamo nei fatti nostri, voi che siete inconsiderati del vostro proprio bene, ed
operate senza giudizio e senza ragioni, solamente per uso o per impeto di passione. E veramente voi
non siete affatto dissimili da quelli che traportati da un torrente vanno dove la corrente li trabalza, e
voi andate dove le passioni vi portano. A voi accade come a colui che montava un cavallo furioso:
portavalo in sua balía il cavallo, e correva, ed ei non poteva discenderne. Scontrandolo uno, gli
dimandò: dove vai? e quei rispose: dove vuole questo; e additò il cavallo. E se uno dimandasse
anche voi: dove andate? volendo rispondere il vero dovreste dire: dove vogliono le passioni, cioè
dove la voluttà, dove la vanagloria, dove la cupidigia del guadagno, dove la collera, dove il timore,
dove qualche altra passione vorrà trabalzarci. Che voi non montate sovra un solo cavallo, ma or
sovra questo or sovra quello, e tutti furiosi i quali vi portano a precipitare in un abisso, dove non
vaccorgete di cadere, sì vi cadete. Questo mantello che voi deridete, questa capigliatura, e questo
mio aspetto hanno la virtù di farmi vivere quieto, fare ciò che voglio, conversare con chi voglio:
nessuno uomo stolto o ignorante vuole avvicinarsi a me; gli effeminati, come mi vedono pur da
lontano, scantonano: solamente mi si avvicinano gli uomini sennati e dabbene ed amanti di virtù; e
con questi mi piace di conversare. Alle porte dei vostri grandi io non vado: le corone doro e la
porpora son fumo agli occhi miei, ed io mi rido di questi sciocchi. Per conoscere poi che questo mio
aspetto è conveniente non solo agli uomini dabbene ma agli Dei, e poi per riderne a tua posta,
riguarda le statue degli Dei; a chi somigliano, a voi o a me? E non solo nei templi de Greci, ma va a
riguardare nei templi dei barbari; gli Dei hanno barba e capelli come me, o nelle pitture e nelle
sculture son tonduti e rasi come voi? Ne vedrai anche molti senza tunica, come me. E dunque
ardirai più di dire che questo mio aspetto è brutto, quando sta bene anche agli Dei?
LXXV.
Il Pseudosofista non è tradotto. Vedi nel discorso proemiale le ragioni perchè si è lasciato.
LXXVI.
LAMICO DELLA PATRIA,
O
LINIZIATO.(147)
Triefonte, Crizia e Cleolao.
Triefonte. Che è questo, o Crizia? Tu sei tutto mutato. Con le ciglia aggrottate, solo e pensoso
vai di su e di giù, come un avaro di giallor tinto le gote, al dir del poeta. Hai forse veduto Cerbero
cane, o Ecate uscita dellOrco, o ti sei a posta scontrato in qualche iddio? Tu non saresti mai così, se
anche avessi udito che si sommerge il mondo, come al tempo di Deucalione. A te dico, o buon
Crizia: non mi odi che ti chiamo da un pezzo, e ti sto vicino? Sei in iscrezio con me? o sei
insordito? o vuoi che io ti pigli con la mano e ti scuota?
Crizia. O Triefonte, ho udito un grande e strano discorso, e in molte guise ravviluppato. Ancora
ripenso a quelle chiacchiere e mi turo le orecchie, per non udirne mai più, chè mi farebbero
ammattire, ed agghiacciare, e diventar favola ai poeti, come Niobe una volta. Sarei andato a
precipitar da una rupe pel capogiro, se tu, caro mio, non mi avessi chiamato; e si saria contato di me
il salto di Cleombroto dAmbracia.(148)
Triefonte. Oh, che grandi maraviglie ha dovuto vedere o udire Crizia, se nè tanto colpito!
eppure quanti invasati poeti, e quanti prodigiosi ragionamenti di filosofi non ti fecero colpo nella
mente, ma furono tutti una ciancia per te!
Crizia. Cessa un po, o Triefonte, e non più molestarmi; e io ti avrò caro e ti vorrò bene.
Triefonte. So che vai mulinando non piccola nè spregevole cosa, anzi una delle più arcane. Chè
quel tuo colorito, quel far locchio del porco, quel non trovar loco, e andare su e giù lo danno a
divedere chiaramente. Ma via ripiglia un po di fiato, vomita quelle chiacchiere, chè non tabbia a
venir qualche malanno!
Crizia. Scostati un miglio da me, o Triefonte, acciocchè lo spirito non ti levi in alto, e tu non paia
al popolo che vai per aria, e poi cascando nel mare non lo faccia chiamare Triefonteo, come già
avvenne ad Icaro. Le cose che ho udite da quei maladetti sofisti mi hanno fatto gonfiare tanto di
pancia.
Triefonte. Mi scosterò quanto vuoi: ma tu caccia e svapora quel malanno.
Crizia. Puh, puh, puh, puh quelle chiacchiere! Bah, bah, bah, bah quei scellerati disegni! ih, ih,
ih, ih quelle vane speranze.(149)
Triefonte. Diacine, che vento! ha voltate le nuvole! Ci era un buon zefiro che increspava le onde,
e tu ora ci hai messo Borea su la Propontide, sicchè per forza di funi le navi saranno tirate
nellEussino, per i cavalloni levati da cotesto vento.(150) Come dovevi aver gonfie le budella! che
borboglio e rimescolamento ti turbava il ventre! Hai dovuto avere orecchi per tutto il corpo per udir
tutto questo; ed avrai fatto il miracolo di udire anche per le ugne.
Crizia. Non è una maraviglia, o Triefonte, laver udito anche per le ugne, perchè tu sai che una
coscia diventò ventre, e un capo partorì, e una natura maschile si cambiò miracolosamente in
femminile, e femmine furono mutate in uccelli. Il mondo è pieno di miracoli, se vuoi credere ai
poeti. Ma giacchè scontrai te prima in questo luogo, andiamo dove quei platani fanno rezzo, e i
rosignuoli e le rondini cantano soavemente, acciocchè udendo quel dolce cantare, e il lieve
mormorio dellacqua, riconfortiamo un po lanima.
Triefonte. Andiamo, o Crizia. Ma io temo che le cose da te udite non sieno un incantesimo, che
faccia diventare anche me un pestello, o un chiavistello, o altra cosa inanimata, se in te ha prodotto
cotesto mirabile intronamento.
Crizia. Oh, per letereo Giove, questo non tavverrà.
Triefonte. Ora mi fai mettere più paura che hai giurato per Giove. Come potrà punirti, se tu
spergiuri? Tu sai a che è ridotto il tuo Giove.
Crizia. Che dici? Non potrà Giove sprofondare uno nel Tartaro? o ignori tu che egli scacciò tutti
gli Dei dalla magion celeste;(151) e che Salmoneo, il quale una volta ardì di tonare, egli lo sfolgorò,
come fa anchoggi sovra i ribaldi; ondè che dai poeti è chiamato Doma-Titani, e Stermina-Giganti,
specialmente da Omero?
Triefonte. Tu, o Crizia, hai toccato tutte le valenterie di Giove, ma se non ti spiace, odi
qualchaltra cosa. Non divenne costui cigno e satiro per lascivia, anzi anche toro? e se con quella
sgualdrinella sul dorso non si fosse fuggito subito per mare, forse qualche villano avria afferrato per
le corna e fatto arare il tuo Giove tonante e fulminante, che invece di fulminare sarebbe stato
pungolato col pungitoio. E poi quel banchettare con gli Etiopi, uomini neri e con la faccia oscura, e
per dodici giorni bevi e ribevi con loro, un dio con tanto di barba, non è una vergogna? Laffare
dellaquila e dellIda, e quellingravidare in tutte le parti del corpo, sono cose che io arrossisco anche
a dirle.
Crizia. Dunque, o caro, giurerem per Apollo, bravo profeta e medico?
Triefonte. Chi? quellimpostore, che già perdè Creso, e poi quei di Salamina, ed altri mille, dando
risposte a due manichi?
Crizia. Vuoi Nettuno? egli tiene in mano il tridente, e nella battaglia manda un grido acuto e
spaventevole quanto di nove o dieci mila combattenti, ed è chiamato ancora Scuotiterra.
Triefonte. Quelladultero, che sverginò Tiro figliuola di Salmoneo, e ancora se la tiene, ed è
protettore ed avvocato di queste brighe? Chè quando Marte fu preso nella rete, e stretto con Venere
da catene indissolubili, tutti gli Dei per lo smacco delladulterio tacevano, lequestre Nettuno
piangeva a tanto di lagrime, come i bimbi che temon i maestri, o le vecchierelle che vogliono
ingannar le fanciulle, e sollecitava Vulcano a sciogliere Marte: e quel povero sciancato per pietà
dun vecchio iddio che piangeva, liberò Marte. Onde anchegli è adultero, perchè salvò gli adulteri.
Crizia. Per Mercurio?
Triefonte. Vah, quel tristo servo del libidinosisimo Giove, anchegli matto fradicio di libidini?
Crizia. Marte e Venere so che non li accetti, perchè ora li biasimavi: e lasciamoli stare. Ora
nominerò Minerva, la Vergine, larmata e terribil Dea, che porta il capo della Gorgone sul petto, la
Dea sterminatrice dei giganti. Non hai che dire di lei.
Triefonte. Ti dirò anche di lei, se tu mi rispondi.
Crizia. Dimanda pure ciò che vuoi.
Triefonto. Dimmi un po, o Crizia, qual è lutile di quella Gorgone, e perchè la Dea la porta al
petto?
Crizia. Come una cosa che fa paura a vedere, ed allontana i mali, ed anche atterrisce i nemici, e
inclina la vittoria dove ella vuole.
Triefonte. E forse per ciò lOcchiazzurra è invincibile?
Crizia. Sì.
Triefonte. E perchè non a Lei che è difesa, ma a colei che ha la virtù di difenderla, noi non
bruciamo lombi di tori e di capre, acciocchè renda anche noi invincibili come Pallade?
Crizia. Oh la Gorgone non ha la virtù di giovare da lontano, come lhanno gli Dei; ma se uno la
porta, allora ella giova.
Triefonte. Ma che cosa è la Gorgone? Vorrei saperlo da te, che hai studiate queste cose, e
cavatone il netto: chè io non ne so altro che il nome.
Crizia. Ella fu una donzella leggiadra ed amabile, Perseo con inganno le tagliò la testa, ed
essendo un valente mago e di gran fama, incantò quella testa con certi incantesimi, e gli Dei la
tengono come un amuleto.
Triefonte. Questaltra bella cosa non sapevo ancora, che gli Dei hanno bisogno degli uomini. E
quandella era viva che arte aveva? Faceva la cortigiana allosteria, o trescava in segreto e
spacciavasi per pulzella?
Crizia. No, per lIgnoto Dio che è in Atene, ella rimase vergine finchè ebbe mozzato il capo.
Triefonte. E se uno taglia il capo ad una vergine, questo capo sarà uno spauracchio alle genti? Io
ne so le migliaia fatte a pezzi
In unisola posta in mezzo al mare,
E che chiamano Creta.(152)
E se io sapevo questo, o mio Crizia, quante Gorgoni ti avrei condotte da Creta, e ti avrei fatto
capitano invincibile: e i poeti e gli oratori avrebbero messo me più su di Perseo, perchè io avrei
trovate più Gorgoni. E mi ricorda ancora, a proposito de Cretesi, che essi mi additarono il sepolcro
del tuo Giove e le foreste che nutrirono la madre, così che esse selve rimangono sempre verdi.(153)
Crizia. Ma tu non sapevi lincantesimo e le cerimonie.
Triefonte. Se glincantesimi avessero tanta forza, o mio Crizia, potrebbero anche cavare i morti
dallorco al dolce lume: ma queste le son baie e ciance e fiabe di poeti. Sicchè lascia anche questa.
Crizia. E Giunone moglie e sorella di Giove non laccetti?
Triefonte. Oh, taci per quella sporchissima sozzura di costei: via scartala, gettala, e passa
oltre.(154)
Crizia. E per chi vuoi che io giuri?
Triefonte. Ecco:
Un Dio signor, grande, immortal, celeste;
figliuolo del padre, spirito procedente dal padre: uno da tre, e tre da uno: questo tieni per Giove, e
questo abbi per dio.
Crizia. Tu minsegni ad abbacare, ed un giuramento dabbaco. E sai dabbaco quanto Nicomaco
Geraseno.(155) Non intendo che dici, uno tre, e tre uno. Dici forse il quaternario di Pitagora, o
lottonario, e il trentenario?(156)
Triefonte. No, ma
Arcane cose, e di silenzio degne;
altro che misurar quanto salta una pulce! Chè io tinsegnerò che è luniverso, chi era prima
delluniverso, e come fu fatto luniverso. Da prima anche a me avvenne quello che ora a te; ma poi
che scontrai un Galileo calvo e nasuto, che in un viaggio aereo era stato nel terzo cielo, e vi aveva
imparate cose bellissime, egli per mezzo dellacqua ci rinnovellava, ci metteva su le orme dei beati,
e ci toglieva dalle vie degli empi. Ed io, se mi ascolterai, ti farò veramente uomo.
Crizia. Di pure, o dottissimo Triefonte; chè io ti seguo con rispetto.
Triefonte. Hai letto mai la commedia del poeta Aristofane, intitolata gli Uccelli?
Crizia. Sì.
Triefonte. Ivi è scritto così:
Prima era Cao, e notte, e negro Erébo,
E Tartaro vastissimo: nè terra
Vera, nè vera aëre, nè cielo.
Crizia. Bene: e poi che vera?
Triefonte. Era luce incorruttibile, incomprensibile che dissipò le tenebre, e scacciò questo
disordine con una sola parola che Egli profferì, come scrisse il balbuziente;(157) ed Egli assodò la
terra su le acque, distese il cielo, formò le stelle fisse, disegnò il corso a quelle altre che tu adori
come dii, adornò la terra di fiori, trasse luomo dal nulla allessere; e sta in cielo riguardando i giusti
e glingiusti, e scrivendo in libri le opere di ciascuno; e rimeriterà tutti nel giorno da lui stabilito.
Crizia. E i fili che le Parche filano a tutti, anche questi si scrivono?
Triefonte. Quali?
Crizia. Il destinato di ciascuno.
Triefonte. Parla tu, o buon Crizia, delle Parche; ed io ti sarò discepolo, e tascolterò.
Crizia. Non disse quel gran poeta Omero:
Nessuno al mondo si sottragge al fato?
E di Ercole disse:
Neppure il forte Alcide, neppure egli
Sfuggiva al fato; ed era sì diletto
Figlio di Giove re; ma lui domava
La Parca, e limplacata ira di Giuno.
Anzi tutta la vita, e tutti i casi di essa sono stabiliti:
Quivi poi
Quel fato avrà, che la severa Parca
Gli filò quando il partoria la madre.
e le dimore in terra straniera sono anche per volere del fato.
Giungemmo ad Eolo, che gentil mi accolse
E rimandò, ma non ancora il fato
Volea tornarmi alla diletta patria.
Sicchè il poeta affermò che tutto è sottoposto alle Parche: e Giove stesso non volle il figliuolo
sottrarre a spaventosa morte, ma piuttosto
Piovve stille di sangue ad onoranza
Del diletto figliuolo, a cui Patròclo
Già stava per dar morte innanzi a Troia.
Epperò, o Triefonte, tu non vorrai rispondermi nulla intorno alle Parche; quantunque forse ti sei
levato in alto con quel tuo maestro, e sei stato iniziato in quei misteri.
Triefonte. Ma come va, o buon Crizia, che lo stesso poeta dice essere doppio il fato e dubbioso,
cosicchè se fai la tal cosa ti spetta il tal fine, e se fai la tal altra ti spetta un altro fine? come di
Achille, che diceva:
Doppio è il mio fato e di morire il modo:
Se qui resto a pugnare intorno a Troia,
Perdo il ritorno, e avrò gloria immortale:
Se a casa vo, nella patria diletta,
Perdo la gloria bella, e la mia vita
Lunga sarà.(158)
Ed anche di Euchenore,
Che ben sapendo il suo funesto fato
Su la nave montò: chè tante volte
Gli avea predetto il buon vecchio Polide,
Chei struggeriasi dincrescevol morbo
Nelle sue case, o fra le navi Achee
Sotto il ferro di Troi morto cadria.(159)
Non sono queste parole scritte da Omero? o vi trovi dubbio, equivoco, inganno? Ma, se vuoi,
aggiungerò anche le parole di Giove. Non disse egli ad Egisto, che se si asteneva dalladulterio e
dallinsidiare ad Agamennone, gli era destinata una lunga vita; ma mettendosi a far questo, non
poteva tardare a morire? A questo modo anchio ho fatto spesse volte lindovino: Se ucciderai il
prossimo, morrai per mano della giustizia: se non farai questo, vivrai bene,
Nè morte acerba ti corrà per legge.(160)
Non vedi come non si può cavare costrutto dalle cose che dicono i poeti, i quali parlano sempre in
aria, e non mai sul sodo? Epperò lasciale tutte coteste cose, e così anche tu sarai scritto nei celesti
libri dei buoni.
Crizia. Conchiudi bene a proposito, o Triefonte. Ma dimmi una cosa: Anche le opere degli Sciti
sono registrate in cielo?
Triefonte. Tutte, se per caso vè qualche buono anche tra le genti.
Crizia. A quanto dici dovessere una gran segreteria in cielo per scriverle tutte!
Triefonte. Taci, e non parlare con irriverenza dun Dio sapiente; ma come catecumeno odi le mie
parole se vuoi vivere nei secoli. Se egli distese il cielo come un tabernacolo, assodò la terra su le
acque, formò gli astri, e creò luomo dal niente, che maraviglia è che sono scritte le opere di tutti?
Anche tu, se ti fabbrichi una casetta, e vi conduci serve e servi, non ti lasci sfuggire le loro minime
azioni: quanto più un Dio, che ha fatto il mondo, percorre con lo sguardo facilmente tutte le cose e
le opere, ed i pensieri di ciascuno! I tuoi dii sono divenuti un trastullo per gli uomini di senno.
Crizia. Dici benissimo: e mhai renduto il rovescio di Niobe; chè ero una colonna di pietra ed ora
comparisco uomo. Onde per cotesto Dio ti giuro che non avrai alcun male per cagion mia.
Triefonte. Se mi ami veramente di cuore, non mi ti far laltro da te, altro tenendo in cuore, altro
dicendo. Ma via contami le mirabili cose che hai udite, acciocchè ingiallisca anchio, e mi muti tutto
quanto, e non mi caschi la voce, come avvenne a Niobe, ma io diventi un uccello come il
rosignuolo, e vada flebilmente cantando pei fiorenti prati il tuo mirabile intronamento.
Crizia. Oh, pel figliuolo generato dal padre, questo non accaderà.
Triefonte. Di pure, ricevendo dallo Spirito la virtù di parlare. Io qui sederò.
Dalle labbra pendendo del Pelide
Finchè finisse il canto.
Crizia. Ero uscito su la via pubblica per farmi le spese necessarie, quando ti vedo gran gente che
pispigliavano tra loro, affollate per modo che gli uni attaccavano le labbra agli orecchi degli altri. Io
do unocchiata intorno, fo solecchio della mano alle sopracciglia, e vado sbirciando se ci vedo
qualche amico. E vedo Cratone, lufiziale pubblico, amico mio fin da fanciullo, e compagnone.
Triefonte. Lo conosco: il riscotitor delle tasse tu dici. Bene, e poi?
Crizia. Dando molte gomitate mi fo innanzi, e dicendogli il buondì della mattina, mi allogo
accanto a lui. In mezzo stava un omiciattolo, a nome Cariceno,(161) un vecchierello(162) che
russava col naso, aveva una tosse profonda, spurgava farfalloni, e lo sputo era più livido della
morte. E con una voce sottile così parlava: Costui, come innanzi dicevo, rilascerà gli arretrati(163)
dovuti ai riscotitori, pagherà i debiti ai creditori, e tutte le pigioni, e le spese pubbliche, ed
accoglierà i poveri cenciosi,(164) non cercando dellarte loro. E diceva altre chiacchiere anche più
sciocche: e la gente che stava intorno si compiacevano di quelle parole, ed erano tutti intesi a udire
quello strano discorso. Un altro a nome Clevocarmo,(165) con indosso una tonacella sbrandellata,
scalzo, e in zucca, rispose, applaudendo con una digrignata di denti: Uno mal vestito, venuto dalle
montagne, con la chioma rasa, mi ha mostrato a me il nome scritto nel teatro con lettere
geroglifiche, e mi ha detto che colui inonderà di oro le vie. Ed io: Secondo la dottrina di Aristandro
e di Artemidoro(166) cotesti sogni non dinotano bene per voi: ma tu avrai tanti debiti quanti ne
sognasti pagati; e tu che eri in mezzo a tanto oro non avrai neppure un obolo. Io credo che avete
dormito su la bianca pietra che copre linferno, e che di là vè entrata in capo una schiera di sogni:
come sognar tanto, se le notti sono sì corte? Scoppiarono tutti in una gran risata, e pareva che
affogassero delle risa, e compativano alla mia ignoranza. Onde io dissi a Cratone: Che? forse non
ho bene annasato ogni cosa, per dirla col Comico? non ho spiegato i sogni secondo Aristandro di
Telmissa e Artemidoro dEfeso? Ed egli a me: Taci, o Crizia. Se tieni la lingua, io ti spiegherò cose
misteriose, e che in breve saranno. Non sono sogni questi, ma verità, ed avverranno nel mese di
Mesori.(167) Avendo udito questo da Cratone, vergognandomi di quella scappata, e di mal umore
me nandava, mandando il canchero a Cratone. Ma uno che guardava guercio e a squarcia sacco
afferratomi per la veste, mi trattenne, istigato ed indettato da quel brutto vecchio a trovargli uditori.
Una parola tira laltra, costui persuade me poveretto di andare da queglimpostori, e incontrare una
mala giornata, come suol dirsi. Mi diceva che da costoro sarei iniziato in tutti i misteri. Entrammo
dunque per ferree porte e limitar di bronzo; ed essendoci aggirati per molte scale, salimmo in una
magion sfoggiata doro, come Omero chiama quella di Menelao. Ed io guardando per ogni intorno,
come il giovane isolano, vedo non Elena, ma certi figuri coi visi bassi e gialli. I quali vedendoci, si
rallegrarono, e ci si fecero incontro, e dimandavano se noi portavamo qualche trista novella. Era
chiaro che essi pregavano il male, e godevano delle cose funeste, come le furie sul teatro, e
ammusati fra loro susurravano non so che cosa. Poi mi dimandano:
Chi se tu? donde vieni? in qual paese
Nascesti? e quali furo i tuoi parenti?
a quanto pare devi essere uno dei buoni. Ed io: Pochi sono i buoni, a mio vedere, in ogni parte. Mio
nome è Crizia, e sono della stessa città vostra. Ed essi come se stessero su le nuvole mi
dimandavano: Che fanno nella città, e nel mondo? Risposi: Sono tutti lieti, e saranno lieti anche più.
Essi levando le sopracciglia e accennando di no: Non è così; perchè la città sta per partorire con
grandi doglie. Allora io secondo il loro umore: Voi che siete sì elevati, e che come da unaltura
guardate ogni cosa, voi chiarissimamente scorgeste anche questo. Ma e nellaere che si fa? Forse
secclisserà il sole, essendogli sotto la luna a perpendicolo? Forse Marte è in quadratura con Giove, e
Saturno è diametrale al Sole? Se Venere verrà in congiunzione con Mercurio figlieranno
ermafroditi, che a voi tanto piacciono?(168) rovesceranno giù piogge impetuose? copriranno la
terra di neve? manderanno la gragnuola, la golpe, e la peste e la fame? La cassa delle folgori è
piena? il serbatoio de tuoni rumoreggia? Ma quelli come se tutto fosse già riuscito a posta loro, si
deliziavano di quelle loro fanfaluche, e dicevano che le cose si muteranno, che disordini e tumulti
saranno nella città, e che gli eserciti saranno vinti dai nemici. A questo io turbato, e gonfiato come
elce che brucia, scoppiai così: O uomini sciagurati, non parlate male così, non arrotate i denti contro
prodi guerrieri cuor di lioni, che anelan lance, e spade, e crestati elmetti. Cotesti mali verranno in
capo a voi, che li augurate alla patria vostra. Forse andando per laere voi avete udite di tali cose, o
le avete apprese per profondo studio di matematica? Se poi profezie ed incantesimi ve le hanno dato
ad intendere, siete doppiamente stolti; chè queste sono trovati e fole di vecchierelle, e le
donnicciuole sciocche sogliono andare appresso a queste cose.
Triefonte. E a questo che risposero, o bravo Crizia, quei tonduti di conoscenza e
dintelligenza?(169)
Crizia. A tutto questo passarono per sopra, e ricorrendo ad un artifizioso trovato, risposero:
Abbiam digiunato per dieci giorni, abbiam vegliato salmeggiando per dieci notti, ed abbiamo fatti
questi sogni.
Triefonte. E tu che dicesti loro? Essi dicevano una cosa grave e dubbia.
Crizia. Oh, sta certo che risposi ben per le consonanze, e dissi: In città si buccina di voi, che
quando voi sognate vintervengono queste cose. Ed essi con un ghigno: Ci avvengono fuori di letto
questi sogni. Ed io soggiunsi: Se questo è vero, o eterei uomini, voi non potete mai rintracciare il
futuro, ma ingannati da voi stessi, ciancerete di cose che non sono e non saranno mai. E non so
come voi credete a sogni, e spacciate coteste frottole, abbominate le cose più oneste, e vi
compiacete delle scellerate, senza che punto vi giovi cotesto abbominio. Smettete coteste strane
fantasie, coteste intenzioni e predizioni malvage, acciocchè un Dio non vi muti in corvi per
limprecare che voi fate alla patria e spargere false predizioni. Allora tutti di un animo mi si
scagliarono addosso, e mi dissero cose assai: e, se tu vuoi, io aggiungerò quelle che mi fecero
rimanere come una colonna di pietra,(170) finchè le tue salutari parole non mi hanno riscosso, e di
pietra tornato uomo.
Triefonte. Taci, o Crizia, e non proseguir queste chiacchiere. Vedi come ne ho gonfia la pancia,
che sembro gravido. Le tue parole mi facevano leffetto dun morso dun cane arrabbiato; e se non
piglio un rimedio per dimenticarle, io non maccheto, e se me ne durerà la memoria mi farà un gran
male. Lascia adunque costoro, cominciando la preghiera dal padre, e sovra aggiungendo il cantico
di molti nomi.(171) Ma che è questo? Non è egli Cleolao, che viene a gran passi, e frettoloso scende
per qui? Vogliamo chiamarlo, o Crizia?
Crizia. Sì.
Triefonte. Cleolao, non correre, non passar oltre. Vieni qui; salute, se rechi qualche novella.
Cleolao. Salute ad entrambi, o bella coppia.
Triefonte. Che fretta è cotesta? tu aneli: è avvenuto qualche novità?
Cleolao.
Bassò le creste la superbia Persa:
Cadde Susa laltiera,
E degli Arabi tutta la contrada
Sotto la man del vincitor potente.
Crizia. Quanto è vero che
Sempre lo Ciel non abbandona i buoni,
Ma talvolta li onora, e avanza in meglio.
Questa sì, o Triefonte, è una novella bellissima per noi. Io mi affliggevo pensando che cosa lasciare
a morte mia in testamento ai miei figliuoli: chè tu sai la mia povertà, come io la tua. Ora basta ai
miei figliuoli la vita dellImperatore: chè mentre egli vivrà, nè ricchezze ci mancheranno, nè alcuna
gente ci farà paura.
Triefonte. Ed io, o Crizia, lascio ai miei figliuoli veder Babilonia distrutta, lEgitto soggiogato, i
figliuoli de Persi tratti in servitù, le incursioni degli Sciti represse, ed oh sieno anche finite per
sempre! Noi poi che abbiamo trovato ed adorato lIgnoto Dio in Atene, leviamo le mani al cielo e
rendiamogli grazie che ci ha fatto degni di essere soggetti a questo signore. Gli altri lasciamoli
chiacchierare, e ci basti dir loro, come dice il merlo: non ti curo, Domine.
LXXVII.
CARIDEMO,
O
DELLA BELLEZZA.
Ermippo e Caridemo.
Ermippo. Ieri a caso passeggiavo, o Caridemo, fuori la città, sia per ricrearmi un po con laria
campestre, sia perchè avevo bisogno di solitudine, per certi pensieri che mi giravano pel capo.
Scontro Prosseno di Epicrato, e salutandolo, come si usa, gli domando donde viene, e dove va. Egli
mi risponde esserci venuto anchegli per sollevarsi un po con la vista della campagna, e godere del
venticello fresco che ivi spira; essendo stato ad un gran convito fatto nel Pireo da Androcle di
Epicuro, il quale fece questallegrezza in onor di Mercurio, perchè avendo letto un suo libro nelle
feste di Giove, era riuscito vincitore. E mi contava che tra le altre galanterie e leggiadrie del
convito, alcune persone recitarono elogi della bellezza, i quali egli non mi poteva ripetere, perchè
essendo vecchio non ricordava bene, ed anche non vi aveva troppo atteso: ma che tu potresti dirli
facilmente, perchè anche tu recitasti il tuo, e fosti attentissimo agli altri durante tutto il convito.
Caridemo. Così fu, o Ermippo: ma non è facile per me contare ogni cosa a puntino. Non era
possibile udire tutto in quel rumore che facevano e famigli e commensali: e poi è difficilissimo
ricordarsi discorsi fatti in un convito, dove tu sai che i più memoriosi diventano smemorati.
Nondimeno per amor tuo, secondo mio potere, tenterò di fartene un racconto, senza lasciar nulla di
ciò che mi viene a mente.
Ermippo. Ed io te ne ringrazio. Ma se mi conterai ogni cosa per filo, che libro fu quello che
Androcle recitò, e cui egli vinse, chi foste i convitati, io te ne saprò più grado.
Caridemo. Il libro era un encomio di Ercole, scritto da lui, come ei diceva, per un certo sogno
che ei fece: e vinse Dietimo di Megara che gli contendeva il premio delle spighe, o piuttosto la
gloria.
Ermippo. E questi che recitò?
Caridemo. Un encomio dei Dioscuri. Diceva che anchegli era stato salvo da grandi pericoli per
laiuto loro, e così egli li ringraziava: e che essi stessi lo avevan invitato a scrivere quando in una
gran burrasca gli apparirono in cima agli alberi. I convitati poi erano molti, quali suoi congiunti, e
quali amici; ma degni di menzione, perchè adornarono il convito e ragionarono della bellezza,
erano Filone di Dinia, Aristippo di Agastene, e terzo io. Si aggiungeva a noi il bel Cleonimo,
figliuolo dun fratello di Androcle, garzonetto di delicata leggiadria; che pareva anche intelligente,
perchè stava attentissimo a quei ragionari. Primo adunque Filone cominciò a parlare della bellezza
facendo questo proemio.
Ermippo. No, amico mio, non cominciare gli encomii, se prima non mi spieghi la cagione onde
mossero i vostri ragionamenti.
Caridemo. Invano mi trattieni, o caro mio: io poteva già uscirmene pe generali facendo un cenno
di tutto il ragionare. Ma che si ha a fare quando un amico ti sforza? Bisogna contentarlo di ciò che
ei vuole. La cagione che tu cerchi di quei ragionamenti fu lo stesso bel Cleonimo, il quale stava
seduto tra me ed Androcle suo zio: e tutta quella gente semplice facevano un gran parlare di lui, e
rimirarlo, e grandemente ammirarne la bellezza, e quasi non curando più nulla, discorrevano dei
pregi del garzonetto. Ammirando noi il buon gusto di quelle persone e lodandole, credemmo che
sarebbe stata una gran poltroneria la nostra a lasciarci vincere da uomini semplici nel parlare delle
bellezze, sola cosa nella quale ci credevamo superiori ad essi: e però prendemmo a parlar della
bellezza anche noi. Stabilimmo adunque di non nominare il fanciullo (perchè non saria stato bene
metterlo in maggior superbia), e di non parlare così, come facevano quelli, senza ordine, e quel che
veniva in bocca, ma ciascuno dire in un discorso ciò che la mente gli suggeriva sul proposito. E
cominciando Filone, così parlò:
Come sta male, che noi ci affatichiamo tanto per rendere belle tutte le nostre azioni quotidiane, e
della bellezza non facciamo parola alcuna; anzi ce ne stiamo in silenzio, quasi temendo che nostro
malgrado non diciamo appunto quello per cui ci affatichiamo in tutta la vita! Eppure chi mai
userebbe convenevolmente del discorso, se ragionando di cose di niun conto, tacesse della più bella
fra tutte? o come la bellezza delleloquenza può spiccare più bella, se non parlando, più che di ogni
altra cosa, del fine stesso delle nostre azioni quotidiane?(172) Ma acciocchè non paia che io sappia
consigliare di far questo, e non sappia ragionarne, farò il mio potere a discorrerne brevemente. Tutti
bramano di avere bellezza, ma pochissimi sono degnati di averla. Quelli che ottengono questo dono
sono tenuti i più beati del mondo, e sono meritamente onorati e dagli Dei e dagli uomini. Infatti tra
quelli che di eroi diventarono iddii è Ercole figliuolo di Giove, e i Dioscuri, ed Elena: dei quali
Ercole dicesi conseguì questonore per la fortezza, ed Elena per la bellezza divenne dea, e fu cagione
che i Dioscuri, prima che ella salisse al cielo, furono annoverati fra gli Dei sotterranei. Ed ancora
tra quanti uomini furono ammessi ad usar con gli Dei non trovi se non quelli che ebbero bellezza,
Pelope per questo fu messo a parte dellambrosia degli Dei, e Ganimede figliuolo di Dardano è fama
che tanto potè sul maggiore di tutti gli Dei, che questi non volle altro compagno al ratto di quel
fanciullo, ma credette bene di andarvi egli solo, calarsi sul Gargaro dellIda, e portarsi il suo diletto
dove poteva goderselo eternamente. E in tanto pregio egli ebbe sempre le belle persone, che non
pure volle condurle in cielo e farle de celesti, ma discese egli su la terra, e stava con le persone
amate. Ed ora divenuto cigno si godeva Leda, ora sotto aspetto di toro rapiva Europa, ed ora
prendendo la somiglianza di Anfitrione generava Ercole. E chi potria dire i tanti artifizi usati da
Giove per godere di quelli che egli amò? Ma la cosa più grande e maravigliosa è che ragionando
con gli Dei (con gli uomini non mai, se non coi belli) tra essi adunque parlamentando, così severo è
descritto dal comune poeta dei Greci, così superbo e terribile, che nella prima radunanza, Giunone
solita sempre a garrir seco, se ne spaurisce tanto che ella ha a ventura che non le venga alcun male e
che la collera di Giove non vada più oltre delle parole: e nella seconda adunanza non minore paura
ei messe in tutti gli Dei, minacciandoli di sospendere la terra con tutti gli uomini ed il mare. Quando
poi si avvicina alle persone belle, diventa così mite, e dolce, e trattabile, che tra le altre cose,
lasciando anche il suo essere di Giove per non parere spiacente ai suoi mignoni, piglia un altra
figura che sia bellissima ed attiri chi lo vede: tanto egli rispetta ed onora la bellezza! Nè solamente
Giove fu così preso della bellezza, e degli altri Dei nessuno, sicchè queste parole possano parere
unaccusa contro Giove, piuttosto che una lode alla bellezza: ma chi ben considera troverà che tutti
gli Dei ebbero la stessa passione di Giove; Nettuno per esempio andò pazzo di Pelope, Apollo di
Jacinto, Mercurio di Cadmo. E le dee stesse terrebbero a vergogna se fossero da meno in questa
cosa, anzi hanno ad onore quando si conta che una si gode il tale uomo bello. Inoltre ciascuna di
esse presiede ad una cosa, e su di questa non contende con le altre: Pallade presiede alla guerra, e
non contende con Diana per la caccia, e così costei lascia ad essa la cura delle cose guerresche:
nelle nozze Giunone cede a Venere, e questa non le guasta le faccende sue. Ma in quanto alla
bellezza, ciascuna se ne tiene tanto, e tanto crede di superare tutte le altre, che la Discordia volendo
farle bisticciare fra loro, nientaltro messe in mezzo che la bellezza, credendo che così verrebbe
facilmente a capo del suo disegno: e non la sbagliò affatto. E qui ognuno può considerare
leccellenza della bellezza: chè raccolto il pomo, e lettavi la scritta, ciascuna credendo che il pomo
era suo, e nessuna osando di giudicare contro sè stessa quasi fosse men bella delle altre, vanno da
Giove, padre di due di esse, e fratello e marito dellaltra, per farlo loro giudice. E Giove, potendo da
sè dichiarare qual era la più bella, o pure commettere quel giudizio ad uno de tanti uomini forti, o
savi, o prudenti che erano tra Greci o tra barbari, lo commise a Paride figliuolo di Priamo; e così
dichiarò aperto e netto che alla prudenza, alla sapienza, ed alla forza sovrasta la bellezza. E tanto
sono sollecite e desiose di udire che esse sono belle, che messero in cuore al poeta che cantò gliddii
e gli eroi, di non chiamarle altrimente che con nomi di bellezza. Più deve piacere a Giunone udirsi
dire la bianchibraccia, che la Veneranda dea, figliuola del gran Saturno: Minerva non vorrebbe
esser chiamata Tritogenia, anzi che locchiazzurra: e Venere vuole più di tutto esser chiamata aurea:
e tutti questi nomi significano bellezza. E questo non solo dimostra quanto gli Dei lhanno in pregio,
ma è una verace pruova che essa è la cosa migliore fra tutte; sì che Pallade le dà il vanto su la
fortezza e la prudenza, alle quali ella presiede: e Giunone la dichiara più desiderabile di qualunque
regno e potestà, e si trova della stessa opinione di Giove. Se dunque la bellezza è sì divina e
veneranda, e così desiderata dagli Iddii, come noi non dobbiamo, imitando gli stessi Iddii, con le
opere e con tutta leloquenza che abbiamo, lodare e celebrare la bellezza?
Questo disse Filone della bellezza, e infine aggiunse che avria detto di più, ma sapeva che le
lungheríe spiacciono in un convito. Dopo di lui seguitò a parlare Aristippo, pregato prima e
ripregato da Androcle, perchè non voleva, avendo un certo ritegno a parlare dopo di Filone. Pure
cominciò in questa guisa:
Molti uomini spesso lasciando di parlare delle cose migliori ed utili, si appigliano a certi altri
argomenti, onde credono di acquistar gloria, ma a chi li ode non arrecano alcun pro; e vanno alcuni
contendendo tra loro mentre dicono lo stesso, altri narrando fatti che non sono mai stati, ed altri
chiacchierando di inezie; i quali dovrebbero lasciare tutti siffatti argomenti, e cercare di dire cose
che vagliono. Ora io stimando che costoro non pensano sennatamente, e daltra parte credendo che
sia la più grande fatuità biasimare alcuno che non conosce il meglio, e cadere nello stesso biasimo,
piglierò a ragionare dun argomento utilissimo e bellissimo, e tale che chiunque dirà meritamente
chiamarsi bellissimo.(173) Se ora facessimo parola di tuttaltra cosa, e non della bellezza, potremmo
contentarci di avere udito uno ragionarne, e andarcene; ma questa dà sì abbondante materia a chi
vuole continuare a ragionarne, che se uno non giunge ad abbracciarla tutta non deve tenerlo ad
infortunio, ma se alle tante lodi già dette ei ne può aggiungere qualche altra, deve reputarlo una
gran fortuna. Perocchè una cosa sì evidentemente onorata daglIddii, e sì divina per gli uomini e
desideratissima, e di tutte le cose ornamento intrinseco, per modo che quelli che lhanno sono
desiderati da tutti, e quelli che non lhanno sono fuggiti e neppure voluti guardare, chi mai avrebbe
tanta eloquenza da giungere a lodarla pienamente? Ma giacchè bisognano molti per lodarla, e
appena vi riescono giustamente, non è strano che anchio mi accinga a dirne qualcosa, benchè mi
tocchi a parlare dopo Filone. Tanto questa è la più venerabile e più divina fra tutte le cose, che
mettendo da banda quelli che gli Dei onorarono della bellezza....(174) Negli antichi tempi Elena,
progenie di Giove, fu tanto ammirata da tutti gli uomini che essendo ancor tenera di età ed innanzi
il fiore, e trovandosi Teseo per una sua faccenda nel Peloponneso, sinvaghì di quel bocciuolo per
modo che quantunque egli avesse un regno sicurissimo ed una gloria non volgare, pure credette di
non poter vivere senza di lei, e che sarebbe il più felice uomo del mondo se avesse lei in moglie.
Fitto così il chiodo, e disperando di ottenerla dal padre, che non glielavrebbe data non essendo
ancora fatta, egli avendo a mente la costui potenza, e spregiando i pericoli che correva nel
Peloponneso, toltosi a compagno Piritoo per rapirla, la rapì di forza al padre, e la portò in Afidna
dellAttica; e di questo aiuto seppe tanto grado allamico, che lo amò per tutta la vita, ed anche ai
posteri è rimasta in esempio lamicizia di Teseo e di Piritoo. E quando Piritoo dovette andar
nellinferno per pigliarsi la figliuola di Cerere, ed egli con molte ragioni non potè dissuaderlo e
svolgerlo da quellimpresa, lo accompagnò, stimando doverlo così rimeritare e mettere per lui la vita
a pericolo. Ritornata Elena in Argo, in un secondo viaggio di Teseo, poi che fu in età da nozze,
quantunque in Grecia fossero tante belle e nobili fanciulle, che i re di Grecia potevano torre per
mogli, pure tutti quanti chiedevano sola costei, spregiando tutte le altre come da meno. E vedendo
che ne verrebbe una contesa, e temendo non saccenderebbe una guerra tra loro in Grecia, di comune
accordo si obbligarono con giusto giuramento, che aiuterebbero chi fosse stato prescelto da lei, e
non permetterebbero che gli fosse fatta ingiuria alcuna: credendo ciascuno che egli preparava per sè
questo aiuto. A ciascuno fallì il suo disegno, fuorchè a Menelao, ma tutti mantennero il comune
accordo. Perocchè non molto dipoi essendo surta una contesa fra le Dee intorno alla bellezza, ne fu
rimesso il giudizio a Paride figliuolo di Priamo: il quale vinto dalle formose persone delle Dee, e
sforzato dalle loro promesse, che Giunone voleva dargli la signoria dellAsia, Pallade il valore
guerresco, e Venere le nozze di Elena, pure pensando che anche uomini da nulla talvolta giungono
ad una maggiore signoria, e che unElena nessuno più al mondo potrebbe mai averla, scelse le nozze
di costei. E quando si fece la celebrata impresa contro i Troiani, e lEuropa la prima volta allora
andò contro lAsia, ben potevano i Troiani, restituendo Elena, abitare in pace la terra loro, ed i
Greci, lasciandola ad essi, evitare gli stenti della guerra e della spedizione; ma nè gli uni vollero nè
gli altri, stimando che non avrebbero mai più bella cagione di guerra e di morte gloriosa. Gli Dei
stessi che ben sapevano come i loro figliuoli morrebbero in quella guerra, non li ritrassero, ma li
spinsero ad andarvi, pensando che questi anderebbero più onorati di morire combattendo per Elena
che di essere figliuoli di Dei. Ma che dico io de loro figliuoli? Essi lun contro laltro si levarono a
guerra più fiera ed accanita di quella contro i giganti; perchè in quella combattevano tutti insieme
per loro, in questa fra loro. E quale pruova più chiara di questa, che la bellezza va sopra a tutte le
cose umane a giudizio deglIddii immortali? Quando in nessunaltra cosa sono stati mai discordi, e
per la bellezza non pure ci pongono i figliuoli, ma vengono fra loro a battaglia, e alcuni ci sono
feriti, non si ha a dire che essi di unanime consenso più di ogni altra cosa al mondo onorano la
bellezza? Ma acciocchè non paia che ci manchino argomenti per parlare della bellezza, aggirandomi
sempre su lo stesso esempio, voglio passare ad un altro, non minore di questo, per mostrare
leccellenza della bellezza, ad Ippodamia figliuola dellArcade Enomao. Quanti poveri giovani presi
dalla costei bellezza furono veduti scegliere piuttosto morire, che separati da lei vedere la luce del
sole! Chè come la fanciulla metteva persona, e il padre la vide cresciuta poco meno che le altre,
preso dalle grazie di lei (e ne aveva tante che conquise anche il padre contro il disposto della
natura), e però disegnando di tenersela con sè, ma fingendo di volerla dare a chi ne fosse degno, per
fuggire il biasimo degli uomini, ritrova un trovato più scellerato della sua passione, col quale pensò
di venire facilmente a capo del suo disegno. Fatto costruire con ogni arte un cocchio
correvolissimo, ed aggiogativi un paio di cavalli i più veloci allora di Arcadia, sfidava al corso i
proci della donzella, proponendo di dar lei per premio della vittoria a chi lo avanzasse, e di mozzare
il capo a chi fosse vinto: e voleva che ella stessa montasse sul cocchio, acciocchè i giovani occupati
di lei non badassero a guidar bene i loro cavalli. Quelli, sfallito il primo che aveva preso a correre e
perduta la donzella e la vita, non volendo per baldanza giovanile ritirarsi dallagone o mutar nulla
del loro proponimento, maladicendo la crudeltà di Enomao, andavano lun dopo laltro a morire,
quasi tementi di ricusar la morte per la donzella: e giunsero sino a tredici i giovani uccisi. Ma gli
Dei avendo orrore di tanta scelleraggine di colui, e pietà dei giovani uccisi e della donzella, quelli
perchè privati di tanto bene, e la fanciulla perchè non godeva della sua giovanezza, presero a cuore
un giovane che doveva entrar nellagone (e questi era Pelope), e gli diedero un cocchio più bello e
con più arte lavorato, e cavalli immortali, con cui doveva guadagnarsi la donzella: e guadagnolla, e
giunto vincitore alla meta, uccise il suocero. Così divina cosa è temuta dagli uomini la bellezza, ed
onorata da tutti, e dagli stessi Iddii talvolta desiderata. Epperò nè io potrò essere ragionevolmente
biasimato, se ho stimato a proposito dire queste cose intorno alla bellezza.
E così Aristippo finì il suo discorso.
Ermippo. Rimani ora tu, o Caridemo, per mettere col tuo discorso quasi la colmatura a tante
belle cose dette della bellezza.
Caridemo. Deh, per gli Dei, non mi costringere ad andare più oltre. Ti basti ad informarti della
nostra conversazione quello che testè ho detto; e poi neppure mi ricorda ciò che dissio; perchè è più
facile ricordare i detti altrui che i proprii.
Ermippo. Eppure questo era il punto cui da prima io desideravo giungere. Non tanto volevo
udire i discorsi loro, quanto il tuo. Onde se mi priverai di questo, invano ti sarai affaticato per
quelli. Via, per Mercurio, ripetimi tutto quel ragionare, come mi hai promesso da principio.
Caridemo. Sarebbe meglio che ti contentassi di questi, e mi togliessi dimpaccio. Ma giacchè
brami tanto di udire anche il mio, bisogna compiacertene. Così dunque io ragionai:
Se cominciavo a parlar della bellezza io primo, forse potevo aver bisogno di lungo proemio; ma
perchè vengo a discorrerne dopo altri discorsi, non sarà strano che io servendomi di essi come di
proemio al mio, entri senzaltro a ragionare: tanto più che quei discorsi non sono stati fatti in altro
luogo, ma qui, ed oggi stesso, sicchè tutti i presenti sanno bene che ciascuno non fa un discorso
particolare, ma tutti uno solo, di cui ciascuno tratta una parte. Per lodare altro sarebbero state
bastanti le cose che ciascuno di voi ha detto della bellezza; ma per lodare questa ce nè tanta
abbondanza di cose, che anche i posteri, oltre quelle dette ora, non mancheranno di trovarne in sua
lode. Moltissime da ogni parte si presentano, e ciascuna vorrebbe esser detta prima, come fiori in
rigoglioso prato, che sempre compariscono de nuovi e invitano a coglierli. Ed io scegliendone
quante mi parrà bene di non lasciare, dirò brevemente per pagare il mio debito alla bellezza, e fare a
voi cosa grata lasciando il lungo ragionare. Quelli che per fortezza o per qualunque altra virtù
paiono a noi superiori, se col continuo ben fare non ci sforzano a ben volerli, noi piuttosto li
invidiamo come non avvenga loro un male. Ed ai belli noi non pure non invidiamo la leggiadria, ma
come li vediamo ce ne troviamo allacciati e presi, e non ci stanchiamo di servirli a tutto nostro
potere, come ad Iddii. Con più piacere, uno vorria ubbidire ad una persona leggiadra, che
comandare ad una non leggiadra, e saria più contento se ella lo comandasse in molte cose, che se
ella non lo comandasse affatto. Degli altri beni di cui abbiamo bisogno non vogliamo più, quando li
abbiamo avuti: della bellezza non siamo sazii mai, e se anche vincessimo il figliuolo di Aglaia, che
andò con gli Achei a Troia, se anche il bel Giacinto, e il lacedemonio Narciso vincessimo di
bellezza, non ci parrebbe assai, e temeremmo, chi sa! che qualche postero non potrebbe superarci.
Quasi, per così dire, di tutte le cose che fanno gli uomini è esempio la bellezza: a bellezza i capitani
cercano di schierare gli eserciti, gli oratori di comporre le orazioni, i pittori di dipingere le
immagini. Ma che dico io di quelle cose che hanno per fine la bellezza? Quello che ci servono ai
nostri bisogni, noi non lasciamo cura per farcele quanto possiamo bellissime. Infatti Menelao non
tanto aveva badato alla commodità delle sue case, quanto a far maravigliare chi ventrava, e però se
le fece ricchissime insieme e bellissime: nè singannò. Perocchè il figliuolo di Ulisse, andatovi per
domandar di suo padre, ne restò tanto ammirato che disse a Pisistrato di Nestore:
Forse sì fatta dellolimpio Giove
Dentro è la reggia.
E lo stesso Ulisse non per altra cagione condusse navi di vermiglio pinte, quando andò coi Greci
allimpresa di Troia, che per farle ammirare da chi le vedeva. E se uno vuole considerare ciascuna
delle arti, troverà che tutte mirano alla bellezza, e pongono ogni cura per conseguirla. Di tanto poi
la bellezza pare che avanzi tutte le altre cose, che di quelle cose le quali hanno in sè o giustizia, o
sapienza, o fortezza se ne trovano molte più pregiate; ma di quelle che hanno questa qualità non se
ne trova alcuna migliore, come di quelle che non lhanno nessuna è più spregiata. Infatti i soli non
belli noi chiamiamo turpi, come se fosse niente ogni altra qualità che potessero avere, se sono privi
della bellezza. Coloro che rimescolano le faccende in una repubblica, e coloro che sono sottoposti
ai tiranni noi li chiamiamo demagoghi quelli, adulatori questi: solamente coloro che stanno sotto la
signoria della bellezza noi li ammiriamo, e li chiamiamo industriosi ed uomini di garbo, e teniamo
per comuni benefattori coloro che attendono alle cose belle. Quando adunque così augusta è la
bellezza, e tanto da tutti bramata, che si tiene per gran guadagno il potere a lei servire, chi mai non
ci biasimerà, se noi avendo sì gran guadagno a fare, volontariamente lo ributtiamo, senza neppure
poterci accorgere del danno che ce ne viene?
Questo fu il mio discorso: avrei potuto dire molte altre cose della bellezza, e non le dissi, perchè
vidi che il ragionare era già di molto protratto.
Ermippo. Oh felici voi che godeste di tali ragionamenti! ma già anchio quasi quanto voi ne ho
goduto per bontà tua.
LXXVIII.
NERONE,
O
DELLO SCAVAMENTO DELL ISTMO.
Menecrate e Musonio.(175)
Menecrate. Lo scavamento dellIstmo, a cui si dice che mettesti mano anche tu, o Musonio, fu nel
tiranno un pensiero greco?
Musonio. Sappi, o Menecrate, che Nerone aveva immaginato un bene grande. Abbreviava ai
naviganti il giro intorno al Peloponneso per la Malea, rompendo un istmo di venti stadii. Questo
avrebbe giovato assai al traffico, ed alle città marittime, e a quelle dentro terra ancora, perchè a
queste viene labbondanza dentro quando le marittime sono prospere.
Menecrate. Dunque ragionaci di questo, o Musonio; chè tutti vogliamo udirti, se non pensi di
attendere ad altro.
Musonio. Vi dirò giacchè volete. Io non so che cosa far potrei più gradita a quelli che per
apprendere vengono in così spiacevole scuola.(176) Adunque Nerone venne in Acaia per ismania di
canto, e per essersi fitto in mente che neppure le Muse cantano più dolce di lui. Voleva avere la
corona del canto nei giuochi Olimpici, che sono i più grandi giuochi: chè per i Pitii, ei li tiene per
roba sua più che di Apollo; il quale per sonare la cetera e per cantare neppure egli potria stare a
petto a lui. LIstmo non era suo pensiero antico, ma come si abbattè a vedere la naturale condizione
del luogo, sinvaghì di fare unopera magnifica, ripensando forse al re degli Achei che una volta
andarono a Troia, il quale staccò lEubea dalla Beozia allo stretto di Calcide;(177) o a Dario che
gettò un ponte sul Bosforo per andare contro gli Sciti; o più di tutti forse ripensò a Serse, che fece
lopera più magnifica di tutte le altre; ed oltre a questo potè avere udito(178) che se per quella
scorciatoia trafficassero tutti, la Grecia sarebbe splendidamente fornita dai forestieri: perocchè le
menti dei tiranni sogliono essere ubbriache sì, ma talvolta si compiacciono a udirsi lodare per cotali
imprese. Uscendo del padiglione cantò un inno ad Anfitrite ed a Nettuno, ed una breve canzone a
Melicerta e Leucotoe. Poi essendogli porta una zappa doro dal Governatore di Grecia, savvicinò
alla fossa tra plausi e canti, e dati forse un tre colpi in terra, impose ai commessarii dellopera di
farla seguitare gagliardamente, e se ne tornò a Corinto, stimando di avere superate tutte le fatiche di
Ercole. I prigioni lavoravano ai luoghi difficili e montuosi, i soldati su la terra piana. Dopo sette o
forse cinque giorni che eravamo applicati allistmo, scese da Corinto una voce sorda, che Nerone
aveva mutato pensiero. Dicevasi che gli Egiziani, avendo misurato lun mare e laltro, non lavevano
trovato duno stesso livello, ma credevano che quello di Livadia fosse più alto, e temevano per
Egina, chè riversandosi tanto mare intorno a quellisola, non sommergesse Egina. Ma Nerone non si
saria tolto dal taglio dellistmo neppure se glielavesse detto Talete con tutta la fisica e la sapienza
che aveva, perchè egli era più pazzo di cavare, che di cantare in pubblico. Intanto un movimento dei
popoli doccidente, ed un uomo arditissimo che ora se ne è fatto capo, e si chiama Vindice, ha tratto
di Grecia e dellIstmo Nerone, che per iscusa metteva innanzi quistioni di geometria: chè io so che i
mari sono tutti allo stesso livello e allo stesso piano. Già si dice che la sua potenza in Roma sia su lo
sdrucciolo, e per cadere. Voi stessi udiste questo dal tribuno che qui ieri approdò.
Menecrate. E la voce, o Musonio, per la quale il tiranno va pazzo della musica, ed ama i giuochi
Olimpici ed i Pitii, come lha egli? Di quanti sono passati per Lenno, alcuni lammiravano, altri ne
ridevano.
Musonio. Egli ha una voce, o Menecrate, nè mirabile, nè ridicola; chè la natura glielha data
senza difetti e mediocre; ma egli a dispetto della natura la rende cupa e grave abbassando la faringe,
sicchè il canto nesce con un certo rimbombo. Pure egli ha certi tuoni che la rendono sopportabile, se
non la sforza troppo, ha certo garbo ed agilità nellaccordo delle note e nella modulazione, nel
sonare la cetera, nel passeggiare a tempo e fermarsi, e ritrarsi, e nel conformare gli atteggiamenti al
canto: nel che vi è la sola turpitudine che un imperatore sappia bene queste cose. Quando poi vuole
contraffare gli Dei, poh! le risa che scappano agli spettatori, benchè sovrasti il finimondo a chi
ridesse di lui. Chè ei si ciondola tirando forte il fiato, e levasi sopra le punte dei piedi aperti,
ripiegandosi indietro, come chi sta su la ruota. Essendo naturalmente rubicondo, più arrossisce e
saccende nella faccia, ed il fiato è poco, e non gli basta.
Menecrate. E quelli che gareggiano con lui, come si lasciano vincere, o Musonio? Forse gli
cedono ad arte per compiacerlo?
Musonio. Sì ad arte, come quelli che si lasciano vincere nella lotta. Ripensa, o Menecrate, a quel
tragediante che morì allIstmo: corrono lo stesso pericolo gli artisti che gli contendono nellarte.
Menecrate. Quale tragediante? Non ne ho udito mai parlare.
Musonio. Odi adunque un fatto incredibile, ma avvenuto innanzi agli occhi dei Greci. È legge
nei giuochi Istmici che non si possa gareggiare nè in commedie nè in tragedie; ed a Nerone venne in
capo di vincere in tragedie. Tra gli altri che si presentarono allagone fu un Epirota, il quale avendo
una bellissima voce, ed essendo per questa già famoso ed ammirato, faceva sembiante di agognare
la corona più che ei non soleva, e di non voler cedere, o che Nerone gli dovesse dare dieci talenti
per la vittoria. Nerone sinvelenì e andò su le furie, tanto più che lo udiva cantare dal padiglione, ed
era già cominciato lo spettacolo. E mentre i Greci con grida applaudivano allEpirota, egli manda un
littore, imponendo di condurglielo innanzi: quei leva la voce, si raccomanda al popolo, e resiste:
Nerone manda sul palco i suoi istrioni, come pratichi di queste faccende, i quali portando in mano
tavolette da scrivere, fatte davorio, e che si aprono da due parti e sono a guisa di pugnali, sollevano
lEpirota sopra una vicina colonna, e gli spezzano la gola, percotendolo con le punte delle tavolette.
Menecrate. Vinse davvero una tragedia, dopo di aver commessa sì brutta ribalderia innanzi agli
occhi dei Greci.
Musonio. Questi sono scherzi per un giovanotto che uccise la madre. Se fece tagliare la gola a un
tragediante che maraviglia è? Quandegli ardì anche in Delfo di turare la bocca ondesce la divina
voce delloracolo, acciocchè neppure Apollo avesse voce. Perocchè loracolo laveva messo a paro
degli Oresti e degli Alcmeoni, i quali dalluccisione delle madri ebbero una certa gloria, perchè
vendicarono i padri: ma egli, che non sapeva dire di chi aveva fatto vendetta, si tenne offeso dal
Dio, udendo la verità benchè un poco addolcita. Ma che nave è questa che mentre noi parliamo,
approda? Pare che porti una buona novella. Hanno tutti corone in capo, come coro di lieto augurio,
ed uno dalla prora stende la mano, e ci esorta a stare di buon animo ed allegri. Egli grida, se io non
frantendo, che Nerone è morto.
Menecrate. Così grida, o Musonio: e sode più chiaro come viene a terra.
Musonio. Sieno lodati gli Dei. Ma non mandiamo imprecazione; perchè dicono che questo non
lice su gli estinti.
LXXIX.
TRAGEDOPODAGRA.
Podagroso, Coro, Podagra, Nunzio, Medici e Dolori.
PODAGROSO.
O nome spaventevole, o spavento
Anche agli Dei, Podagra lamentosa,
Figliuola di Cocito, che nei scuri
Tartarei gorghi la furia Megera
Generò nelle viscere, ed Aletto
Con le sue mamme ti nutria bambina,
Su le labbra stillando amaro latte,
Qual demone ti spinse, o maladetta,
Alla luce del giorno? Ci venisti
A rovina degli uomini. Oh, se mai
Ai mortali che passano va dietro
La pena dei malfatti nella vita,
Non Tantalo con sete, nè Issione
Con la ruota, nè Sisifo col sasso
Bisognava punire a casa lOrco;
Ma a tutti quanti senzaltro i ribaldi
Appiccar bene addosso i tuoi dolori,
Che struggono le membra: come il mio
Addolorato e travagliato corpo,
Dalle punte dei piè sino alle punte
Delle mani, per tanti umori infetti,
E per gli amari succhi della bile
Chiudendo a questo malefico spirto
La via duscir, mè rimasto disfatto,
E lamentando dura tanti affanni.
Su i visceri mi corre un fiero ardore
Che con giranti vampe mi devasta
E mi brucia la carne: così bolle
Il cratere dellEtna pien di foco,
O Siculo vallone sprofondato
Sino al mar, dove riversasi e ondeggia
Lava di foco, e tra squarciate rupi
Vassene obbliquamente fluttuando.
O morte, cui nessun previde mai,
Come ti carezziamo tutti invano,
Da una vana speranza lusingati!
CORO.
Di Cibele sul Dindimo
Con furenti ululati
Al gentil Atte fanno festa i Frigi.
Ed al suono del corno
Appiè del Frigio Tmolo
Tra festeggianti gridi
Van banchettando i Lidi.
Impazzando coi timpani
I Coribanti in Creta
Cantano levoè.
Squillando laspra tromba
Al rovinoso Marte
Suona di guerra il grido.
E te, o Podagra, noi
Al primo intiepidir di primavera,
Festeggiam con lamenti;
Quando infioransi i prati
Di tenere erbe verdi,
E di zeffiro ai fiati
Ogni alber sincappella
Di sua fronda novella;
E la rondine memore
Di sue nozze infelici
Si va lagnando intorno
Alle case degli uomini;
E nella selva allor che muore il giorno
Piange Iti, Iti figliuolo,
Il mesto rosignuolo.
PODAGROSO.
O sostegno nei miei mali, o bastone,
Che le veci mi fai di terzo piede,
Reggi il passo tremante, e drizza il calle,
Acciò ferma sul suolo lorma io posi.
Leva, o infelice, dal letto le membra,
E lascia stanze e logge chiuse. Sgombra
Dagli occhi questo grave aere notturno,
Vieni alla porta, ed al lume del sole
Respira un poco daria pura e allegra.
È questo il giorno quindicesmo chio
In tenebre rinchiuso, senza sole,
In letto non rifatto ho stanco il corpo.
Lanimo lho, ed il desio mi spinge
Di scambiare due passi inver la porta,
Ma al desio non risponde il corpo fievole.
Pure spingiti, animo: tu sai
Che un miser podagroso camminare
Se mai vuole, e non può, questo luccide,
Or via.... Ma chi son questi che i bastoni
Brandiscono con mani, ed hanno il capo
Coronato di fronde di sambuco?
A quale Iddio fa festa questo coro?
Forse a te, o Febo Salvatore, fanno
Rendimento di grazie? Ma non sono
Della delfica fronda incoronati.
O qualche inno festivo a Bacco cantano?
Ma non han segno dedera alle chiome.
Chi siete, o forestieri? onde venite?
Parlate, e il vero apriteci: a chi mai
Voi questinno cantate? dite, o amici.
CORO.
E tu, che anche lonori, a noi dimandi?
A quanto pare al bastone ed al passo
In te vediamo un altro iniziato
Dellinvincibil Dea.
PODAGROSO.
Ed io son uno
Di quelli che la Dea degnò di tanto?
CORO.
Venere in vaghe gocciole
Dallaere cadea,
E Nereo raccogliea
Quella sparsa vaghezza, e la nutria
Infra le onde del mare.
Presso le fonti delloceano Teti
Nei vasti antri marini
Educò Giuno dalle bianche braccia,
Moglie allolimpio Giove.
Lalto capo immortale
Del Saturnide maggior dei celesti
Partoriva lintrepida virtude
Della terribil vergine
Egidarmata Palla.
E la nostralma Dea
Fra le nitide braccia
Del vegliardo Ofione
Prima fu sparsa dodorati unguenti.(179)
Quando cessò la tenebria del cao
E surse il giorno splendido,
E la luce del sol che tutto illumina,
Anche la tua possanza
O Podagra, apparia.
Chè quando dai suoi fianchi
Ti partoria la Parca e ti lavava,
Ridean tutte le stelle
Del ciel fatte più belle;
Laere serenato,
Rendea grande armonia;
E tra le sue mammelle
Piene dogni dolcezza
Ti nutriva il beato
Dio della ricchezza.
PODAGROSO.
Ed in quai riti inizia i servi suoi?
CORO.
Non sangue vivo ci caviam col ferro;
Non portiam capei lunghi e collo torto,
Non con sonante disciplina il dorso
Ci flagelliam; nè lacerate e crude
Carni di toro sono nostro cibo:
Ma quando lolmo a primavera mette
Il gentil fiore, e il merlo chiacchierone
Va cantando su i rami, allor nei membri
Si figge agliniziati doglia acuta,
Latente, che entra sin nelle midolla;
Piè, ginocchio, tallon, piante, anche, cosce,
Mani, gomito, braccia, omero, polsi
Mangia, divora, brucia, infiamma, ammacca,
Finchè la Dea fuggir non faccia il morbo.
PODAGROSO.
Ed io son un degli iniziati anchio,
E nol sapea? Dunque benigna vieni,
E Dea ti mostra; chè io co tuoi devoti
Comincerò de podagrosi il canto.
CORO.
Taccian nellaria i venti,
Ed ogni podagroso
Raffreni i suoi lamenti.
Ecco la Dea che ama di stare a letto,
Presso lorchestra viene
E col bastone i suoi passi sostiene.
O la più mansueta
Deglimmortali, salve.
Vieni con faccia lieta
Ai servi tuoi benigna, e presto fine
Metti ai loro dolori
Nel dolce tempo che nascono i fiori.
I.A PODAGRA.
Io, linvitta regina dei dolori,
Io la Podagra, a chi non sono io nota,
Fra i mortali che vivon su la terra,
Che non mi placo per fumo dincensi,
Nè per sangue versato presso lare,
Nè per voti sospesi in ricco tempio?
Non mi può vincer Febo coi suoi farmaci,
E di tutti gli dei del cielo è il medico;
Nè il dottissimo suo figlio Esculapio.
Eppure da che è nata questa umana
Genia, tentano tutti rovesciare
La possa mia, mescendo e componendo
Sempre artefatti farmaci. Ciascuno
Contro me sperimenta il suo trovato.
E chi pesta piantaggine, appio, foglia
Di lattuga, e pratense porcellana;
Chi piglia erba di mare, chi di fiume;
Altri pestano ortiche, altri consolida,
Altri ci metton lenticchia palustre,
E cotta pastinaca: altri le fronde
Del pesco, altri giusquiamo, papavero,
Bulbi, cortecce di melegranate,
Incenso, pulicaria, radice
Delleboro, fiengreco insiem con vino,
Nitro, girina,(180) parietaria, galle
Di cipresso, friscello dorzo, gesso
Di Garo, foglie di cavoli lessi,
Cacherelli di caprio, sterco duomo,
Muschio di pietra, farina di fave.
Cuocon rospi, lucerte, sorci, donnole,
Rane, porcelle,(181) volpi ed ircocervi.
Quale metallo mai non fu provato
Dagli uomini? qual succo? qual resina?
Di tutti gli animai presero sangue,
Ossa, nervi, midolle, grasso, pelle,
Orina, latte, e gli escrementi stessi.
Chi bee la medicina in quattro giorni,
Chi in otto, ma la maggior parte in sette.
Altri bevendo acqua santa si purga;
Altri con incantesimi si lascia
Infinocchiar dal furbo cerretano.
Il Giudeo ti scongiura un altro sciocco;
E altri prende il rimedio dalla fonte.
Io dico a tutti questi: guai a loro!
A chi fa tali cose, a chi mi tenta,
Io mi soglio avventar più invelenita;
Ma a chi non pensa contrastarmi affatto
Non fo gran male, e divento benigna.
Chè luom nei miei misteri iniziato
Subito impara parlar grazioso,
A tutti piace per discorsi allegri,
A tutti fa vedersi in festa e riso
Allor che al bagno vien portato in collo.
QuellAte io son, di cui cantava Omero,
Che su i capi degli uomini cammino,
E delicate ho le piante dei piedi;
Ma da molti mortali son chiamata
Podagra, e sono ai piedi agra pastoia.
Orsù voi tutti che nei miei misteri
A dentro foste messi, alzate un inno
Ad onoranza dellinvitta Dea.
CORO.
O Vergine di cuore adamantino,
Brava, animosa dea,
Odi de tuoi devoti
Questo festoso canto.
Grande è la tua possanza,
O sfarzosa Podagra.
Con tutta la sua folgore
Giove ha di te paura;
Di te tremano londe
Del pelago profonde;
Di te trema Plutone
Re dellatra magione,
O fasce-avviluppata,
Lettereccia, tardigrada,
Malleoli-tormentata
Arsa-talloni, sgranchia-a-barcolloni,
Scansa-pigiate, nocche-calcinata,
Gambe-schimbescia, insonne,
O ginocchi-a-trabiccolo Podagra.
NUNZIO.
Padrona, a tempo mi venisti incontro:
Odi, ti reco non vana novella,
E in provanza del detto eccoti il fatto.
Io, come mimponesti, lemme lemme
Per le città traendomi, spiava
Tutte le case, di saper bramando
Se alcun non riconosce tua possanza.
Ho visto tutti a capo basso, vinti
Dal poter delle tue mani, o regina.
Ma questo paio duomini insolenti,
Al popolo dicevano e giuravano
Che la tua possa non è più temibile,
E che ti scacceranno essi dal mondo.
Onde facendo gran forza di piedi
In cinque dì due buoni stadi ho corso.
PODAGRA.
Come celere voli, o velocissimo
De miei nunzi! E da qual scabro e lontano
Paese or vieni? Di chiaro ed aperto
Acciò chio il sappia tosto.
NUNZIO.
Primamente
Sceso ho una scala di cinque gradini,
Che traballava per scommessi legni.
Poi mi son messo su un suolo battuto
A mazzapicchio, che sotto la pesta
Delle dure calcagna risonava.
E trapassato con dolenti passi
Entro per una strada acciottolata
E disastrosa per acute punte.
Appresso incontro via piana e scorrevole,
Su cui trottando bravamente, dietro
Allinfermo tallon levo le zacchere.
Svelto vo innanzi, ed il sudore gocciola
Dalle membra, e si scioglie il debil passo.
Affaticato giungo in piazza; folla
Vera grande, e mha dato molta briga.
Di qua, di là spingevan le carrozze,
Urtavano, sforzavano ad andare;
Ed io levando più presto le berze
Camminava di sghembo su lo stretto
Passeggiatoio, fin che la carrozza
Su le veloci ruote trapassava,
Chè infin son tuo seguace, e posso correre.
PODAGRA.
Bravo! mhai fatta una prodezza grande.
Questa tua diligenza con eguale
Premio va compensata: abbiti in dono
Questa soavità, che doggi innanzi
Per tre anni sarai scevro daffanni.
E voi sozzi nemici degli Dei,
Chi siete, e donde, e da chi generati?
Che ardite contrastare alla possanza
Della Podagra; cui neppure Giove
In forza seppe vincere. Parlate,
O ribaldi, chè ancora degli eroi,
I ne domai parecchi, e i savi il sanno.
Priamo era un podagroso, e venne detto
Piè-malato; morì pel piede Achille.
Bellorofonte, che era un podagroso,
Fu quel gran prode; Edipo re di Tebe
Aveva gonfi i piedi e malandati.
Tra i Pelopidi Plistene perduto
Era di gotte: Filottete anchegli
Era gottoso e fu capo di squadra.
Un altro piè-malato era Podalge
Condottiere de Tessali, che quando
Nella pugna cadeo Protesilao,
Che era anche podagroso ed ammalato,
Del morto amico egli guidò la squadra.
Il re dItaca Ulisse di Laerte
Spensi io, non una spina di verbena.
E però, miserabili, ci avrete
Poco diletto a sofferir la pena
Che per le opere vostre meritate.
MEDICO.
Siamo di Siria, ed in Damasco nati.
Da molta fame e povertà costretti
Andiam vagando per terra e per mare.
Abbiamo questo unguento, che lasciato
Ne fu da un nostro padre, e noi con esso
Risaniamo i dolori deglinfermi.
PODAGRA.
Che unguento è quello, e di che fatto? parla.
MEDICO.
Parlar non mi permette un giuramento
Sacro chio feci, e lultimo comando
Del moribondo padre, il qual nimpose
Di celar questa gran virtù di farmaco
Che sa ammansire anche la tua fierezza.
PODAGRA.
Eh, via, sozzi ribaldi: ed evvi in terra
Farmaco di virtù tanta che valga
Spalmato far cessar la furia mia?
Orsù, pure facciamola esta pruova,
E vediam se del farmaco la possa
Sia più gagliarda, o pure le mie fiamme.
Qui venite, volate dogni parte,
Spasimi tormentosi, che compagni
Siete ai furori miei, fatevi presso.
Infiamma tu dalla noce del piede
Sino alla punta delle dita, e tu
Ficcati nei malleoli; e tu dal capo
Del femore al ginocchio spandi piena
Degli umor lacrimonia: e poi voi altri
Delle mani le dita distorcete.
DOLORI.
Ecco, come imponesti, tutto è fatto:
Giaccion gridando i miseri a gran voci,
Presi in tutte le membra e straziati.
PODAGRA.
Su, forestieri, ora saprem davvero
Se questo vostro unguento a nulla giova:
Che se questo davvero a me resiste,
Io lasciando la terra andrò a celarmi,
A sprofondarmi nei più cupi abissi,
Nella più scura tenebra del Tartaro.
MEDICO.
Ecco, ungemmo; e lo spasimo non cede.
PODAGROSO.
Ahi, ahi, ahimè, son disfatto, son morto!
Un improvviso male mi trafigge
Tutte le membra: il fulmine di Giove
Non ha lassù sì roventi saette;
Non così infuria tempestoso mare;
Non il lampo così celere guizza.
Cerbero forse mi morde, mi sbrana?
Forse un veleno di vipera strugge
Le mie povere carni, o la camicia
Nel sangue del Centauro inzuppata?
Deh, regina, pietà: non il mio farmaco,
Ned altro mai può rattener tua foga.
Tu per consenso delle genti tutte
Sei di tutti i mortali vincitrice.
PODAGRA.
Basta, o tormenti, scemate i dolori
Di costor, che già sono ripentiti
Davermi stuzzicata. E tutto il mondo
Riconosca che io sola fra glIddii
Implacabile sono, e sprezzo i farmaci.
CORO.
Non di Giove alle folgori
Contrastava il superbo Salmoneo,
Ma cadeva percosso
Squarciato il petto dal fumante telo.
Non il satiro Marsia
Andò lieto daver Febo sfidato;
Ma scricchiola agitata
Dal vento la sua pelle intorno al pino.
Memorabile pena
Ebbe del vanto di feconda Niobe;
E impietrata nel Sipilo
Ancora stilla, e larghi pianti versa.
Alla fiera Tritonide
In ira venne la Meonia Aracne,
E perduta sua forma
Lantica tela va tessendo ancora,
Chè lardir dei mortali
Non è pari allo sdegno di tai numi,
Qualè Giove, e Latona, e Palla, e Febo.
O regina de popoli, Podagra,
Mandane dolor lieve,
Facile, mite, non acerbo, breve,
Senza spasmi, passabile,
Portabile, impotente,
Che camminar ci faccia facilmente.
Ci ha molte specie dinfelici, e molte
Cure di mali: sola
Lassuetudin conforta i podagrosi.
Onde volonterosi,
O miei consorti, scordate gli affanni.
Se quei che abbiamo non han fine ancora,
A quei che aver potremo
Un qualche Dio ne troverà la via.
Chi da la gotta è preso
La sopporti scherzando e motteggiando;
Perchè un mal così fatto
È mal scherzoso e matto.
Correzione apportata nelledizione elettronica Manuzio:
E mal scherzoso e matto = È mal...
LXXX.
VELOCIPEDE.(182)
Podagra, Velocipede, Balio, Medico, Dolore e Nunzio.
PODAGRA.
Ai mortali terribile ed infausta
La Podagra son io, terribil male,
Che con ceppi e pastoie i piedi lego,
Nelle giunture entrando alla sordina.
Rido di quelli che da me percossi,
Non confessano schietto il caso loro,
Ma lo van colorando scioccamente.
Tutti costor canzonano sè stessi
Con le bugie: ciascun dice agli amici
Che svoltòglisi un piede, che inciampò;
E il vero tace; e crede che tacendo
Possa agli altri nasconderlo, ma il tempo
A suo marcio dispetto lo disvela.
Ed allora ammaccato, e nominando
Il nome mio, come un sacco è portato,
E gli amici ne ridon sotto i baffi.
Nel mal chio fo mè compagno il Dolore,
Che senza lui non sono niente io sola.
Una cosa mi morde e tocca al vivo,
Che col Dolore, il qual fa male a tutti,
Nessuno se la piglia, nè gli dice
Una parola ingiuriosa, e tutti
Maltrattano e sfioriscono me sola,
Credendo così sciorsi dei miei lacci.
Ma a che conto tai frasche, e non vi dico
Perchè ci son venuta? ah, non lo posso
Tener più tanto tossico nel corpo.
Il valente Dolone, il temerario
Velocipede, dice che io son nulla,
E superbo mi spregia. Ed io per stizza
Come una femmina chè morsicata,
Daltro morso insanabile lho colto
Nella noce del piè, dove son usa
Di cogliere: e di già vi si è ficcato
Il crudele Dolore, e gli trivella
Con acute punture le calcagna.
Ed ei, come se avesse nella lotta
O pur nel corso offeso il piede, aggira
Un vecchio poveretto che il sorregge.
Ed ecco per nascondere che è zoppo,
Appoggiandosi tutto alla sua guida,
Ecco lo sciagurato, esce di casa.
VELOCIPEDE.
Donde questo terribile dolore
Mè venuto nel piè senza ferita,
E non mi lascia nè andare nè stare?
Mi tira il nervo, come fa larciero
Che scaglia un dardo, ed a giacer mi sforza,
E per pena maggior più sta più cresce.
BALIO.
Sollevati, o figliuolo, e tienti dritto,
Su te stesso; se no, zoppo che sei,
Cadendo tirerai me ancora a terra.
VELOCIPEDE.
Ecco, mi tengo a te senza aggravarti,
Fo come vuoi, e il piede addolorato
Pongo saldo sul suolo. È pur vergogna
A un giovane esser sempre nei pupilli.
E non è buono per servirti a nulla
Un vecchio borbottone.
BALIO.
No, no questo:
Non malmenarmi, o sciocco, non vantare
Tua giovanezza, e sappi che al bisogno
È giovane ogni vecchio. Fanne pruova:
Sio mi sottraggo in là, rimane in piedi
Il vecchio, e tu che sei giovane, caschi.
VELOCIPEDE.
Sfalliresti, e cadresti debil vecchio.
Lanimoso volere i vecchi lhanno,
Ma lopre loro non son più gagliarde.
BALIO.
A che sputi sentenze, e non mi dici
Come al piè tè venuto questo male?
VELOCIPEDE.
Esercitando il corso, per tenere
Il piè sempre leggiero, mi disposi
A correre, e mi messi nel cimento.
BALIO.
È molto tempo che egli o corre, o pure,
Dice una mala lingua, sta seduto
A sbarbarsi per mano dei barbieri.
VELOCIPEDE.
Dunque lottando, per volere abbattere
Con uno stratagemma lavversario,
Fui percosso. Questè, credimi.
BALIO.
Bravo!
Tu mesci un gran soldato, che volendo
Pigliar con stratagemma lavversario,
Fosti percosso. Bah! come ti vai
Avvolpacchiando fra tante bugie!
Questi discorsi anchio faceva un tempo,
E a nessun degli amici il ver dicevo:
Ed ora vedi tutti....(183) ma il dolore
Suona allarme, e ti fa piegare e storcere.
MEDICO.
Dove, o amici, dovè quel rinomato
Velocipede, che ha malato il piede,
E non può camminar? Medico io sono
E seppi da un amico come ei soffre
Grave un dolor che non fa starlo in piede.
Ma eccolo, egli stammi innanzi agli occhi
Sovra un letto gettato alla supina.
Te saluto nel nome degli Dei,
E il tuo....(184) che hai? di tosto, o Velocipede....(185)
Se lo so, potrò forse risanare
Il dolor fiero, e la cagion del male.
VELOCIPEDE.
Vedimi qua, Salvator Salvatore
Che hai il nome col totò della trombetta,(186)
Un crudele dolor mi strazia e morde
Il piede, sì che ho paura dandare,
E neppur oso di poggiarlo a terra.
MEDICO.
Dove? per qual cagion? dimmi, e in qual modo.
Se il medico sa il vero con certezza
Meglio ti giova, e se nol sa la sbaglia.
VELOCIPEDE.
Facendo al corso, e giucando alla lotta
Un compagno mha dato un brutto colpo.
MEDICO.
Come dunque la parte non si vede
Infiammata, e non ci hai qualche fomento?
VELOCIPEDE.
Io non difendo con fasce di lana
Un pregio vano, che per molti è bello.
MEDICO.
Or che vuoi far? Vuoi che tintacco il piede?
Se ti stai, ti prometto che in due tagli
Ti caverò di sangue molta copia.
VELOCIPEDE.
Fa pur, se ci hai qualche spediente buono
A tormi tosto un così fiero spasimo.
MEDICO.
Ecco, io porto un forbito gammautte,
Tagliente, nuovo, mezzo curvo.
VELOCIPEDE.
Ahi, ahi!
BALIO.
Che fai, o Salvator? Tu non lo salvi,
E vuoi col ferro accrescere la doglia?
Senza saperlo, tu gli storpi i piedi;
Chè quanto ti ha contato è una bugia.
Non alla lotta o al corso, come ei conta,
Fu percosso: ma il ver te lo dico io.
Dunque egli in casa è ritornato sano,
Ma mangiando a sproposito e beendo
Lo sciagurato, cade sovra il letto
E solo vi rimane addormentato.
Poi stanotte svegliandosi, gridava
Come fosse da un demone battuto,
E ha fatto spiritarci. Ohimè, diceva,
Donde mi vien questa sventura? forse
Qualche demone mha storpiato il piede.
E così tutta notte sovra il letto
Seduto e solo, un continuo lamento
Ha fatto per quel piede. Quando il gallo
Annunziava il giorno, è uscito fuori
Attenendosi a me con man che ardea
Per febbre, lamentandosi, piangendo,
E appoggiandosi a me. Quel che ti disse
È tutto falso; ei la brutta radice
Del suo male nasconde nel mistero.
VELOCIPEDE.
Il vecchio è sempre di parole armato,
Si vanta di far tutto, e non può nulla.
Un ammalato che mentisce è come
Un affamato che mastica gomma.
MEDICO.
Tante e tante ne conti che cimbrogli.
Dici aver male, ma qualè non dici.
VELOCIPEDE.
Come narrarti il mio dolente caso?
Soffrendo, altro non so, se non chio soffro.
MEDICO.
Quandun senza motivo ha male a un piede,
Inventa poi le ciance che egli vuole,
Sapendo bene che brutto malanno
Appiccoglisi addosso. Ed or la punta....(187)
Quando dorratti laltro piede, allora
Sì piangerai. Ma vo dirti una cosa:
Questa, vuoi o non vuoi, è quellamica.
VELOCIPEDE.
Quale? deh, dimmi come ella si chiama?
BALIO.
Ha un nome pieno di doppia sventura.
VELOCIPEDE.
Ohimè ! Qualè? dimmi, ten prego, o vecchio.
BALIO.
Incomincia dal sito ove hai la doglia.
VELOCIPEDE.
Dunque dal piè comincia, a quanto dici?
BALIO.
Poi vaggiungi un certo agro di pastoia.
VELOCIPEDE.
Oh, come! o me infelice, o me perduto!...
BALIO.
Ella è spietata, e non risparmia alcuno.
VELOCIPEDE.
Salvator, che mi dici? io che....
MEDICO.
Lasciami un po; per cagion tua sbagliai.
VELOCIPEDE.
Che male è questo, e che cosa mavvenne?
MEDICO.
Hai messo il piede in laccio indissolubile.
VELOCIPEDE.
Dunque debbo restar zoppo e dolente?
MEDICO.
Se sarai zoppo, è niente, non temere.
VELOCIPEDE.
E vè cosa peggiore?
MEDICO.
Ti rimane
Avere i ceppi a tutti e due i piedi.
VELOCIPEDE.
Ohimè, donde mè entrata questa nuova
Fitta nellaltro piede, e sì mi cruccia?
E come tutto mi son rattrappito
Per voler camminare? Spesso temo
Di distendere un piè, come bambino
Che barcolla per subita paura.
Deh, per gli Dei, ti prego, o Salvatore,
Se mai può larte tua, sanami tosto
So no, sono spedito: chè io patisco
Senza sapere, ed ho trafitti i piedi.
MEDICO.
Io troncando quei giri di parole
Che usati son da medici valenti
In chiacchiere soltanto, e poi nei fatti
Non sanno ritrovar via di salute,
Ti dirò brevemente il caso tuo.
Brutto male incurabile tha colto.
Perchè non sei dentro i ferrati ceppi
Che sogliono legare i malfattori,
Ma in un grave malore, cui nessuno
Ancor conosce, e di sì grave peso
Che lumana natura nol sopporta.
VELOCIPEDE.
Ahi, ahi, ahimè, misero, ahimè!
Come il dolore mi trivella il piede!
Tenetemi per mano, pria chio cada,
Pigliatemi siccome fanno i satiri
Che sorreggono Bacco su le braccia.
BALIO.
Son vecchio, eppur eccomi a te: garzone
Tu sei, e un vecchio ti mena per mano.
LXXXI.
EPIGRAMMI.
1.
DI LUCIANO SUL SUO LIBRO.
Questo libro lha scritto Luciano,
Che vide i vecchi errori, e la stoltezza
Che alluom pare saggezza.
Nessuno accordo è nel giudizio umano:
Una cosa che a te fa meraviglia
Altri a riso la piglia.
2.
SU I PRODIGHI.
Il giovane Terone
Sparnazzò bruttamente
Tutta la roba che lasciògli il padre.
Euctemo al padre amico,
Come lo vide povero e disfatto
Pianse, il raccolse, della sua figliuola
Il fece sposo, e gli diè ricca dote.
Rifatto ricco inaspettatamente
Tornò a spendere e spandere Terone,
Tutte le voglie facendo passare
Al ventre sozzo e ghiotto,
Ed allaltra sozzura che sta sotto.
Così Teron di nuovo
Nel fondo di miseria sprofondò,
Ed al verde tornò.
Pianse Euctemo di nuovo, e non per lui,
Ma per la figlia sua mal capitata,
E la dote sprecata.
E saccorse, ma tardi,
Che un uom che fece mal gli affari sui
Non può far ben gli altrui.
3.
SU LA PARSlMONlA.
Pensando che morrai
Godi del ben che hai;
Pensando che vivrai
Non ispendere assai.
Sa fare luno e laltro un uom sennato;
A spesa ed a risparmio è misurato.
4.
SU LA VITA UMANA.
Tutto muore e trapassa o prima o poi;
E se tutto non passa, passiam noi.
5.
SU LA VITA BREVE.
Per un uomo felice
Ogni più lunga vita è breve assai;
Ma per uno infelice
Anche una notte non finisce mai.
6.
SU LAMORE.
Amor degli uomini non è tiranno,
Ma glimpudichi un dio ne fanno:
Amore è scusa - che più li accusa.
7.
SU LA GRAZIA.
Grazia pronta è più gradita:
Se va lenta - non contenta,
È una grazia sfiorita.
8.
SU GLINGRATI.
Un uom cattivo è un doglio pertugiato:
Versavi quel che vuoi, tutto è sprecato.
9.
SU GLI DEI.
Al mondo forse occulti il mal che hai fatto;
Ma occultarlo non puoi
Ai Dei, che sanno anche i pensieri tuoi.
10.
SU GLI ADULATORI.
Tra gli uomini non vè uomo peggiore
Di chi ti finge lamico di cuore.
Tu non diffidi, gli vuoi bene, e quello
Sotto la veste nasconde il coltello.
11.
SUL MISTERO.
Quando si dee tacere
Sacro suggello su la lingua stia:
Meglio è serbar larcano che lavere.
12.
SU LE RICCHEZZE.
Vera ricchezza è sola
Dellalma la ricchezza.
In ogni altra pensieri
Sono più degli averi.
Pure si può chiamare
E ricco e facoltoso
Uno che sappia usare
Del bene che ei possiede.
Ma chi si stilla il celabro
A fare sempre calcoli
Ed ammucchia danar sopra danari;
Questi, come le pecchie
Nelle cellette dei loro alveari,
Saffatica, con sè stesso crudele,
Ed altri poi ne raccoglie il mele.
13.
SU LA FORTUNA.
Podere dAchemenide già fui,
Or di Menippo sono:
Poi sarò daltri, e daltri.
Già possedermi si credea colui,
Come crede costui.
Me non possiede mai persona alcuna,
Ma soltanto Fortuna.
14.
SU I FORTUNATI.
Mentre hai possa, amico sei
E degli uomini e de Dei;
Se fai prego - non hai niego.
Ma se cadi, non vè amici,
Se ne van coi dì felici.
15.
SU LA FORTUNA.
La fortuna sa fare anche miracoli;
I piccoli solleva, e i grandi umilia.
Ella tammaccherà tanta superbia,
Ancor che loro ti scorra a rigagnoli.
Non giunchi e malve, ma gran querce e platani
Ho veduto dal vento a terra abbattere.
16.
DELLA PRUDENZA.
Il buon consiglio cammina a piè lento:
Se corre, ha sempre dietro il pentimento.
17.
È una freddura che non può tradursi.
18.
SOPRA UN MANGIATORE.
Se mangi presto, e corri lentamente,
Mangia coi piedi, e fa correre il dente.
19.
DELLIMPOSSIBILE.
Chè ti affanni a lavare un Etiòpo?
Ci sprechi larte intorno:
Non puoi di buia notte spiccar giorno.
20.
SU LA TOMBA DUN ATLETA.
Gli atleti han sotterrato
Api compagno qui,
Perchè nel pugilato
Nessuno mai ferì.
21.
SU LO STESSO.
In quante lotte son famose in Grecia,
Io che fui detto Androleo, lottai.
In Pisa ebbi unorecchia, ed in Platea
Un occhio sfracellato,
E di Delfo mi trasser senza fiato.
Il babbo mio Damotele,
E quelli del paese mi spronavano
A farmi portar fuor dello steccato
O morto, o storpiato.
22.
SU I GRAMMATICI.
O Grammatica, salve; salve, o Musa,
Che pur trovasti il bel rimedio come
Farci pappar, il Canta lira, o Dea.
A te ben si dovea
Rizzar templi ed altari
Ed offerir perenni sacrifici,
Perchè piene di te sono le vie,
Pieno il mar, pieni i porti, e pieni i lidi,
Grammatica mendica, de tuoi stridi.
23.
DI QUEI CHE HANNO CATTIVO FIATO.
Un esorcista al quale pute il fiato
I demoni ha scacciato,
E non per forza di scongiuramenti,
Ma di bocca votando gli agiamenti.
24.
SU LO STESSO.
Non era sì fetente la Chimera,
Che in Omero si legge;
Non de tori la gregge
Che spiravano fuoco dalle nari;
Non le donne di Lenno,
Non le sozzure delle oscene Arpie,
Nè la piaga del piè di Filottete;
Onde tu, Telesilla, vinci tutte
Arpie, Chimere, tori, piaghe, e putte.
25.
È uno scherzo che non può tradursi.
26.
SU LA MORTE DUN CHIACCHIERONE.
Dimmi un poco, o Mercurio, che faceva
Scendendo allorco lombra di Lolliano?
Un gran che se zittia! Forse voleva
Anche con te far il dottor volgare?
Poh! anche morto doverlo incontrare!
27.
SOPRA UNA CENA.
Della cenetta luso sapete:
A cenar meco oggi verrete;
Ma voglio fatti - novelli patti:
Non dirà versi il vate a tavola,
E tu, o Aulo, con la Grammatica
Tanto rematica
Non ci affannare:
Lasciala stare.
28.
SOPRA UN FANCIULLO.
Io Callimaco avea cinque anni appena,
Il cuore lieto: il fato
Mi rapiva spietato.
Non mi piangete: poco ebbi di vita,
E pochi mali onde la vita è piena.
29.
AD UNA STATUA DI ECO, VICINA A QUELLA DI PANE.
Questa è lEco petrosa, amica a Pane,
Che rimanda, ripete le parole,
E ti risponde in tutte lingue umane,
E più scherzare coi pastori suole.
Dille qualunque cosa, odila, e poi
Vanne pe fatti tuoi.
30.
SU LA STATUA DELLA VENERE DI CNIDO.
Venere nuda nessuno vide:
E se vederla qualcuno ardì,
Fu quei che Venere nuda scolpì.
3l.
LO STESSO.
La bella immagine
Di tua bellezza,
O Diva Cipria,
Consacro a te;
Che più pregevole
Di tua bellezza
Cosa non vè.
32.
AD UNA STATUA DI PRIAPO.
Inutilmente, per seguir lusanza,
Eutichide qui pose me Priapo
A guardïano di sarmenti secchi.
Qui son balze scoscese dogni intorno;
E se saltasse in capo
A talun di venirci per rubare
Solo potrebbe il guardïan pigliare.
33.
SU LO SPECCHIO DI LAIDE, CONSACRATO A VENERE.
La Grecia vinta avea
Le fiere arme de Medi,
E Laide vincea
La Grecia tutta colla sua bellezza.
Or vinta anchella sol dalla vecchiezza
A te, o Pafia, appende
Lo speglio, che sorriderle solea
Negli anni giovanili.
Ben sirrita a vedere,
Or che è canuta, sue fattezze vere;
E lo speglio abborrisce,
Che parle ombrato, e più non labbellisce.
34.
DI UN NAUFRAGIO.
A Glauco, a Néreo, ad Ino, a Melicerta,
Ed a Nettuno, e ai Samotracii Dei
Io Lucilio scampato
Dal mar qui mi tondei.
Altro offrir non mi resta,
Perchè ho solo i capelli della testa.
ALTRI EPIGRAMMI ATTRIBUITI A LUCIANO.
1.
Eran briachi tutti; solamente
Cacasodo non volle bere affatto;
E per fare il prudente
Egli solo parea briaco e matto.
2.
Un matto morsicato
Da pulci assai spegneva
Il lume, e poi diceva:
Non mi vedrete più.
3.
Se vedi un uomo senza peli in testa,
E in petto, e nelle braccia;
Puoi dir che questo tale
È zucca senza briciola di sale.
4.
Tingi pure e ritingiti i capelli,
Tu non isvecchierai,
Nè le rughe del volto spianerai.
Non impiastrar la faccia
Di belletto e di biacca,
Sì che pare una maschera, non faccia.
Smetti, questa è pazzia.
Nè con belletto nè con biacca mai
UnElena di unEcuba farai.
5.
Non entra in barca mai
Diofanto lernioso
Se vuole allaltra riva tragittare,
Ma su lernia ripone
Tutti i fardelli, lasino, e la soma;
Poi spande il camicione,
E fa vela, e tragitta.
Il guizzar sovra lacque
Non è soltanto de Tritoni un vanto,
Se un ernioso può fare altrettanto.
6.
Il nasuto Nicone annasa il vino,
E ne intende benino,
Ma non può dire subito comè.
Ci vuole mezza giornata destate,
E può sentirlo appena
Con quel suo naso di dugento spanne.
O naso sperticato,
Che talvolta passando la fiumana,
Come lenza è calato,
Ed i pesci ha pescato.
7.
Sol le forme, o pittor, togli; e non puoi
Ritrar la voce coi colori tuoi.
8.
Come Bito mesce fuore
Oratore?
Io ne son maravigliato!
Lingua e senno chi gli ha dato?
9.
Se il corvo è bianco, e la testuggin vola,
Puoi trovar facilmente
Di Cappadocia un orator valente.
10.
Conta sempre migliaia Artemidoro,
E senza spender nulla
Vive come il muletto,
Che va talora stracarico doro,
E mangia fieno schietto.
11.
Se barba cresciuta - fa testa saputa,
Barbato caprone - sputato Platone.
12.
Un Cinico barbato
Accattatozzi col bastone in mano
In un convito ci fece vedere
Il suo grande sapere.
Lupini e ravanelli
Non volle affatto, e noi ludimmo dire,
Che alla pancia non dee virtù servire.
Ma come gittò gli occhi
A una vulva bianchissima e piccante,
Che tosto gli rubò la saggia mente,
Ne chiese allimpensata,
E ne fece una grande scorpacciata.
E dicea, macinando sempre più:
La vulva non offende la virtù.
13.
DELLA PODAGRA.
O Dea fuggimiseria,
O unica de ricchi ammaccatrice,
Che tutta larte del ben viver sai,
Benchè dai piedi altrui portar ti fai:
Hai valletti e serventi,
Tungi tutta dunguenti,
Ti piaccion le corone
Ed il bicchiere dellausonio Bacco.
Questo a casa dei poveri
Non lo ritrovi mai:
E però fuggi la scoscesa e stretta
Strada di povertà; e ti diletta
Sdrucciolare con agio e leggerezza
Su la strada che mena alla ricchezza.
14.
Spesso un vino mhai mandato,
E te nho ringraziato.
Come un nettare mè stato.
Or se mami, non mandarne,
Che non posso più accettarne.
Come beverlo potrò
Se lattughe più non ho?
15.
. . . . . .
. . . . . .
16.
Un Dio mi scampi dalle grandi spese
In che, o Erasistrato, tu spendi
Sozzamente cortese,
Mangiando brutte porcherie che fanno
Allo stomaco danno
Più della stessa fame, ed io farei
Mangiarle ai figli de nemici miei.
Vo tornare affamato
Più che non sono stato,
E in casa tua non essere spesato.
17.
I bianchi capelli,
Se taci, son senno:
Se parli, non senno,
Ma chiome - siccome
I biondi capelli.
18.
Un medico mandommi il figlio a scuola
Per apprendere un poco di grammatica;
Il bimbo apprese a mente
Cantami lira, e Diè mille dolori.
Ma come il terzo verso recitò:
Molte alme forti spinse allOrco acerbe,
Da me più non tornò.
Il padre mi rivide, e: Ti ringrazio,
Dissemi, o amico: questo al figlio mio
Lo posso insegnar io.
Anchio molte alme mando allorco acerbe,
E ci son tanto pratico
Che per niente ho bisogno dun grammatico.
19.
Frammento, che non vale la pena di tradurre.
Fine degli Epigrammi, e di tutte le opere attribuite a Luciano. Tutte sono voltate in italiano, fuori
che due, il Giudizio delle Vocali, ed il Pseudosofista, che non si possono voltare in altra lingua.
Ergastolo di Santo Stefano, 25 gennaio 1858.
FINE.
AVVERTENZA.
Nel discorso proemiale promettevo un indice delle varie lezioni che ho creduto di proporre al
testo. Ma avendo messo ciascuna lezione a piè di pagina secondo cadeva, e avendo ivi assegnate le
ragioni di ciascuna, ne sarebbe ora superfluo un indice.
NOTE:
1 Forse sarebbe meglio: A Simone filosofo, e non Dione: e forse glinterpreti si sono affaticati
invano per trovare chi era questo Dione filosofo.
2 Aristosseno di Taranto, filosofo e musico, scrisse la vita di Platone (Vedi Diogene Laerzio
122), e libri di filosofia e di musica.
3 Neleo fu uomo ricco, che udì Aristotele e Teofrasto, e raccolse molti libri; onde presero
esempio i re di Egitto a formare la loro biblioteca, come dice Strabone al lib. VIII.
4 Quali esempi? tutti i filosofi e i parassiti che si vedono? No: questa generalità non sarebbe
nè bella, nè greca. Il vivace Greco si aiutava e diceva col gesto te e me: te che sei filosofo, e me
parassito. Senza il gesto poteva dire: Se noi due ne siamo gli esempi. Il Napoletano, che è greco e
dice mezze le cose coi gesti, sente la verità dellosservazione.
5 Il testo dice: os eige tis kai allos Athenaios katà tautà epolémei, kakeinos en autois en philos.
Cosicchè se qualche altro Ateniese guerreggiava allo stesso modo, anche questi con loro, o in loro
era amico. Che sentimento sia questo, non so. Leggo a questo modo, che mi pare più ragionevole:
ose eis tous kai allous Athenaious katautà epolémei, kakeinos autos en philos: e spiego così;
cosicchè egli contro gli altri Ateniesi guerreggiava, e nel tempo stesso di costoro era amico.
6 Qui viene il dubbio se questa schiuma katharma, sia detto di Filippo o di Demostene.
Eschine rinfacciava a Demostene che era nato di madre barbara. Ma parlare così sia di Filippo sia di
Demostene, si può comportare solamente ad un parassito.
7 Socrate combattè a Potidea, dove salvò Alcibiade, ad Anfipoli, a Delio. A Delio contro i
Tebani; ad Anfipoli e Potidea contro gli Spartani. Qui pare salluda ad una di queste due ultime
battaglie.
8 Per contrario Tucidide dice di Armodio ciò che Luciano qui dice di Aristogitone. Vedi Tuc.,
lib. 6.
9 Botta ad Apollonio di Rodi, il quale fu chiamato da Antonino a Roma per ammaestrare
Marco Aurelio. Giunto in Roma, non andò dallimperatore, dicendo che lo scolare deve andar dal
maestro, non questi dallo scolare. Rise Antonino, e rispose: Apollonio crede più lunga la via dalla
sua casa a palazzo, che da Calcide a Roma? E gli mandò Marco Aurelio.
10 Socrate morì di cicuta, Empedocle si gettò nellEtna, Epicuro morì di mal di pietra, come
dice Diogene Laerzio, ed altri parecchi filosofi finirono in esilio.
11 La fine di questo dialogo non si può tradurre alla lettera: io lho raffazzonata alla meglio
sino alle parole di Tichiade: mi hai convinto, ec.
12 Anacarsi come Scita, non sapeva che costui non era Arconte, ma un Agonoteta, o
sovrintendente de giuochi.
13 Il testo ha autochthonas autoctoni. È una botta risposta che Anacarsi dà a Solone ed agli
Ateniesi, i quali si dicevano nobilissimi, gegeneis, figliuoli della terra.
14 Areiou pagos, significa colle di Marte. Questo Senato, più antico di Solone, era composto
di soli cittadini già stati arconti, si radunava ogni mese per tre giorni innanzi lultimo giorno reputato
infausto, giudicava degli omicidii premeditati o commessi tra parenti, vigilava su la condotta
pubblica e privata de cittadini, e in parte aveva uffizio di censore e di giudice. Fu celebre per la
severa giustizia e il gran senno de suoi decreti. Innanzi ad esso laccusatore e laccusato dovevano
parlar breve, netto, senza preamboli, senza ornamenti, senza passione: laccusatore sedeva sopra una
pietra detta ybreos, dellingiuria, e laccusato sopra unaltra detta anaideias, dellimpudenza.
15 Il greco dice infarinar la cosa nelle parole. Bella metafora e significativa, che io avrei
voluto proprio usare: ma forse quelli che infarinano le cose nelle parole mavrebber fatto il viso
dellarme: onde la lascio stare per amor di quiete.
16 Il testo dice: Rythmizomen oun tas gnomas auton. Noi dunque ritmizziamo le menti loro. I
Greci dicevano quello che volevano, noi diciamo quel che possiamo: essi parlavano, noi
cinguettiamo. E se dicessi: Noi diamo un ritmo alla mente de giovani?
17 I fanciulli romani imparavano a leggere sul libro delle XII Tavole. Quanto diverso è il
senno antico dal nostro!
18 Nel testo: Cocito e Piriflegetonte, e palude Acherusia.
19 Scultori contemporanei ed emuli di Fidia. Plinio, Hist. Nat. XXXIV, 19. Pare che qui
voglia parlarsi di Pericle, e degli oratori di quel tempo. Ho preferita questa lezione alla comune,
perchè mi pare più acconcia e chiara.
20 Demostene ed Eschine.
21 Aristofane nelle Tesmofore parla di Agatone poeta tragico, e ne deride la mollezza dei
versi.
22 Demostene, che era di Peana, borgo dellAttica.
23 Il testo dice: yper Xoin kai Thmouin dedouleukotos, che aveva servito più di Csoi e Tmui,
due nomi di due servi egiziani, e di due città di Egitto, dicono glinterpreti. Ma che significa servo
più di due servi, o più di due città? Io dunque leggo xoin kai tomin, e se vuoi anche tmoin, da xeo, e
temno: e così mi pare che ne nasca un adagio spontaneo, significativo, e di certa vaghezza. Il rasoio
e le cesoie serviranno a depilare il corpo: onde questo servo aveva fatto i più vili e sozzi uffici.
24 Pare che questi sia Polluce, il retore, autore dellOnomastico: contro il quale si vuole che sia
scritto anche il Lessifane. Vedi questo dialogo. Ma Tib. Hemsterhusio, che ha interpretato e
comentato lOnomastico, sostiene che qui Luciano non se la pigli con Polluce.
25 Cioè che rende leloquenza accetta al popolo.
26 Parodia de versi dOmero, Iliade, lib. 2.
27 Che dormì cinquantanni. Vedi il Timone.
28 Leggo con alcuni interpreti to Ptolemaio, e non ton Ptolemaiou.
29 Nè Plutarco nè Livio, che parlano lungamente di Archimede, fanno alcuna menzione di
navi bruciate da Archimede; affondate sì dalle macchine e daglingegni di quel geometra Briareo,
come lo chiamava Marcello.
30 Questo periodo è inteso assai diversamente da tutti glinterpetri, i quali leggendo lultima
parola synisamenou, intendono che Ippia costruiva un triangolo sopra una data retta; e dànno
dellasino a Luciano che non sapeva di geometria, e dava per perfezione dellarte il primo problema
che in geometria sincontra. Io leggo synisamenoi, e poco più innanzi tolgo via il de, e leggo kata ge,
invece di kata de; e mi pare che la parola eutychesan ebbero buona fortuna, riuscirono sia unironia,
un frizzo del nostro scrittore, il quale mentre loda Ippia che applicava la geometria allarte, e
costruiva edifizi, dà una botta agli altri che erano costruttori di un triangolo sovra una data retta,
cioè rimanevano nelle teoriche pure ed elementari. Se io lintendo bene, lo vedano quelli che sanno
il greco, ed hanno buon senno.
31 Leggo apsesi col Retz invece di ypsesi.
32 Ulisse tornato a casa sua vestito da mendico e sconosciuto, mentre sapparecchia ad una
lotta, si spoglia dei cenci che indossava, e mostra le robuste membra. Allora i proci che lo
riguardano esclamano, dicendo questo verso.
33 Eurynomenes tes skias pros ten augen, dilargatasi lombra alla luce. Ma quì lombra è
limmagine della cosa; e la luce è la luce refratta, come bene osserva e prova il Gesnero, difendendo
Luciano dallaccusa dignoranza nelle cose della fisica.
34 Esiodo.
35 La Libanitide pare che sia Venere, adorata sul Libano, con culto nefando, in un tempio che
fu poi distrutto da Costantino. Vedi la Dea Siria, che forse può esser questa.
36 LOlmeo, lIppocrene, il Permesso, erano fontane dElicona.
37 Un Ismenia ricchissimo comperò i flauti dIsmenia gran sonatore.
38 Marchiato del coppa. koppaphoron. Il coppa, che corrisponde al coph degli Ebrei, valeva
pei Greci il numero novanta, e si segnava q così, come il q dei latini. Ma perchè i cavalli migliori si
marchiavano con questo segno non si dice. Alcuni leggono kappophoron, marchiato del cappa, e
nemmeno dicono il perchè. Forse il nostro cappare scegliere, e cappato scelto, meglio che dal latino
captare può avere questa origine dal cappa che si metteva per marchio ai cavalli migliori, o della
razza migliore.
39 La luna coi granchi, si direbbe in italiano.
40 Le ossa di Gerione. In Pausania è un luogo in Atticis, p. 34, 20, che dà luce a questo. «In
una città di Lidia non molto grande, dopo un temporale che lasciò nudo un colle, si trovarono
alcune ossa, che per la forma parevano duomo, e per la grandezza parevano dun elefante o duna
balena. Tosto si sparse fra il volgo che quello era il cadavere di Gerione dalla spada doro ec.»
41 Io leggo questo luogo così: Autos de o tou thaumasou ktematos despotes, kai auton se te
apadeusia kai bdelyria yperekontisen (oras opos kakodaimonos diakeitai), bakterias es ten kephalen
os alethos deomenos. Cioè leggo diakeitai invece di diakeisai che non mi dà senso, e tolgo il punto
innanzi ad oras che con le tre parole seguenti chiudo in una parentesi. Lordine naturale delle idee
mi comanda di fare questa correzione, di poco momento in quanto alla mutazione di una lettera, ma
importante per la connessione del discorso: il quale come è nei testi stampati, è scucito stranamente,
e non può accettarsi, nè giustificarsil.
42 Per chi nol sa, noto che Agave andata in furore con le proprie mani sbranò il figliuolo
Penteo, che spregiava i misteri di Bacco. La tragedia di Euripide è venuta sino a noi, ed è tra le
opere di questo poeta.
43 Forse si ha a leggere Archiloco. Così due filosofi, e due poeti satirici.
44 Abbiamo questa orazione, nella quale Eschine accusa Timarco di vizio nefando.
45 I Bapti, in italiano si direbbe i tinti. Questo è il titolo duna commedia di Eupoli, nella quale
erano dipinti i molli ed effeminati costumi di alcuni Ateniesi; i quali furono tanto offesi e irritati
dalla satira (e fra essi era Alcibiade), che affogarono in mare il poeta. Vedi il libro di Platone che va
innanzi le opere di Aristofane.
46 Euripide, nellIppolito.
47 Costui fu cittadino di Efeso, nativo di Colofone, e visse al tempo di Tolomeo Filopatore,
quarto di questo nome. Apelle, il gran pittore, fu di Coo, e visse al tempo di Alessandro e del primo
Tolomeo.
48 Ne quid nimis.
49 Aristofane, nelle Vespe, v. 919.
50 Ad alcuni pare che questo Tolomeo sia il quarto, del quale si fa menzione poco innanzi: ad
altri il decimo, detto Auleto, al quale successe la celebre Cleopatra. Nè si ha notizia chiara chi fosse
questo platonico Demetrio.
51 Io non vedo legame tra questo capitoletto ed il precedente. Dopo di aver detto che anche un
Aristide può calunniare, anche un Ulisse può ordire una falsa accusa, io non so come passa a
Socrate, Temistocle, e Milziade illustri calunniati. Però credo che questa sia una glossa messavi con
poco giudizio che si debba cacciar via dal testo e non curarsene più che tanto.
52 Il mio Poeta. Luciano, o lautore di questo scritto.
53 Nel testo: Per la Pandema, Genetillide, e Cibele. Pandema e Genetillide sono due epiteti di
Venere. Si sa che Cibele fu pazza per Atti. Invoca dee lascivissime, per trafiggere anche di
passaggio la lascivia del sozzo sofista. Ed io per far sentire questa trafittura nella traduzione, ho
aggiunta la parola mamma. Più appresso dice, per Adone.
54 Queste ultime parole anzi neppur io ec. mi paiono una nota che è stata messa nel testo, e si
dovria togliere.
55 Intendi il settimo giorno di ogni decade, non della settimana.
56 Come dice Esiodo che era la casa del suo povero padre. Vedi le Opere, v. 640. Noto questa
allusione, so no lespressione parrebbe fredda.
57 Mi pare che Oinopionos sia una cattiva glossa di oinochoou, e però la caccio dal testo, e
non lo spiego nella traduzione. Glinterpetri ne fanno un nome proprio, che non so come quadri in
questo luogo.
58 Qui non intendo il legame che dovrebbessere tra questo e il seguente concetto.
59 Lantico Timarco, famoso quanto costui per libidini, svergognato dalla eloquenza di
Eschine, simpiccò per la gola.
60 Fellator, Lesbiorum Phoeniciorumque more.
61 Tricarano fu una città, o castello presso Argo nel Peloponneso. Teopompo, come tutti
sanno, fu storico maldicente, e le sue opere sono perdute; dalle quali forse avrebbe potuto cavarsi
qualche luce per questo luogo, che non è ben chiaro.
62 Accese la lucerna, forse per imitar Diogene; e andava trovando lamadore, che chiamava
fratello.
63 Doveva dire ton eteron; e disse prima thateron, e poi correggendosi ateron; errando in
grammatica la prima e la seconda volta. Ma come rendere in italiano un errore di grammatica
greca?
64 Qui lascio un periodo (ed è lunico) perchè non lintendo bene, e glinterpetri non mi aiutano,
e ci ha giuochi di parole che non so rendere in italiano. In questo periodo si parla dun tiro di questo
furfante, il quale scroccò settecento cinquanta dramme ad un vecchio. È un fatto che è accennato a
quelli che già lo sapevano, e a noi riesce poco intelligibile.
65 Il testo dice sphendone euphoros, fionda portabile. I greci chiamavano fionda lanello per la
simiglianza della figura. E laggettivo portabile, che vuol dire piccolo e modesto, ci ricorda dei
grossi e molti anelli, onde tutti si caricavano le dita.
66 Questa favola non è conosciuta comunemente, e però qui è bene accennarla. Orione era un
fabbro di Nasso, al quale Giunone affidò Vulcano fanciulletto acciocchè imparasse larte. Essendo in
Chio, sforzò Merope, e da Enopione signore di Chio fu acciecato, e scacciato ed esposto sul lido del
mare. Orione che sapeva come il sole potrebbe risanarlo, si prese un fanciullo a nome Cedalione, se
lo pose a cavalcioni su le spalle, e si fè guidare a quella parte che guardava il sole nascente: e il
calore del sole nascente lo risanò. La dipintura rappresentava questo caso, e Vulcano che da Lenno
guardava impietosito la sventura del suo maestro. Vedi il Palmieri ed il Gesnero, nelle Annotazioni
a questo lungo.
67 Adulazione ad Avidio Cassio, prode capitano; o a Claudio Pompeiano, genero di Antonino.
68 Di Roma, dove forse scriveva lautore di questi Longevi.
69 Marco Aurelio che visse circa sessanta anni.
70 Dipsa, significa sete: e dipsas, questo serpentello.
71 Ornamento della poppa, che aveva la figura di un papero: in greco cheniskos, paperino.
72 Promontorio nellisola di Cipro.
73 Isolette nel mare di Pamfilia.
74 LAttica era tutta sassi e timo: onde questo è un motto gettato così di sbieco agli Ateniesi.
75 Le Tesmoforie feste in onore di Cerere Tesmofora cioè leggidatrice.
76 Io non so se questa rotella magica rombos sia come quella chio ho veduto usare ancora da
certi sciocchi contadini. È una tavola o una carta su la quale è dipinto un cerchio, la cui
circonferenza è divisa in tanti numeri: nel centro è un ago bilicato, che chiamano saetta: fuori il
cerchio i segni del zodiaco. Muovesi lago col dito, si nota qual numero è segnato, e si va a trovare il
numero in un libro manoscritto, dove sono le più pazze e sciocche cose del mondo.
77 Le due Dee. Cerere e Proserpina.
78 Il darico, moneta persiana, così detta da Dario, valeva venti dramme.
79 Le lane di Taranto erano pregiate per la finezza e pel colore di porpora onde erano tinte
con una specie di conchiglie di che abbonda quel mare.
80 Ampelide e Criside. Traduco questi ed altri nomi, che in italiano non avrebbero alcun
senso.
81 In greco Dorcade e Pannichia.
82 Chelidonia e Drose.
83 Un migliaio di dramme.
84 Ioessa.
85 Perchia, perkas, percas, e in napolitano perchie: in toscano pesce persico si dice la perca o
perchia. Ma pesce persico mavria guasto ogni cosa: ho usato la parola come la dicevano i Greci, i
Latini, e come la dicono i Napolitani.
86 Giteo, porto della Laconia.
87 Qui dai critici si crede che sia lacuna, e che sia confuso Peregrino e Gesù Cristo. A me non
pare, e vorrei non ingannarmi. Dopo che si dice che i Cristiani stimavano Peregrino come un Dio,
lo tenevano loro legislatore, lo intitolavano loro signore; si soggiunge ton megan goun ekeinon eti
sebousin anthropon, ton en te Palaistine anaskolopisthenta. Cioè a dire: i cristiani avevano
Peregrino in gran concetto, e non è maraviglia, perchè adorano anche un altro uomo. La particella
goun da me spiegata perocchè riempisce la voluta lacuna, e distingue Peregrino da Gesù Cristo:
essa vale il perocchè; e si spiega non solo profecto, ma anche enim ed imo vero, come dicono tutti i
Lessici, e come si vede negli esempi recati nei trattati su le particelle greche. Intendendo io così
questo passo, ho dovuto correggere la interpunzione del testo che ho per mano: e di tre piccioli
periodi farne uno solo.
88 Questi è Erode Attico.
89 Pitagora, Eraclito, Democrito, oltre dei sette savi.
90 Forse sarebbe meglio leggere aponian, che aponoian.
91 Cioè, Acquistatori, Acquista-cavalli, Acquista-gloria, Buonacquisti, Moltacquisti.
92 Questo Padrone, e appresso lOspite, cui è stata rubata la moglie, sono fra quegli Uomini
che hanno parlato innanzi e che formano quasi un coro.
93 Ingiuria è questo nome, che ricorda le pallottole di quellanimaletto.
94 Questo luogo è oscuro nel testo. Per la distinzione dei personaggi ho seguita quella che fa
ledizione di Basilea. Forse invece degli uomini dovrebbe parlare lOspite: E di me non si tiene
conto? di me che ho perduto la donna? E allora quadrerebbe meglio la risposta di Mercurio.
95 Pare che il fuggitivo reciti questi versi per esercitarsi nel dire ingiurie.
96 Questo è un giuoco di parole ed una caricatura che non si può tradurre. Io credo che si
debba leggere Klaianthen, invece di Kleanthen, e forse anche chrysepion, invece di chrysippeion.
Parrebbe che Ercole volesse dire: Era Cinico, ed ora è diventato Stoico, come Crisippo e Cleante:
ma egli vuole scherzare con questi nomi, e variandoli un po, dice un altra cosa, un motto che punge.
97 Il Tricipite Trikaranos, è Cerbero; ed è il titolo duna delle commedie di Teopompo andate
perdute. Il Triphallo è anche il titolo di una delle commedie dAristofane, della quale parlano
Ateneo, Polluce ed altri; e vuol dire ancora tre membri virili.
98 Forse pece cattiva, e puzzolente. Gli adulteri colti in sul fatto avevano per pena un
ravanello ficcato nel sedere (Vedi la morte di Peregrino ed Aristofane nelle Nuvole), e poi eran
depilati, ed aspersi di cenere, secondo dice lo Scoliaste di Aristofane. Qui invece di cenere
Mercurio ordina di usarsi la pece.
99 Nome composto da Saturno e Solone, e vuol dire il legislatore dei Saturnali.
100 Il greco ha sphenopogones, che a parola significa barbe a cuneo. Questi sfenopogoni,
persone mute nelle commedie, erano appunto barbalacchi, cioè uomini dappochi e brutti.
101 Dionisodoro che è retore si scandalezza alla parola zelon, che gli pare barbara, ed io lho
tradotta zelosia invece di gelosia.
102 Aimemeon, dice Omero: ed è suono imitativo del vomito, e non può rendersi in italiano.
103 Hierapolis (sacra città); oggi è Aleppo: non era molto lontana da Samosata. Da prima fu
detta Bambyce, e poi da Seleuco fu chiamata Hierapolis. Eliano, De anim., XII, 2.
104 Il testo dice: Hanno i Fenicii un altro tempio non assirio ma egizio, che di Eliopoli venne
nella Fenicia. Qui si parla di tempio, e non di religione, nè di mere usanze: or come un tempio
venne nella Fenicia? E qual è questaltro tempio, o questaltra religione, di cui qui non si dica che una
parola generalissima? Io nol so: nè trovo che altri me ne dica nulla. Ho cercato con una piccola
giunta di chiarire un po la traduzione: e sono pronto a correggerla, se altri mi mostrerà che dal testo
si può cavare una sentenza ragionevole.
105 Nel testo è kephale, caput; ma non era capo, sì bene una pignatta in forma di capo, con
entro una lettera scritta sovra papiro. Vedi la seguente nota del Grevio. Facile è lo scambio fra capo
e vase. Il latino testa aglItaliani è capo.
106 «Lo stesso dicono Cirillo e Procopio comentando il cap. 18 del Profeta Isaia, nel quale si
parla delle calamità che verranno sulla terra che manda lettere di papiro sovra le acque. Il capo di
papiro dicesi che era una pignatta di papiro, nella quale gli Alessandrini mettevano una loro lettera
alle donne di Bibli, che diceva come Adone si era trovato. Sigillata bene la pignatta, la gettavano in
mare con certe cerimonie, e dicevano che da sè andava subito in Bibli, ad annunziare alle donne che
finissero il lutto. Queste donne poi sono quelle di cui parla Ezechiele, VIII, 15, che piangono
Thamuz, il quale è Adone, come osserva leruditissimo Seldeno, De Diis Syris, lib. II, cap. 11.»
(Nota del Grevio.)
107 Forse è la Libanitide, di cui si fa menzione nello scritto: Contro un ignorante ec.
108 Leggo theopropea, invece theoprepea, di divina maestà: e mi pare che questa lezione si
accordi meglio con le molte maraviglie, e gliddii che chiaramente appariscono nelle statue che
sudano ec.
109 I Greci chiamavano corna i denti dellelefante, per la figura e la materia, non già perchè
non conoscessero lelefante, o credessero che avesse le corna sul capo.
110 Il testo neurospasa, nervis tracta. Orazio: nervis alienis mobile lignum. Sono appunto i
burattini; cui si paragonavano quei grossi genitali, che non potevano esser mossi da quei nanetti.
111 Plutarco nella Vita di Demetrio narra questo fatto. Il padre era Seleuco, il figliuolo
Antioco, il medico Erasistrato. La città fu Seleucia, fabbricata sul Tigri, non su lEufrate, come qui
si dice per errore.
112 Nel testo pare che il cesto sia un arnese che ornava il capo. In Omero, Iliade XIV, il cesto
di Venere è una cintura che ella si affibbiava sul petto.
113 Perchè le cose pubbliche erano tutte sacre.
114 Mentisce Luciano, qui dice il La Croze, e glielo dice in greco. Credat Judaeus Apella
Luciano, soggiunse il Guyeto. No, Luciano non mentisce, perchè questo scritto non è suo, ma di un
uomo semplice, dabbene e credulo; il quale neppure mentisce, ma racconta a modo suo ciò egli
dovette vedere, i sacerdoti sbalzare in aria la statua luno allaltro ed acchiapparla: e al pover uomo la
statua pareva andare da sè per aria.
115 Gallo sacro, così il testo, ma credo sia guasto, e debba dir Gallo, uno dei castrati di cui ha
parlato innanzi, e parlerà tra poco. Potrebbe ancora il credulo scrittore aver detto veramente un
gallo, un uccello sacro, che si credeva facesse lispezione delle brocche suggellate e le aprisse.
116 Plutarco narra che Demostene morì nel sedici del mese Pyanepsion, che corrisponde fra
settembre e ottobre. Vedi Plutarco, Vita di Demostene in fine. Ma che in questo giorno sia anche il
natale di Omero, non si sa altronde.
117 I santi ci sono per tutti è un anacronismo, ma parmi efficace, rispondente al concetto del
testo, e non lo cambierei.
118 Omero, Iliade, lib. 1. Le parole che dice Achille ad Agamennone.
119 Demostene, Olynth., II, p. 23.
120 Omero, Iliade, lib. XII. Parole di Ettore ai suoi.
121 Demostene, Pro Corona, cap. 28.
122 Omero, Iliade, VII.
123 Demostene, Orat. contra Aristocr., p. 759, med.
124 Omero, Iliade, III.
125 Demostene, Pro Corona, c. 43, e 84, dove parla di questo Pitone orator di Filippo.
126 Omero, Iliade, lib. XII.
127 Demostene, Pro Corona, cap. 28.
128 Omero, Iliade, lib. II, dove Tersite dice vituperii villani ad Agamennone.
129 Omero, Iliade, lib. VII dove Diomede e Glauco dicono tante chiacchiere nel viluppo della
mischia.
130 Espressione di Pindaro nella settima delle Pitie.
131 Aulo Gellio e Plutarco raccontano che quando Demostene udì Callistrato, famoso oratore
de suoi tempi, si accese tanto delleloquenza, che, lasciata lAcademia e Platone, si diede a seguitarlo.
Vedi Aulo Gellio, III, 13; e Plutarco, Vita di Demostene.
132 La clepsidra, orologio ad acqua, misurava il tempo assegnato a ciascun oratore per
parlare.
133 Da unOde di Pindaro che è andata perduta.
134 In Atene si dava un premio ai cittadini che andavano al parlamento, a quelli che
giudicavano le cause, e lobolo a quelli che andavano a teatro. Non facciano maraviglia le parole
ascoltamento e giudicamento, perchè le ho usate per ritrarre in parte la maniera onde è scritto
questo dialogo.
135 Il testo dice così: To men oun biblion touto (esti de ton ypomneomaton to prosekon emin
meros tode drama) to biblion phesi ec. Da prima le ultime parole si leggevano scritte in questaltro
modo, to de drama tou bibliou; e gli interpetri hanno voluto correggerle, vi hanno messa una
parentesi, hanno fatto ogni cosa per cavarne un sentimento, che non hanno potuto cavare netto e
chiaro. Io lasciando lantica lezione, e togliendo la parentesi, e trasponendo sola una virgola, leggo
diversamente, e credo di cavarne il senso che è nella traduzione. Leggo adunque così; To men oun
biblion, tout'esti de ton ypomnematon to prosekon emin meros, to de drama tou bibliou, phesi ec. E
se dovessi torne qualcosa, sarei col Guyeto al quale quel to drama tou bibliou, insititium videtur.
Vorrei meglio tradurre la parte drammatica del libro.
136 Iperide ebbe tagliata o strappata la lingua per ordine di Antipatro. Accusò Demostene, e il
fece andare in esilio. Si rappattumò con lui, e poi tornò ad accusarlo. Vedi Plutarco, Vita di
Demostene.
137 Pitone di Bisanzio, eloquente oratore; del quale fanno menzione Demostene ed Eschine.
138 La dramma era pagata alloratore in causa pubblica o privata; il triobolo al cittadino che
giudicava una causa.
139 Me gar ei parelpida, neque enim praeter spem. La negazione è necessaria, e credo che
sbagli chi la leva. Plutarco, Vita di Demostene, dice che Filippo si vantava della battaglia di
Cheronea, la quale riuscì non già praeter spem, ma secundum spem, o pure non praeter spem eius.
Almeno così mi pare.
140 Io crederei doversi dire: E noi che non siamo in tutto da meno di lui, e leggerei ouk
echontes, invece di an echontes: ma non ardisco di mutare niente.
141 Nemici di Demostene, e da lui chiamati traditori e venditori della patria.
142 Qui non so quante difficoltà si trovano. Ecco come io traduco il testo a parola in latino.
Nam et nos qui vidimus, nihil differebamus a videntibus in stupore et incredulitate. A me pare
dunque che non manchi niente, e che non si debba mutar niente.
143 Il testo neson arché, insularum imperium. Ma che vuol dire? Mi pare che nesos possa
significare anche penisola, e penisola è la Calabria (Terra di Otranto) dove si rifuggì e morì
Demostene.
144 Pro patria non timidus mori. Hor.
145 Polissena, nellEcuba di Euripide.
146 I Pritani erano in Atene un magistrato di 500 cittadini. Ciascuna delle dieci tribù ogni
anno ne sceglieva 50; i quali per 35 o 36 giorni governavano molte pubbliche faccende,
convocavano e presedevano il Consiglio de Cinquecento, ed i Comizii popolari. La tribù i cui
Pritani governavano per questo spazio di tempo, dicevasi avere la pritania, o presidenza. I Proedri
eran nove, tirati a sorte fra i pritani delle altre nove tribù; ed uniti ai cinquanta sovrintendevano solo
ai comizi, e non si impacciavano di altro. LEpistato era uno de cinquanta pritani, che aveva luffizio
di tirare a sorte i proedri, di proporre le cause, e di badare che non si facesse nulla contro le leggi.
Luffizio de Proedri e dellEpistato cominciava e finiva in ciascun comizio.
147 Jo. Matthia Gesner in una bellissima e dotta dissertazione: De aetate et auctore dialogi
Lucianei qui Philopatris inscribitur Disputatio, dimostra lucidamente che questo dialogo fu scritto al
tempo di Giuliano lapostata, e propriamente quando fu portata in Costantinopoli la prima novella
delle vittorie di Giuliano contro i Persi. Fu scritto da un uomo gentile, forse da un Luciano sofista,
che beffandosi delle predizioni dei Cristiani si congratula con limperatore delle vittorie riportate, e
gliene augura altre ancora. Nelle opere di Giuliano è una lettera scritta a questo sofista
dallimperatore. Egli è dunque certo che questo dialogo non appartiene a Luciano Samosatense, ma è
una meschina e sciocca imitazione di un sofista che visse un secolo e mezzo dipoi.
148 Questo Cleombroto lesse il dialogo di Platone sullimmortalità dellanima, e si gettò da una
rupe.
149 Queste a me non paiono esclamazioni, ma corregge che suonano; da cui Triefonte si deve
scostare per paura dello spirito, che esce del ventre gonfio. E nota che malignamente dice spirito.
150 Glinterlocutori del dialogo sono in Costantinopoli, e Crizia ha fatto il vento verso la
Propontide con la faccia rivolta allEussino: quindi zefiro, che entrava per lEllesponto, è stato fugato
da quel nuovo Borea; e le barche che venivano con Zefiro, debbono essere tirate con le funi dalla
rive del Bosforo per entrar nellEussino. Misera e sciocca esagerazione!
151 Giove non cacciò mai gli Dei dal cielo. Forse vuol dire dei Titani. In questo dialogo sono
molte inesattezze: più appresso per esempio, si attribuisce a Nettuno il grido spaventevole di Marte.
152 Parodia del 50 verso dOmero nel primo libro dellOdissea. Il fatto che qui si accenna non è
ben conosciuto. Il La Croze crede che questo eccidio avvenne nel terzo anno dellimpero di
Aureliano, quando i Goti messero a ferro e fuoco lEuropa e lAsia, e fecero cose nefande nellisole di
Creta e di Rodi. Il Gesner crede che sieno vergini cristiane al tempo di Giuliano uccise nella città di
Gaza, chiamata Minoa. Dotte ed ingegnose congetture, che non tolgono tutti i dubbii.
153 La madre di Giove qui, a creder mio, è la capra Amaltea, che si nutrì nelle foreste, non
Rea. E la chiama col nome di madre per più svilire Giove.
154 Juno Fellatrix. Vedi la nota del Gesnero a questo luogo.
155 Nicomaco Geraseno scrisse due libri su lAritmetica pervenuti sino a noi.
156 Il quaternario è di Pitagora: lottonario e il trentenario sono di Valentino, che tra gli
Gnostici del secondo secolo fu gran sognatore. Vedi una Storia Ecclesiastica.
157 Mosè . Ma forse qui è una confusione delle parole del profeta: A, a, a, puer sum, nescio
loqui.
158 Iliade, lib. 9.
159 Iliade, lib.13.
160 Iliade, lib. 9, seguendo le parole di Achille.
161 Cariceno, significa grazia vana. E costui parlava di vane grazie che si aspettavano da un
imperatore futuro successore di Giuliano.
162 Il testo ha sesemmenon gerontion. Il Gesner traduce putridus seniculus. Io non so donde
derivi sesemmenon, e come. Però ho tradotto in mezzo stava, leggendo en meso eimene, e il senso
mi pare che corra meglio. Se mi si mostra che ho sbagliato, sono pronto a correggere.
163 Arretrati. Nel testo è la parola elleipasmous, brutta e guasta parola che significa, il
rimanente dei tributi non pagato allo Stato. Io ne ho voluto usare in italiano unaltra, che non è pura
nè accettata, ma che in certo modo ritrae il barbarismo del testo, è intesa comunemente, e fa riuscire
più breve la traduzione.
164 I poveri cenciosi. Nel testo è eiramangas, parola di cui non sa il significato, e che ha fatto
disperare tutti glinterpetri, che si sono sforzati di proporre altre lezioni. Fra tante opinioni propongo
anche la mia. Credo potersi leggere tous eimarakkous, da eima, veste e rakkizo, stracciare o rakos,
cencio, straccio. Da eiramangas, ad eimarrakous è facile il mutamento: il senso è chiaro:
LImperatore novello rimetterà tutti i debiti pubblici e privati ai poverelli, non informandosi che arte
fanno per costringerli a pagare i tributi. Più appresso ci è la parola kakoeimon, mal vestito, che mi
pare una ripetizione di eimarakkous.
165 Clevocarmo, vuol dire illusoria letizia.
166 Aristandro scrisse de prodigi e dei sogni, ed Alessandro Magno gli credeva, e lo menava
seco. Q. Curt. L. II. Arriano, Anabasi III. Di Artemidoro abbiamo lOnirocriticon, ed. Rigalt.
167 Mesori nome che gli Egiziani davano al mese dAgosto. Giuliano morì a 27 giugno: in
luglio ne giunse la novella a Costantinopoli. I profeti che lavevano saputa, profetavano per agosto,
in cui si poteva sapere la certezza del fatto.
168 Gli antichi avevano in abbominazione i parti che si chiamano ermafroditi, e li gettavano
in mare. Livio, lib. XXXI, cap. 12.
169 Così il testo. Ma io sono certo che dovrebbe dirsi oi kekarmenoi ten komen kai ten
dianoian, quei tonduti di capelli e di cervello, o pure di chioma e di giudizio. Tanto più che innanzi
è detto che Clevocarmo parlò con colui che discese dai monti ed era kekarmenos ten komentonduto
la chioma.
170 Intendi, quelle brutte cose che riguardavano la morte di Giuliano, e la sconfitta
dellesercito: e però non sono riferite.
171 Questo periodo non mi garba. Che è il cantico di molti nomi, oden polyonymon? Dicono
debba intendersi il cantico detto dai Greci dozologia megale. E quale è? Laudamus te, Adoramus te
ec. o il Benedicite coeli Domini Domino ec., o la Litania? E quale è il senso di tutto questo?
172 Questi tre periodi sono così ravviluppati, e sgarbati nel greco, che a stenti ho potuto
renderli con certa chiarezza in italiano. Non ci è che fare quando si ha a tradurre concettuzzi magri
e stiracchiati: la traduzione va sempre zoppa. Questo dialogo non è tenuto di Luciano, è scritto
male, e pare roba duno scolare.
173 Nel testo il bisticcio è maggiore: e tale che ognuno dirà stare bellissimamente che si
chiami bellissimo. Chi traduce può moderare un po, non correggere nè mutare, se vuole ritrarre
fedelmente lautore.
174 Lacuna nel testo.
175 Musonio fu bandito da Nerone, perchè insegnando filosofia si tirava dietro i giovani. V.
Tacito, An., lib. XV, c. 71. Egli fu tra i prigionieri che cavarono la fossa su listmo, come narra
Filostrato, V, 19. Da questo dialogo pare che egli dipoi fu trasportato a Lenno. Oggi si vuol tagliare
listmo di Suez, e non si è dimenticato questo di Corinto: si farà luno, e forse laltro taglio, non per
capriccio di tiranno, ma per comune volere di popoli civili.
176 Intendi lisola di Lenno, dove Musonio era confinato, e dove si finge questo dialogo.
177 Non si sa che Agamennone aprì lEuripo, che è fatto così naturalmente, non da arte umana.
178 Potè avere udito, ragionando di cose utili, chè anche i tiranni si compiacciono talvolta a
udire di siffatti ragionamenti. Io leggo eisaieto, inaudierat, potè avere udito, da eisaio, inaudio;
perchè quelleisaito, che è nel testo, che si fa venire da eidomai, e che si spiega videri poterat, non fa
senso; e lascia sospese le ultime parole ai gar tyrannoi physeis, la mente dei tiranni, ec; per modo
che il Marcilio crede che vi sia una lacuna, e vorrebbe segnarla con asterischi.
179 elocheusen, partorì, generò, produsse, qui non mi dà sentimento. Leggo elakosen, unse di
olio, da elakoo. Forse il primo elocheusen ha cagionato qui questa ripetizione.
180 Girina. Non so che pianta sia. Il Lessico dice così. gyrine es e. Luc. girina, pianta. E
niente più.
181 Il testo ha yainas, da aniye, che il lessico spiega porcella. Io qui direi faina, ma con quale
autorità?
182 Scrittura sciocca ed inetta: pare una sguaiata e puerile imitazione della Tragedopodagra.
Ha versi mal fatti, guasti, monchi: ed in ultimo devessere monca di molti versi, perchè il Dolore ed
il Nunzio, che sono tra i personaggi indicati in principio, non parlano affatto.
183 Qui non è reticenza ma lacuna nel testo: e così anche negli altri luoghi in seguito.
184 Lacuna.
185 Lacuna.
186 Si può dare una svenevolaggine più balorda?
187 Lacuna nel testo e molte altre volte appresso dove sono questi punti.
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