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Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini. Volume Primo.
Lucianus
TITOLO: Opere di Luciano
voltate in italiano da Luigi Settembrini.
Volume Primo.
AUTORE: Lucianus
TRADUTTORE: Settembrini, Luigi
CURATORE: Settembrini, Luigi
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Opere di Luciano
voltate in italiano da Luigi Settembrini.
Volume Primo";
Ed. Felice Le Monnier;
Firenze, 1861
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 30 giugno 2005
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Rossella Gigli, [email protected]
Catia Righi, [email protected]
Ruggero Volpes, [email protected]
REVISIONE:
Rossella Gigli, [email protected]
Elena Macciocu, [email protected]
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OPERE
DI
LUCIANO
VOLTATE IN ITALIANO
DA
LUIGI SETTEMBRINI.
VOLUME PRIMO.
FIRENZE.
FELICE LE MONNIER.
1861.
DISCORSO
INTORNO LA VITA E LE OPERE DI LUCIANO.
I. Luciano visse nel secondo secolo dellèra cristiana, dal 120, o secondo altri dal 130 al 200, cioè
nacque imperante Adriano, visse sotto Antonino, Marco Aurelio, Commodo, Pertinace, e morì
mentre imperava Severo. Pochissime ed incerte notizie rimangono di lui per lastio de
contemporanei che egli spregiò ed offese, e per lobbliviosa ignoranza dei posteri; ma abbiamo le
sue opere, nelle quali ravvisiamo limmagine della sua mente, ed ammiriamo lultimo grande
scrittore della Grecia. Ma le opere del più arguto e celebrato satirico dellantichità non sarebbero
bene intese e imparzialmente giudicate, senza conoscere bene il suo secolo sì lontano e diverso dal
nostro; perchè le cagioni e le ragioni delle opere di ogni scrittore sono nel secolo in cui egli vive, e
nella natura del suo ingegno. Però conviene primamente riguardare, come in un quadro generale, il
secondo secolo, quale fu per costumi, per religione, per sapere: secondamente, dopo di avere dalle
opere stesse di Luciano raccolti i fatti della sua vita, considerarne lingegno rispetto al suo tempo, e
rispetto allarte da lui ristorata, e dopo di lui spenta: in terzo luogo esaminare particolarmente tutte le
opere che portano il suo nome. Dirò infine alcuna cosa di questa traduzione italiana, del modo che
io tenni nel farla, e che utile io credo potrà recare, se riuscirà a ritrarre una parte delle vive bellezze
delloriginale.
CAPO PRIMO.
SECOLO DI LUCIANO.
II. Luciano dipinse il suo secolo non con altri colori che con quelli della satira, che è la pittura
estetica del male: se egli ebbe ragione di così fare si vedrà nella storia, pittura scientifica del male e
del bene.
Nel mondo antico i Greci furono il popolo eletto, a cui la Provvidenza confidò leducazione
intellettuale dellumanità, ed a cui diede il più vasto e lungo impero che sia stato su la terra, perchè
fu impero dintelligenza. Come Venere uscita delle acque in una conca marina in mezzo alle
Nereidi, così lEllade circondata dalle sue isole sta fra lAsia minore e lItalia, alle quali porge la
mano valicando il breve mare che non le sèpara ma le unisce. In questa regione lieta e frastagliata
dalle acque più che ogni altra di Europa, era un popolo dintelletto potente, di vivida fantasia, e di
caldi affetti, che però sentiva un forte e continuo bisogno di godimenti intellettuali, cercava in ogni
cosa il vero, e come ei lo apprendeva, lo apriva facilmente con la parola, che fa crescere il pensiero
come laria fa crescere e vegetare la pianta. Dotato di mirabile ed unica armonia di anima, che
traspariva dalle leggiadre fattezze del corpo, questo popolo nella sua serena giovanezza creò e trovò
quanto doveva servire desempio a tutte le generazioni future: da Omero a Demostene rappresentò le
più perfette forme del bello; da Talete ad Aristotele trovò le più riposte forme del vero: e
Demostene ed Aristotele furono i due ultimi grandi esempi, le due ultime grandi creazioni della
Grecia. Nelletà matura insegnò e diffuse quanto aveva creato e trovato nelle arti e nel sapere: ed
ecco la libertà creatrice cadere, e sorgere la monarchia propagatrice dAlessandro, la quale
dividendosi diffonde la civiltà tra i popoli; ed il Greco uscito dellEllade si accasa e domina in Asia,
in Siria, in Egitto, e da per tutto sparge sapere e gentilezza. Ma in Italia era un popolo fiero per
forza di armi e potente di senno naturale che volle dominare su tutte le genti: i Greci per molti
secoli lo combatterono, e in questa lunga lotta, che cominciò da Pirro, chiamato a difendere
lindependenza delle colonie elleniche, sempre lingegno greco si oppose alla forza romana;
Archimede a Marcello; infine dovettero cedere alle armi ed alla virtù di Roma, e perdettero la
libertà politica che non seppero più difendere nè meritare. Allora avvennero due cose: la prima, che
limpero del mondo fu tosto diviso fra i due popoli, i Romani tennero la forza politica delle armi e
delle leggi, i Greci la forza intellettuale del sapere e delle arti; gli uni diventarono i padroni, gli altri
seguitarono ad essere i maestri del mondo. La seconda, che i Romani acquistarono un tesoro
immenso di cognizioni novelle, rammorbidirono i feroci costumi, si educarono e ingentilirono, ma
avendo trovata una civiltà già compiuta e vecchia, e vizi e morbidezze sconosciute, in queste si
tuffarono con impeto di conquistatori, e in poco tempo simbestiarono bruttamente, sprofondarono
in una corruzione sì turpe e nefanda che è vergogna anche narrarla: i Greci per contrario non
appresero nulla, e rimasero quali erano, anzi dispregiavano i loro imitatori; acquistarono solamente
persona e diritti che prima non avevano, e così avendo parte di potere, sentirono meno la servitù
comune. Già il mondo da Alessandro ad Augusto si era educato e incivilito: dal Tigri alla Bretagna,
e in tutti i paesi che stanno sul Mediterraneo le scienze, le arti e la lingua dei Greci erano diffuse:
ma il mondo era anche corrotto, perchè i principii onde era cominciata quella civiltà, non erano i
veri principii della ragione, la quale sempre apparisce tardi nella vita degli uomini e dei popoli.
III. Questo mondo grecoromano aveva in sè stesso le cagioni della sua corruzione. Il concetto del
diritto, e la piena coscienza onde i Romani il diritto esercitavano, li condusse a sterminata potenza:
ma perchè quel concetto era esclusivo, li condusse ancora alla corruzione ed alla servitù più
memoranda. Un popolo che per ragione della forza si crede giusto e legittimo signore della vita e
delle sostanze degli altri popoli, negando la libertà agli altri, la nega a sè stesso, perchè ne perde la
vera coscienza: quindi il popolo repubblicano che si teneva legittimamente signore del mondo, per
conseguenza necessaria del suo principio, si tenne legittimamente servo del signore e conquistatore
della repubblica; il quale fu la personificazione della forza diventata diritto, e non ebbe alcun freno
umano alle sue azioni. Ecco perchè Roma non per forza straniera nè per vecchiezza, ma nel fiore
della sua età e della maggiore sua potenza, e mentre acquista nuova civiltà, divien serva, si muta, si
trasforma; i rozzi e duri guerrieri in poco più dun secolo diventano mollissimi; i fieri repubblicani
cadono subito in una servitù così abbietta da stomacare finanche chi non voleva la pubblica libertà.
E però quanti delitti, e infamie, e orrori, e bestialità luomo è capace non pure di fare, ma
dimmaginare, tutto dobbiamo aspettarci di trovare effettuato ed applaudito in Roma. Trasea che
sentiva in petto la santità duna legge superiore alla romana, non andò in Senato quando Nerone
uccise la madre; ma il popolo che stava alla sua legge uscì festeggiante incontro al matricida,
adorava i bardassi e le meretrici imperiali, baciava la mano che gli scannava i figliuoli ed i padri, e
quando cadevano le teste de più santi cittadini, andava a ringraziare e sacrificare aglIddii per la vita
e lincolumità dellimperatore, il cui operare era sempre giusto, la cui volontà era legge sacra.
Imperator uti imperassit ita jus esto, era un concetto di diritto pubblico che nasceva da quel concetto
di diritto privato espresso nella famosa legge delle dodici Tavole: Paterfamilias uti legassit.... ita jus
esto.
IV. Nella vita greca era un concetto non esclusivo e rigido, ma immensamente vario e mirabilmente
armonico, il concetto della bellezza. La Grecia non è una città sola; ma molti e diversi popoli
congiunti insieme per un certo legame, e ritenenti ciascuno la sua personalità e la sua libertà intera.
Gli eroi vanno al conquisto di Troia, liberi tutti, e re, ed eguali ad Agamennone, che solamente per
necessità di guerra è scelto a duce supremo. Le città libere ed independenti, ciascuna con leggi,
magistrati, culto, costumi particolari, mandano legati al nazional concilio degli Anfizioni che
discutono i comuni interessi della religione e della politica; contendono tra loro per un primato che
nessuna ottenne mai pieno su le altre, perchè è primato dingegno che di sua natura è liberissimo; e
nondimeno riconoscono Atene come la più colta e gentile. Gli Dei non sono terribili, nè informi, nè
scure astrazioni, ma persone di umana leggiadria, una celeste famiglia eroica, il cui capo è Giove,
che ha diviso limpero coi fratelli, e tutti sono soggetti allo scuro fato. Le arti crescono libere nei
diversi popoli, che si radunano per farne mostra e paragone nei giuochi solenni. La filosofia ha
molte sètte distinte per dottrine e pratiche diverse. La lingua ha vari dialetti, e ciascuno ha la sua
bellezza ed i suoi scrittori. Questa varietà immensa aveva armonia di parti, non unità: quindi come
esse parti andavano crescendo ed invigorendo ciascuna per sè, quellarmonia andò dissolvendosi: la
libertà civile tosto cadde sotto il braccio di Alessandro, che invano tentò di dare unità a tante parti
dissociabili, e fare un impero greco; con la libertà caddero le arti; il sapere trovatosi discordante
dalla vita, si ritirò nelle scuole; il costume pigliò mollezza barbarica; il sentimento si corruppe nel
profondo dellanima, ed il popol greco arguto e gaio, rise piacevolmente de suoi iddii, e trattò come
una sciocchezza ed una bugia quella religione che era stata il senno, la verità, la vita e la gioia della
sua giovanezza. Così lingegno greco di acuto divenne astuto; il costume di lieto, lascivo; leloquenza
da intima espressione del sentimento, un freddo giuoco del pensiero; la filosofia da ricerca del vero,
una sottilissima ricerca delle forme del ragionamento; la civiltà intera divenne una corruzione. Il
concetto della bellezza che nei Greci era un senso squisitissimo, li condusse a quella civiltà
maravigliosa, a quella libertà, a quella gloria, a quella luce di arti e di scienze: ed essi ritennero
sempre questo senso, che era la loro indole, e con questo ornarono quanto fecero e quanto dissero.
Scendendo in basso, essi non caddero dove sprofondarono i Romani e dove luomo perde la
coscienza di essere uomo: anche scaduti e corrotti furono maggiori degli altri, anche servi
comandavano ai padroni, e li facevano pensare e parlare come loro.
V. Se il mondo grecoromano corruppesi per cagioni che aveva in sè stesso, era necessità che egli si
trasformasse. Come gli eserciti che mantenevano la potenza di Roma, non erano più di Romani già
infiacchiti e molli, ma si rifornivano e si rinsanguinavano di uomini barbari, i quali da prima
ubbidirono, poi, appresa larte delle armi, comandarono e distrussero limpero; così lintelletto, forza
dei Greci, non trovando nella vita intera di quel popolo un principio che potesse ricostituire lantica
armonia, lo ricercò nelle altre genti, e trovò unidea nuova, la quale, perchè rozza, da prima fu
disprezzata e sconosciuta, ma poi educata nelle arti e nel sapere dei Greci, e da essi spiegata e
divulgata per ogni dove, ridusse ad unità i popoli e le nazioni tutte, e fece del genere umano una
sola famiglia. I Greci che furono i primi e i più potenti edificatori del mondo intellettuale antico,
furono anche i primi e i più potenti nel distruggerlo, come sentirono che quellantico mondo non
corrispondeva più ai bisogni della ragione; e si diedero a ricostituire il nuovo, nel quale posero tutta
la forza del loro ingegno, tutta la ricchezza del loro sapere, e quanto dellarte antica ancora
rimaneva: sicchè il greco novello fu eloquente più di tutti gli altri, e teologizzò e chiacchierò anche
troppo. Per questa idea limpero greco sopravvisse al romano, come lo spirito alla materia, spirito
guasto e degenerato sì, ma sempre spirito che per una nuova fede mandò un bagliore che pur fu
luce; e fece conoscere al mondo ciò che vera dintellettuale e di vero nel Romano, le leggi, che egli
raccolse e pregiò. Ma la trasformazione dellantico doveva essere generale e profonda, perchè si
mutava il pensiero dellumanità, rinnovavasi il principio e lanima del mondo: però sapere, arti,
costumi, memorie, tutto doveva confondersi e mescolarsi, e in mezzo a questa confusione e
rimescolio, e nelle tenebre duna ignoranza feroce, sorgeva questidea ad irraggiare la civiltà nuova, e
ringiovanire il genere umano.
VI. Nel secondo secolo appunto la distruzione del vecchio mondo era fatta in gran parte, e
cominciava ledificazione del nuovo. Si può dire che gli uomini in quel secolo indirizzavano il loro
intelletto per tre vie che, sebbene diverse, riuscivano allo stesso termine: o per abitudine ed
ignoranza conservavano lantico: o per coltura e ragione lo dispregiavano, e dispregiando lo
distruggevano senza sapere che sostituirvi; o si affaticavano a edificare il nuovo. Ma quelli stessi
che conservavano lantico, cooperavano, senza saperlo, alluniversale rinnovamento, perchè
serbavano lelemento che doveva rimanere, ed essere trasformato ed assorbito nel nuovo, e che
riluttò finchè non fu trasformato interamente. Così tutte queste vie erano necessarie al futuro ordine
di cose. Ogni uomo senza che egli se ne accorga, e serbando la sua libertà, fa lopera cui il suo
secolo è indirizzato: se questa è dincremento, egli edifica; se di scadimento, egli disfà: ogni sforzo
contrario può essere magnanimo, ma riesce sempre inutile. La ragione umana rischiarata dalle utili
cognizioni diffuse dai Greci, e fatta adulta pel tempo e per lintrinseca sua forza, non poteva più
contentarsi delle istituzioni politiche, civili e religiose nate quandella era ancora bambina, e doveva
cercare nuove forme ed istituzioni in cui adagiarsi. Però la civiltà antica si distruggeva, e nasceva
unaltra nella quale vive solamente ciò che era ragionevole nellantica, perchè la ragione sola vive
eterna nel mondo.
VII. Ma consideriamo più da vicino questo secondo secolo, nel quale visse Luciano: e prima di
osservarne particolarmente i costumi, le credenze, ed il sapere, ricordiamone in breve gli
avvenimenti principali.
Limpero romano, retto da cinque buoni principi, nel secondo secolo parve che godesse duna rara
felicità, avendo nel secolo antecedente sofferte tutte le miserie e le vergogne dellultima servitù. Il
vecchio Nerva fece sperare, e Traiano fece a tutti godere sicurezza e libertà, rimesse negli eserciti la
disciplina, e vinse i Daci, fiere genti di Germania, dai quali il codardo Domiziano aveva comperata
una pace obbrobriosa. Ma come se fosse fatale che i romani imperatori dovessero far patire sempre
una parte del genere umano, mentre limpero era tranquillo, Traiano per solo desio di gloria e di
conquisti portò la guerra contro i Parti, e conquistò molte regioni dellAsia quasi sino allIndia. I
Giudei, colta loccasione, si levano e scannano mezzo milione di uomini in Mesopotamia, in
Alessandria, in Cirene, in Cipro: ma ne fu fatta aspra vendetta, e le armi romane desolarono e
pacificarono lAsia. Adriano per prudenza o poco animo non serbò le conquiste asiane, e volle che
lEufrate fosse loriental confine dellimpero. Cólto e vanitoso resse pacificamente, frenò larbitrio dei
magistrati pubblicando leditto perpetuo, visitò tutte le province per vedere e provvedere ogni cosa,
cercò ravvivare gli studi delle scienze e delle arti, talora giusto e moderato, talora crudele,
invidioso, difficile, fu più fortunato che buono. Scelse a successore Elio Vero, piaciutogli perchè
giovane bellissimo e lascivo; il quale per suoi vizi e fortuna di Roma tosto si morì; ed Adriano ebbe
il senno di adottare Antonino, e volere che questi adottasse il giovane Marco Aurelio. Senatore
santissimo fu Antonino, che pari a Numa onorò il trono dei Cesari con linnocenza dei costumi, la
bontà dellanimo, e la sapienza: fu religioso senza superstizione, diede onori, uffici e stipendi ai
filosofi ed ai retori in tutte le province, usò del sommo potere come di cosa non sua, e solamente
per far bene. Marco Aurelio, uomo di virtù più severa e faticosa, fu filosofo stoico, principe
lodatissimo. Per gratitudine ad Adriano si associò allimpero Lucio Vero figliuolo di Elio, di costumi
simile al padre: e fu maraviglia vedere un sapiente e un dissoluto insieme imperatori e concordi,
perchè luno era indulgente, laltro rispettoso. In quel tempo Vologeso re dei Parti rompe la guerra,
della quale fa menzione Luciano nel libretto, Come si deve scrivere la storia. Lucio Vero va in Asia
a combatterlo, e mentre tuffato nelle voluttuose delizie di Antiochia filosofava per lettere con
Marco, che governava lo Stato, i suoi capitani guerreggiavano valorosamente: Stazio Prisco
prendeva Artassata; Avidio Cassio e Marcio Vero vincevano in battaglia campale Vologeso,
sinsignorivano di Seleucia, ardevano Babilonia e Ctesifonte, abbattevano la reggia dei re Parti, e in
quattro anni sbaragliavano eserciti di quattrocentomila combattenti. Fra tante rovine surse terribile
peste. Si conta che nei sotterranei del tempio dApollo in Babilonia fu preso dai soldati romani un
forziere doro, donde uscì quella peste che distrusse gran parte dellesercito e si sparse per tutto
limpero. L. Vero tornò in Roma con lonore della vittoria, la peste, ed una più pestifera greggia di
cortigiane e di uomini perduti. Intanto i Sarmati, i Quadi e i Marcomanni chiamano allarmi tutta
Germania, e minacciosi avvicinansi allItalia desolata dalla peste, afflitta dalla fame, sbigottita da
questa furia di guerra. Escono i due imperatori a combatterli, e li vincono presso Aquileia: muore L.
Vero dopo nove anni di regno, e Marco rimane solo. Rifanno testa i barbari dal Boristene al Reno,
dal mar di Germania al Danubio, e Marco deve cedere: dipoi li ricaccia, e trionfa; i vinti risorgono
più fieri, ma dopo varia fortuna prevalse il senno ed il valore del guerriero filosofo. Uomo degno di
vivere in tempi migliori, guerreggiava da prode, e governava coi sermoni, piacendosi dinsegnare
pubblicamente nelle città della Grecia, dellAsia, e in Roma i precetti della filosofia stoica. E quando
era sul partire lultima volta da Roma per la Germania, i senatori, i cavalieri, il popolo in folla
andarono a dimandargli consigli e norme per la vita: e limperatore romano per tre dì sciorinò
massime stoiche al popolo radunato che lascoltava. Invasato delle astrazioni di una rigida filosofia,
non conobbe nè il mondo nè la sua famiglia; sassociò un giovane dissoluto, indiò una moglie
impudica, lasciò limpero ad un figliuolo scellerato. La sua vita fu pura, il sapere sodo, il cuore
buono, ed anche quei che ridevano della sua vanità dovevano rispettare le sue virtù.
VIII. Il secolo degli Antonini parve beatissimo non pure perchè successe ad un secolo di oscena
tirannide, ma perchè fu seguito da un altro secolo anche peggiore: in cui fu veduto Commodo
feroce gladiatore e cocchiere, Pertinace ucciso, come Galba, dai soldati che messero allincanto
limpero, e Didio Giuliano lo comperò; poi i furori di Caracalla, e glintrighi di due scaltre donne che
posero sul trono lultima vergogna del genere umano, linfame Eliogabalo; poi tanti imperatori
assassinati, e gli assassini divenuti imperatori; infine non altro che il nome dimpero romano, tutto il
potere in alcune migliaia di soldati barbari che creavano imperatore il loro capo, e questi reputava
sè essere lo stato, il suo campo Roma, la sua volontà legge a tutti. Non vha dubbio che nel secondo
secolo il genere umano non soffrì quei mali violenti che sono cagionati da malvagi principi, e che
limpero per lungo riposo acquistò gran potenza e maestà; ma chi considera a dentro la storia, e
ricorda quanto sono sospette le lodi che gli scrittori danno ai principi che favoriscono gli studi, non
sindurrà di leggieri a credere, come si afferma, che in quel secolo il genere umano godette della
maggiore prosperità. Imperocchè in quel secolo furono gli effetti del primo, e le cagioni del terzo: e
quella prosperità era solo apparente. Limpero si manteneva per la sua mole, per il nome antico e gli
eserciti nuovi; e non cinque buoni principi, non ottanta anni che essi durarono, non alcuna forza
umana poteva impedire quello che avvenne ed era necessità inevitabile. La corruzione dei costumi,
che era già grande ai tempi delle guerre civili della Repubblica, e crebbe smisuratamente nel primo
secolo dellimpero, non si spense a un tratto nè scemò nel secondo, ma durò e crebbe più coperta, e
però più profonda; e come se per questo apparente riposo avesse presa maggiore forza, divampò
spaventevole nel terzo, e cagionò la totale rovina di tutte le istituzioni.
COSTUMI.
IX. Questa corruzione è stata dipinta con terribile verità dal Meiners:(1) io ne ho accennate le
cagioni particolari; ed ora dico che non bisogna confondere Greci e Romani, i quali erano mescolati
sì, ma serbavansi distinti; e la corruzione dellun popolo era diversa dalla corruzione dellaltro quanto
le cagioni che la producevano ed il carattere nazionale di ciascuno.
Roma quanto maggiore delle altre città, tanto era peggiore. Le antiche case patrizie spiantate
daglimperatori o imbastardite per adulterii forestieri: le genti nuove salite a subite ricchezze non per
fatiche o industrie, ma per rapine o favori di principi, o accuse, o altre male arti: senatori e cavalieri
perduti di lascivie, inetti alle armi, abiettissimi nelladulare, ricordevoli desser romani solo nel
morire. La plebe che sdegnava di lavorare, superbamente mendica, viveva delle quotidiane
distribuzioni deglimperatori che la pascevano, delle sportule dei patroni, del grano che le veniva
dEgitto: niente produceva, tutto consumava, occupata solo di sollazzi, non curante di ogni altra
cosa. E plebe, e nobili, e imperatori, e liberi, e servi, e tutti parteggiare pei cocchieri nel circo, o pei
pantomimi nei teatri, o feroci anche nelle mollezze, starsi a vedere accoltellare tra loro o con le
bestie le centinaia e le migliaia di prigionieri di guerra: poi linfame mestiere piacque a tutti, furono
veduti senatori e donne discender nellarena, e un principe che fu ghiotto di tutte le turpitudini,
compiacersi di essere chiamato col nome di un famoso gladiatore.(2) Immenso numero di servi di
tutte le nazioni cui era negato ogni diritto, e in cui si comportava ogni più sozzo vizio; liberti furbi,
strumenti di tutte le volontà dei padroni, e spesso arbitri dello stato e dellesercito: mimi, cocchieri,
gladiatori, buffoni, ballerini che svergognavano sinanche il talamo imperiale, colluvie di tristi,
schiuma di tutte le città, impostori, astrologi, fattucchieri, ruffiani, meretrici, bardassi, tutte le
superstizioni e le lascivie, e quanto può corrompere ed essere corrotto si ragunava in quella cloaca
massima di tutte le sozzure del mondo. Il palazzo imperatorio era un bordello, dove Nerone,
Commodo ed Eliogabalo furono più turpi che meretrici: e se si guarda dentro le camere degli stessi
imperatori più lodati, si vede Adriano impazzire per Elio Vero e per il bellissimo Antinoo, mentre
la moglie Sabina infamasi per vendetta: si vedono le due Faustine, luna moglie del buono Antonino,
laltra del filosofo Marco, rotte in libidini quanto Messalina.
X. Le città greche per contrario serbando leggi, magistrati, culto ed usanze municipali lasciate loro
dai Romani, quanto più piccole erano, tanto più modeste e meno corrotte. Atene, antica e tranquilla
stanza di studi e di gentilezza, accoglieva i giovani di ogni paese, che ivi andavano a studiare
sapienza ed eloquenza. Il suo popolo riteneva lo squisitissimo senso dellurbanità, parlava ancora la
lingua di Aristofane; ascoltava i filosofi disputare, e glintendeva e li giudicava sennatamente;
andava a teatro per ascoltare i drammi dei suoi poeti, ai tribunali per udir gli oratori; gloriavasi del
suo Areopago, dei misteri celebrati con tanta solennità, dei monumenti maravigliosi delle arti; ma
era molle ed inetto, incredulo e cianciatore, aveva perduto la forza, la ricchezza, lattività e la fede
dei padri suoi. Le altre città elleniche piccole e di poca ricchezza e di pochi vizi, serbavansi
modeste col lavoro e lindustria, e gareggiavano tra loro solamente nei giuochi solenni, poco
curando gladiatori e cocchieri, perchè spettacolo senza mostra dingegno non piacque ai Greci se
non tardi assai. Non dirò di Tessalonica e di Filippopoli in Macedonia, non delle cinquecento città
dellAsia, tra le quali Smirne, Efeso e Pergamo contendevano del primato: ma ricorderò solamente
di Antiochia e di Alessandria, già metropoli dei regni di Siria e di Egitto, e che a mala pena
cedevano a Roma per vastità ed opulenza.
Antiochia, che spesso fu dimora e sedia dimperatori, popolata di mezzo milione di uomini, ricca
delle ricchezze dellAsia che in essa raccoglievansi, piena di piaceri, di spettacoli, di retori, di
filosofi, di giudei, di cristiani, di sacerdoti della dea Siria, era la città più molle e voluttuosa
delloriente. I suoi abitatori, come tutti i cittadini delle città popolose, arguti e beffardi ridevano del
pudore, della vecchiaia, di tutto, non avevano altro scopo ed altra religione che il piacere, ed alla
stemperatezza degli Asiani univano il gusto dei Greci. Cinque miglia distante da Antiochia e in un
gran bosco di lauri e di cipressi era il famoso tempio di Apollo, e pressogli il villaggio di Dafne nel
bosco. Il tempio era ricco di oro, di gemme e delle opere dei greci artefici: la statua del dio era
colossale. Come in Delfo, vi era una fonte detta Castalia, le cui acque si credevano profetiche: vera
uno stadio, dove ogni cinque anni si celebravano giuochi olimpici con profusissime spese e grande
concorso di gente, che dalle più lontane contrade vi accorrevano continuamente: e quivi tra le
ombre di quei boschetti irrigati da mille freschi ruscelli e in quellaere profumato, celebravano tutti i
misteri del piacere.(3)
Alessandria è dipinta dallimperatore Adriano in una lettera a Serviano suo cognato, la quale è
giunta sino a noi. «Qui ho trovata una gente leggiera, capricciosa, voltabile come il vento. Gli
adoratori di Serapide sono cristiani, e quei che si dicon vescovi di Cristo adoran Serapide: i capi
della Sinagoga, i Samaritani, i sacerdoti cristiani sono astrologi, aruspici, ciurmadori. Una parte del
popolo costringe il patriarca dei Giudei ad adorar Cristo, unaltra ad incensar Serapide. È una gente
nata per far sedizioni. La città di Alessandria poi è bella, industriosa, ricca, potente: nessuno vi sta
in ozio: chi lavora il vetro, chi la carta, e parecchi anche la seta: tutti lavorano, anche i ciechi e i
podagrosi, secondo le loro forze: tutti hanno un mestiero: cristiani e giudei riconoscono un solo dio,
che è linteresse. Peccato che una città sì bella non racchiuda abitanti migliori. Sono una gente
ingratissima. Io ho dato loro quanti privilegi e grazie hanno voluto: ed essi, finchè io sono stato
presente mi hanno profuse le più stemperate adulazioni: come sono partito, hanno insultato il mio
diletto Vero, e diffamato Antonino. Non desidero a costoro altra pena, se non che sieno costretti
dalla necessità a mangiare per solo cibo quei polli che essi fanno nascere dentro i letamai.»(4)
Parecchi scrittori antichi ci dipingono lindole del popolo Alessandrino, ma nessuno meglio di
Adriano ritrae così schiettamente la natura di quella gente sediziosamente religiosa e insieme
operosa, adulatrice, e beffarda. Alessandria mandava a Roma i frumenti, le tele di lino, la carta del
papiro, lavorio dellEtiopia, le perle del Mar rosso, i profumi dellArabia, la cannella ed i diamanti
del Ceilan, le opere dei letterati, le facezie popolaresche, buffoni, bei garzoni, sacerdoti dIside e di
Serapide, impostori, e indovini che Roma spesso cacciava e sempre riteneva. Città bella,
capricciosa, voluttuosa come lultima Cleopatra che anche nel morire mostrò coraggio di regina, ed
ingegnosa leggiadria di donna greca.
La moderna Europa ha qualche città più popolosa di Roma, molte più ricche, e quasi tutte piene di
tanti agi e comodità che agli antichi parrebbero lusso insopportabile e mollezza; ma nessuna è
corrotta quanto Roma, e quanto Antiochia ancora ed Alessandria; in nessuna si vede il vizio sì
oscenamente sfacciato, e personificato in un imperatore come Caio o Nerone, o Commodo, o
Eliogabalo. La cagione di questa differenza sta dentro, ed è lidea che regge la vita moderna tanto
diversa dallidea che reggeva la vita antica.
XI. La corruzione dei costumi nei Greci e nei Romani aveva una fonte comune, la religione del
politeismo. Il piacere è una gran verità della vita, e però la fantasia degli antichi ne fece un iddio, e
la ragione lo pose a fondamento duna filosofia: ma esso non è tutta la verità , e però nella religione,
nella filosofia e quindi nel costume fu principio di molti errori, e di vizi, e di mali. Essendo indiato
il piacere, fu cosa santa goderlo in ogni modo, e ciascun popolo ne godè secondo sua indole, gli
Asiani con rilassatezza, i Greci con saccenteria, i Romani con violenza. Credevasi da tutti di fare
cosa grata ad un dio cercare e godere ogni specie di diletto, sprofondarsi nelle lascivie, le donne
prostituirsi, gli uomini infemminire. Invano la ragione si opponeva alle conseguenze nefande dun
errore che nasceva da un principio religioso; erano savi solamente quei pochissimi che non ne
abusavano, ma labuso non era vietato da alcuna legge, anzi vi furono filosofi che posero il sommo
bene nel piacere che muove il senso, ed altri che lodarono lamor dei garzoni, e lo proposero come
premio ai valorosi. Nondimeno i primi abitatori della boscosa Italia e dellalpestre paese dellEllade
sentivano più forte altre passioni che la voluttà. Saturno e Mavorte, lagricoltura e la guerra sono
antichi dei di nome, dindole e di costumi italiani: Pallade e Nettuno, le arti ed il commercio
marittimo, furono gli dei che si disputarono la signoria dAtene e dellEllade. Afrodite venne dalle
isole dellEgeo e dai lidi dellAsia, dove la bellezza del cielo, la grassezza della terra, e la caldezza
del clima facevano sentire più potenti gli stimoli del senso. Gli Elleni accolsero volentieri la bella
marina, ma le diedero per ancelle le Grazie, figliuole dellingegno; i Romani che volevano per loro
ogni cosa, la vollero genitrice della loro schiatta. La religione del politeismo avendo indiate tutte le
passioni e le virtù ed i vizi, e le follie umane, le quali tutte sono la gran realtà della vita, non aveva
quella morale pura che è conseguenza della ragione divenuta legge eterna ed iddio. Però quasi tutti i
popoli politeisti sono rilassati nel costume, e facilmente nel godimento del piacere trapassano i
limiti da natura assegnati, e quasi tutti sono lerci del medesimo peccato. I Greci ne furono tinti non
più degli altri, come è fama, ma più degli altri ne parlarono, perchè avendo ingegno e parole da
indorare ogni cosa, indorarono anche questo vizio. Il quale, nasce da desiderio di nuovi piaceri, ed è
abuso di libertà che sforza anche natura; e presso gli antichi era molto comune per i servi, i quali
erano cose, e dei quali era lecito abusare in ogni modo; pel costume degli esercizi ginnastici, in cui i
giovani mostravano i corpi nudi; e sopra tutto per la religione. Quando Giove rapitore di tante
donne mortali, rapì anche il bel Ganimede, e se lo teneva in cielo; quando Apollo amatore di tanti
garzoni, e spiacente a molte donne, andò sì perduto di Jacinto; non deve far maraviglia a leggere le
nefandezze di Caligola e di Nerone, e la pazzia di Adriano che rizzò templi al suo Antinoo, e lo fece
adorar come Dio. I filosofi stessi sacerdoti della sapienza, erano travolti dal mal costume, e
cercavano di scusarlo con sofismi. Onde gli antichi dovevano fare maggiori sforzi che non
dobbiamo noi per praticare la virtù della continenza: e noi nel giudicarli dobbiamo aver locchio al
loro tempo, ai loro costumi, ed a tutta la vita antica sì diversa e discordante dalla nostra. E se taluni
uomini dintelletto e di cuore nobilissimo non seppero forbirsi della scabbia del mal costume, non
però noi dobbiamo biasimarli, perchè quel che ora è mal costume allora non era. E chiunque si fa a
leggere i greci scrittori, non deve scandalizzarsi di quel loro parlare non pur libero ma sbarbazzato,
considerando che era senza ipocrisia, e che anche dalle lordure essi dispiccano luce e bellezza. Chi
fosse vissuto nel secondo secolo non avria biasimata la libertà duno scrittore greco, vedendo
pubblicamente le pazzie superstiziose di Adriano, le lascivie dei due Veri, i furori meretricii di
Faustina in Gaeta, e le infamie di Commodo.
RELIGIONE.
XII. Sebbene la religione dei Greci e quella dei Romani fosse il politeismo, pure luna era ben
differente dallaltra. La romana era intimamente unita allo stato, istitutori e sacerdoti ne furono i re,
conservatori i patrizi; religione del jus, che nasceva da Jous - pater, dio ottimo, massimo, statore,
che sedeva sul Campidoglio a conservare limpero. La greca era unita allarte, e però istitutori
sacerdoti e conservatori ne furono i poeti ed i savi: religione del bello, in cui principale iddio era
Febo, phaos biou, luce di vita, il sole che genera tutte le cose e le abbellisce, e la luce intellettuale
che crea le arti, trova la sapienza, predice lavvenire, diffonde la civiltà tra gli uomini. Quindi la
religione romana visse con lo stato; limpero e Giove capitolino caddero lo stesso giorno: la greca
visse con larte; e, se finì di esser religione quando il greco trasse novella vita da una credenza più
razionale, essendo ella unita allarte che è eterna, rimase e rimane ancora viva nella bellezza dellarte.
Ora è da considerare la religione greca, e specialmente quale era nel secondo secolo.
XIII. La religione degli antichi Elleni era quel vergine sentimento sereno di cui gode lanima nella
giovanezza della vita quando entrammo in questo mondo che ci parve pieno di tanta bellezza, di
tante maraviglie, e di tanto amore. Il Greco palpitante di affetti e lieto di vivida fantasia animava ed
abbelliva tutta la natura, e i monti, e i boschi, e i fiumi, e le fonti, e gli antri, e il mare, e gli alberi, e
i fiori della sua patria, che gli erano cari quanto lanima sua che egli aveva posta in quelli. E le leggi
dellanima sua che egli riconobbe nella natura, e delle quali sapeva rendersi qualche ragione, furono
i suoi iddii; che però furono molti, e ritraenti larmonica bellezza della facoltà che li creava, esseri
formati di attributi della natura esterna e dellanima. Quello poi che nellanima era oscuro, e di cui
non si sapeva rendere ragione, chiamò il fato, che fu cieco, inesorabile, senza figura; legge
superiore alla corta intelligenza, verità astratta superiore alle verità concrete che sono gli dei,
creazioni belle, di cui essa è la ragione segreta, la cagione profonda e prima, e ancora sconosciuta.
Ma come lintelligenza cresce, e le verità concrete vanno dilargandosi in certe generalità, gliddii
perdono la loro bellezza particolare, e quella luce onde erano splendenti e distinti: dipoi viene quasi
un presentimento della prima verità astratta, che pure non si conosce ancora, e le si rizza un tempio
dedicato al Dio ignoto: infine lintelligenza fatta adulta la vede, la conquista, ed ora luomo ha sotto
le sue mani il fato. La più bella e compiuta rappresentazione della verità concreta fu la triplice
rappresentazione delluomo greco. Nella sua prima rozzezza e robustezza eroica il Greco
rappresentò sè stesso in Ercole, domatore di mostri e di ladroni, istitutore di giuochi, e ceppo degli
Eraclidi che regnarono lungamente nel Peloponneso. Il greco artista è simboleggiato in Febo
Apollo, bellissimo di persona e dingegno, poeta, musico, indovino, bravo in tutte le arti, savio in
tutte le scienze, nato in Delo centro delle Cicladi, dimorante in Delfo, umbilico dellEllade, però
tutto greco, con ire, amori, capricci, sventure che sogliono avere gli artisti. Fra questi due tipi, luno
informe, laltro perfetto, è il terzo più vero, il Greco nella vita reale rappresentato da Ermete,
facondo, astuto, faccendiere, rimescolatore, veloce di piedi come di mente, inventore della lira,
ladro, datore di guadagni, sì che la sua statua era innanzi ogni casa. Tutti e tre eran figliuoli di
Giove: ma Ercole è semideo e soggiace alla morte, perchè la forza corporale perisce, e se ne serba
memoria solamente quando è adoperata ad un fine di bene: Apollo ed Ermete, potenze della mente,
sono dii immortali. Tutti e tre furono datori di civiltà agli uomini, ed istitutori della palestra,(5)
istituzione civile e cara ai Greci, che abborrivano la guerra furiosa e sterminatrice, e dissero che
Marte era tracio non greco. I Romani lo fecero padre di Romolo. La terra ove il Greco viveva, le
rive della Sicilia e dellestrema Italia, i monti dellEllade, le isole dellEgeo, e i lidi dellAsia furono la
patria sua e de suoi numi: e non pure le città, ma i monti e i boschi e i fiumi e gli alberi erano sacri a
qualche iddio, serbavano memorie di sventure, di amori, di gioie. Una degli uomini e degli Dei è la
stirpe, e duna madre viviamo, diceva Pindaro (nella ode 6a delle Nemee): luomo aveva animata
tutta la natura, e la natura rispondeva con mille voci alluomo, il quale veramente le udiva e le
sentiva, perchè erano le voci dellanima sua. Questanima sì bene armonizzata di sentimento e di
fantasia creò la religione e larte egualmente belle, come due gemine sorelle che vivono duna madre,
per modo che nella religione era tutta la vaghezza artistica, e nellarte tutta la solennità religiosa.
Però la religione ebbe per sacerdoti gli artisti; ed essa ispirò i poemi dOmero e di Esiodo, le
tragedie di Eschilo e di Sofocle, le odi di Pindaro e dAnacreonte, il Giove di Fidia, la Venere ed il
Cupido di Prassitele: e però il popol greco teneva come sacri i libri dei suoi poeti, li serbava a
mente e li cantava, glintendeva e li credeva pienamente. I Romani per contrario tenevano sacri i
libri sibillini e di Numa, scuri, segreti, letti solamente da pochi patrizi, e interpetrati secondo
linteresse dello stato. Questa credenza nel popol greco era dunque naturale e necessaria, perchè il
bisogno di credere è potente in noi quanto quello di pensare: e doveva credere nei poeti, perchè
quella religione, più di quante altre sono state al mondo, era una schietta poesia.
XIV. Se non che i savi sentivano che quelle liete creazioni se piacevano alla fantasia e movevano
caramente gli affetti, non però contentavano la ragione, severa ed eterna avversaria della fede
religiosa: quindi cercarono di trovare in quelle creazioni le verità razionali nascoste sotto il velo
dellallegoria. Ma perchè il popolo non poteva nè voleva conoscere la verità nuda, che avrebbe
irritate e concitate molte passioni, fecero questa ricerca in segreto, e stabilirono i misteri. Quali e
quante verità si contenessero nei misteri è inutile investigare: si può dire che erano quante e quali si
conoscevano in quei tempi: e non è a credere che fossero state molte e profonde, nè interamente
spoglie dimmagini, anzi pare che esse spogliando la veste comune si adornassero di altra più sacra.
Il popolo non si lagnava nè sospettava, perchè sapeva che i misteri non contenevano altra religione
dalla sua, e li rispettava, perchè vi erano i grandi ed i savi, e non si curava di conoscere le verità
nascoste, perchè, secondo il senno comune, le credeva pericolose. Prometeo tolse il fuoco al sole, e
nascostolo in una canna, lo diede agli uomini che ne ebbero tanto bene: ma il preveggente non
seppe prevedere il male che gli verrebbe da questo benefizio: fu il misero strabalzato nelle
solitudini del Caucaso, e legato ad una rupe, dove laquila vendicatrice gli rode le viscere rinascenti:
così il savio che svela agli uomini certe nascoste verità, che fanno leffetto del fuoco, illuminano sì
ma bruciano e fanno dolore, tardi si accorge e si pente, e fugge nella solitudine, dove lo strazia il
rimorso di aver prodotto un male che egli non aveva voluto nè preveduto. Così il senno volgare: ma
un senno magnanimo e sublime diceva: No, o popolo, no: questo savio ha tutto preveduto, e
magnanimo ha voluto, ha voluto sofferire. Ei non prega perchè non sente colpa, nè vuole che altri
preghi per lui: egli seguita a fare il bene anche nella sua sventura, e conforta di consigli e di
speranze chi soffre come lui. La verità che a voi pare di aver prodotto un male breve, sarà cagione
di larghissimi beni in avvenire: verrà tempo e sarà conosciuta da tutti: ella nascerà dallerrore stesso,
dalla stessa tirannide nascerà la libertà, da Giove nascerà lErcole che dovrà liberare il mondo, e
diffondervi la verità. Guarda, o popolo, questo savio come sta tranquillo e confidente, e come
spregia le minacce e i tormenti. Già la folgore stride, e lo sprofonda nel tartaro; ma egli non può
morire, perchè il vero che è lanima sua non muore mai: e questo Titano, questo figlio del sole, è
lintelligenza umana che vive eterna, e trionfa di tutte le forze del mondo. Ecco il Prometeo legato:
ed ecco come Eschilo iniziato nei misteri ne rivelava le verità al popolo, il quale alla voce del gran
poeta si riscoteva e sentiva che veramente lErcole era nato, ed aveva combattuto e vinto a Maratona
e Salamina.
XV. Le leggi e le religioni nascono spontaneamente dai bisogni dei popoli: e quelli che le
stabiliscono non le creano mai, ma esprimono ciò che da tutti è sentito necessario; e però sono
creduti ed ubbiditi. Il politeismo nasce da un bisogno dellumanità, nella quale le prime facoltà che
appariscono sono la fantasia e laffetto, e tardi viene la ragione. Esso piglia diversa forma per la
fantasia, e varia secondo i luoghi, i climi e lindole dei diversi popoli: e la forma che pigliò in Grecia
fu singolare ed unica, per singolare ed unica condizione di quel popolo. Ma in generale il
politeismo, da ciò che in esso è invariabile, può dirsi la religione del pathos, cioè lindiazione delle
passioni, ed è proprio di tutti i popoli nella prima loro gioventù intellettuale. Gli è opposta la
religione del logos, della ragione indiata, propria di quei popoli di cui la ragione è giunta a certa
maturità. Lantico politeismo, sia della forma bella dei Greci, sia della forma politica dei Romani, e
sia ancora delle forme rozze e selvagge dei barbari, doveva, dove più presto, dove più tardi, cedere
alfine, perchè la ragione umana era cresciuta, le cognizioni dilargate, tutti i popoli del mondo
sincontravano, si mescolavano, discutevano. E questo cedere fu secondo che cede ogni opinione:
della quale prima si dubita, poi non si crede, poi si sprezza, poi si beffa, poi si butta via, si muta, si
dimentica. In Grecia, nutrice di tanti ingegni acuti e mirabili, si cominciò assai per tempo a
ricercare la natura degli Dei. Certamente il concetto che i filosofi avevano della divinità era ben
diverso dal concetto che ne aveva la moltitudine: e parecchi di essi, tra i quali Anassagora e
Democrito, insegnarono dottrine non punto religiose, che per la loro forma scientifica rimasero tra
le persone colte, e non si sparsero nel popolo. Nondimeno il popolo che amava tanto la sua libertà, e
la gaiezza, e la piacevolezza, talvolta rideva anchesso de suoi Dii come dei suoi magistrati, ma non
andava più in là del riso, e stimava tirannide disfare questi, empietà negare quelli. Quindi gli stessi
Ateniesi che senza scandalezzarsi udivano le piacevolezze e talora anche gli strazi che Aristofane
diceva degli dei pubblicamente su la scena, condannarono a morte Socrate che popolarmente gli
Dei negava, ed insegnava nuove dottrine che corrompevano la gioventù. Se noi ascoltiamo i
discepoli di questo filosofo non sappiamo concepire come un uomo di tanto sapere e di tanta virtù
fosse dannato a morte da un popolo sì colto ed amico di ogni bella azione: ma quando udiamo
Aristofane, rappresentante il senno popolare, il quale lo morde perchè negava seriamente gli Dei,
Socrate ci pare più uomo perchè commise lerrore di affrettarsi di troppo, e gli Ateniesi più
ragionevoli perchè serbavano intatte le loro istituzioni. Dipoi mutarono i tempi ed i costumi:
Epicuro potè sicuramente insegnare che gli Dei non si curano delle cose di quaggiù, e i suoi
discepoli dicevano più aperto, e pubblicamente nelle piazze discutevano, che gli Dei non esistono,
che la provvidenza è un vano nome, che il piacere è il sommo bene delluomo. Queste dottrine si
sparsero per tutte le classi e nel popolo stesso, il quale non credette più ai suoi iddii patrii, e andò
perduto dietro tutte le superstizioni forestiere, e cercò altri iddii, perchè senza iddii non poteva
vivere. Le persone colte o dingegno svegliato non credettero interamente a nulla, e tennero la
religione antica come unistituzione civile ed un costume che bisognava conservare perchè non vera
di meglio, e non faceva gran male; come una cosa non più divina ma umana; ed infine per la
ragione più potente, che ella era unita allarte e serbava molte bellezze. Insomma sentimento
religioso non vera più, ma bassa superstizione nel popolo, pieno scetticismo negli uomini di
conoscenza. La plebe romana come più ignorante della greca, era più superstiziosa, e matta di
religioni forestiere: i savi per solo fine politico serbavano lantica, nella quale non credevano affatto.
Quando i Romani liberi credevano negliddii, avriano stimato empietà dare ai loro grandi uomini
onori divini; ma i Romani servi, irreligiosi e corrotti indiarono i loro imperatori: e laccorto Tiberio
accettò di essere un iddio, non perchè ei si tenesse tale, ma perchè al suo divino onore era congiunta
la venerazione del Senato. (Tac., An., lib. 4, c. 37.) Così la religione del bello degenerò in religione
del piacere, e la religione del diritto degenerò in religione della forza: onde luna fu derisa come
stolta, laltra abborrita come ingiusta: entrambe mantenevano la corruzione e la servitù del genere
umano.
XVI. A mali sì grandi e sì gravi cercava di rimediare la filosofia, ma essa li aveva accresciuti col
riuscire che ella fece allo Scetticismo, che divenne dottrina e pratica generale: e vanamente gli
Stoici presumevano di correggere e raddrizzare lumanità; essi furono impotenti o ipocriti. A
ridestare la vita non ci voleva la verità astratta che è verità morta, ma una verità viva
dimmaginazione ed animata di novelli affetti, non bastava la filosofia presente, ma bisognava una
nuova religione. Era questo il bisogno dellumanità tuttaquanta, sentito da molto tempo, e
specialmente nelle infime classi del popolo, e nei servi, e nelle donne, e nei miseri, che erano
esclusi dallumanità antica. Però la novella religione non poteva uscire delle scuole dei filosofi, e
surse spontanea nel popolo con tutti gli affetti, le speranze, i timori, i dolori, gli errori, i vizi e le
virtù che il popolo aveva. Per questo informe involucro che la circondava, ella dapprima spiacque
come cosa vile: per tre secoli andò a poco a poco crescendo e sollevandosi nelle classi superiori,
secondo il movimento generale del tempo che abbassava gli antichi patrizi degenerati, e sollevava
gli uomini nuovi, i servi ed i barbari sino allaltezza dellimpero. Alcuni savi non la spregiarono, e
tentarono di foggiarla a modo loro, aggiungendole alcune dottrine antiche, e alcune loro
immaginazioni; ma ella che era nata spontanea rigettò ogni esterna apposizione degli Gnostici,
crebbe sola, sofferse, combattè, e infine a un tempo stesso convertì Costantino, trionfò dellimpero, e
stabilì la sua dottrina nel primo generale concilio. Il Cristianesimo essendo nato nel popolo doveva
contenere grande verità, che era la cagione del suo nascimento ed incremento, e molti errori, che
erano la ragione della sua esistenza nel tempo e nel popolo. Essendo opposto a tutte le religioni del
secolo, esso, come tutte le opinioni estreme, fu abbracciato da pochissimi uomini puri, aventi
coscienza chiara di ciò che facevano, da moltissimi sciocchi per impeto pazzo e fanatico, da molti
furbi per interesse, e fu generalmente sprezzato dagli uomini di giudizio. I quali nel secondo secolo
non lo conoscevano e non potevano conoscere, perchè esso non conosceva ancora sè stesso, non era
ancora formato; e sebbene già sapessero ed ammettessero le verità fondamentali del Cristianesimo,
come lunità di Dio e limmortalità dellanima, e lodassero la morale ed i costumi dei cristiani; pure
non potevano certamente lasciarsi persuadere dalle superstizioni che ravviluppavano quella verità, e
che erano appunto la religione allora; non potevano credere ai miracoli ed alle profezie che allora
ogni cristianello pretendeva di fare, alla risurrezione dei corpi, e ad altre fantasie vanite col tempo.
Dalle quali, come pianta nascente che ributta le prime fronde, il Cristianesimo si andò spogliando, e
così crebbe e dilargossi, ed i savi si ricoverarono sotto la sua ombra benefica, e si cibarono
sicuramente dei frutti di questalbero della vita. Non bisogna dimenticare di distinguere quale esso
fu dapprima, e quale dappoi: nè bisogna credere così ciecamente a quello che si dice, che esso
dapprima fu migliore che dappoi; per costumi sì, perchè i cristiani eran pochi e ferventi di fede; per
dottrine no, appunto perchè pochi ed ignoranti. La lettera di Adriano riferita innanzi è una fedele
dipintura della confusione religiosa che a quel tempo era non pure in Alessandria, ma in moltissime
altre città, e in Roma stessa. In mezzo a quella gran confusione, un uomo di senno che fare, che
scegliere? A noi venuti dopo tanti anni, e tanto lontani dalla vita e dai costumi veri di quel secolo,
pare facile indicare la scelta a farsi: ma chi viveva allora, e stava in mezzo alla corruzione, alla
rilassatezza, alla ferocia, al fanatismo, alla stoltezza delle sètte, se era uomo di senno si asteneva da
scegliere, stavasi a parte con la sua ragione, e rideva, o compativa al povero genere umano, che
cieco andava brancolando nel buio, per trovare a che afferrarsi e sostenersi. Biasimeremo noi
Tacito, Plinio, Plutarco, Epitteto, Marco Aurelio, e Luciano, cioè glintelletti più eminenti del
secondo secolo, perchè non furono cristiani? Ma e il Cristianesimo allora aveva tanta luce, si era
spiegato in tante verità, da farsi conoscere e però seguire da questi uomini? Essi erano savi,
dabbene, amantissimi della verità, e se lavessero scorta in esso lavrebbero tosto abbracciata. Non la
videro, e non per colpa loro, nè per manco dintelligenza o di volontà, ma perchè ella era ancora
greggia, e coverta da scorie superstiziose. Il tempo la scoprì, la forbì, la rendette splendidissima, e
non si può imputare a quelli di non averla conosciuta; perocchè ogni uomo con lingegno non si
estende di là dal suo secolo, come con la vista non si estende di là dal suo orizzonte.
SAPERE.
XVII. Il sapere antico appartiene ai Greci, che non pure lo trovarono, ma recarono a perfezione, e lo
diffusero tra tutte le genti. Il sapere deglIndiani e dei Cinesi, per quanto si voglia antico e vasto, ha
un certo che dincondito e di disarmonico, e rimase chiuso agli altri popoli, i quali però non ne
ebbero alcun bene. Il sapere dei Persiani e degli Egizi fu oscurato da quello dei Greci, come la
Persia e lEgitto furono conquistati dai Greci, e ridotti a gentilezza. Sia pure il Greco un fanciullo
per età a petto dellEgizio e del Persiano; ma questo fanciullo diventò subito un uomo straordinario,
e quei suoi vecchi maestri rimasero mediocri. Il sapere dei Romani, come tutte le cose loro, era
nello stato e per lo stato, era solamente prudenza civile; e quel popolo non ebbe propria altra
scienza che quella delle armi e delle leggi. I fanciulli romani imparavano a leggere sul libro delle
dodici tavole:(6) i loro gran savi furono giureconsulti, che spesso comandavano anche le armi,(7) e
fiorirono massimamente nellimpero, perchè nellimpero lidea romana del diritto ebbe nuovo e più
largo esplicamento, le leggi moltiplicate per la corruzione si separarono dal costume, divennero
cosa astratta, e però la scienza del giure stette da sè, e giunse a maturità piena. Quando appresero il
sapere dei Greci, ne pregiarono solamente la parte morale e politica, tennero le scienze speculative
come sconvenienti a senatori ed a Romani,(8) e le arti belle come puri ornamenti ed occupazioni
geniali:(9) e quando, deposta la nativa ruvidezza, vollero anche essi trattar le arti, riuscirono
imperfetti imitatori. Quei loro poeti ed istorici, e lo stesso loro magno Cicerone, che a noi paiono sì
grandi, erano spregiati dai Greci, che neppure li nominarono mai: ed anche oggi chi ha molta
pratica dei greci scrittori che ci rimangono, scorgendo dove e come furono imitati, non ha molta
ammirazione pei romani: i quali eziandio non trovarono le arti e le scienze vive e giovani in un
popolo libero, ma ormai invecchiate e cortigiane nella reggia di Alessandria; onde furono imitatori
e di non ottimi esempi. Un solo scrittore originale a me pare che essi ebbero, e fu Tacito, povero di
arte, ma ricchissimo di senno tutto romano.
XVIII. Il sapere dei Greci nei due suoi elementi del vero e del bello fu vasto assai: pure il suo
carattere proprio non è la vastità, ma larmonia di questi suoi elementi, la quale è appunto la sua
perfezione. Questarmonia era ancora tra tutto il sapere, e la sua principale forma, la lingua, che
facile e melodiosa esprimeva mirabilmente tutti i moti e gli atteggiamenti del pensiero. Il sapere,
come la luce, tende a diffondersi per ogni verso: ed il Greco sentì un certo istinto di portarlo in tutte
le parti e di propagarlo con ogni mezzo. Infatti dal favoloso Giasone sino ad Alessandro, il Greco
sente il bisogno di uscire del suo paese, lanciarsi sul mare, frugare in tutti i seni del Mediterraneo,
fondare colonie su tutte le rive, dove saccasa, e porta la religione, la lingua, i costumi, il governo,
gli usi della sua patria, insegna a tutti e non impara da nessuno, si mescola con tutti e rimane
sempre greco schietto. Oggi glInglesi hanno il medesimo istinto, portano la lingua loro e la civiltà
di Europa nelle più remote regioni della terra, e sia sotto il polo, sia nei bollori della zona torrida
rimangono sempre inglesi. Le colonie greche non furono punto inferiori alle città donde uscirono,
anzi talune divennero più potenti e più ricche, ed accrebbero il comune patrimonio del sapere. Le
colonie italiche ebbero due grandi scuole di filosofia, la pitagorica e leleatica; furono prime
insegnatrici di eloquenza, trovarono e perfezionarono la commedia, portarono le arti ed il lusso a
mirabile squisitezza in Taranto e in Sibari; e difesero in Sicilia la libertà di tutti i Greci combattendo
contro i Cartaginesi ad Imera nello stesso giorno che fu combattuto a Salamina. Le colonie dAsia si
gloriavano della prima filosofia insegnata da Talete fondatore della scuola ionica, ebbero il primo
grande storico, e forse il primo ed il massimo dei poeti. E quasi in ogni città delle tante che i Greci
fondarono in ogni regione, nacquero ingegni potenti nelle scienze e nelle arti: e così il sapere per il
lavorio di tanti intelletti che avevano la stessa natura, ma in diversi luoghi e modi e per diversi
aspetti contemplavano la verità e la bellezza, crebbe come da un sol tronco in molti rami e produsse
maravigliosi frutti. Ma poi che la civiltà greca fu fatta e compiuta, il pensiero seguendo sua natura e
sempre più aprendosi e dilargandosi, scioglie larmonia greca, per comporre unarmonia assai più
vasta. I re Tolomei raccolgono in Alessandria gli studi, glingegni, e le gentilezze: ma il Greco aveva
perduta la sua personalità e si andava nellumanità confondendo; però il sapere si era allontanato
dalla vita reale ed era rimasto unastrazione: la filosofia spaziava in ispeculazioni sterili e sottili, le
arti non più creatrici e libere si affaticavano nella critica e nellerudizione. Ora dobbiamo
considerare a che stato era giunto nel secondo secolo lo scadimento della filosofia e delle arti.
XIX. Nel mondo antico la filosofia, come scienza, fu solamente dei Greci; i quali avendola
applicata al Cristianesimo, la insegnarono ai moderni popoli di Europa cominciando
dallosservazione della natura, vennero a discoprire il più segreto ed intricato lavorio dello spirito, e
le leggi che lo governano, che pur sono quelle che governano luniverso: e riguardando la verità nei
suoi diversi momenti, si divisero in sètte, ciascuna delle quali pretendeva di avere scoperta la verità,
e di conoscerla pienamente, mentre non ne vedeva che un lato particolare. Da prima venerarono
questa scienza con una specie di culto religioso, perchè ella era umanata ed incarnata in tutta la vita;
e i filosofi scrivevano le leggi alle città, ne regolavano i consigli, ammaestravano e beneficavano le
moltitudini ignoranti ed obbedienti: tali furono i Pitagorici in Italia, Licurgo a Sparta, Solone e
Pittaco annoverati tra i sette savi. Ma le moltitudini quanto più sistruivano, tanto meno avevano
bisogno di maestri: altri uomini di conoscenze pratiche e speciali ne governavano la politica, ne
difendevano la libertà , ne accrescevano le ricchezze, ne facevano ammirare la gloria: la scienza
allora fu distinta dalle opere, rimase nella vita interna, nella vita morale ed intellettuale, e fu
rispettata, perchè giovava ancora: se non che quando parve contrastare alla vita reale, destò lo
sdegno della moltitudine che condannò a morte Socrate e Focione. Eppure la scienza, per essere
perfetta come scienza, doveva interamente staccarsi dalla vita reale, diventare una pura astrazione, e
giungere fino a negare sè stessa, per poi affermarsi in una forma più ampia e riabbracciare la realtà
vera tuttaquanta. Erano già dilargate assai le cognizioni, i bisogni cresciuti, e la scienza che andava
più e più disciogliendosi da ogni legame con la vita, non poteva correggere quei costumi, soddisfare
a quei bisogni, e contentare gli avidi intelletti; e rimase inutile, e però fu disprezzata, anzi talora
odiata da molti che la credettero nociva alla virtù operativa, specialmente i Romani che la
conobbero quando ella era giunta a questo termine. A ciò si deve aggiungere che i filosofanti, che
avevano la mente fuori del mondo, e non intendevano i bisogni del mondo, prosumevano
stoltamente di dare leggi e consigli agli uomini, che ormai ne sapevano più di loro, erano migliori di
loro, e non volevano le loro astrazioni. Questa a me pare la cagione per la quale la prima scienza
generatrice di tutte le altre fu tanto spregiata e generalmente abborrita dagli uomini discreti di quel
tempo. Ella non era più; e noi che da lontano riguardiamo al secondo secolo, vediamo che ella
aveva già compiuto il suo primo periodo, e pareva sterile, perchè stava per entrare in un altro
momento, per ringiovanire con lidea cristiana, e rinnovare il mondo.
XX. Fra le tante dottrine filosofiche, tre specialmente erano più sparse nel secondo secolo,
lEpicureismo, lo Stoicismo, e lo Scetticismo: le altre erano ristrette nelle scuole, nei libri, e nelle
solitarie speculazioni di pochi studiosi.
La dottrina di Epicuro intesa nel suo più largo senso, come certo lintendeva il temperatissimo e
savio suo fondatore, la dottrina del piacere non pure fisico ma intellettuale e morale come sommo
bene delluomo, è la dottrina più veramente greca fra tutte le altre, perchè è lespressione della vita
greca, di ciò che i Greci sentivano e facevano; di che Epicuro trovò lidea principale, e ne formò una
dottrina. Ma i puri e nobili godimenti intellettuali e morali non erano per tutti, e chi poteva goderne,
li trovava assai scemati per la perduta libertà, il guasto costume, il sentimento religioso distrutto, le
arti scadute: i soli godimenti fisici restavano facili e voluti dai principi come strumenti di servitù: e
però godere di questi soli, fu tenuto sapienza epicurea. Così fu calunniato un grande e virtuoso
filosofo, come autore di una dottrina che pone a sommo bene il piacere sensuale, e fa delluomo una
bestia docile ad ogni tirannide. Ma noi vediamo che pochi sennati uomini che conoscevano la vera
dottrina, ebbero in grande venerazione il filosofo osservatore profondo della natura e valentissimo
nelle conoscenze fisiche: la moltitudine sciocca ne spregiava il nome, e spregiava sè stessa che
bestialmente vivea.
Contro questa corruzione, e contro la dottrina che indirettamente laveva originata, surse tra le altre
la magnanima dottrina degli Stoici: i quali insegnavano, che soli piaceri veri sono glintellettuali,
sola forza vera è la ragione, che il solo savio è libero, è ricco, è bello, è forte, è re, ed ogni cosa, che
tutti gli sciocchi sono servi, tutti i delitti sono eguali; che niente è lecito fare, neppure levare un
dito, se la ragione nol concede.(10) Questa teorica era lestremo opposto della vita reale, pretendeva
fare delluomo un puro ragionevole, ne sconosceva le passioni e limmaginazione che sono tanta
parte della vita, e non poteva discendere nella pratica e nella moltitudine. Epperò ella fu ultimo
rifugio ai pochissimi onesti che avevano a schifo le lordure onde erano circondati; ed ai generosi,
che perduta la libertà vera, si sottraevano dalla comune servitù ritirandosi in sè stessi, vivendo in
una libertà astratta, e morendo da forti: ma fu ancora uninsegna sotto la quale si accolsero
grandissimo numero dipocriti, di furbi e di ribaldi, che sogliono seguire sempre le opinioni più
estreme per nascondersi più facilmente. Gli uomini di senno pratico che vedevano la volpe sotto il
mantello del filosofo, e sapevano che nel mondo non si vive di astrazioni, non si lasciavano
abbagliare dalle apparenze, e ridevano di una dottrina che non bastava ai buoni, e giovava tanto ai
tristi. Questa dottrina fu comune tra i Romani più che le altre, perchè essi apprendendo filosofia
quando erano già corrotti e quando questa era già declinante, non ebbero che due dottrine a
seguitare: o lEpicureismo o lo Stoicismo; due vie a tenere, o andando a seconda del secolo
sprofondarsi nei piaceri ed aggradire ai potenti, o opponendosi al secolo vagheggiare una libertà
astratta, e far guerra agli oppressori; o vivere corrottamente come Mecenate ed Orazio, ricchi e cari
ai padroni, o morire incontaminati come Catone, Bruto e Trasea. Il principio dello Stoicismo si
accordava al modo onde i Romani concepivano il diritto, alla loro indole severa, e porgeva certa
utilità nella fierezza dei tempi: però fu professato dai più eminenti Romani, i quali si svenavano con
lo stoico a lato che ragionava dellimmortalità dellanima e della libertà.
Il Greco che era vissuto nella sua armonica unità nazionale, non aveva avuto valore individuale:
ciascuno aveva operato nella città, nella tribù, nella fratria cui apparteneva, e aveva pensato nella
scuola cui egli seguitava. Quellunità si ruppe, perchè luomo sentì di avere un valore per sè
medesimo; quindi operò da sè solo, e pensò con la sua ragione propria. Ed ecco lo scetticismo,
filosofia di liberi intelletti, la quale si va spargendo nella moltitudine e diventa pratica, perchè ormai
nel mondo la libertà era il gran bisogno cui si doveva soddisfare, e luomo in ogni cosa sentiva di
avere un valore per sè solo. Specie di anarchia intellettuale è questa, che, come la politica, è
inevitabile e necessaria quando si rinnova uno stato: e allora rinnovavasi il genere umano. I Romani
diedero alluomo un valore pel diritto, i Greci un valore per la bellezza, il Cristianesimo un valore
per lo spirito: però lo scetticismo fu il precursore necessario del Cristianesimo, e fu non pure la
dottrina dei più sennati, ma il sentimento del secolo, la comune pratica degli uomini.
XXI. Queste dottrine filosofiche vi erano, ma filosofi non vi erano. La scienza antica era compiuta,
e giunta sino alla negazione di sè stessa; per ricominciare un altro corso aveva bisogno di altri
uomini con altre idee; e i pochi veri cultori di quella scienza antica non potevano fare nulla di
nuovo, dovevano star contenti a sporre, dichiarare, ampliare, applicare più largamente le verità
conosciute. E questi erano anche rari, perchè la tirannide imperatoria, la corruzione dei costumi, e
la superstizione avevano spenti i migliori, infiacchite le anime più salde, perseguitato ogni specie di
sapere. Onde nel primo secolo non è a parlare di filosofi; e tra i Romani non vedi altro che Seneca,
tipo di tutti gli altri, vecchio cianciatore di stoicismo, che vendè lingua, coscienza e onore a Nerone,
e nebbe cinque milioni e mezzo, e poi la morte. Nel secondo secolo i buoni imperatori tentarono di
ristorare gli studi, fondando biblioteche, dando onori, uffici e stipendi ad ogni specie di studiosi;
ma, a dire di Tacito, come i corpi crescono a poco a poco e muoion subito, così glingegni e gli studi
è più agevole spegnere che richiamare: e le arti tutte e le scienze hanno loro vicenda per cagione
propria ed intrinseca, non per odio o favore di governanti. Se togli Epitteto, Marco Aurelio, e pochi
altri, i rimanenti erano una turba dimpostori e di furfanti degnissimi di frusta. Bastava mettersi un
mantello indosso, farsi crescer la barba, sciorinar massime trite sul disprezzo delle ricchezze,
scagliarsi contro di tutti per farsi tenere un filosofo. La più nobile delle scienze era diventata un
mestiere; ed ogni ciarlatano, ogni tristo, ogni dappoco lesercitava, e ne faceva mercato nelle vie,
nelle piazze, nei bagni, ai conviti dei grandi, nelle aule imperatorie. Spento il vero sapere, le forze
dellingegno, che erano vive e dovevano operare, si volsero alla ciarlataneria: e i Greci che avevano
ingegno pronto e rigoglioso, ed erano facili parlatori, seppero fare mirabilmente questarte, e furono
astrologi, maghi, indovini, impostori celebratissimi. Ingannatori ed ingannati insieme essi
dominavano su le deboli intelligenze dei Romani, governarono lanimo sospettoso di Tiberio,
animarono Nerone e Otone a prender limpero, persuasero a Vespasiano che aveva la virtù di
risanare gli storpi, rimescolarono a posta loro il credulo animo di Adriano. La virtù dellintelligenza
non si volgeva a contemplare la verità, ma a disputare di argomenti sciocchi e vuoti, a vincere
lavversario, a sorprendere tutti con furberie divinatorie: e così si preparavano le dispute teologiche
del secolo seguente. Se gli uomini giudiziosi avevano qualche ragione di non credere in quella
filosofia, avevano tutte le ragioni del mondo a vituperare e sprezzare quei filosofi. Si può dire che il
saper vero di quel secolo era negativo, era non altro che conoscere la falsità di quei prosuntuosi
saccenti.
XXII. Le arti non erano in miglior punto. Nella generale dissoluzione del sapere, della religione, e
dei costumi lidea della bellezza si era disciolta anchessa, non appariva più presente e viva, ma era
lontana e morta: quindi non più creazioni, ma imitazioni delle opere antiche, sposizioni, critiche,
comenti, vocabolari, precetti, ed altri lavori letterarii, non di arte. Ma possiamo noi dire veramente
che bellezza non vera affatto, e che nessuna anima ne sentiva neppure un raggio? Non è ella una
rivelazione celeste che viene allanima in ogni tempo, e in ogni luogo? Io dico che non vera quella
bellezza che nasce dallarmonia generale della vita, non vera quel fiume di luce che viene continuo
nellanima dellartista, e da questa si riflette e si spande intorno a lui: la vita era brutta, e la sua
rappresentazione non poteva essere bella interamente. Io dico che vi poteva essere, e vi fu, qualche
anima che nella bruttezza di quella vita scorgesse un lume di bellezza e lo rappresentasse: ma
questo fu e sarà sempre privilegio di pochissimi; la moltitudine, benchè corrotta, poteva avere
qualche sentimento, qualche pensiero non ignobile, ma breve come lampo, sì che larte appena
poteva coglierlo e dargli una forma. Il pensiero poetico sì vasto ed armonizzato in Omero, sì grave e
solido nei tragici, così vario e lucente nei comici, viene a confondersi e minuzzarsi nellepigramma,
che piace sempre alla moltitudine, e non è luce, ma favilla poetica. Nella vita adunque non vi era
bellezza, e però non vi furono artisti che la rappresentassero: quello che vera, il male e lerrore, fu
rappresentato nelle due forme possibili, o nudamente nella storia, o in opposizione del vero e del
bene nella satira: la prima forma appartiene più ai Romani, la seconda più ai Greci, che non
perdettero mai quel loro senso, e la memoria della bellezza onde erano impressi dentro.
La tirannide dei primi Cesari aveva cercato di spegnere sinanco la coscienza del genere umano: e
quando dopo le guerre civili ed il regno di Domiziano apparve tempo men reo, e cessò
quellangoscia mortale che stringeva il cuore e opprimeva tutte le forze dellanima, gli uomini si
trovarono dimentichi di ogni buona arte, e, come Plinio afferma di sè stesso, si accorsero che non
sapevano più parlare. Come poterono rilevare il capo e respirare, non seppero altro che narrare la
storia dei dolori e delle vergogne sofferte. Cornelio Tacito la narrò da sennato romano e da consolo;
Svetonio da retore; entrambi atterriti da quellimmenso cumulo di mali che essi avevano veduti o
uditi, e che dopo tanti secoli fanno ancora spavento a chi li legge. Giovenale li dipinse nelle sue
satire che sono acute strida di dolore, sfogo di unanima generosa che si vede gettata a vivere fra
tutte le sozzure e le abiezioni duna età maladetta. Terribili pittori son questi, cui mancò larte, non
lingegno nè la materia. Lo sgomento sentito dai Romani in quel tempo, e manifestato dai pochi loro
scrittori, non era nei Greci, che da più secoli avevano perduta la libertà e provati non minori mali, e
allora vivevano nella muta stanchezza della servitù, contenti di nuovi dritti avuti dai Romani, delle
antiche loro istituzioni municipali, e lontani dai furori delle belve imperatorie. I loro savi non
potevano altro che raccogliere e serbare le gloriose memorie del passato, quasi a vergogna del
presente, nel quale non trovavano nulla di bello e di grande da mostrare agli avvenire. Plutarco
nella solitudine di Cheronea, sdegnando di vedere lintelligenza soggetta ad una forza stolta e
turpemente feroce, e sentendo che i Greci anche servi erano maggiori dei loro fortunati padroni,
ardì di fare non una storia, ma un paragone fra i due popoli. I punti di questo grande paragone sono
gli uomini illustri, che danno occasione a parlare di leggi, di religione, di arte militare, di politica, di
eloquenza, e di tutta la civiltà dei due popoli più diffusamente che non si saria potuto in una storia:
e perchè il paragone riuscisse più compiuto e più vero, discese a riferire la vita privata, i detti e i
fatti dei grandi uomini, e così fece meglio conoscere essi e le loro nazioni. Opera bella e vasta, fatta
da un uomo savio ed amabile, il cui concetto non poteva nascere se non quando fra i due popoli
cominciava a disputarsi di quel primato, che indi a poco fu del popolo intelligente: e la forma, se
non è della sobrietà e perfezione antica, è sempre greca e conveniente ai tempi. Le sue opere morali
poi sono un raccolto di quanto i Greci sapevano in quel tempo: non vi trovi una dottrina propria
dello scrittore, nè fine critica, ma gran copia di cose dette assai piacevolmente. Unaltra raccolta
copiosissima di cognizioni letterarie è lopera intitolata i Dipnosofisti, ossia il Banchetto de savi,
scritta da Ateneo. Questi, nativo di Eucrate in Egitto, uomo di molti studi, e di molta dottrina,
ricordando il tempo de Tolomei, certamente bello per un Egiziano, quando i letterati di tutte le
contrade erano accolti alla mensa reale, immaginò un banchetto in casa di un ricco signore, dove
convengono letterati, scienziati, ed artisti, e ragionano di ogni cosa. Ateneo ha i vizi di Plutarco,
poco giudizio proprio e poca arte, ma non ha le virtù, non ha quella placida e continua vena di
parole che escono dal pieno petto del savio di Cheronea. Entrambi rappresentano una parte del loro
secolo, le cognizioni: ma questo secolo fu rappresentato da un grande scrittore, il quale fu solo ed
unico, perchè unica era la forma artistica onde quel secolo si poteva rappresentare. Questi fu
Luciano, solitario poeta, che con amaro sorriso cantò la dissoluzione che gli era intorno.
XXIII. Luciano apparteneva ad una classe di uomini, che avevano tra i Greci molta importanza; e
questi erano i sofisti, dai quali egli si staccò e fece parte per sè stesso. Le città greche sebbene
private della loro independenza, pure conservavano le loro istituzioni, i senati, e le ecclesie o
comizi, nei quali si dibattevano molte e gravi faccende riguardanti la giustizia, la elezione di alcuni
magistrati, e la religione: molti interessi erano ancor vivi, e purchè non si toccasse quello che
concerneva i padroni, si poteva parlare liberamente; anche perchè i Greci con bel garbo parlavano,
ed ai bei parlatori si suole concedere certa licenza. Leloquenza però era coltivata come utile e
necessario strumento di vita civile; e si studiava negli antichi, e si cercava di accomodarla alluso
moderno. La lingua da Demostene a Luciano, cioè per cinque secoli, anzi fino a Libanio che visse
due secoli dopo, non mutò grandemente, perchè i Greci insegnavano e non imparavano idee e
parole: e la loro lingua sino ad un certo tempo seguì solamente le vicende del loro pensiero, non si
corruppe per introduzione di elementi forestieri. Il sapere era nei costumi, che sopravvivono anche
alla perdita della libertà: e però i Greci anche nella servitù ebbero una classe di uomini intelligenti e
bene parlanti, i quali se non potevano discutere dei grandi interessi dello stato, che danno tanta
altezza alla mente e tanta forza alla parola, avevano nondimeno ampia materia a ragionare degli
interessi particolari di ciascuna città, e della filosofia, e delle arti, e delle scienze, e di ogni cosa che
toccava la vita greca. Questi sofisti difendevano cause, discutevano di leggi, si mescolavano nelle
pubbliche faccende, ragionavano di filosofia, insegnavano eloquenza ai giovani, recitavano dicerie
alla moltitudine nelle pubbliche adunanze, nei teatri, nei giuochi solenni o in alcune case costruite a
questo fine, e talvolta ancora parlavano improvviso sopra argomenti che loro erano proposti. In
tempo che non verano molti libri, nè si poteva leggere le opere nuove, si correva da ogni parte a
udire i sofisti, i quali col mezzo della parola acquistavano fama, autorità, onori e ricchezze, erano
provvisionati dalle città per insegnare ai giovani le lettere e la filosofia, erano consultati nei pubblici
bisogni, andavano ambasciatori ai principi o alle città, e spesso ancora ebbero province a governare.
Nè la loro importanza era solamente nella Grecia; ma dovunque si cercava di acquistare gentilezza
e sapere si chiamava un sofista greco. In Roma non vera casa di patrizi in cui non fosse un sofista,
che educava i giovani, consigliava tutti, e confortava a morire con fortezza di animo. Limperatore
Traiano quando tornò dalla guerra contro i Daci, si teneva dietro sul cocchio trionfale il sofista
Dione, quasi volendo significare che a questo savio ed egli ed il popolo romano dovevano quella
vittoria. In Gallia erano celebri le scuole greche di Marsilia, di Autun, di Lione, e vi andavano
anche giovani romani a studio; e la scuola di Marsilia vantavasi di Favorino lodato filosofo gallo. In
Bretagna ed in Ispagna e in Pannonia e per tutto si davano ricchi stipendi dalle città a retori, a
filosofi, a medici greci. Egli è naturale che essendo la profession di sofista così importante e
lucrosa, ve ne fosse un grandissimo numero; dei quali pochi erano buoni, ed i più abusavano
dellingegno e del nome; e fra tanta corruzione di costumi fossero maestri dimposture, ministri di
scelleratezze e di turpitudini. E però il nome di sofista, che dapprima significò savio, maestro di
filosofia e di eloquenza, passò dipoi a significare impostore, ingannatore e tristo. Ma sieno buoni,
sieno cattivi, i sofisti erano uomini considerevoli, perchè principali diffonditori del sapere: e troppo
leggermente sono accusati di avere impettegolita leloquenza con le loro declamazioni, dicerie che
essi componevano e davano a comporre ai giovani sopra argomenti immaginari, e spesso sciocchi e
strani. Le declamazioni sono certamente una falsa eloquenza, e a noi spiacevole: ma bisogna
considerare che era la sola eloquenza possibile in quel tempo. Taluno dirà con Tacito, che sub
Nerone silentium pro sapientia fuit; ma se il tacere è la prima virtù del servo che non deve pensare,
non tutti possono e debbono tacere, e di ogni cosa: e val meglio adoperare lingegno in qualche cosa,
che lasciarlo morire dinerzia. Certamente le rassegne, le mostre, e gli esercizi militari in tempo di
pace non mostrano nei soldati il valore, che si spiega solamente nella guerra: ma quando guerra non
vè, si ha pure in qualche pregio chi è valente negli esercizi. Non bisogna confondere leloquenza
vera, e leloquenza di esercizio: luna e laltra ha il suo pregio: e se le declamazioni riuscirono
sciocche ed insulse, se ne deve riconoscere la cagione nella generale confusione del pensiero e dei
sentimenti, non in una classe di uomini, tra cui erano anche i savi, i discreti, e gli eloquenti.
XXIV. Possiamo adunque conchiudere che il secondo secolo fu senza mali violenti, ma tutto guasto
nei costumi, e senza fede religiosa: le scienze, le lettere, e le arti erano sparse per tutto, ma senza
grandi savi nè grandi artisti: tutti i popoli con le loro idee, i loro sentimenti, e le loro istituzioni
andavano confondendosi e mescolandosi, e già appariva la necessità inevitabile di un generale
mutamento. Tutto questo secolo, questo ammasso di errori e di lordure ci è dipinto da Luciano; il
quale da queste tenebre dispicca luce, da queste sozzure trae la bellezza.
CAPO SECONDO.
VITA ED INGEGNO DI LUCIANO.
XXV. Le notizie intorno la vita di Luciano non si hanno altronde che dalle sue opere: ma chiunque
si fa a leggere, massime in greco, tutte le opere che vanno sotto il nome di Luciano, tosto si accorge
che queste non possono esser nate da un ingegno solo, perchè sono diverse tra loro non pure per la
forma, ma per la sostanza stessa del pensiero. Imperocchè dove trovi un concetto grande espresso
con certo garbo e facilità, dove un concetto frivolo gonfiato di faticose parole; dove ordine lucente e
sobrietà modesta, dove affastellamento e confusione scomposta; dove un linguaggio puro ed
elegante, dove guasto e trascurato; dove il freddo sorriso del savio che guarda tutto e motteggia,
dove la calda ammirazione dello sciocco che magnifica le inezie; dove il motto arguto e spontaneo,
dove la freddura tirata fuori a forza; qui un uomo libero che non teme di dire il vero, e sfida lira
deglimpostori, lì un adulatore che piaggia sino le cortigiane; qui un accorto che dubita di tutto e non
crede e ride, lì uno sciocco che si beve ogni cosa e fa ridere di sè buonamente. Sicchè pare
indubitato che esse non possono appartenere ad un uomo solo, quantunque vario e diverso abbia
lingegno. Nè ti deve far peso il trovarle così unite e confuse; perchè gli antichi codici sogliono
contenere parecchie opere di scrittori diversi, specialmente se esse sono brevi, le quali si trovano
raccolte per gusto, per bisogno, per capriccio, e forse anche per ignoranza dei copisti. Ci ha potuto
ancora essere inganno per il nome di un altro Luciano, sofista, amico dellimperatore Giuliano, e
vissuto due secoli dopo, il quale secondo una ragionevole congettura del Gesnero, scrisse il
Filopatride, e potè scrivere altre di queste opere. Finalmente questa specie di scritti brevi e piacevoli
paiono facili ad imitare, e sono imitati perchè ogni sciocco suole pretendere allarguto, e per
accreditar limitazione la nasconde sotto un nome chiaro: così ai tempi nostri e mentre il buon Giusti
era vivo, abbiamo veduto stampate tra le sue savorose poesie parecchie insipidezze dei suoi
imitatori. In questa confusione come potremo distinguere luomo che vogliamo conoscere? come
non ci verrà il dubbio che potremo attribuire ad uno ciò che appartiene a molti? Diremo noi che
solamente le ottime sono di Luciano, quasi che glingegni anche sommi non facciano mai nulla di
mediocre? Egli è dunque ben difficile diffinire con certezza le genuine, ed è impossibile anzi inutile
cercare di chi sono le altre, che non paiono genuine. Nondimeno tra questa confusione spicca e
grandeggia un certo concetto rivestito di una forma leggiadra: ed in questo possiamo riconoscere
certamente Luciano; se no la sua fama sarebbe senza ragione. Dove troviamo un concetto diverso
ed opposto a questo, ed una forma senza leggiadria, lì è un altro uomo, che non possiamo
confondere col primo senza sconoscere la natura del pensiero umano. Così limmagine di Luciano si
chiarisce, e si spoglia di ciò che ripugna a lei: può rimanerle qualche cosa non sua, ma non
isconveniente: noi non possiamo discernere più oltre. È notabile che quelle opere solamente le quali
hanno quel concetto e quella forma, e che però si stimano genuine, contengono notizie della sua
vita: quindi possiamo ragionevolmente credere che queste notizie sien vere.
XXVI. Luciano fu di Samosata, città di Siria su la sponda dellEufrate; e nel libretto Come si deve
scrivere la storia, ei la chiama sua patria. Nel Sogno dice che ei fu figliuolo di poveri genitori, che
lo messero garzonetto allarte con uno zio materno che faceva lo scalpellino; ma spiaciutogli lo zio e
larte, si diede alle lettere, ove lo tirava il suo genio. Più lungamente parla di sè nellAccusato di
doppia accusa, dove dice che essendo ancor giovanetto, parlante la lingua barbara del suo paese, e
vestito quasi alla foggia dun Assiro, capitò nella Jonia, dove apprese la lingua e leloquenza dei
Greci; e benchè povero e sconosciuto, in breve destò maraviglia a tutti per felicità dingegno e di
parola, acquistò fama e ricchezze, e fu tenuto il maggior sofista o retore del suo tempo. Lessere nato
mezzo barbaro, di poveri e rozzi genitori, e laver passato i primi anni in una vita dura, contribuì
certamente a fare attecchire lingegno naturalmente vivace ed acuto del giovane, che si trovò
ignorante ma non corrotto. E fu sua buona fortuna che egli capitò in Jonia, e non nella mollissima
Antiochia, ricetto delle più stemperate libidini: ed io pensomi che andò a Smirne, capo della Jonia,
fiorente di buoni studi e di graziosa nitidezza di favella, e lieta degli ultimi favori di Adriano che vi
aveva stabilita una biblioteca e molti maestri: e in questa città che fu colonia ateniese,(11) e ritenne
sempre leleganza del parlare attico, forse egli apprese quella proprietà, quella perspicuità e
schiettezza di linguaggio che non simpara mai a perfezione su i libri, ma viene con le prime idee e
quando si comincia a parlare. Ma comunque ciò sia, è certo che egli venne in grande rinomanza: ed
ei continua a dire come il suo nome fu conosciuto non pure in Jonia e nellEllade, ma in Italia
ancora, dove ebbe vaghezza di andare (e forse necessità, per curarsi duna malattia docchi, come
scrive nel Nigrino), ed ancora in Gallia, dove con grossa provvisione insegnò eloquenza, come dice
nellApologia. Ma giunto su i quarantanni, noiato e stomacato delle vanità rettoriche, e forse anche
avendosi procacciato da vivere indipendente, abbandonò i giudici, i tribunali, le dicerie, le
declamazioni, e si ritirò in Atene. Quivi conversando nellAccademia e nel Liceo, cercò nelle
dottrine di Aristotele e di Platone conforto alla vita; ma avendo trovato promesse bugiarde, e la
scienza a mano di ciarlatani, deluso ed indispettito non la credette, e la beffò con larme di quel
dialogo onde Platone aveva confuso i primi sofisti: dipoi parendogli questarme poco efficace,
impugnò il terribile flagello di Aristofane e di Eupolide, e non risparmiò niente e nessuno che gli
paresse sciocco e ridicolo. In una città famosa per gentili piacevolezze egli parve a tutti
piacevolissimo, arguto e novissimo scrittore: e correvano a udirlo recitare una specie di scritture
non usate mai, certi dialoghi pieni di azione, di fantasia, di bizzarrie, di frizzi, di motti, vere
commedie, nelle quali era il ritratto delle opinioni vive e dei costumi. Piaceva non pure la novità ma
la bellezza artistica di questi dialoghi, e lardire del sofista diventato satirico, il quale faceva rivivere
in Atene la libertà, la festività, il lepore, e la lingua del vecchio Aristofane. Ma egli offese lorgoglio
dei filosofanti, che continuamente metteva in canzone, e in un festivo dialogo li vendeva tutti quanti
come schiavi. Ne fecero uno scalpore grande, massime i Platonici, come egli fa intendere nel
Pescatore, i quali vedevano il dialogo del loro maestro adoperato a vituperar la filosofia; e tutti
irritati avriano voluto farlo a pezzi: ma egli senza punto smagarsi di quelle furie filosofiche, anzi
freddamente ridendone, e rincappellando le beffe, dichiara che ei rispetta ed ammira i filosofi veri,
ma che i guastamestieri, glipocriti, glimpostori ei non ha temuto nè temerà mai di smascherare e di
frustare; che gli amatori e seguaci della vera scienza gli debbono esser grati di questo ardito e
magnanimo operare; e ingegnosamente pruova che tutti questi sparpagliatori di paroloni sono
abietti e sozzi furfanti degni di capestro. Nella vita di Alessandro, o il falso profeta narra come
essendo andato dalla Cappadocia nella Paflagonia con due soldati datigli per guardia dal
governatore della Cappadocia suo amico, ed essendo venuto alla presenza del profeta, costui gli
porse la mano a baciare, ed egli irato di questatto, gliela morse bruttamente; come gli astanti
volevano sbranarlo per quel sacrilegio, ma le armi dei soldati e la furba dissimulazion di Alessandro
lo salvarono. Ma quando simbarcò e partì, trovossi dato nel laccio; chè i marinai indettati da
Alessandro volevano gettarlo a mare, ed appena furono dissuasi dalle preghiere del padrone: e così
ei fu salvo da un grave pericolo corso per un atto di sdegno poco dignitoso, e per una baldanza
giovanile che lo traportava ad abborrire tutti glimpostori. DallApologia sappiamo che egli essendo
già provetto negli anni fu Procuratore imperiale in Egitto, e tenne gran parte di quel governo con
provvisione di molti talenti. Questo alto uffizio che era tutto giudiziale forse gli fu dato da Marco
Aurelio, che potè averlo udito in Atene, e pregiatone lingegno e le cognizioni. Quando, dove, e
come si morisse è ignoto: nellErcole e nel Bacco si dice molto vecchio: e da quei due ragionamenti
si può congetturare che forse Commodo lo privò delluffizio di procuratore, ed ei negli ultimi anni
suoi dovette ritornare a dar saggi di eloquenza por sostenere la vita. Altro di lui non trovo scritto, e
non so donde alcuni abbiano saputo che ei visse settanta ed anche ottanta anni. Nè meriterebbe
alcuna menzione la favola spacciata da Suida più di due secoli e mezzo dipoi, che egli morì
divorato dai cani; se questa favola non valesse a dimostrare il mirabile effetto delle satire di
Luciano, e lodio che gli portavano tutti glimpostori anche nei tempi appresso, perchè in quelle si
riconoscevano dipinti e si sentivano offesi. Se non che Suida, cristiano zelante, ma scrittore di poco
giudizio, potè confondere i due Luciani, ed appiccare allantico e famoso la favola probabilmente
inventata pel secondo; il quale per essere amico dellimperator Giuliano, fu certamente nemico dei
Cristiani, e, se scrisse il Filopatride, doveva essere dai Cristiani abborrito e maladetto come un
empio.
XXVII. Ma se per manco di notizie non possiamo fare la storia della sua vita, possiamo,
considerando bene le sue opere, ritrarne lingegno: imago mentis æterna; e sarà più importante ed
utile. Nelle sue opere in generale tu non iscorgi quella specie dintelletto che non comprendendo il
mondo reale, e non trovandovi nulla da nutrirsene e contentarsi, si crea un mondo ideale di
speculazioni filosofiche, o dimmaginazioni religiose, e in esso ritirasi e vive di memorie e di
speranze; ma un intelletto che raccoglie il mondo greco a lui presente, lo conosce, lo giudica, e
benchè vi sia in mezzo, pure si sente pienamente libero da esso e superiore ad esso, perchè non
crede a nulla, e si ride di ogni cosa. Il problema delleterno e terribile contrasto tra il bene ed il male,
tra il vero ed il falso, che la scienza e la religione si sono tanto e vanamente affaticate a sciogliere,
per lui è sciolto facilmente: perocchè nè il bene nè il male, nè la verità nè lerrore sono cose reali per
lui: la scienza e la religione sono impotenti e vane; il mondo è vuoto, ed in esso esiste solamente la
bellezza che riempie questo gran vuoto, e dà colore e moto alle apparenze che sono credute
sostanze. Il sentimento non fa conoscere la verità, perchè è cieco e senza il lume della ragione;
lintelletto non sa ritrovarla, perchè ha corte lali, e dopo tanti secoli e tanti sforzi non lha raggiunta,
nè la raggiungerà mai; la sola immaginazione sa cogliere i pochi fiori che sono nelluniverso, e ne
gode, perchè essi sono la sola verità che luomo può raggiungere, che è reale per lui, e non gli dà
dolori, e non lo turba: tutto il resto è dolore ed errore. Con la immaginazione Luciano vede sì il
contrasto che è nelle cose, ma solamente al di fuori, non penetra dentro, però non se ne commuove,
nè si confonde e dispera; anzi tiene questo contrasto come unapparenza, e vi scherza, e si piace a
rappresentarlo come uno spettacolo di bellezza. Da questa libertà pienissima, e dallamore che egli
ha alla bellezza, nasce quella sua serenità, quel suo riso, quella sua spensierata lietezza che niente
mai può turbare; e quella tanta cura e diligenza che egli pone nellarte e nella forma. Per noi il
contrasto è profondo, e chi non crede, sente lamara disperazione nel cuore, e non ride: per lui è
superficiale; e la bellezza lo concilia facilmente, e glielo rende piacevole. Per noi la bellezza è cosa
fuggevole: per lui è il solo bene, il solo vero, la sola realtà che esista nel mondo, e cerca di goderne
abbandonandosi tutto a lei, ed ha pietà di chi la sconosce e non la gode, e cerca il bene altrove. Il
suo sapere è comune, non esce della vita; ma il buon senso gli fa scernere e disprezzare gli errori
comuni: cosicchè egli esprime ciò che è di vero nel sapere comune, ciò che tutti sentono; onde tutti
lo intendono facilmente, riconoscono in lui i pensieri ed i sentimenti loro, si accordano con lui, e gli
prendono amore. A questo sapere comune e volgare egli aggiunge larte che è tutta sua, e che
abbellisce quel sapere e lo rende eletto e nuovo: onde in lui è a cercare e considerare specialmente
larte, che fu sua propria, essendo che il resto appartiene al suo secolo.
XXVIII. Nel quale, come ho detto innanzi, lo scetticismo era la dottrina, il sentimento e la pratica
più generale: e Luciano fu scettico non pure perchè visse in quel secolo, ma per unaltra cagione
particolare, per la professione di retore che egli esercitò. Il retore più di tutti non credeva a nulla:
facendo professione di sostenere il vero ed il falso, il torto e il diritto, di biasimare e di lodare la
stessa cosa, di vendere insomma la sua parola a chi volesse comperarla, doveva farsi giuoco di ogni
cosa, rimaner libero e scevro da ogni passione, e dentro di sè non avere altra idea ed altro fine che il
proprio interesse: e se per bontà di natura aveva qualche senso per la bellezza e vagheggiava larte,
quel senso sottostava a quellidea, e larte era indirizzata a quello scopo. In parecchi scrittori greci
troviamo spesso ripetuto che la rettorica si apprendeva per acquistar potere e ricchezze: Aristofane
nelle Nuvole la mostra come una trappoleria e un cattivo giuoco per ingannar la giustizia: e Luciano
stesso nel Sogno, volendo confortare i giovani suoi cittadini a studiarla, non sa trovare migliore
argomento che linteresse, e parlando al loro senso, dice in modo facile e compagnesco: Mirate me:
io ero un povero giovanotto che per buscar pane fui messo allarte della scoltura; ed io lasciai
quellarte meschina, e mi diedi alla rettorica, la quale vedete come mi fa tornare in patria, con che
fama, con che onore, con che ricchezze, con questo bel robone indosso, e divenuto altro che
scultore. Il retore adunque era sozzamente e bassamente scettico: e Luciano benchè retore, pure
essendo nato artista, si sollevò di quella sozzura, sentì un altro Dio presente ed immanente in lui, e
rimanendo scettico adorò la bellezza. Benchè dalla rettorica avesse avuto assai di quello che essa
poteva dargli, cioè ricchezze e fama, pure egli non potè contentarsi, la dipinse come donna
impudica e sfacciata, la lasciò per verecondia, e cercò qualche cosa più composta e ornata e vera.
XXIX. Nelle scuole di rettorica gli esempi della più alta eloquenza che si proponeva ai giovani
erano specialmente due, Demostene e Platone: ed entrambi si studiavano per la forma. È naturale
che un retore dovesse pregiare Platone più di tutti i filosofi, come il più eloquente, ed avente quei
pregi che egli poteva meglio intendere: perocchè il nudo rigore delle dottrine di Aristotele, lispida
dialettica degli stoici, la volgarità dei cinici, e lepicureismo tutto sperimentale, non potevano gran
fatto piacere ad uno educato nelle opere del bello. Ed è naturale ancora che un retore di qualche
ingegno volesse penetrare più dentro della forma nelle opere del filosofo, e considerare anche la
materia. Ora questo appunto potè avvenire a Luciano, che da giovane doveva avere Platone in
grandissimo concetto, come si vede nel Nigrino, opera piena di fede e di affetto giovanile, e come si
scorge chiaro in molte sue opere, dove, sia per celia, sia davvero, riferisce assai spesso le sentenze
di quel filosofo, dal quale tolse molta vena di atticismo, e la forma del dialogo. Spiaciutagli la vana
ed interessata rettorica, attese alla filosofia, alla quale io penso che ei si diede allettato dalle opere
di Platone; ma non fu e non poteva essere filosofo per la natura del suo intelletto, ed il lungo abito
della vita. Ogni dottrina filosofica vuol essere intesa tutta ed intera per conoscere la verità che essa
contiene: le sentenze e le parole in ognuna hanno un senso particolare; e fuori di essa, intese
volgarmente, non hanno senso e paiono strane e ridicole. Però una mente non atta ed usata a
profonde meditazioni, a qualunque dottrina filosofica si volgerà, ne rimarrà sempre fuori, non
giungerà mai alla verità che sta molto dentro, sarà colpita dallapparente stranezza delle formole, e
disprezzerà la scienza come cosa ridicola ed assurda. Luciano, facile, leggiero, voltabile e poeta
aveva coltivata specialmente limmaginazione, sera educato e nutrito nelle splendidezze dei poeti e
degli oratori, era il rovescio dun intelletto filosofico. Lunica dottrina in cui egli avrebbe potuto
adagiarsi e trovarla conveniente allabito della sua vita ed alla professione di retore da lui esercitata,
sarebbe stato lo scetticismo; ma lo scetticismo scientifico pareva superato dallo scetticismo pratico;
e Luciano prima di attendere alla filosofia si trovava già più innanzi di questa dottrina. Egli è fuori
della scienza, e però la deride: e deride ancora, e forse più amaramente, lo scetticismo
scientifico,(12) perchè questo non conservando nè distruggendo nè creando nulla, ma solamente
dubitando, era oppostissimo allarte essenzialmente creatrice, e però doveva spiacere a chi era nato
artista. Quando dunque diciamo che Luciano fu scettico, non intendiamo di dire che ei fu filosofo
scettico, ma vogliamo indicare a quale forma della scienza appartiene la sua opinione. Egli non
dubita, ma sicuramente nega e distrugge tutto: non però si piace del vuoto nulla, ma come artista
crea un altro mondo, nel quale pone a sommo bene non il piacere, come facevano i comuni epicurei,
ma la bellezza. Così mi spiego perchè egli loda spesso Epicuro, il cui principio egli nobilitò e
rendette artistico. Per sua natura egli non poteva esser filosofo, nè seguire alcuna setta: e per la
condizione in cui era la filosofia egli doveva deriderla tutta quanta, perocchè essa non bastava più a
quel tempo, era diventata unastrazione sterile, era fuori della vita, e tutti sentivano che ella era
impotente a fare alcun bene e a ritrovare alcun vero. Il Cristianesimo che venne indi a poco è una
chiara pruova che il sentimento generale era giusto, e che Luciano aveva ragione di deriderla.
XXX. Luciano fu scettico non come retore, nè come filosofo, ma come artista. In un secolo
dubitante di religione e di sapere, la bellezza non era viva: e quelle anime che nascevano impresse
da lei, ed a lei tendenti, la vagheggiavano nella natura esterna, o nelle opere degli antichi: quindi
Oppiano coi suoi poemi della Caccia e della Pesca; quindi i Comenti agli scrittori antichi, e i
faticosi studi dei grammatici. Queste due specie di bellezze, luna materiale, laltra morta, non
potevano avere che mediocri pittori: un pittore grande come poteva mirare e dipingere
esteticamente quel secolo che era lordo di tutte le brutture? Perseo non poteva mirare in viso
Medusa senza diventar pietra; ma Pallade Minerva gli diede lo scudo brunito e lucente, nel quale
egli riguardando la Gorgone potè compiere la sua impresa. Così Luciano riguardando il male
presente in uno specchio ideale, dipinge la bellezza. Ma dovera questa bellezza, se il secolo era sì
brutto? Era nellanima sua, ed egli rappresenta lanima sua in mezzo alle sozzure del suo secolo: o
per meglio dire egli sa ravvisare la bellezza che è nellanima umana quantunque contaminata, egli sa
raccogliere la luce che cade sopra una pozzanghera, e sa rifletterla pura. Vi dipinge le cortigiane, e
ve le fa piacere, non perchè la cortigiana sia bella e piaccia, ma perchè anche nellanima della
cortigiana vè qualcosa di divino, che egli vede e rappresenta in mezzo alla miseria ed al vizio: come
il poeta inglese dipingeva Riccardo III e lo faceva piacere, non perchè Riccardo era buono, ma
perchè nello scuro abisso di quellanima egli seppe trovare uno sprazzo di luce celeste, una forza ed
una grandezza più che umana, e questo rappresentare. Or questo saper trovare le tracce dellangelo
su la fronte di Satana, questo saper discernere la bellezza in mezzo alla bruttezza è dato a pochi
spiriti eletti, specialmente in tempo di grande scadimento intellettuale e di corruzione morale. E
questo è il valore grande di Luciano come artista, che seppe mirare e dipingere la bellezza in un
secolo in cui nessun altro la vedeva, e tutti credevano che fosse perduta. Già veniva quel tempo in
cui gli occhi degli uomini si aprivano a mirare una luce novella, a riguardare la bellezza immortale
dellanima nellartigiano, nel povero, nel ladrone, nella meretrice, nello schiavo e in tutte le creature
umane straziate dalla miseria, dal dolore e dalla morte. Luciano la vide in mezzo alle superstizioni
del paganesimo, agli errori dei filosofanti, alle rilassatezze del costume, e in queste egli ce la
rappresentò con sorriso sicuro, perchè si sentiva libero da tutto ciò che lo circondava: e questa è
vera rappresentazione artistica. Gli scrittori che dipingono il male come male, il deforme come
deforme, ancorchè abbiano tutto il possibile magistero della lingua e dello stile, non saranno mai
artisti, ed al più faranno ritratti brutti di troppa somiglianza. Lartista vero trova il bello anche nella
bruttezza che lo circonda, o pure lo trova dentro di sè e lo pone in ciò che gli sta intorno e che ei
dipinge: quindi presenta il male che è fuori di lui in contrapposto del bene che è nella sua mente, il
brutto reale in contrapposto del bello ideale: e così veramente piace ed è utile agli uomini. Ora
consideriamo i concetti di questo artista scettico, e la forma onde egli li esprime.
XXXI. Cornelio Tacito cominciando la vita di Agricola, prima opera che egli scrisse, dice: Nunc
tandem redit animus: Ora finalmente ripigliam fiato; e pare il naufrago del poeta che esce fuor del
pelago alla riva, sbigottito dai pericoli che pure a ricordare lo atterrivano. E non solo quel severo
storico, ma tutti gli scrittori romani, da Tiberio in poi, sembrano compresi da un alto sentimento di
mestizia; mentre i Greci per contrario se ne stanno in una tranquilla indifferenza, anzi scherzano e
pare che godano di quello stesso onde i Romani sì profondamente si addolorano. Quasi mentre
Tacito moriva, nasceva Luciano in tempi riposati sì, ma putridi di ogni corruzione: e nella
vecchiezza ei vide le vergogne di Commodo, ed i furori duna guerra civile. Ora come egli che
vedeva quei vizi e quei mali, che stava sotto quella tirannide, non si sdegna di quellimpero romano
che aveva ridotta la Grecia a provincia, non parla mai deglimperatori nè vivi nè morti, non getta
mai un motto contro quelle belve? Persio e Giovenale satirici romani pare che non abbiano maggior
pensiero che trafiggere coloro che erano cagione dei mali pubblici: e Luciano con tanto ingegno,
tanta arte, tanti motti, ardito amico del vero, flagello deglimpostori, il più arguto scrittore satirico,
come non tocca affatto la satira politica? Chi dicesse che egli tacque per prudenza o paura,
sconoscerebbe la natura delluom motteggevole che non risparmia neppure gli amici e le persone più
care quando gli viene il motto; calunnierebbe Luciano, attribuendogli un sentimento che egli non
ebbe mai: e direbbe una ragione non vera, perchè riguardante uno solo, non tutti gli altri scrittori
greci, nei quali è lo stesso silenzio e la stessa spensieratezza. È a cercarne adunque una ragione più
alta e generale. Il popolo romano ed il greco quando si unirono e mescolarono insieme, ciascuno
diede allaltro ciò che esso aveva di particolare, e in che esso valeva. Il cittadino romano aveva il suo
diritto come persona, il suo valore giuridico, del quale egli era superbo, perchè da esso gli veniva il
sentimento della sua libertà, e della maggioranza e potenza sopra gli altri: ma questo diritto, che fu
cagione di molti beni, quando dal cittadino passò e si personificò nellimperatore, fu cagione di gravi
mali e di servitù intollerabile. Luomo greco non aveva questo valore, e lo acquistò dal romano, e ne
sentiva i beni, mentre il romano allora ne sentiva i mali e se ne doleva. I Greci che da molto tempo
avevano perduta la dolce libertà e la nazionale independenza, e per più secoli avevano sperimentati
i mali delle discordie civili e della servitù forestiera, si acchetarono sotto il giogo romano, perchè
acquistarono un bene non avuto mai, che li compensò in parte di quelli perduti irreparabilmente,
acquistarono diritti di cittadini romani, valore giuridico individuale. Però essi non abborrivano
lordinamento politico dellimpero, ma vi trovavano il loro comodo, vi prendevano parte, vi
esercitavano uffizi, lodavano limperatore con lodi sentite, che per essi non erano sì basse
adulazioni, come pareva ai Romani. È stato detto con verità che spesso il tiranno di Roma era il
benefattore delle province: e sappiamo che mentre Commodo uccideva i più illustri patrizi di Roma,
in suo nome si facevano leggi che portavano nelle province sicurezza e prosperità. Così accadde
ancora pel sapere. I Greci che avevano levate le arti e le scienze ad unaltezza mirabile, le diedero ai
Romani quando erano già scadute e guaste: ed i Romani ebbero il secol doro della loro coltura tra il
fine della repubblica e il principio dellimpero, mentre allora i Greci stanchi e spossati non sapevano
trovare novelle verità nella scienza, e novelle bellezze nellarte. Quello che ai Romani era nuovo e
piaceva, ai Greci era vieto e noiava. Mentre i Romani dicevano: Grajis ingenium, Grajis dedit ore
rotundo Musa loqui, i Greci sentivano che la lode era unadulazione, perchè glingegni grandi
mancavano, e dalle bocche non piovevano più le parole come neve invernale. E mentre gli scrittori
romani erano tanto celebrati dai loro, e parevano dire alte cose e nuove, dai Greci non erano
pregiati, erano tenuti imitatori, e poco felici, e non furono mai nominati da alcuno scrittore greco.
Insomma come il Greco si sentiva inferiore al Romano pel diritto, così il Romano si sentiva
inferiore al Greco pel sapere: e come il Romano rispettava il Greco pel sapere, così il Greco non
poteva biasimare il Romano per la politica. Però Luciano non fece e non poteva fare la satira
politica del mondo romano: egli non si sentiva superiore a quel diritto e a quel politico
ordinamento, anzi, come greco, ne riconosceva i vantaggi; e, come onesto uomo, vi prese parte, ed
ebbe luffizio di Procuratore in Egitto, dove sovraintendeva ai giudizi ed interpetrava le leggi ed i
decreti del principe. Soggetto ad unidea non ad un uomo, egli non servì in corte, ma ebbe un uffizio
pubblico: disprezzò certamente ed abborrì quegli scellerati che sedevano sul trono romano, ma
perchè in quelli era limperatore, fonte del diritto, egli non poteva farne la satira. E forse si può
concedere che nellErmotimo ei volle la baia di Marco Aurelio, ma come di un filosofo, non mai
dellimperatore. La satira del mondo romano fu fatta da altri uomini che si sentivano superiori
allidea romana, e furono i Padri della Chiesa, i quali senza toccare la forma dellimpero e la persona
dellimperatore, attaccarono i principii, e si risero del borioso diritto di cittadino. E forse la satira più
amara fu fatta da quelli che fondavano le repubbliche monastiche senza proprietà, senza libertà,
senza diritto alcuno, e rovesci della gran repubblica romana.
Per queste ragioni a me pare che Luciano non toccò la satira politica, la quale avrebbe colpito
principalmente i Romani. Egli si tenne nel mondo greco: e ne potè ridere anche perchè limpero era
retto da buoni principi e miti. Quando i mali pubblici sono grandi, chi non ne è tocco, può tacere sì,
ridere non mai, se egli non è un vile che vuole insultare chi soffre, e dividere linfamia con chi fa
soffrire. Il riso piacevole di Luciano non può venire che da unanima tranquilla, secura e vivente in
tempi senza violenza.
XXXII. Il mondo greco comprendeva la religione, la filosofia e larte. Questo mondo già si apriva e
si diffondeva in uno più vasto, nel quale una religione novella non si legava allinteresse di una sola
città, di una sola schiatta, di un solo popolo, ma penetrava nellumanità tuttaquanta. Luciano non
conobbe il cristianesimo, che allora era una setta con dogmi non ancora fermi, non iscevra di
superstizioni, professata da gente di piccolo affare; ed egli coi maggiori uomini del suo secolo
appena la guardò, e non volle curarsene: e perchè non la conobbe, ei non la derise affatto. Delle due
opere in cui si parla del Cristianesimo, il Filopatride non è suo certamente; ed il Peregrino a chi ben
lo legge non parrà contenere alcuna beffa contro la religione novella. Narrando la vita di un furbo
ribaldo che era stato ammesso nella Comunione dei Cristiani e poi scacciato, Luciano parla delle
nuove credenze e dei nuovi costumi così di passaggio senza biasimo nè derisione, e chiama i
Cristiani infelici, kakodaimones, quasi avendo pietà di loro che rinunziano al godimento della
bellezza, unico bene del mondo, non curano le ricchezze, e per la loro credulità bonaria sono facili
ad essere aggirati e spogliati da ogni astuto impostore. Dove ragionerò particolarmente del
Peregrino sarà ad evidenza dimostrato che egli non attaccò nè il Cristianesimo nè i Cristiani. Forse
gli uomini timorati vorrebbero che Luciano per bene dellanima sua fosse stato cristiano: ma se egli
fosse stato cristiano non avrebbe combattuto il paganesimo con larme potente del ridicolo, perchè il
combatterlo sarebbe stato per lui un affare grave e serio: quindi se il ridicolo di Luciano fu utile a
distruggere la credenza antica, si deve esser contenti che egli non ebbe la nuova; e riconoscere che
la Provvidenza a lui diede luffizio di distruggere ciò che non doveva rimanere, e ad altri quello di
edificare ciò che doveva durare per molti secoli. Egli adunque non uscì del mondo greco, e non
intese ad altro che a deridere il politeismo dei Greci, rappresentandolo come un ammasso di antichi
errori, e di poetiche invenzioni non più credute e spregiate dalla ragione, ma ancora piacenti alla
immaginazione; e però egli vi scherza, si piace di maneggiarli in mille guise, e di giocare con essi
per dilettare sè stesso e quelli che sentono come lui. Lo schietto buon senso gli basta per questo
giuoco. Se qualcuno piglia sul serio questi errori e queste fantasie, e le tiene per verità, ei lo
motteggia e ne ride: ma se qualcuno le adopera per ingannare i semplici, allora egli con lira
delluomo onesto si scaglia contro limpostore, e non lo deride ma lo ferisce davvero. Egli adunque
non tocca nè politica, nè cristianesimo: il suo concetto antireligioso riguarda schiettamente il
politeismo greco.
XXXIII. Questo concetto, molto più antico di lui, era generalmente diffuso tra i Greci per opera dei
filosofi e degli artisti, e fu espresso in una forma bella e popolare principalmente da Aristofane.
Dopo sei secoli Luciano riprodusse il concetto medesimo più largo e compiuto, ma in una forma
meno artistica, siccome richiedeva la natura stessa del concetto e la condizione dei tempi. Il
concetto antireligioso di Aristofane è spontaneo, nasce dalla natura stessa di quel politeismo; ed il
poeta, come il popolo, lo esprimeva e non se ne rendeva ragione: non è mai principale, ma
secondario, non istà da sè spiccato e solo nella commedia, ma è unito ed armonizzato ad altri,
specialmente al concetto politico, che domina e unisce intorno a sè tutti gli altri. Aristofane non si
propone per iscopo di beffare gli Dei, ma li motteggia e ne ride come gli viene in taglio così
leggermente, e come fa il popolo che morde ogni specie di persone, e i suoi magistrati, ma non
vuole tocche le sue istituzioni; che libero e credente vuole esercitare sovra ogni cosa il suo buon
senso, e sirrita contro chi vuole torgli la libertà pienissima di credere e non credere a modo suo.
Però il concetto dAristofane non è largo nè profondo, ma invece è altamente artistico, è affiancato
ed avvivato da liete immaginazioni e da forti sentimenti, e si adagia nella forma fantastica e
leggiadra della commedia. Quello di Luciano per contrario è riflesso, appartiene a lui solo che non è
il popolo ma uno del popolo, sta solo, esce nudo dellintelletto, e nudo rimane spiegandosi
interamente nel dialogo, che è forma stretta e meno artistica della commedia, ma bastante a
contenere un concetto solo. Luciano si propone una sola idea, e di essa non esce affatto: se la piglia
direttamente con Giove, gli pone a fronte un cinico, il quale disputando te lo stringe per ogni parte,
e poi che lha confutato ed annullato, non si cura daltro. Il concetto di Luciano attacca la religione
dalle sue fondamenta, e labbatte, ed è lieto perchè vittorioso: ma sotto quella lietezza per noi cè
qualcosa di tristo, perchè si compie unopera di distruzione. Luciano deride una religione non più
creduta davvero, ma da furbi e da sciocchi mantenuta: ed egli sentendosi libero da ogni specie di
credenza, e sicuro di esser libero e di aver vinto, si compiace di sè stesso, e sta sereno e scherza.
Questa serenità manca al concetto antireligioso dei moderni, i quali sentono che non han vinto nè
possono vincere; perocchè il paganesimo cadde effettivamente dopo di Luciano, il Cristianesimo
sta, nè per crolli caderà facilmente. Il Voltaire, che non troppo giustamente è stato paragonato a
Luciano, è lieto per vanità e leggerezza, non ha la coscienza di aver vinto, anzi sente che i suoi
sforzi riusciranno inutili, e vuol nascondere a sè stesso questo sentimento di timore: onde il suo riso
è motto e facezia, non opera darte. Il concetto del Goethe, del Byron, e del Leopardi, mentre è
profondo e fieramente terribile, si dilarga ed abbraccia tutta la vita e luniverso; è il concetto
Dellinfinita vanità del tutto,
in cui non vedesi altro di piacevole che larte, la quale è anchessa una vanità, come la rosa che
Margherita si piace a sfrondare: onde essi non hanno che un lieve sorriso su le labbra e lamarezza
nellanima. I due primi trasmodano dalla forma ordinaria; la quale trasmodanza essendo necessaria
alla natura del loro concetto ed in accordo con esso, è cagione di una bellezza nuova e terribile. Il
Leopardi nella forma non trasmoda; è meno ardito perchè si sente meno libero, e non avendo alcun
conforto alla vita dolorosa, si appiglia più allarte come alla cosa meno vana che esista nelluniverso.
Il concetto di Luciano così compiuto per i tempi suoi e così popolare, così sicuro, e pieno di tanta
gaiezza e lucentezza di arte, non è più possibile nei tempi nostri, e a noi pare superficiale: perocchè
la ragione è penetrata assai a dentro nelle cose, da tutti si sente che sotto la bellezza ci è una verità
trista, un contrasto eterno ed invincibile; e gli uomini non si trovano più in quella condizione di
tempi tra un vecchio mondo che doveva cadere, ed un nuovo che sorgeva.
XXXIV. Il concetto che Luciano ci presenta della filosofia, è espresso e personificato nel suo
Menippo. Io non so se questo personaggio fu reale o è immaginario, nè importa saperlo: il certo è
che Luciano ci presenta in lui un tipo del sapere volgare, uno già filosofo cinico, cioè della setta più
plebea, poi non più filosofo in nessuno modo, ma un libero e piacevole vecchio che ride sempre, e
motteggia questi vanitosi filosofi. (Vedi il primo dialogo de morti.) Egli non solamente sa di non
sapere nulla, ma sa che il sapere è nulla, e ride di coloro che credono di sapere. Questo sapere è
interamente negativo, ed il suo concetto è fuori della scienza. Sempre e per tutto la moltitudine vuol
trovare la verità nel mondo sensibile che è il mondo delle apparenze, e non intende che ella è puro
pensiero, e non si trova che nel mondo del pensiero. La scienza campeggia in una regione libera e
superiore, e non ritiene del mondo inferiore che il solo linguaggio da lei adoperato in senso diverso
dal comune: e per il solo linguaggio, che la moltitudine crede dintendere, ella può essere beffata,
perchè presenta molte apparenti contraddizioni. Ma ella era giunta nello scetticismo a negare sè
stessa e distruggersi; Menippo era stato filosofo, e non era più, aveva conosciuta la scienza
intimamente e laveva abbandonata; quindi il concetto antifilosofico di Luciano non è interamente
volgare, ma trova un riscontro nella scienza, e si accorda pienamente con la condizione dei tempi.
Esso è rappresentato in due modi: nel modo volgare, che è poetico, e che adopera le arme del volgo,
la satira delle parole frantese, come si vede nella Vendita; e nel modo scientifico, che è quello degli
scettici, e adopera larme della scuola, il sillogismo ed il dialogo, come si vede nellErmotimo. Non
dobbiamo credere che Luciano fosse così nemico della scienza o digiuno di essa, che egli non
sapesse ravvisarla in nessun uomo del suo tempo. Nigrino e Demonatte sono due belle e nobili
figure di sapienti, dei quali il primo è caro ai giovani perchè vivente esempio di virtù intelligente in
mezzo ad un secolo corrottissimo: laltro è un amabile savio, che vive in mezzo al popolo, fa della
scienza una pratica, ed è simile a Menippo ed agli antichi e modesti savi. Luciano beffa la filosofia,
non come il volgo che beffa ciò che non intende, ma perchè egli la conosce bene secondo il suo
tempo, ed egli è il Menippo che è stato filosofo, e poi vecchio si ride della filosofia e dei filosofi.
Ora questo avere conosciuto bene è cagione della forza e novità della satira, e dellamarezza con cui
si versa contro i filosofanti: avendo conosciuto bene le dottrine, vedeva meglio quanto esse
discordavano dalle azioni. Insomma il suo concetto è filosofico e volgare insieme, come la sua
forma è mista del dialogo filosofico e della commedia: la quale unione è cagione della bellezza del
concetto e della forma.
Aristofane diede anchegli la baia ai filosofi; e nelle Nuvole ci rappresenta Socrate: è bene fermarci
un poco a considerare questa rappresentazione volgare della filosofia, e paragonarla a quella anche
volgare fatta da Luciano nella Vendita, che è un assai bel dialogo. Nella commedia di Aristofane tu
vedi tutto il popolo Ateniese che si move e si agita, coi suoi costumi, le sue leggi, i magistrati, gli
oratori, le liti, gli usurai, i giovani scapestrati, la libertà popolare, lallegria, i giuochi, il culto, gli
Dei tutti di Atene; ed in mezzo a questo mondo vitale ed operante, Socrate sospeso in un corbello
passeggia laere, e contempla e adora le Nuvole, sue divinità: bizzarra e leggiadra immagine di un
sapere vano in mezzo ad una realtà sì piena. Le Nuvole non sono la filosofia in generale, ma la
filosofia dun filosofo, il quale insegna artifiziosi e sottili parlari per abbindolare la gente, vincere
ogni specie di liti, ingannare la giustizia, negare gliddii e ad essi sostituire nomi vani. Io non so se
Socrate fu quale Aristofane lo dipinge innanzi a tutto un popolo che udiva e vedeva il filosofo, o
quale lo dipingono i suoi discepoli: forse luno trasmodò per ira, come gli altri per amore. Il poeta,
come il popolo, vede che glinsidiosi parlari, le trappolerie, le sottigliezze che si fanno giuoco della
giustizia e degli Dei, sono diventate unarte, sia questarte dei sofi o dei sofisti non importa, essa cè,
ed è un male, e il popolo lo chiama filosofia, e lo attribuisce a Socrate che è più famoso e parla con
certa malizia. Questo male Aristofane vuol rappresentare nella vita del popolo; quindi ti fa vedere
come quelle vane disquisizioni sorprendono il retto senso degli uomini semplici, confondono il vero
ed il falso, il giusto e lingiusto, offendono la morale pubblica, pervertiscono il costume, offendono
gli Dei e gli uomini; e ti presenta un giovane che avendo appresa la costoro scienza, trae a filo di
ragionamento la conseguenza che egli può battere suo padre, e lo batte, e dimostra che fa bene. Così
lo scopo della commedia è altamente morale, ed il concetto della filosofia è particolare, ma in piena
armonia con la vita ateniese, e però vivo di bellezza e di poesia. Nella Vendita il concetto è
generale: si deride tutta la filosofia nelle sue varie forme, si espone la dottrina di ciascuna setta, e se
ne beffa la parte esterna e ridicola. E perchè il concetto è generale, la sua rappresentazione non è
nella vita reale, come quello dAristofane, ma nella immaginazione. Giove vende i filosofi non vivi
ma morti, non persone ma vite, non realtà ma astrazioni, non idee ma sistemi: i compratori non
hanno nomi perchè sono lumanità, e Dione rappresenta un fatto non una persona:(13) la filosofia
non è cosa nociva, non produce tristi effetti nel costume, ma è cosa inutile, perchè non più creduta
da nessuno: i filosofi sono stimati a prezzo, e sono comperati o per curiosità, o per adoperarli a
qualche mestiere come a guardar lorto, o a voltar la mola del mulino. Questa rappresentazione è nel
vuoto, non ha scena, è isolata ed astratta, e però non ha la bellezza poetica della commedia. La vita
greca aveva perduta sua armonia, e gli uomini se volevano vagheggiar la bellezza, dovevano
cercarla in una immaginazione.
XXXV. A voler vivere in questo mondo bisogna pur credere in qualche cosa: e Luciano, come
greco, credeva nellarte, della quale non rise mai: solamente si scagliò contro coloro che la
guastavano e lavvilivano: e se fu acerbo contro di questi, non è a maravigliarsene, perchè gli
guastavano la cosa che egli più amava ed aveva unicamente cara. Il concetto che egli aveva dellarte
non lo troviamo espresso direttamente in unopera, come troviamo il concetto antireligioso nel
Giove confutato, e lantifilosofico nellErmotimo e nella Vendita; ma accennato, e indirettamente,
nelle opere che egli scrive contro i cattivi artisti: onde dobbiamo raccoglierlo da tutte le sue opere.
Nel libretto che sintitola Come si deve scrivere la storia, il quale è una satira di quella turba di
sciagurati storici che apparvero nel suo tempo, di cui egli per istrazio riferisce i nomi e le
sciocchezze più notevoli, espone lidea che egli ha della storia, e addita come ottimo esempio e
legge Tucidide, di cui si piace di annoverare i pregi. Parrebbe che Luciano come artista e poeta
dovesse inclinare piuttosto ad Erodoto o a Senofonte, ma egli non crede perfetto se non Tucidide,
intelletto severo e tanto diverso dal suo. Nella quale opinione egli mostra il suo buon giudizio, e si
oppone a quella di Dionigi dAlicarnasso, retore famoso e storico mediocre, che scrisse tanti biasimi
di Tucidide, sino ad appuntarlo di non sapere la lingua. Lopinione di Dionigi piacque ad un secolo
molle ed infingardo, quella di Luciano è stata confermata dal generale consenso dei posteri. Il modo
onde i Greci scrivevano la storia è diverso per molte cagioni dal modo onde la scriviam noi: ma la
buona storia fu e sarà sempre una, non opera interamente darte, come volevano alcuni, nè
interamente fuori dellarte, come vogliono altri: e lidea che Luciano ne aveva in mente sta in mezzo
a queste due opinioni, ed è così giusta che parrebbe ragionevole ai tempi nostri, e fa maraviglia pei
tempi suoi. Lidea che egli aveva del buon retore e in generale del buono e semplice scrittore, la
troviamo appena accennata nel Precettore dei retori e nel Lessifane; due satire, una contro un tristo
ignorante che si spacciava maestro deloquenza; laltra contro una sciocco che infilzava parole viete e
strane per significare sciocchezze nuove. E nel Zeusi leggiamo che la novità dei pensieri negli
scritti suoi tanto lodata dagli altri, non era gran cosa per lui, che voleva si pregiasse larmonia di
essi, e la convenienza, e la verità, e la semplicità e leggiadria dellespressione. Ma egli non ha
bisogno di parlare dellarte: perchè la mostra nelle sue opere, ed insegna come si deve adoperare.
Sdegnando le frivolezze e le sciocchezze degli scrittori contemporanei, e riguardando nei buoni
antichi, egli credeva che larte non devessere oziosa, ma avere uno scopo utile e civile: però a
correggere i costumi e le opinioni del secolo corrotto, e a fargli intendere la verità e lasciargliela
fitta nel cuore, egli prende a deriderlo, a destarlo dal sonno indolente, a scuoterlo da tante vergogne.
Due cose gli stanno sempre innanzi la mente, e non può dimenticarle mai, perchè sono le più grandi
ed importanti per un Greco, la scienza e la religione; le quali egli assorbisce nellarte, e con larte le
tratta e le rappresenta. Ben egli sente il valore di quel che fa, e luffizio che egli adempie, sente la
dignità delluomo greco, che è artista e savio; e si duole che questa dignità, questo primato
intellettuale si vada perdendo per la viltà di alcuni che si mettono a mercede de ricchi signori
romani: ed a castigare la viltà greca e lalterigia romana scrive un bel libro, e adopera larte a
vendicare la dignità dellarte.
Insomma i tre concetti che Luciano ci presenta della religione, della scienza, e dellarte del suo
tempo sono tutti e tre negativi: i positivi opposti a questi rimangono dentro di lui; noi li intendiamo,
ma egli non li esprime o appena li accenna. Egli oppone il buon senso personale alla religione ed
alla scienza, larte antica alla moderna: e larte antica è per lui lunica forma del vero e del bello. Larte
è religione, è scienza, è tutto per lui, perchè è la forma della bellezza.
XXXVI. Consideriamo ora la forma onde Luciano esprime questi concetti. A dipingere il male
esteticamente non vè altra forma che la satira: e la satira è la rappresentazione del reale in
opposizione dellideale, del falso in opposizione del vero, anzi del vero stesso in uno dei suoi
momenti. Questa rappresentazione si fa naturalmente con limitazione: e presso tutti i popoli la satira
ha avuto la sua naturale origine nella commedia. In Atene, dove per la piena libertà popolare era
lecita ogni imitazione, la satira fu lungamente unita alla commedia, crebbe liberissima, e giunse ad
una perfezione ignota altrove. Le rappresentazioni che si facevano dai contadini siciliani,
daglistrioni etrusci, e dagli atellani erano libere solamente nelle oscenità: poco di religione e poco di
politica potevano toccare senza offendere la gelosia sacerdotale, e laristocrazia dorica ed etrusca.
Sicchè dove non fu libertà popolare ivi la satira non fu drammatica ma discorsiva, come è quella dei
Latini, di altri poeti greci non ateniesi, e dei moderni. Pure la satira anche discorsiva ritiene sempre
molto della sua original forma, e introducendo persone a parlare, e frammischiando dialogo e
descrizione, si sforza di rappresentare al vivo le cose e le persone. Luciano essendo naturalmente
inclinato al motteggio, avendo trovato liberissimo il campo nella religione non più creduta, nella
filosofia diventata scettica, nei costumi rilassatissimi, e dotato dimmaginazione potente, di senso
acuto, di discorso facile ed elegante, non poteva adoperare altra forma che quella della satira
drammatica, nè seguire altro esempio che quello del comico ateniese. Ma Aristofane era in tutto e
pienamente libero, e però spaziava nella commedia, che è rappresentazione della vita intera:
Luciano non era libero se non nella religione, nella filosofia e nel costume, e libero duna libertà in
gran parte astratta, però si restrinse in una forma più breve, ed inventò un certo dialogo, che è come
una parte o una scena della commedia. Nello scritto indirizzato ad uno che lo diceva Prometeo ei
dice e si vanta di essere stato il primo che abbia tentato di unire e di accordare insieme il dialogo e
la commedia, prima separati e discordi tra loro. Quando si credeva nella filosofia, alcuni filosofi, e
Platone più di tutti, per dare una certa vaghezza ed evidenza alle cose che dicevano, le espressero
nella forma che le discutevano tra loro, cioè in dialogo; il quale fu serio e grave come la materia che
trattava, senza moto nè azione, perchè non era altro che un puro ragionamento, fatto talora da
persona più savia, ed autorevole, ad altre che facevano poche dimande, e rade volte
linterrompevano. Fra le opere di Luciano abbiamo esempi di questa maniera di dialogo filosofico,
nel quale si tratta seriamente un argomento, come lErmotimo, il Giove confutato, lAnacarsi, il
Tossari, il Ballo, il Demostene. Quando poi non si credette più nella filosofia ed in niente, il dialogo
per un concetto più libero pigliò necessariamente una forma diversa e più libera, acquistò moto ed
azione, e maggiori piacevolezze, e si avvicinò alla commedia. Di questo dialogo drammatico
Luciano fu primo inventore; e gli esempi sono il Timone, la Vendita, il Pescatore, lAccusato di due
accuse, il Tragitto, il Lessifane, i Fuggitivi, Giove Tragedo, il Convito, lIcaromenippo, il Concilio
degli Dei, il Filopseude, che vanno tra i più belli, e contengono la satira libera, piacevole, bizzarra,
fantastica. Tu ci vedi il mondo della filosofia e della religione rappresentato a gran tratti, la scena è
il cielo e la terra, il tempo è il passato ed il presente, i personaggi sono Dei ed uomini, esseri reali e
fantastici, tutti si muovono ed operano e parlano, e la parola è breve e viva: ma tutto questo mondo
è vuoto dentro, si scioglie in un breve riso, e si stringe in un breve dialogo. Questo dialogo
drammatico appartiene interamente a Luciano; e tutte le sue opere per questo si chiamano
confusamente dialoghi, quantunque non tutte abbiano questa forma. La quale non fu da altri seguita
nè imitata, perchè mutati i tempi mutarono anche i concetti e le forme di essi. Per scrivere dialoghi
come questi di Luciano non basta essere scettico, ed avere gran dovizia di motti e di piacevolezze,
esser facile scrittore ed arguto ed elegante, e tutto quello che vuoi, ma bisogna trovarsi in un tempo
come quello, e sentirsi libero e superiore ad un mondo con cui scherzare. Quando egli tratta
dellarte, nella quale crede e non può sentirsi libero, non adopera mai la satira drammatica, ma la
discorsiva, come nelle opere Di quei che stanno coi signori, Del modo di scrivere la storia, la Storia
vera, il Precettore dei retori, il Giudizio delle vocali, lEncomio della Mosca. Di rado usa il dialogo;
e se gli viene il capriccio di rappresentare le sciocchezze che alcuni fanno nellarte, e delle quali egli
si sente liberissimo, allora solamente usa il dialogo drammatico che gli viene spontaneo, come nel
Lessifane. Per queste ragioni io credo che se egli avesse ardito di scrivere satire politiche, non
lavrebbe fatte drammatiche ma discorsive, non avrebbe scritto dialoghi ma sermoni, come quelli di
Persio e di Giovenale. La satira politica può essere amara, violenta, terribile, rovente quanto vuoi,
ma se manca la libertà pubblica, le mancherà il pregio dellarte, le mancherà quellaere sereno nel
quale vive la ragione e la bellezza.
XXXVII. Non bisogna confondere il dialogo drammatico con unaltra forma più breve di leggiadri
dialoghetti, i quali a mio credere sono una imitazione dei Mimi, specie di brevissime commedie
usate dagli antichi poeti siciliani. «I Mimi inventati e perfezionati da Sofrone e da Senarco, che
fiorivano verso i tempi di Euripide, erano piacevoli imitazioni della vita. Rappresentavano
dialogizzando una piccola azione: quale di essi il maschile, quale il femminile costume; alcuni serii,
altri giocosi, tutti con una graziosa, con una maravigliosa naturalezza di stile, che era il linguaggio
abitualmente proprio delle persone introdotte a parlare. Platone ne faceva le sue care delizie;
lateniese Apollodoro li comentò: ma se fossero scritti in verso o in prosa non è ben risoluto tra i
filologi. Credono alcuni che fosse una prosa partecipe del ritmo poetico, come glidillii di Gesner, e
certamente erano pubblicamente rappresentati.» (Centofanti, Discorso su la letteratura greca.) Tra le
opere di Luciano ci ha quattro raccolte di questi dialoghetti, che corrispondono a quattro concetti
principali: i dialoghi degli Dei sono satira religiosa; i dialoghi marini sono rappresentazioni di arte;
i dialoghi dei morti sono satira filosofica; i dialoghi delle cortigiane sono imitazione dun costume, e
più simili ai mimi. Unidea breve ma lucida e brillante, un pensiero arguto, un capriccio, e talora un
motto, unimmaginetta sì viva che un pittore potrebbe ritrarla, un moto daffetto, una fantasia, una
piacevolezza è espressa in ognuno di questi dialoghetti: taluno dei quali è uno schizzo dunopera
maggiore; come il dialoghetto tra Minosse e Sostrato contiene un pensiero che è stato largamente
trattato nel Giove confutato. Io credo ancora che i mimi siciliani non erano così brevi, e che
Luciano li raccorciò e fece questi, come raccorciò la commedia di Aristofane e fece il suo dialogo: e
forse il Giudizio di Paride, ed il Caronte sono lunghi quanto i Mimi. Luciano usò questi dialoghetti
invece dellepigramma comune e gradito al secolo molle, e invece di tante altre forme nane e sconce
usate dagli Alessandrini nei componimenti satirici, come i silli, gli uovi, le scuri, gli altari.(14) Di
forma più larga e più libera dellepigramma, questi dialoghetti sono capaci di maggiori bellezze,
sono poesie schiette, tranne il verso, e ci presentano una finitezza e leggiadria di stile inimitabile ed
unica, una freschezza, una fragranza, una vita che ti ristora e tinnamora. E questa forma sì vaga non
ornava concetti frivoli. Non le pastorellerie, le sdolcinature e le adulazioni di Teocrito, che furono
imitate da Virgilio, piacciono a Luciano, il quale usa larte non per adulare potenti e dilettare oziosi,
ma per correggere gli errori comuni ed insegnare piacevolmente il vero. Però ti trasporta seco in
cielo e ti mostra i pettegolezzi e le vergogne degli Dei, massime di Giove, tanto spregevole lassù,
tanto temuto quaggiù: poi ti fa scendere nellinferno, e quivi giudichi gli uomini ed i fatti che sono
stati, e nel passato vedi riflesso il presente; altri uomini ed altri tempi, ma gli stessi errori: poi ti
rapisce seco nella libera e lieta regione dellarte, finisce alcuni quadretti che Omero lasciò abbozzati,
ti mostra Perseo bambino che guarda il mare e sorride ignaro della sua sventura, poi garzone
volatore che libera Andromeda bellissima legata allo scoglio, e ti pare di seguire quella pompa
nuziale che accompagna Europa portata dal toro in mezzo al mare. Le cortigiane stesse sono più
vere che non i caprai ed i bifolchi galantemente innamorati, e ti porgono più vere ed utili
osservazioni a fare. Luciano mirava sempre nei Greci antichi del buon tempo, e da quelli traeva i
suoi liberi concetti e le libere forme dellarte che egli giudiziosamente accomodava al suo tempo; dai
Greci liberi e potenti di tutte le forze dellingegno egli derivò nelle sue opere la pura vena della
bellezza, non dai Greci cortigiani, che seduti alle regali mense in Alessandria, avevano corrotto il
gusto ed il giudizio.
XXXVIII. E dai Greci antichi del buon tempo egli trasse ancora la forma generale del suo stile e
della lingua. Corrispondente ai concetti, lo stile è popolare, ed è ancora mirabile per lucentezza ed
eleganza. In Antiochia ed in Alessandria le idee nuove erano assai sparse, la lingua sera intorbidata
e non faceva più trasparire schietto il pensiero, la servitù ed i costumi guasti avevano corrotto il
gusto; sicchè le piacevolezze popolari erano lazzi non motti gentili, e la forma generale del dire non
era bella, e non poteva essere adoperata da un artista. Atene per contrario era sempre la fonte
dellellenismo: ivi le idee, la lingua, i costumi erano rimasti schiettamente antichi: onde Luciano
trovando quel popolo più conforme alla natura del suo ingegno, fermossi in Atene, ed apprese la
lingua dalla bocca del popolo, e lo stile nelle opere degli scrittori. Negli scrittori attici, e sopra tutti
nel leggiadrissimo Aristofane, egli avvezzò la mente a quella sobrietà che è pregio raro in un retore,
e raro negli uomini asiani, voluminosi nel dire come nel vestire. Quel suo dire schietto, libero,
riciso e semplice, e in quella semplicità elegantissimo, non è tutto natura in lui, ma con lo studio ei
lacquistò, come con lo studio si rendè libero lintelletto. E fa maraviglia considerare che Luciano fra
tanto rimescolamento di popoli che confondevano idee, costumi, lingue ed ogni cosa, e fra tutti gli
altri scrittori del suo tempo, che nel pensiero e nella lingua ci mostrano segni di quella confusione e
procedono con certo impaccio, egli solo va sicuro di sè, usa stile franco ed evidente, lingua pura,
modi svelti ed efficaci: sicchè egli è riputato ristoratore dellatticismo, e va annoverato con gli
antichi tra i migliori scrittori che ebbe la Grecia. La qual cosa non si potrebbe spiegare senza
conoscere che intelletto egli ebbe, e quali concetti, e come seppe rimaner libero in mezzo al mondo
che lo circondava. I Greci fecero valere nel mondo la bellezza, e Luciano, come greco, la seppe
trovare nel suo secolo, e mostrarla, e farla amare anche nello Scetticismo.
Questa è limmagine di Luciano che io ho veduta nelle sue opere: le quali ora ad una ad una
dobbiamo considerare.
CAPO TERZO.
LE OPERE DI LUCIANO.
XXXIX. Essendo tutte queste opere disposte a caso, per ragionarne bene dobbiamo considerarle in
un certo ordine, che ci sarà dato dalla materia che esse trattano, che è, o larte, o la filosofia, o la
religione, o il costume; dal carattere che esse hanno, o serio o satirico; e dalla diversa forma che
pigliano, dialogistica o discorsiva.
ARTE.
XL. OPERE SERIE. Dicerie, proslaliai, adlocutiones. La prima tra le opere che si legge è il Sogno,
discorso che Luciano recitò in patria quando vi ritornò retore già famoso.(15) È piena di leggiadrie
e di motti, ma senza satira, perchè parla ai suoi cittadini, cui vuole essere utile con linsegnamento e
con lesempio, vuole piacere con lo stile grazioso e forbito, e vuole mostrarsi con un certo sfoggio di
eloquenza, come nel sogno parevagli di pompeggiare nel robone di porpora. E forse fu
accorgimento il ricordare così schiettamente a quelli che lo conoscevano la prima e povera sua
giovanezza per fuggire linvidia e la maldicenza paesana: e fu franchezza il dire piacevolmente che
lo zio passava pel più bravo scarpellatore, e il più valente a fare i Mercurii che si mettono agli usci
delle case, non già scultore e statuario, come altri ha interpretato. Ei non istà sul serio, non piglia il
tuono arrogante di sofista, non parla di cose astruse alla conoscenza e lontane dalla speranza dei
giovani, ma ridendo e motteggiando sè stesso parla allintelligenza, alla fantasia, allaffetto, al senso;
e questo parlare che investiva tutto luomo doveva essere necessariamente efficace.
Sono anche dicerie lErodoto, il Zeusi, lArmonide, lo Scita, i Dipsi, inferiori di bellezza al Sogno,
ma anteriori per tempo, e scritte forse quando Luciano era giovane, e andava per la Macedonia. Non
affermerei certo che sono genuine, ma non mi bastano poche parolette ineleganti, che i dotti vi
notano, per affermare che sieno apocrife; perocchè queste ineleganze hanno potuto scorrervi per
imperizia dellautore non ancora fatto, o dei copisti. Il Bacco poi, e lErcole, e lAmbra sono
dellultima sua età, di vena purissima, di maturo senno e piacevole. In tutte quante si scorge la stessa
maniera, che è di trovare una storia, una tradizione, una favola, una finzione qualunque, la quale
abbia una relazione con la cosa che si vuol dire, e che per sè stessa è piccola, e con un paragone
viene ad essere ornata ed aggrandita. Questa maniera usata da chi ha poco a dire, e dai retori, e dai
giovani, è pericolosa perchè conduce facilmente nel falso, essendo ben difficile trovare storia o
finzione che quadri bene alla cosa, non sia più grande nè più piccola, e che il legame tra loro si
vegga naturale e spontaneo. Nel Sogno, nellErcole, nel Bacco, e nellAmbra la finzione è bella, ha
un certo ardire di novità, ed è perfettamente accomodata al soggetto; e si passa dalla finzione al
soggetto con bel modo, anzi nella finzione stessa lo vedi già trasparire; sicchè nella scelta di queste
finzioni e nel modo di presentarle tu scorgi il giudizio e larte dun uomo già maturo. Ma nelle altre
dicerie vedi un giovane che si lascia trasportare dal suo ingegno, e purchè trovi una finzione bella,
non si cura troppo se ella sia o no conveniente al soggetto, la vagheggia, ladorna, se ne compiace di
troppo, come è quel quadro della Centaura nel Zeusi, e lincontro di Anacarsi e Tossari nello Scita; e
talvolta non si contenta di una finzione o di una storia sola, ma ne trova due, senza una necessità,
soltanto per trasmodanza di fantasia, come nellErodoto e nel Zeusi. Questa sconvenienza fa credere
a molti che esse non sieno di Luciano; ma se si attribuiscono a lui giovane, si può ammirare la
finzione per sè stessa, e separata dal soggetto: come per esempio quanta freschezza e leggiadria non
è in quei due quadri della Centaura, e di Rossane? La maniera che in tutte è la stessa, mi fa credere
che tutte sieno dello stesso autore. Queste dicerie erano recitate a scelto numero di ascoltatori, ed
alcune di esse potevano essere prolusioni, cui seguitavano altri discorsi che esponevano precetti di
eloquenza. Oggi in Inghilterra alcuni professori di scienze e di arti, e i colti esuli che vanno ivi a
cercare libertà e mezzi da vivere, sogliono recitare innanzi ad elette persone certi discorsi che
chiamansi lectures, nei quali danno saggio del loro sapere. Simili a queste lezioni mi paiono le
dicerie dei Greci: se non che le lezioni sono intorno a materie utili come vuole il secolo, e le dicerie
erano vuote dentro, non altro che belle chiacchiere per buscar pane.
XLI. Diverse da queste dicerie sono le declamazioni, meletai. Chi ricorda che gli antichi
distinguevano tre generi deloquenza, il giudiziale, il deliberativo, e il dimostrativo, scorgerà subito
che il Tirannicida e il Diredato appartengono al primo genere, i due Falaridi al secondo, ed il
Bagno, la Sala, e la Patria al terzo. Sono esercizi di scuola, e nel loro genere non mancano di certo
pregio, massime il Bagno, che è la più semplice modesta ed utile per le notizie che contiene: ma
dentro non hanno niente che possa farle pregiare per sè stesse, o crederle scritte da un ingegno non
comune. Nelle Variæ lectiones del Belin de Ballu, che sono stampate nel decimo volume del
Luciano Bipontino, trovo scritte queste parole intorno al Diredato. In Abdicatum. Declamationem
hanc, indignam Luciano, auctorem habere Libanium sophistam apparet ex sententiis a Macario in
ROSARIO ex Libanii declamationibus excerptis, editis a cl. Villoisono in Anecdotis Græcis, vol. II,
pag. 12, seq. E se il Diredato è di Libanio, forse qualche altra di queste declamazioni può essere
anche sua. Per me nessuna è di Luciano, il quale disprezzava questi dimenamenti e sbracciamenti di
eloquenza scolaresca, li abborriva, e cercava di allontanarsi dalle carraie delle scuole; e se anche da
giovane e per primi esercizi le avesse scritte egli, non le avrebbe mai pubblicate: esistono perchè
chi le compose le pregiava, e le pubblicava.
XLII. Luciano, altro che pregiare le declamazioni, ne fece una piacevolissima satira in due brevi
scritture piene di grazie e di lepori, delle quali parlerò qui che mi viene in taglio, quantunque esca
un poco dellordine che mi sono proposto. LEncomio della Mosca è la satira delle declamazioni
dimostrative, e dà la baia agli elogiatori del suo tempo, che non contenti di celebrare Dei, eroi, ed
uomini famosi, magnificavano con le parole ogni cosa animata ed inanimata, e sin le più inette
corbellerie. È satira, e non altro che satira: se no, è uno sciupo di parole, uninezia che non meritava
di essere tanto illeggiadrita da un valente scrittore, che non parlava a caso, pregiava poco gli uomini
e le loro opinioni, e non aveva il gusto di Domiziano a trattenersi con le mosche. Il giudizio delle
Vocali è la satira delle declamazioni giudiziali. Non lho tradotto in italiano perchè ha tante malizie e
giuochi di parole, che non possono tradursi in nessuna lingua: ma ne dirò qui in breve qualche cosa
per darne unidea.
I Greci e più di tutti gli Ateniesi invece del doppio sigma usavano il doppio tau, dicevano Tettalia
invece di Tessalia, e scambiavano ancora parecchie altre consonanti, come il popolo da per tutto
suol fare, onde nascono piacevoli equivoci. Luciano adunque non tanto per motteggiare gli Ateniesi
di questo vezzo, che è naturale e scusabile, quanto per canzonare quei loro retori che in ogni piccolo
piato si mettevano sul grande, e pigliavano il tuono di Demostene, finge che essendo Arconte
Aristarco, il gran critico di Omero, innanzi al tribunal delle vocali si presenta il Sigma che accusa il
Tau, e sciorina una diceria: «Finchè, o Vocali giudicesse, poco mi offendeva questo Tau, abusando
della roba mia, e ficcandosi dove ei non doveva, io gli ebbi pazienza; e le cose che ei diceva, feci le
viste di non le udire, adoperando quella moderazione che voi sapete che io serbo con voi e con le
altre sillabe. Ma poichè è venuto in tanta baldanza ed arroganza, che fatto ardito del mio silenzio,
cresce le offese e le violenze, io sono costretto di accusarlo innanzi a voi, che ci conoscete tuttedue.
Io ho un timore grande che ei continuando e crescendo sempre le offese, mi scaccerà proprio di
casa mia, ed io dovrò tacere, non essere più annoverato tra le lettere, e non avere altro suono che un
sibilo.» E séguita, dicendo che non pure le vocali, ma tutte le lettere dovrebbero badare che
ciascuna stesse al posto suo, e non pigliasse laltrui: chè se si fosse fatto così, il lambda ed il ro, il
gamma ed il cappa non si bisticcerebbero sì spesso in molte parole. Ogni lettera deve ritenere il
luogo, la qualità e la forza sua assegnatale da Cadmo, da Palamede, o da Simonide, o da chi altro ne
fu inventore e legislatore: e non trasgredire a queste leggi, delle quali, voi, o Vocali, come le
maggiori, siete le custoditrici. Questo miserabile Tau, che non avrebbe neppur suono, se non fosse
sostenuto dallalfa e dallipsilon, ecco quanti luoghi mi ha usurpati (e li annovera con bizzarria e
grazia); e non pure con me, ma se lha pigliata ancora col delta, col thita, e con lo zita (e ne adduce
le pruove); nè contento di offendere noi, lattacca agli uomini, li sforza a dire una cosa per unaltra,
insulta finanche un gran re, gli leva il cappa, e da Ciro lo fa diventar Tiro (cacio). Questo Tau
ribaldo ha fatto un gran male agli uomini, che maledicono Cadmo, che lo messe tra le lettere:
perchè i tiranni imitando la figura del T, fecero la croce, su la quale appendono tanta povera gente.
Onde per tante sue malvagità è giusto che egli sia dannato a morte, ed impiccato su lo strumento
che porta la sua figura.
Se questi due scritti saranno considerati come satire di due maniere di declamazioni, essi non
parranno frivoli e leggieri, ma avranno un senso nelle opere di Luciano: e per il loro carattere, per
lo stile, e per la bizzarria dei concetti saranno tenuti senza dubbio genuini.
XLIII. Segue unaltra maniera di scritti, che non sono nè dicerie nè declamazioni, ed io non so come
chiamarli. Primo tra questi scritti vari è una specie di lettera che Luciano scrive ad uno, che pare sia
un valente avvocato, il quale gli diceva: Tu sei un Prometeo. Operetta elegante, ed assai importante,
perchè ci dichiara il giudizio che facevano di lui i suoi contemporanei, e che faceva egli stesso delle
opere sue. Che vuoi dire che io sono un Prometeo? che le opere mie sono di creta? Oh, lo so che le
sono fragili e cosa da nulla. Che le son nuove, e che io il primo ho osato di unire insieme la
commedia burlevole ed il dialogo grave? Ma questa unione ardita e nuova non basta per la bellezza,
se manca larmonia e la simmetria. Or sono io riuscito ad unirle bene? Temo che gli uomini non
singannino a lodare la sola novità: temo che io mescolando due cose belle non ne abbia composta
una brutta. Lo stesso concetto è nel Zeusi, il quale a me pare (e lascio che altri vi noti alcuni nei)
che sia nato dalla stessa mente, ma espresso in diversa forma, e quando Luciano ancor giovane
rispondeva agli ascoltatori che ammiravano la novità delle sue dicerie. E questa lettera risponde a
chi lodavalo dei dialoghi: però ella ti mostra un uomo di certo tempo, meno credente, dubitante
anche di sè stesso, e scrivente ad un amico con maggiore correzione ed arte e facilità.
XLIV. In questa Luciano parla de suoi scritti, nellApologia ragiona della sua vita. Aveva egli scritto
un libro intorno a quei che stavano a mercede coi ricchi signori romani, e disonoravano la sapienza
e sè stessi, senza cavare alcuna utilità da quella servitù volontaria. Gli fu fatta lobbiezione: E tu non
istai a mercede, che hai luffizio di Procuratore in Egitto? non sei servo anche tu? non ricade su di te
il biasimo che hai scritto degli altri? Egli dunque scrive questa Apologia nella quale espone
primamente con istudiata rettorica tutta lobbiezione che gli si fa; poi dice le cose che forse alcuni
suoi benevoli dicevano per iscusarlo: e queste accuse e queste scuse sono dette in certo modo
beffardo, come da uno che si sente superiore alle une ed alle altre, ed ha buono in mano. In fine
lascia questo modo, e dice sul serio e semplicemente la ragione vera: che un uffizio pubblico non
disonora nè fa servo chi lo esercita; che esser Procuratore imperiale e governar lEgitto è ben altra
cosa che mettersi a servigio dun signore, e stargli sempre a fianchi come un servitore. Egli poi non
fa professione di sapiente, nè si briga di giungere a quellalta cima di perfezione dove dicono stare la
virtù: ebbe pubbliche provvisioni in Gallia, dove insegnò eloquenza e fece grossi guadagni, che
maraviglia è se ora ha un uffizio pubblico? Questo dico a te, o amico mio, che mi sai, e che io
stimo, e di cui desidero la stima: gli altri li lascio gracchiare. Questa Apologia è scritta con tanta
sicurezza e superiorità , che ben ci vedi un uomo vecchio, conoscitore del mondo, ed alto locato, che
sprezza le vane parole del volgo e ne parla con riso ad un amico, al quale brevemente dice la
ragione vera, gli ricorda il tempo passato insieme, e finisce gettando un motto di disprezzo su chi
non lintende e vuole giudicarlo. Onde io non consento affatto col Weise, il quale afferma che
lobbiezione è sciocca, lintroduzione quasi manca del senso comune, e lo scritto non è genuino.(16)
Io per contrario ci vedo Luciano schietto, sempre satirico, che usa quella rettorica appunto per
rendere più ridicola la sciocca obbiezione di coloro che si credevano di averlo colto in fallo, e di
poter satireggiare il satirico; che vuol dimostrare appunto che quelli che lo riprendevano mancavano
del senso comune. La natura del suo ingegno era cosiffatta che subito e prima dogni altro ei vedeva
il ridicolo nelle cose, e lo presentava per dilettarsene; quando aveva riso a bastanza, allora parlava
serio. Or questo procedere della mente, questo mescolare il ridicolo ed il serio, io lo vedo qui come
in altre sue opere: ci vedo spontaneità e leggiadria di stile: che altro vorrei per tenere genuina questa
Apologia, e degna di Luciano?
XLV. Unaltra specie di apologia è lo Sbaglio in un saluto. Un uomo potente, forse un capitano
deserciti, era ammalato: Luciano una mattina va a visitarlo, e invece di dirgli chaire, godi, che era il
saluto mattutino, gli dice hygiaine, sta sano, saluto della sera: vera intorno molta gente, che si messe
a ridere di questo sbaglio. Luciano vuol dimostrare che infine ei non ha sbagliato come si crede,
allega con buon garbo molti esempi ed autorità, con le quali pruova che si è detto in un modo e
nellaltro. E se ora non susa più, il che non è vero interamente, non importa; perchè meglio mè
venuto detto ad un ammalato sta sano, che godi, e ringrazio gli Dei che mi hanno messo su la bocca
questa parola di buono augurio; che forse Igea ed Esculapio mi hanno ispirato essi, e ti promettono
la sanità per la bocca mia. Infine lintenzion mia era buona. Alcuno dirà che io ho sbagliato a posta
per scrivere questapologia. Utinam, o bone Æsculapi, paia davvero che io non abbia scritto
unapologia, ma cercata unoccasione per isciorinare una diceria: cioè utinam, egli risani, ed io non
abbia detto male, e non ci fosse stato bisogno tanto scrivere, e quello che ho scritto sia una
chiacchierata. Ecco, come a me pare, il senso naturale e piano di questo scritto. Glinterpetri qui
scambiano il medico per lammalato, dicono che linfermo si chiamava Esculapio; ed intendono le
ultime parole come una confessione che non si è voluta scrivere unapologia vera, ma una
esercitazione rettorica: però credono che questa scrittura sia roba da scolare, ed indegna di Luciano.
Io non sono un valente grecista, ma qui anche un par mio vede che si è preso un granchio, e de
grossi: e per vederlo basta avere un po di senso comune. Quando si fa Esculapio un generale, non è
maraviglia poi che si creda Luciano uno scolarello. Questa è una scrittura di occasione, è come una
lettera di cortesia: non la tengo una perfezione di stile, non vi trovo dentro gran cosa perchè gran
cosa non ci doveva essere, ma la tengo di Luciano.
XLVI. Che specie di scrittura sia quella intitolata, i Longevi io non mi so dire. È un catalogo di re,
di capitani, di filosofi, e di altri uomini illustri che pervennero a tarda vecchiezza; di ciascuno sono
indicati gli anni che visse, ed il genere di morte. Lautore dice che egli lha scritta per divino
comando avuto in un sogno, e loffre ad un Quintilio nel giorno del costui natale, come augurio di
lunga vita. Pare che questi sia uno dei due fratelli Quintilii, celebri per il loro amore fraterno, e per
le loro virtù, i quali furono insieme fatti consoli da Antonino, insieme nominati governatori della
Grecia da Marco Aurelio, insieme uccisi da Commodo. (V. la Storia del Gibbon, cap. 4.) Il far
menzione di un sogno (dice Gio. Clerico, Bibl. ant. e mod., t. XXII, p. 226) è argomento che questo
libro non è opera di Luciano, ma sì di Aristide, del quale si conosce la superstizione. I primi periodi
sono così ravviluppati e confusi che lo scrittore non sa egli stesso quel che si dica, e pare un
melenso. Chi messe questo scritto fra le opere di Luciano, certamente lo credette utile per le notizie
che contiene di molti uomini illustri; ma come si può stare a queste notizie se vengono da un
melenso e di poco giudizio?
XLVII. Tra gli argomenti serii la bellezza di una donna, e la vita e la morte del più grande oratore
potevano bene trattarsi in una forma artistica.
Che Luciano avesse potuto lodare ed anche adulare una bella donna amata da un imperatore
romano, si può concedere; ma che egli abbia scritte le profuse e stemperate lodi che si leggono nei
due dialoghi delle Immagini, a me pare impossibile, perchè ripugna alla natura del suo ingegno, ed
al suo gusto nellarte. Non è possibile che un uomo che suole ridere di tutte le cose divine ed umane,
diventi a un tratto sì caldo ammiratore duna donna, e lodandola non rida mai, non piacevoleggi mai,
non dico già di lei, ma delle tante persone e cose che gli si presentano alla mente mentre parla di lei,
non mostri neppure una favilla del suo fuoco, e paia un altro uomo diverso: non si può mentire fino
a tanto la propria natura, la quale non cangia così neppure per amore di donna. Quella Smirnese poi
che lo scrittore si sforza di mostrare bella, raccogliendo nel farne il ritratto quanto di bello egli
conosceva nelle statue, nelle dipinture, nel sapere, e nel valore degli uomini e delle donne illustri,
non è bella punto, e pare quellElena che fu dipinta da uno scolarello di pittura, il quale non sapendo
farla bella, la fece ricca di vesti e di gemme. Luciano, gran maestro dellarte, sapeva bene come
Elena fu dipinta da Omero in due parole messe in bocca ai vecchioni su la torre dIlio. Le Immagini,
come ben dice il Weise, sono una scrittura ostentatoria, assai lontana dalla vera arte e dalla sobrietà
di Luciano. Vi trovi bassezza di animo, intemperanza dingegno, e una maniera che conviene
solamente alla cortigiana di Lucio Vero: ornamenti meretricii, non bellezze di arte.
XLVIII. LEncomio di Demostene fra tutte le altre opere è la sola che faccia palpitare il cuore ed
abbia una bellezza di sentimento: ma il sentimento non si accorda con larte. Leggendo da prima
trovi un informe affastellamento di cose; non sai perchè Omero è unito a Demostene; ti spiacciono i
concetti forzati, le immagini volgari, lo stile scuro, lungaggini senza ragione, molta falsa rettorica:
sicchè fa proprio pietà vedere il massimo degli oratori venuto a mano dun povero retore. Ma questo
povero retore aveva un gran cuore, e quando dipinge Demostene che muore spregiando le minacce
e le promesse dei tiranni della sua patria, quando pone in bocca ad essi tiranni lelogio dellultimo
cittadino dAtene, ci fa dimenticare le sue imperfezioni nellarte: allora il concetto vince la forma,
non è offeso nè menomato dalla rozzezza o scarsezza di questa; allora non ci apparisce altro che la
grande immagine di Demostene, e siamo costretti a venerarla. Luciano non aveva questa caldezza di
cuore, nè soleva dipingere con questa maniera; onde questo dialogo non è, e non può esser suo,
come a me pare, perchè altra mente, altro cuore, altrarte, altro uomo si vede in esso. Piace non
ostante che manchi darte, perchè dentro ha qualche cosa che supera larte. Questo, e i due dialoghi
delle Immagini vorrebbero più lungo discorso, ma perchè non li ho per genuini, basti il detto.
XLIX. OPERE SATIRICHE. Cominceremo da quelle che hanno la forma discorsiva, e poi verremo
alle altre che hanno la forma dialogistica.
La servilità dei greci flosofi, retori, grammatici, musici, ed altri artisti e scienziati che stavano a
mercede nelle case dei signori romani, e la grandigia di quei superbi ed ignoranti padroni dovevano
offendere il libero animo ed il retto senso dun Greco che amava e pregiava il sapere. Il libretto
intitolato: Di quei che stanno coi signori, è una satira piuttosto amara che scherzevole, perchè
faceva dolore a vedere il sapere prostrato vilmente; ed ha per iscopo di svolgere i Greci da quella
vergogna. Da prima si cercano le cagioni che possano indurre uno a mettersi da sè in questa servitù;
poi si descrive con vivezza mirabile quanto bisogna durare ed affaticarsi per entrare in grazia del
signore, il primo convito, i patti, lammissione in casa; poi le belle speranze che svaniscono, e le
fatiche, le umiliazioni, i dispregi che bisogna sopportare. E qui lo scrittore, che talvolta ha preso un
tuono violento, e talvolta un tuono di scherno, essendosi svelenito, torna alla sua natura, e
piacevoleggia narrando il caso dello stoico Tesmopoli, che per viaggio portava nel mantello la
cagnolina duna signora. Dopo questo racconto naturalissimo e conveniente, viene la trista cacciata;
ed infine, invece di epilogo, la descrizione di un quadro che rappresenta tutta la vita del mercenario.
Ma se Luciano è costretto a parlare di ciò che tanto gli duole, e biasimare i suoi Greci, ei non
risparmia neppure i romani signori, e ne svela le turpitudini, e ne ride. Questo scritto di concetto sì
nobile, e di forma sì compiuta per ordine ed integrità di pensieri, per lucidezza di stile, per vivezza
dimmagini, e per purità di lingua, è certamente di Luciano. Nondimeno il Weise crede che gli ultimi
capitoli, propriamente cominciando da quello in cui si narra il caso di Tesmopoli, non sono bene
composti come i precedenti, e forse sono stati aggiunti più tardi da altri. Secondo il concetto che io
mi ho formato dellingegno e della natura di Luciano, a me pare che quei capitoli sieno composti
benissimo; anzi in essi, che sono più pittoreschi e piacevoli degli altri, io riconosco la sua natura
lieta e satirica, la sua arte che dipinge sempre, la sua maniera nel raccontare spesso aneddoti, il suo
costume di mordere come può i filosofi del suo tempo. E se sono aggiunti, come e dove finiva lo
scritto? era esso monco? fu lasciato così imperfetto da Luciano, o questa ultima parte andò perduta,
e poi fu rifatta? Formatemi luomo, formatemi Luciano su le sue opere; non considerate queste opere
riguardando ad un uomo che voi vi avete figurato nella mente, e che non è Luciano. La buona
critica sa trovare i principii nelle opere stesse, non li cerca fuori di quelle.
L. Così ancora se tu credi che loperetta Come si deve scrivere la storia, sia puramente didascalica,
simile ad altre di questo genere, e vuoi trovare in essa la ragione ed il modo delle opere
didascaliche, tu non la giudicherai bene. Lascia ogni preconcetto, lascia anche il titolo, che forse
Luciano non ce ne messe affatto, e leggi senzaltro quello che sta scritto. Gli Abderiti una volta
andarono pazzi per recitare tragedie, e ai tempi nostri si va pazzi per scrivere storie, e tutti sono
Tucididi, Erodoti, e Senofonti. È venuta anche a me una pazzia, non di scrivere storie, ma di dare
qualche consiglio a chi le scrive. Sebbene egli è come fare un buco nellacqua, perchè costoro
credono di esserci nati, e di non aver bisogno di consiglio; pure potrò forse essere utile a qualcuno.
Ogni consiglio fa due cose: ti dice quello che devi seguire, e quello che devi fuggire. Cominciamo
da quello che si deve fuggire, cominciamo a considerare le sciocchezze che oggi si scrivono, che ci
sono presenti, e ce le sentiamo ogni giorno nelle orecchie: la buona storia, che è lontana da noi, la
vedremo dipoi. Oggi invece di scrivere storie si scrivono encomii di re e di capitani; invece di
narrare fatti avvenuti, si contano favole, e invenzioni, e basse adulazioni. Questo male nasce da
unopinione (di Dionigi dAlicarnasso che non è nominato) che la storia si propone il dilettevole e
lutile; e però vi mettono dentro lencomio. Uno è il fine della storia, lutile, che si ottiene dal solo
vero: il dilettevole, se vè, tanto meglio, se no, non importa. Ma non è dilettevole raccontar favole
che non possono piacere se non al volgo, e sbracciarsi in adulazioni sperticate che fanno stomaco
fino agli stessi adulati. La maggior parte oggi scrivono per utile proprio, sperando di cavar profitto
dalle loro adulazioni: gente sciocca e fecciosa, guastano un nobile mestiere, e non pensano nè alla
fama nè ai posteri. E qui Luciano in venti capitoli discorre piacevolissimamente di molte storie
udite da lui, che narravano la guerra che Lucio Vero fece contro i Parti. La guerra, tra gli altri mali,
ha prodotti ancora tanti sciocchi scrittori: chi vuol fare il grave, e guasta, storpia, copia il povero
Tucidide, mutando solamente i nomi; e fa uscire la peste non del forziere, ma dellEtiopia, e
scendere in Egitto, e spandersi nelle terre del gran re: chi vuole imitare la semplicità di Erodoto, e
dice balordaggini: senza conoscenza di luoghi, di armi, delle cagioni della guerra, dei fatti avvenuti
e di quanto bisogna ad uno scrittore, scrivono le più sciagurate scempiaggini del mondo. Or questi
venti capitoli pieni di sali, di frizzi, e di satira mordacissima, sono creduti dal Weise roba altrui, e
rimpinzati come borra in questopera, la quale però gli è sospetta, e gli pare dubbio se sia o no tutta
quanta di Luciano. Il quale giudizio nasce dal presupposto che questa opera sia didascalica, e voglia
insegnare veramente come si deve scrivere la storia; e però non può contenere quei venti capitoli di
piacevolezze. È questo un argomento didascalico sì, ma che passa per la mente di uno scrittore
satirico, avvezzo a guardare nelle cose più il lato ridicolo che il serio, più il cattivo che il buono:
quindi deve necessariamente avere molta parte, anzi la maggior parte di satira. Luciano non vuole
insegnare, ma vuol ridere, vuole frustare quei pazzi scrittori del suo tempo, la cui pazzia è la prima
idea che gli si affaccia alla mente, la prima che egli esprime, e la principale che domina in tutta
lopera. Però la menzione di tante sciocche storie è così ampia, e precede la esposizione della buona
storia, ed è più piacevole di questa, e spesso torna anche in mezzo a questa. Un retore poteva
scrivere benissimo la seconda parte, dove si espone le qualità della buona storia, e si discorre dei
pregi dello storico: ma solamente un satirico e piacevole scrittore poteva scrivere quei venti
capitoli. Sicchè noi ci troviamo ad una conchiusione opposta a quella del Weise; cioè che in quei
venti capitoli più che negli altri è Luciano, è lo stampo del retore satirico; e in tutta lopera è la
forma singolare della sua mente; sicchè non altri che egli può esserne lautore, perchè non altri che
egli sa così mescolare e contemperare il ridicolo ed il serio, sa dire tante piacevolezze bizzarre, e
tante verità importantissime in una forma schietta ed amabile. Data una buona castigatoia a quegli
sciocchi raccontatori, spazzato il campo da quei pruni e da quelle spine, come egli dice, viene a
ragionare della storia. La non è cosa che si può fare da ognuno, nè vi bastano precetti: ci vuol uno
che da natura abbia avuto molti doni nobilissimi dingegno e di animo, che abbia molte conoscenze
di mondo, di politica, di armi, di luoghi, che abbia egli veduto i fatti, e sia stato in mezzo ai negozi,
libero, giusto, senza speranze, senza timori, senza parte, amico del solo vero. Tale fu Tucidide, che
non volle dilettare i contemporanei con favole, ma scrivere la verità per gli avvenire. A cosiffatto
scrittore bastano pochissimi avvertimenti. E pochi ei ne dà, ma veri, pieni di senno, senza aridezza
rettorica, con la grazia tutta sua. Avendo egli questa opinione, che per iscrivere una buona storia i
molti precetti non sono bastanti, egli non poteva proporsi di dar precetti in questo scritto, ma sì di
biasimar coloro i quali senza naturali doti e senza le necessarie conoscenze si mettevano a scrivere
stolte adulazioni. Suo scopo principale è deridere costoro: però lo scritto è principalmente satirico:
ma per mostrare che egli aveva ragione e diritto di deridere il cattivo, fa vedere brevemente che egli
sa come è fatto il buono, e dovè, e come si acquista: sebbene in cuor suo sia persuaso, come
apparisce dalle ultime parole, che a volerlo fare intendere a coloro è tempo perduto, ed è meglio
ridere.
LI. La Storia vera è un racconto immaginario che diletta non pure per la novità e piacevolezza
dellargomento e dello stile, e per le varie invenzioni bizzarre, ma ancora perchè tutte queste
invenzioni sono piccanti allusioni a molte favole e maraviglie contate dagli antichi poeti, storici, e
filosofi, dei quali non si dicono i nomi, perchè le allusioni sono chiare. Così Luciano stesso ci dice
quale è la natura e lo scopo di questo suo scritto. Noi non possiamo riconoscervi tutte le allusioni,
perchè ben pochi scrittori antichi sono pervenuti sino a noi; ma possiamo ben riconoscervi unardita
fantasia, che inventa le più matte cose del mondo con una larga vena di motti e di frizzi, un dettato
facile e piacevole. Luciano vuole mordere con questi due libri di Storia vera tutti gli scrittori di
storie e di viaggi che contavano bugie, e il volgo se ne piaceva, e le teneva per verità: li trafigge in
mille modi, li strazia, e, infine, li pone nellisola dei malvagi, dove dice di aver veduto Ctesia di
Gnido, Erodoto ed altri che erano puniti per aver contato maraviglie e bugie. Santa cosa è amare la
verità, ma questa non è sempre realtà palpabile: e non è ragionevole tenere per falso tutto ciò che si
allontana dai nostri costumi, dalle nostre idee, dal nostro modo di sentire, tutto ciò che noi non
sappiamo per nostra ignoranza. Erodoto fu tenuto bugiardo dagli antichi, e certamente molte cose
esagerò, inneggiando anzi che raccontando le imprese dei Greci: ma lesperienza, le ricerche e le
conoscenze di molti secoli hanno confermate per vere molte cose che Erodoto affermò intorno ai
luoghi e ai costumi di altri popoli: ed oggi Erodoto non è tenuto sì bugiardo come lo teneva
Luciano. Ma il satirico ride anche dei suoi amici; e la battaglia tra gli abitanti del Sole e quei della
Luna nel primo libro di questa Storia vera, è una parodia della gran battaglia navale tra i Corciresi
ed i Corintii, descritta nel primo libro della Storia di Tucidide. Questa Vera istoria, nella quale
Luciano si protesta di non dire nessuna verità, ne contiene una importante per noi, ed è che la poesia
era ridotta ad un favoleggiare vuoto, ad un puro giuoco di fantasia, non era più ispirazione del
cuore, non rappresentava più la vita dellintelletto e del sentimento ellenico. Luciano si ride non pure
delle favole raccontate dagli storici e dai viaggiatori, ma anche delle invenzioni poetiche di Omero.
Noi sappiamo come lui che quelle sono invenzioni, ma sono invenzioni viventi, credute e sentite dal
poeta che le fa sentire e credere anche a noi, mentre ce le racconta: e perchè sentite sono vere e
belle; mentre queste fantasie di Luciano da lui stesso non sentite nè credute, ci riescono fredde. Non
valgono motti, leggiadrie, eleganze a farle vive: vi bisogna qualcosa che qui non è, che esca del
cuore, dovè la fonte vera di tutte le ispirazioni e di ogni poesia. Però questo poetare tutto fantastico
doveva necessariamente o cessare o unirsi a qualche sentimento: ed essendo già spenti i sentimenti
nobili, si appigliò allamore sensuale, solo che esistesse potente in secolo corrotto. Così nacquero i
tanti racconti erotici che cominciano ad apparire in questo secolo, e sono tanto comuni nei secoli
che seguirono.
LII. Il Precettore dei retori è una fiera satira contro un retore che forse è Giunio Polluce, autore
dellOnomastico, sebbene lHemsterusio che ha tradotto e comentato lOnomastico creda di no. Gli
odi che nascono da gelosia di mestiere sono implacabili, e spesso ingiusti e feroci. Luciano finge di
rispondere ad un giovane che gli chiede un consiglio per apprendere la rettorica; e gli dice che ella
sta sovra un alto monte, e ci sono due vie per salire a lei; luna faticosa, aspra, lunga, nella quale si
vedono poche orme grandi, ma quasi scancellate dal tempo; laltra facile, piana, breve, nella quale ti
condurrà un amabil maestro. E qui è descritta lignoranza, la vanità, limpostura, la sfacciataggine, la
ribalderia di un retore, che, se non è Polluce, rassomiglia certamente a molti retori di quel tempo: la
pittura è dal vivo, però è vera ed efficace, ed unacre ironia la rende più rilevata. La finzione delle
due vie era comune ai Greci, e ricorda lErcole al bivio di Prodico, e le due donne del Sogno.
Luciano anche quando si lascia trasportare dallo sdegno, non dimentica mai larte, e parla con quella
gentilezza che larte ha renduta abituale in lui: il che non si vede nei due scritti intitolati: Contro un
ricco ignorante che comperava molti libri,(17) ed il Conto senza loste, o contro Timarco; i quali non
hanno nè arte nè gentilezza, non sono satire ma invettive furiose e verbose, nelle quali non si scorge
nulla che possa farne credere Luciano autore, ma sì qualche arrabbiato scrittore, non egli sempre
ridente e piacente.
LIII. Passiamo ora alle opere satiriche che hanno forma di dialogo.
Bellissimo il Lessifane, mette in canzone uno di quei saccentuzzi che vanno spigolando le parole
più antiquate e storpiate, ne compongono le più sperticate, raccolgono dal popolazzo i modi più
fangosi, e per parere gentili riescono goffi. Luciano non si sdegna affatto, ma si piglia spasso di
questi scrivacchiatori, e ce ne presenta uno, il quale gli legge un suo dialogo, in cui crede di sgarare
il convito di Platone, o come ei dice, anticonviteggia al figliuol dAristone, piacevolissima caricatura
che non può mai esser tradotta bene. Egli ha la pazienza di ascoltare per alquanto tempo, ed ode le
più nuove sciocchezze del mondo nelle più sformate parole: gli viene pietà del poveruomo, lo crede
pazzo, e chiama un medico per curarlo. Gli danno un farmaco, e quei vomita tutto quel parolame
guasto che si aveva ingollato. Purgatolo di quella roba e di quella pazzia, Luciano gli dà pochi e
savi avvertimenti come si ha a parlare con garbo per farsi intendere e piacere. Così, dopo la
dipintura del brutto, viene un raggio di bello, dopo la satira che ti fa ridere, viene un consiglio savio
che ti giova, e ti lascia nellanima una verità. Mi viene il sospetto che in questo dialogo sia
rappresentato qualche vanitoso che voleva sgarare non Platone, ma Luciano proprio, il quale
vedendo il pazzo rivale che gli si leva contro, se ne ride, e lo tratta come un bimbo dandogli uno
scappellotto. La maggior parte delle opere piacevoli sono fatte sempre per unoccasione, la quale, se
non è conosciuta, non si può gustare interamente la bellezza dellopera. Io cerco dindovinare
loccasione; ma è assai difficile a tanta distanza di tempo anche il congetturare.
LIV. Se il Lessifane è un dialogo drammatico che ci presenta una satira piacevole, costumata, utile,
ed unopera veramente darte che non può tradursi esattamente, il Pseudosofista, non può tradursi
affatto: e non è gran danno se io lho tralasciato. Un sofista crede di non fare solecismi quando ei
parla, e di saper conoscere quelli che altri fa. Luciano gli parla, ne fa a posta, e quei non se
naccorge. Ora ne ho fatto uno. E qual è? Questo, questaltro. E così séguita, e infine il sofista si
vede stretto, e confessa che ei ne fa, e non sa distinguere gli altrui, ed è un ignorante. Questo
dialogo è un freddo scherzo grammaticale, non ha altro che la pura forma esterna dialogistica, non
contiene nulla che possa farti vedere che sia opera genuina del gentile ed ingegnoso Luciano. Al
concetto meschino ed alla maniera melensa, pare fattura dun povero pedante che dà grande valore
alle parolette, e crede che il non si può sia una scienza importantissima.
LV. La Chiacchierata con Esiodo è un ghiribizzo, e parrà una freddura se non si ricorda che al
secolo di Luciano si prestava fede alla magia, aglindovini, ai profeti, e si aveva grande riverenza
agli antichi poeti, non pure per larte loro, ma perchè si credeva che fossero stati ispirati dagliddii, ed
avessero predetto lavvenire. Su questa credenza pare che voglia scherzare, e fa un po di chiacchiera
con Esiodo, il quale si vantò di avere avuto dalle Muse il dono di predir lavvenire, e non predisse
nulla. Ai poeti non bisogna credere, perchè dicono ciò che loro viene in bocca, e non bisogna
esaminar tanto pel sottile le loro parole e ritrovarvi quello che non cè. Se ci fosse profezia, ella
sarebbe tutto altro che pronosticar la buona e la cattiva raccolta da certi segni, come fa Esiodo, il
quale non fu profeta, ma soltanto poeta, e non dei più valenti, e spesso parlò a caso. E qui Luciano
si ferma, per non dire altro di un poeta amabile, che i Greci avevano caro per la sua modesta
semplicità. Il dirne più oltre non sarebbe stato piacevole; onde il dialogo è breve, e piglia un colore
semplice dal soggetto stesso; quasi che parlando con Esiodo venga spontanea quella stessa sua
maniera schietta e piana.
LVI. Leggiadra parodia della tragedia antica è la Tragedopodagra, dramma in versi pulitissimi. Il
poeta Rintone di Siracusa per deridere la impotenza degli scrittori tragici del suo tempo, che non
sapevano e non potevano imitare i grandi antichi, scrisse parecchie ilarotragedie o tragedie allegre,
le quali per la novità, la festività e bizzarria degli argomenti, e per le grazie del dialetto siracusano
piacevano moltissimo agli Alessandrini, e furono celebrate molto fra tutti i Greci. Or Luciano,
seguendo lesempio di Rintone, e forse per rispondere a taluno che gli diceva: Perchè non fai della
tragedia come hai fatto della commedia? scrisse questo dramma piacevolissimo. Nel quale la
Podagra, felicemente paragonata allAte di Omero che cammina su le teste degli uomini, pare il fato
tragico, a cui nessuna forza e intelligenza umana può resistere. Lintreccio della favola
semplicissimo, i personaggi reali e fantastici, il coro de podagrosi coronati di sambuco ed
appoggiantisi a bastoncelli, i loro canti che celebrano la nascita della dea Podagra, la sua potenza e
le sue lodi; lo stile, le immagini, le parole composte con nuova piacevolezza, le sentenze dei grandi
tragici voltate a rovescio, i versi corretti ed eleganti, tutto è cosa greca e di antica imitazione. E
Luciano si mostra valente poeta non meno che era valente prosatore, perocchè questa poesia è sua
certamente. La podagra, al suo tempo assai comune per la intemperanza e la morbidezza dei
costumi, essendo come una cosa fatale, contro di cui non vale altro rimedio che lo scherzo e il buon
umore, gli parve argomento fatto pel suo genio; e nel trattarlo potè motteggiare glimpostori che
pretendevano di guarirla, e gli sciocchi che credevano a vani rimedii. Forse è ancora una scrittura
fatta per qualche occasione che ora ignoriamo. Il certo è che ella è graziosa, giocosa, elegante, e
degna di un bellingegno.
Il Velocipede è una sciocca e monca imitazione della Tragedopodagra, e non merita che se ne dica
altro.
FILOSOFIA.
LVII. OPERE SERIE. Queste opere sono tutti dialoghi, eccetto due, la Vita di Demonatte, e il
trattatello Di non credere alla dinunzia: e quasi tutte si dubita se sieno genuine, perocchè Luciano
non credeva nella filosofia, e non poteva ragionarne seriamente.
Il Demonatte è la vita di un filosofo amabile, lontano dallorgoglio e dai pettegolezzi delle sètte, che
usò del sapere non a speculazioni vane, ma ai bisogni ed alle faccende della vita; sintroduceva nelle
case per portarvi la pace e farvi udire la ragione, ed era chiamato padre dal popolo Ateniese in
mezzo al quale visse e morì. Egli è un Menippo senza acerbità, e un tipo di filosofo come Luciano
lo voleva. Le sue azioni sono narrate brevemente, perchè poche e poco strepitose sono le azioni di
un filosofo: i suoi detti sono riferiti più largamente, come quelli che ritraggono la mente e lindole di
quel buon vecchio, e ce lo rappresentano vivente e conversante con gli uomini del suo tempo. Noi
lo vediamo che motteggia Favorino ed Apollonio, che piacevoleggia con Epitteto, che trafigge
quellimpostore di Peregrino, che raffrena il matto dolore di Erode il gran ricco Ateniese, che si fa
rispettare da un popolo sdegnato, che corregge, consiglia, riprende persone di ogni specie con le
quali egli conversa: le fornaie facevano a chi desse prima il pane al vecchio, e i fanciulli gli
porgevano frutti, e lo chiamavano babbo. Questa maniera schietta e naturale usata da Plutarco nel
narrare le vite degli uomini illustri, è più efficace a dipingere la vita privata e modesta di un
filosofo. Io per me credo che questa operetta sia di Luciano, perchè ci vedo la sua idea, e la sua
maniera: solamente lo stile mi fa sospettare che ei la scrisse giovane, e pieno la mente dellimmagine
di quel buon vecchio che gli Ateniesi amarono ed onorarono sinceramente anche dopo che fu
morto. E vedo ancora che nei motti e nelle piacevolezze del filosofo è nascosto lo scrittore satirico,
il quale si piace e si diffonde a riferirli.
LVIII. Il trattatello Di non credere facilmente alla Dinunzia ha un concetto morale ed utile alla vita,
una forma discorsiva piacevole ed elegante, ed è composto benissimo, come dice il Weise. Il che a
me non pareva interamente quando io lo voltavo in italiano. Imperocchè giunto a quel luogo dove
dice che il dinunziante talvolta può essere un uomo dabbene e giusto, come fu Aristide che calunniò
Temistocle, e come fu Ulisse che insidiò Palamede, soggiunge queste parole: Che si dirà di Socrate
ingiustamente calunniato appo gli Ateniesi, come un empio ed un insidiatore? e di Temistocle e di
Milziade, che dopo cotante vittorie vennero in sospetto come traditori della Grecia? Ci ha mille
esempi, e quasi tutti conosciuti. Le quali parole non si accordano punto ai concetti precedenti,
perchè gli uomini giusti che talvolta possono calunniare non han che fare con Socrate, Temistocle e
Milziade che furono calunniati. Ora io non muto opinione in quanto alla discordanza di queste
parole dalle altre, anzi la confermo, e dico che esse mi paiono una glossa di copista che volle
dottoreggiare a sproposito, e credo che si debbano interamente togliere dal testo; il quale senza
queste poche parole, che formano il 29° capitoletto, è chiaro e limpido. Così il trattatello non mi
pare più confuso come prima, e ritengo che sia di Luciano, il quale si piaceva di questo modo di
filosofare, che ha un uso pratico, e soleva adoperare le pitture, gli aneddoti, e le storie, che
rifioriscono questa scrittura.
LIX. Il Nigrino è un dialogo serio nel quale si ragiona di gravi, mirabili e divine cose (cap. 38) dette
da un filosofo in lode della Grecia, e specialmente di Atene, città di quieti studi e di modesti
costumi, ed a biasimo di Roma, sentina di tutti i vizi e le corruttele. Chi riferisce queste grandi cose
se ne mostra come invasato, gli pare di avere ancora nelle orecchie le savie parole, e innanzi gli
occhi il venerando aspetto del filosofo, crede di non poterle riferire convenevolmente, e si scusa in
vario modo che egli è troppo meschino attore a rappresentare cotanto personaggio. Lodando i
costumi del filosofo si loda la filosofia con ardore di affetto giovanile, e si leva a cielo con le più
alte parole. Il concetto di questo dialogo è tutto filosofico, lunico sentimento che vi domina è
lammirazione per la filosofia e pel filosofo: non vè neppure ombra di satira, per modo che anche
dove discorrendosi dei vizi e del lusso dei Romani si potrebbe gettar qualche motto e lo scrittore
rivelarsi, il biasimo è serio, non piacevole. Nè le scuse che si fanno prima di riferire il
ragionamento, mi paiono fatte per beffare i retori, soliti a parlare con tali aggiramenti; chè nè beffa
nè malizia alcuna io vedo in questo scritto, ma soltanto ammirazione. Sebbene questo dialogo sia
preceduto da una breve lettera di Luciano a Nigrino, e glinterlocutori sieno Luciano ed un suo
amico, pure molti interpetri hanno negato che sia genuino, ed altri dicono che potè essere scritto da
Luciano giovane. Che sia lavoro dun giovane pare allo stile pieno di una certa baldanza, allaffetto,
alle immagini, al tuono declamatorio, a tutto insomma il tenore del dialogo: ma che questo giovane
sia Luciano non pare certo. Chi è arguto e motteggiatore, anche da giovane motteggia; perchè
piacevolezza è natura, non istudio; apparisce spontanea, non sapprende; ed in ogni giovane
sintravede sempre luomo maturo. Chi uomo nega ogni cosa, giovane ha dovuto dubitare di molte
cose; ed un intelletto dubitante è sempre independente, e non si abbandona alla lode ed
allammirazione smoderata. Luciano giovane poteva benissimo amare ed ammirare Nigrino, come
amò e rispettò Demonatte, ma parlarne a quel modo non poteva, come a me pare; ripugna alla sua
natura, a quella intelligenza, a quel suo senso retto col quale conobbe in che stato era la scienza e
limpostura dei filosofi, e non pregiò altro che una realtà della vita. Luciano avrebbe ammirato
meno, lodato meglio: il concetto non è suo, la forma non è corretta, la espressione non è di quella
schiettezza e limpidezza che piace tanto nelle altre sue opere: onde a ragione si può dubitare se il
Nigrino sia suo. Nondimeno se questo dialogo non ci rivela lingegno e larte di Luciano, dimostra,
come lavoro dun Greco, in che cosa i Greci si sentivano superiori ai Romani, e come cercavano
sempre di fare più spiccare questa loro superiorità, nel sapere e nel costume.
LX. Per le ragioni medesime il Cinico non è a tenere genuino. Si dipinge in questo dialogo
limmagine di un cinico perfetto, e si vorrebbe far vedere come questa è limmagine vera delluomo e
del savio. Taluno crede che sia una satira indiretta dei Cinici del tempo, ai quali si contrappone
questo tipo; ma le vie indirette non piacevano a Luciano, franco ed impavido motteggiatore,
massime dei Cinici che egli morde senza pietà nè riguardi. E qui i Cinici non sono nominati nè
ripresi affatto, ma sono personificati tutti quanti in uno: il quale tipo non è nè bello, nè savio, nè
umano, e non poteva entrare nella mente di un valente artista. Egli è vero che Luciano prese quel
suo tipo del Menippo dai Cinici, e messe un Cinico a disputare con Giove e confutarlo: ma quel tipo
lucianesco era spoglio della prosunzione, arroganza e sfacciatezza cinica, era simbolo del senno
popolare acuto, pronto, schietto, gaio, ridente, diverso da questo interamente; era tipo non di
filosofo, ma di uomo, non declamatore, ma motteggiatore; e messe un Cinico a petto di Giove per
mostrare che a confutare e beffare il massimo Iddio, bastava il senno più volgare. A me pare
adunque che questa scrittura non sia affatto una satira, ma una prosuntuosa e rabbuffata
declamazione, senza verità, senzarte, certamente non di Luciano, forse di qualche fanatico settatore.
LXI. LAlcione è un dialoghetto di semplice e puro dettato. Cherefonte passeggiando con Socrate
lungo il lido del mare, ode la voce dellalcione, che non aveva mai udita. Socrate gli racconta la
favola di quella fanciulla che piangeva lamante perduto, e lo andava cercando per terra e per mare,
e gli Dei per pietà la mutarono in alcione. Ma come mai si può credere agli antichi, dice Cherefonte,
che alcune donne furono mutate in uccelli? questo pare sia impossibile. E Socrate risponde: Gli
uomini non conoscono quale cosa è possibile, e quale impossibile; e male misurano dalla forza loro
quella degliddii: non pareva meno incredibile dopo la gran tempesta di giorni fa, dovesse venire
questo sereno e questa calma; non pare meno impossibile che da un verme nasca lape, e dalle uova
inanimate nascano tante specie di animali: Noi non sappiamo nulla di certo, e nulla possiamo
affermare. Or qui non vi pare che Cherefonte sia più savio di Socrate, il quale con quel suo sapere
di non saper nulla ammette la possibilità delle trasformazioni? Il Weise dice: Hic dialogus nec est
Luciani, nec Platonis, ut quidam opinabantur, sed Leonis Academici, at non indignus qui inter opera
Luciani locum habeat. Per il dettato sì, può stare tra le opere di Luciano, ma pel concetto no, che è
ben meschino.
LXII. Bello argomento e stile modesto si vede nel Tossari. Un Greco ed uno Scita ragionano
dellamicizia, e ciascuno sostiene che la sua nazione valga più dellaltra in questo nobile sentimento.
Lo Scita propone di finire la gara raccontando ciascuno pochi esempi di amicizia, non antichi nè
mezzo favolosi, ma moderni e veri. Il Greco accetta la disfida, e narra cinque fatti di amici greci, ed
altri cinque ne narra lo Scita. Con molto accorgimento non si giudica quali sieno i più belli, perchè
ogni popolo è capace di questo sentimento, che varia soltanto nella forma: e i due contendenti
diventano amici. Le narrazioni greche sono schiette e brevi, le scitiche più variate e strane, secondo
i costumi: tutte affettuose e nobili, espresse con buon garbo e in buona lingua. Se questo dialogo sia
di Luciano io non saprei nè affermare nè negare. Se non fosse tra le sue opere, a nessun segno
saprei riconoscerlo per suo: vè, e per nessun segno posso dire che non gli appartiene. Concetto
speciale di Luciano non vè, eppure non importa, perchè Luciano poteva avere altri concetti; non vè
quellaura di stile lucianesco che si sente da chi legge nel greco e non si sa spiegare: eppure si può
piuttosto dubitare che affermare qualche cosa.
LXIII. Ma quellaura ti viene fragrante e piacevole quando leggi lAnacarsi, e ti pare di essere nei bei
tempi della Grecia. Solone il legislatore ateniese spiega allo scita Anacarsi lutilità degli esercizi
ginnastici, che sono parte della pubblica educazione, della quale ragiona largamente con senno
antico. Discorre come i Greci educano i giovani a fine che riescano cittadini buoni di animo e forti
di corpo: e quali discipline sinsegnano nelle scuole, quali esercizi nei ginnasii per conseguir questo
fine. Argomento grave e di civile importanza in un secolo in cui i Greci, dimentichi delle loro
antiche e savie istituzioni, non pregiavano più gli esercizi ginnastici, ma si piacevano delle corse
delle carrette. Luciano cerca di ricondurli al loro costume antico; e forse anche vuole mostrare ai
barbari, che spregiavano quegli esercizi come giuochi di fanciulli, che con queste arti i Greci
seppero difendere la loro libertà, acquistar gloria e potenza. In ultimo, egli fa dire da Solone allo
Scita: Se a te non finisce di piacere quanto io ti ho detto del modo onde noi Greci educhiamo i
giovani, dimmi come li educate voi altri Sciti, in quali esercizi li esercitate per farli diventare
uomini valenti (cap. 40). Le quali parole, come a me pare, sono indirizzate a tutti gli altri popoli e
Sciti, e Galli, e Romani, e Germani: se voi ci biasimate, dite che sapete voi fare di meglio. Il modo
onde è trattato questo argomento è bello e conveniente. Due savi ragionano tra loro: Solone greco
dice parole gravi di sapienza civile, ed ornate di lepore ateniese: Anacarsi scita discorre col senno
naturale, e con certa baldanza propria dun barbaro; rispetta Solone, e sebbene non si persuada
interamente, pure lo ascolta per imparare, e sempre lo ammira. Dialogo bellissimo, e degno di
Platone per la materia e per larte.
LXIV. Il Ballo è un dialogo di molta erudizione, ma di non molto giudizio. Per lodare il ballo si
dice che ei nacque con Amore generatore delluniverso, e stette prima tra i pianeti su le sfere, e poi
discese su la terra, dove tutti i popoli laccolsero come cosa bellissima e piacevolissima. Nella
guerra, nelle feste religiose, nella tragedia, nella commedia si adopera il ballo. Poi dal ballo si passa
alla Mimica ed ai mimi, e si loda questarte, e si discorre delle qualità che deve avere il buon mimo.
Si crede daglinterpetri che qui sia confusione, che si salti da una cosa ad unaltra: ed a me non pare.
Imperocchè la mimica non è altro che ballo, direi quasi intelligente, rappresenta qualche cosa coi
gesti e i movimenti del corpo. Ballo senza rappresentazione, solo dimenamento di persona, non è
cosa darte, e non poteva essere soggetto di lode e di discorso. È vero che ora, come tra gli antichi, si
distingue il ballo dalla mimica, ma è vero ancora che con la parola ballo ora sintende, come
sintendeva, luna cosa e laltra. E però non mi pare che si confondano cose che sono strettamente
unite tra loro, e che parrebbero meno diverse se la forma fosse più corretta, e se il trapasso dalluna
allaltra fosse più facile. La poca correzione della forma, e la farragine delle notizie, che pure non ci
danno unidea compiuta dellarte mimica degli antichi, fanno dubitare se questo dialogo sia di
Luciano: vi manca la sobrietà, la schiettezza, il senno, e le grazie che sono nelle opere genuine.
LXV. Il Caridemo ed il Nerone ultimi di tutte le opere, non appartengono a Luciano, neppure
secondo il giudizio dei copisti: perocchè in fine del primo sta scritto in greco: Nè questo pare di
Luciano; ed in capo del secondo è scritto: Se genuino.
Il Caridemo contiene tre discorsi su la bellezza, e non vè dialogo men bello di questo, povero di
pensieri, e di arte, e scorretto di lingua. A molti dotti uomini, fra i quali al Gesnero, pare una
esercitazione scolastica e quasi puerile, un cattivo raffazzonamento del panegirico dIsocrate in lode
di Elena.
Nel Nerone il filosofo Musonio confinato nellisola di Lenno(18) discorre con un suo amico del
tentativo che fece Nerone a cavar listmo di Corinto, non ostante la credenza sparsa che i matematici
egiziani avessero trovato il mare nel golfo di Corinto superiore a quello del golfo dAtene. La quale
credenza, rigettata da Musonio come una sciocchezza, è corsa anche nei tempi nostri, e sino a ieri si
è creduto che il mar rosso fosse superiore al Mediterraneo. Poi parla della voce di Nerone, dei gesti
con cui accompagnava il cantare e il citarizzare, e del fatto di un tragediante che aveva bella voce e
non gli voleva cedere, ed egli lo fece dai suoi cagnotti scannare sul teatro innanzi a tutti i Greci.
Mentre così ragionano, savvicina una nave che reca la novella che Nerone è morto. La dizione di
questo dialogo è dura e studiata, e in molte parti scura e sforzata appunto come la voce di Nerone: e
non è cosa di Luciano affatto. Entrambi questi dialoghi, e quasi tutti gli altri che noi abbiamo
scartati e scarteremo, sono tenuti per genuini dal Wieland, dotto uomo, il quale ha fatto una
traduzione delle opere di Luciano, che dai suoi Tedeschi è stimata un capo dopera. Io non so, nè ho
modo di sapere le ragioni avute da quel valentuomo per formarsi questa opinione, che ad altri dotti
Tedeschi, ed al Weise non piace sempre: e però mi attengo al mio giudizio, e lo espongo
schiettamente, e con la coscienza di averci pensato e studiato.
LXVI. Opere satiriche. Sono tutte dialoghi, eccetto il Peregrino, che però sarà esaminato a suo
luogo.
Cominciam dal Timone, tenuto giustamente per uno dei più belli, dei più eleganti, e finiti per forma.
Ne diremo un poco a lungo, perchè se esso non sarà bene inteso, parrà discordante da tutte le altre
opere di Luciano, un capriccio darte, senza ragione, e senza vera bellezza. Timone in poco tempo
divenuto ricchissimo (neoploytos, cap. 7) avendo sparso e sparnazzato ogni cosa in beneficare ed
arricchire moltissimi Ateniesi, abbandonato da tutti, e ridotto dallultima miseria a zappare la terra,
si volta aspramente a Giove e gli dice un gran vitupero. Lode Giove, e invece di sdegnarsi, si
dispiace di aver trascurato un uomo dabbene e religioso: ma le tante faccende, e lo scompiglio che è
nel mondo lhanno impedito di guardare su lAttica, dove le grandi chiacchiere dei filosofi non fanno
udire le preghiere: e però gli è avvenuto di non badare a questuomo che non è tristo (ou phaulon
onta, cap. 9). Intanto comanda a Mercurio di andare a prendere Pluto, che rechi un tesoro a Timone.
Pluto non vuole andare, perchè è stato offeso da Timone, e sparpagliato pazzamente. Io ero amico
di suo padre, ed egli mi ha scacciato di casa, mi ha gittato via come chi ha il fuoco in mano e lo
butta: se vi torno, farà lo stesso. Oh Timone non farà più così, risponde Giove: la povertà lo ha
corretto: or va, che lo troverai più savio; e se tornerà alla prodigalità passata, tornerà povero
subitamente. Va Pluto, che quantunque cieco e zoppo, ora non va a caso, perchè guidato dal
veggente Mercurio, e va da Timone che da Giove è giudicato degno di arricchire, quantunque gli
abbia detta quella gran villania. Giove, supremo senno, sa che quella villania non fu detta col cuore,
e che Timone dentro è un uomo dabbene. Questo è il significato del ragionamento che fanno
Mercurio e Pluto andando per via. Giungono a Timone che zappa, e vicino gli sta la Povertà con la
Fatica, la Robustezza, il Senno. Mercurio comanda alla Povertà di andar via, ed ella malvolentieri
vassene con la sua schiera. Si avvicinano a Timone, che da prima vuole cacciarli a sassate: ma a
poco a poco con le buone parole gli fanno capire che la colpa è stata sua, a dare la roba a cani e
porci, profondendola agli adulatori ed alle cortigiane: ubbidisca a Giove, che lo rivuole ricco. Si
persuade e ubbidisce. Pluto comanda al Tesoro nascosto sotterra di lasciarsi pigliare, e se ne vanno.
Timone con la zappa cava, e rinviene un tesoro maggiore di quelli di Mida, di Creso, del tempio di
Delfo, del re di Persia. Consacra la zappa e il pelliccione a Pane, si compera il podere dove ei
lavora, e vi costruisce una torre dove vuole abitare solo e lontano dagli uomini, ed esservi sepolto.
Rifatto ricco, rinunzia allumano consorzio, rompe ogni patto con gli uomini, si propone di fare tutto
il male che ei può, ed essere il nemico del genere umano. Se vedo uno che è caduto nel fuoco, e mi
prega di aiutarlo, io gli getterò olio addosso; uno che è nellacqua, e mi prega di porgergli una mano,
io ve lattufferò e lo terrò sotto. Vorrebbe che tutti sapessero la sua nuova ricchezza acciocchè ne
avessero dispetto. Ed ecco tutti la sanno, e corrono a lui parassiti, adulatori, retori, filosofi:
specialmente un retore che già ne aveva avuti dodici talenti, e poi laveva sconosciuto, ed ora gli fa il
parente, e gli porta a leggere un decreto che ei proporrà al popolo, nel quale Timone sarà dichiarato
capitano deserciti, vincitore dOlimpia, ottimo retore, e tutto. Timone con la zappa te li concia tutti
quanti, e li manda storpi. Corrono altri; Timone piglia i sassi; quelli dicono: Non scagliare, chè ce
nandiamo Voi non ve ne anderete senza sangue e senza ferite. E con le sassate finisce il dialogo.
Chi è questo Timone? È egli forse quel tristo, nemico e spregiatore degli uomini, che visse in Atene
al tempo di Alcibiade, e che una volta venne in piazza e disse: Cittadini, io ho nellorto una ficaia a
cui molti si sono impiccati: se vi si vuole impiccare qualche altro, faccia presto, perchè io la voglio
tagliare? Ma questi non fu mai uomo dabbene: Luciano stesso nella Storia vera (lib. 2, cap. 31) lo
pone a custode nellisola degli empi, e Cicerone nel libro De Amicitia ne parla come di un tristo che
contro gli uomini vomebat virus acerbitatis suæ. Non si sa che egli avesse trovato un gran tesoro, e
che fosse stato un riccone e gran prodigo. Per qual cagione adunque Luciano lo fa diverso da quello
che fu? Se intendi che sia il vero Timone, questo dialogo è serio, non satirico; ed il suo concetto
non è nè bello nè vero, perchè un gran ricco, che impoverito per molto spendere accusa Giove della
sua sciocchezza, e rifatto ricco odia gli uomini con unacerbità crudele; e minaccia stragi e sangue,
non è ridicolo, ma pazzo scellerato. Il dialogo non sarebbe secondo la natura di Luciano, il quale,
come Menippo, ride sempre, gelai d'aei, e motteggia, e qui getterebbe fuori un veleno rabbioso
senza scopo di arte, e contro la ragione di tutte le altre sue opere. Il Timone dipinto da Luciano in
fondo non è misantropo nè tristo; ma per contrario un uomo amorevole e dabbene, che ha peccato
per troppa bontà, che per uno sdegno momentaneo si scaglia contro Giove, e fa lo strano proposito
di abborrire tutti gli uomini, e che esagerando il suo odio, mostra che egli non lo sente davvero; uno
che voleva fare il Timone contro la sua natura, e però è ridicolo, e Luciano lo motteggia come si
può motteggiare un uomo del quale si rispettano le buone qualità che egli possiede. Ma chi è questo
gran ricco e prodigo, benefattore degli Ateniesi, amorevole e buono, che per ira pare cattivo, e però
è ridicolo? Io fo una congettura, che mi pare dia gran lume a questo dialogo.
Al tempo degli Antonini uno de più grandi e famosi ricchi dellimpero fu Erode Attico, cittadino
ateniese, nato verso il 104 in Maratona. Suo padre, che era un poveruomo, trovò a caso un immenso
tesoro sepolto sotto un vecchio casamento, e divenuto ricco, fece educare il figliuolo con ogni cura.
Erode ebbe a maestri i più riputati uomini del suo tempo, Scopeliano, Favorino, Secondo, e
Polemone retori; imparò filosofa platonica da Tauro Tizio, critica da Teagene di Cnido, ed
eloquenza da Munazio di Tralle: ebbe bellingegno, diventò valente oratore, ed insegnò in Atene, e
poi in Roma, dove ebbe a discepolo Marco Aurelio che sempre lo rispettò. Ebbe i maggiori uffizi in
patria e fuori, e nel 143 fu fatto console. Fu magnifico e splendidissimo nellusare delle ricchezze,
ornò Atene duno stadio, dun teatro, di acquedotti; fece grandi benefizi a molte città; prodigò il suo
agli amici, agli artisti, ai dotti che gli erano intorno: e Filostrato, che ne ha scritto la vita, racconta
che ei donò al sofista Polemone quasi sedicimila zecchini per tre declamazioni. Ma lingegno, la
bontà, e i benefizi non lo salvarono dallinvidia. Suo padre avea lasciato per testamento una mina a
ciascun ateniese ogni anno. Egli fece un accordo, e ne pagò cinque una volta sola, ma ne sottrasse
quello che alcuni dovevano a suo padre: di qui nacque grandira contro di lui, ed il popolo gliene
volle sempre male. Teodoto, già suo discepolo, Prossagora, e Demostrato, suoi nemici, per attizzare
più questira, scrissero orazioni contro di lui, e lo accusarono a Marco Aurelio, come ambizioso che
macchinava contro lo Stato. Egli andò a Sirmio, dove era Marco, si purgò dalle accuse, e fece
punire i suoi calunniatori: ma addolorato e noiato della ingratitudine de suoi cittadini, si ritirò nella
villa Cefisia presso Maratona, e lì visse solitario fra pochi discepoli. Marco Aurelio gli scrisse una
lettera nella quale lo assicurò della sua stima: ma nulla valse a consolarlo, perchè egli era uomo che
si lasciava abbattere dal dolore.(19) Quando perdette la moglie Regilla, ed il liberto Polluce,
mortogli nel fiore degli anni, si abbandonò al più stemperato dolore, si chiuse per non vedere più la
luce, fece le più strane spese, comandò si tenesse sempre pronto un cocchio coi cavalli, come se il
giovane dovesse montarvi, e sempre imbandito un banchetto, come se la moglie e Polluce
dovessero banchettare. Onde il filosofo Demonatte lo motteggiava di quella mollezza nel dolore, e
diceva che Erode aveva due anime, con una faceva quelle pazzie, e con laltra componeva belle
declamazioni (V. la Vita di Demonatte). Si crede sia morto di settantasei anni, nel 180.
Pensomi adunque che questo Erode sia il Timone di Luciano. Egli fiaccato dal dolore, e ritirato
nella solitudine, forse diceva, come tutti gli uomini della sua tempra, che egli odiava tutti, perchè
tutti erano tristi ed ingrati; si credeva divenuto un Timone, un nemico degli uomini, e non era, nè
poteva esser tale: ma nello sforzo di divenire un Timone sta appunto il ridicolo che Luciano ha
saputo cogliere ed esprimere sì bene. Quellodio suo irragionevole era ridicolo quanto la sua
amorevolezza sconsigliata; e pero luno e laltra sono derisi, ma con quella moderazione, e direi quasi
con quel rispetto che si deve alle debolezze dun uomo dabbene. Tu non lodii questo Timone, ma
lami, e ne ridi. Inoltre i particolari della vita dErode corrispondono a quelli del dialogo. La legge
che Timone fa a sè stesso nella forma solenne di pubblico decreto è pur ridicola, perchè può
ricordare i tanti decreti fatti in onore dErode da un popolo misero e servo: quellingrato retore che
gli presenta il decreto può essere anche il discepolo Teodoto: quel dichiararlo ottimo capitano, è un
allusione al suo consolato; ottimo retore è una lode vera e meritata: quellira poi, quei colpi di zappa,
quelle ferite, quel sangue per eseguire la strana legge, non fanno male a nessuno, perchè sono
fantasie dun uomo che aveva fatto sempre bene in vita sua, e non avria ammazzata una pulce. E
forse è consiglio di Luciano, il quale gli dice: Se tornano a te quei furfanti di retori e di filosofi per
venderti le loro corbellerie ed adulazioni, piglia una mazza e cacciali; chè se prima avessi fatto così,
non avresti avuto tante noie.
Insomma io credo che questo dialogo non abbia alcun senso, alcuna bellezza darte se rappresenta il
Timone vero: mi pare che Luciano sotto il nome di Timone rappresenti Erode, che egli dovè
conoscere in Atene, e udirlo e stimarlo, e poi riderne, egli che rideva di tutti, e spesso anche di sè
stesso. Se questa congettura non piace, si trovi di meglio.
LXVII. Seguono la Vendita e il Pescatore, due dialoghi strettamente uniti tra loro che dal Weise e
da altri sono tenuti spurii ed inetti;(20) ed io per me li credo non pure genuini, ma bellissimi, e tra i
capilavori di Luciano: ed allegherò le ragioni di questo mio credere. Quando io leggo unopera di
Luciano, io dimando a me stesso primamente, se essa è consentanea o almeno accordabile al
concetto comune che si ha di Luciano, cioè dun uomo dingegno e di senso retto che derise i vizi e
gli errori del suo tempo con un lepore ed una grazia che lo han renduto immortale: e poi dove, e
quando e perchè lopera potè essere scritta. Così cerco di trovare la ragione dello scritto nella storia,
e di fare, come si suole in pittura, il campo intorno allimmagine per vederla più chiara e rilevata.
Ora leggendo la Vendita ed il Pescatore non si può dubitare affatto che essi furono scritti in Atene:
la quale città era un formicaio di filosofanti che parlavano e disputavano in ogni tempo, in ogni
luogo, e di ogni cosa. Quattro scuole secondo le sètte principali degli stoici, degli epicurei, dei
platonici, e dei peripatetici, erano state fondate o ristorate da Marco Aurelio, che a ciascuna aveva
assegnato un maestro con ben grossa provvisione. Immaginate un po in mezzo a tutta quella
sapientaglia Luciano con quel suo ingegno che gli aveva dato tanta fama nelleloquenza, con quel
buon senso che gli aveva fatto spregiare le vanità della rettorica, un arguto motteggiatore che non
credeva a nulla, si sentiva superiore agli altri, e rideva degli uomini, che cosa doveva sentire, e che
doveva dire? Naturalmente gli veniva detto: E questa è la sapienza? questa bindoleria e queste
chiacchiere? E costoro sono gli amici della verità e della virtù, costoro che sono pieni di tutti i vizi,
e che offendono in tutti i modi la ragione umana ed il senso comune? A che dunque è buona questa
gente? Perchè Marco Aurelio li paga? Oh, se egli avesse miglior giudizio.... Ed ecco il concetto di
un dialogo, ecco questo miglior giudizio personificato in Giove, che non paga ma vende come
schiavi inutili e molesti proprio i capocci della filosofia. Così Luciano entrando in un mondo ideale,
ivi dipinge per riflessione il mondo reale che gli sta intorno; anzi, confondendo insieme luno e
laltro, forma unimmagine, la quale, come tutte le creazioni artistiche, non è puramente ideale nè
puramente reale, e pare contraddittoria a chi non considera bene le ragioni dellarte. Tale è
limmagine dei filosofi nella Vendita, i quali non sono Pitagora, Diogene, Socrate, Crisippo
interamente e veramente quali essi furono, ma sono nella parte che essi ebbero debole e ridicola e
comune coi filosofanti posteriori: non è limmagine compiuta dei capiscuola, nè limmagine
compiuta dei degenerati discepoli, perchè questa non sarebbe stata artistica come priva di bellezza,
quella non sarebbe stata efficace perchè priva di somiglianza. È una immagine mista che a primo
vederla ti fa dubitare e scambiare luna cosa con laltra; e lartista questo vuole che tu dubiti e scambi,
che nel brutto reale tu veda qualcosa del bello ideale: perocchè questo scambio è la natura del suo
concetto, ed è la cagione della bellezza che egli ti rappresenta. Ma se riguardi bene, tu vedi luna
cosa distinta dallaltra: perchè le dottrine vere, che sono lessenza dei grandi filosofi, non sono
esposte affatto; ma solamente è esposta lultima ed accessoria parte di esse dottrine, quella parte che
è accidentale, esterna e confinante con lerrore, quella parte dove è facile lo scambio, dove sta il
ridicolo da cui larte può ritrarre il bello. E però il dialogo è una vendita allincanto non di filosofi, nè
di sètte, nè di servi, nè di nulla, ma bion prasis, Vitarum auctio, vendita di vite, vendita di persone,
vendita di certi tali, e non dice di chi, per lasciarti nel vago, e poter ridere e scherzare a suo modo
liberamente. Alla bellezza artistica del concetto si accordano benissimo i particolari: ciascun ritratto
in quattro colpi è compiuto: il ridicolo che li colorisce è di due specie; o sono esposte come scienza
alcune pratiche esterne che non hanno nulla che fare con la scienza, o pure sono ripetute alcune
formule e parole che tratte fuori della scienza e del sistema, e intese come suonano comunemente le
parole, paiono stranissimi paradossi. I filosofi adunque sono venduti perchè sono inutili al mondo: i
compratori sono innominati perchè rappresentano tutto il genere umano: i prezzi sono diversi, per
indicare la diversa stima che il mondo, secondo lopinione di Luciano, deve fare delle loro dottrine.
Primo è venduto Pitagora, il quale parla nel suo dialetto giono di Samo; lo comperano per dieci
mine trecento Italiani della Magna Grecia, dove le dottrine di quel filosofo ebbero più voga. Poi
viene Diogene con la sfrontatezza e sacciutezza dei Cinici: uno offre per lui due oboli, e vuole
servirsene per rematore o per guardian dellorto: glielo danno per torsi dattorno una molestia.
Aristippo non trova compratori, perchè lusare di tutto, il raccogliere piacere da tutto è dottrina che
non giova, nè è onesta. Così ancora non trovano compratori Democrito, pel quale niente era serio,
ed Eraclito pel quale tutto era troppo serio: concetto profondo che significa come il riso ed il dolore
sono indivisi. Viene Socrate, il cui sapere è umano e riguarda il costume, però è venduto per il
maggior prezzo di due talenti; e lo compera Dione Siracusano, che fu amico non di Socrate ma di
Platone, e lo chiamò in Sicilia, e lo riscattò dai pirati che lo avevano preso: e questa è la ragione per
la quale egli solo fra i compratori ha nome, perchè egli comperò veramente un filosofo. Lo scambio
poi tra Socrate e Platone non è caso, ma fina satira, e vuole indicare come Socrate fu il vero capo
della scuola che si chiamava platonica. Segue Epicuro, comperato per due mine da uno che
promette dargli mangiare fichi secchi e dolciumi. Quello poi che è aspettato da più compratori, che
più parla di sè e discute, è Crisippo lo stoico, venduto per dodici mine, comperato da gente grossa e
di spalle forti, che più facilmente possono coprire la loro ignoranza sotto una dottrina austera.
Aristotele dopo di Socrate è venduto a più caro prezzo, per venti mine, perchè la sua dottrina è
umana (anthropina phronei), e moderata. Ultimo è Pirrone, che appena tra i pochissimi compratori
rimasti trova uno che se lo piglia per una mina; ma siccome ei dubita del fatto, e non vuole andare
col padrone, è persuaso dallo stringente argomento dello staffile.
Ecco il dialogo spurio ed inetto. Io non so come si possa non vedere la bellezza di questo concetto,
ed il moto, lazione, la vivacità; il frizzo e la piacevolezza comica sparsa in tutto questo dialogo che
Aristofane non isdegnerebbe per suo. In ultimo Luciano prevedendo che la sua satira saprà agra a
molti, fa che Mercurio si volga al popolo e dica: Voi ci tornerete domani, che vi venderemo tous
idiotas, kai banausous, kai agoraious bious, glignoranti filosofastri, i facchini della scienza, i
disputatori di piazza. Le quali parole fanno intendere questaltre: Finora ho scherzato coi buoni
antichi; se mi tentate, farò davvero coi moderni. E la minaccia ebbe tosto effetto.
LXVIII. Imperocchè moltissimi dovettero altamente scandalizzarsi che Luciano se laveva pigliata
con tutta la filosofia, mettendo così ridevolmente in vendita i maggiori e più venerandi filosofi
dellantichità; e dovettero dirne tante contro di lui, e tentarlo tanto, che egli scrisse il Pescatore,
dialogo simile ad una balista che scaglia mille punte.(21) Il concetto è ardito e largo. Ho fatto poco
nella Vendita, dove ho nominato gli antichi per un certo riguardo ai moderni: ora la lode ed il
biasimo a chi tocca. I buoni non si confondano coi tristi: ed ai buoni deve piacere che i tristi sieno
smascherati. Proviamo ora se i moderni filosofi sono degni di questo nome modesto, e se essi non
isvergognano quei savi, le cui dottrine essi dicono di seguitare. Siccome Luciano vuol dimostrare
non pure la ragione dal lato suo, ma il torto dal lato degli avversari, così pare che il dialogo abbia
due parti e quasi doppio argomento: il che non è; perchè il pensiero è uno, ed egli, per dirla alla
greca, ci porge un solo vino in due coppe.
Comincia la scena con un parapiglia. Luciano si trova in mezzo ad una gente arrabbiata che gli dà
addosso con pietre, con bastoni, con mani, gli dice un sacco di villanie, lo vuole accoppare,
squartare, arrostire. Il poveruomo dimanda pietà: Ma che vho fatto? ma chi siete, che mi volete
ammazzare? E quei tosto rispondono: Siamo i filosofi che tu hai venduti: avutane licenza da
Plutone, siamo risuscitati e venuti a punirti.(22) Il meschino piglia fiato. E voi, filosofi, vi adirate
tanto? E poi contro di me che vi ho sempre onorato e vendicato? Non avrei mai creduto che un
Platone, un Aristotele, un Crisippo si fossero mai sdegnati, e sino a questo punto. Questira
filosofica è dipinta da uno che si ride degli adirati, e in mezzo a loro serba tanto sangue freddo da
far parodie di versi: e mentre fa di scusarsi, non può stare che non esca in certe parole equivoche;
mentre pare che preghi, egli piacevoleggia, perchè egli li rispetta come savi ed onesti, ma in fondo
del cuor suo non li crede. Voi vi tenete offesi da me: ascoltate le mie ragioni e giudicatemi: mi
giudichi la Filosofia, giudicatemi voi stessi tutti quanti. Ma dovè la vostra Filosofia? dove sta di
casa? che io non lo so. E neppur noi veramente: ma certo la troveremo in piazza. In piazza al
parlare sennato la riconoscono, e le vanno incontro: ella calma queglirati, e con la Verità, la
Giustizia, la Modestia, la Libertà, la Franchezza e la Pruova, li conduce tutti su la cittadella dAtene
per trattar questa causa. Mentre la Sacerdotessa apparecchia le seggiole sotto il portico del tempio
di Pallade, Luciano fa la sua preghiera alla dea. Siedono giudici tutti, anche i filosofi, eccetto
Diogene che fa laccusa contro il retore. Costui, dice, lasciata la rettorica, si è messo a strapazzare la
filosofia, e fa cenci dei filosofi, e il popolo appresso a lui ci deride. E facendo questo, ei si crede di
filosofare, ed usa il nostro dialogo, ed ha persuaso Menippo ad abbandonar noi ed accordarsi con
lui, e darci la baia: ed ultimamente ci ha venduti come servi, e me per due oboli. Luciano sotto
nome di Parlachiaro si difende in una lunga diceria, nella quale sverta tutti i vizi, le imposture, e le
ribalderie di quelli che svergognano la filosofia. La Verità fa testimonianza per lui: egli è assoluto a
pieni voti, ed è dichiarato amico della Filosofia e dei filosofi veri. Ma la Virtù non si contenta, e
vuole che ora Parlachiaro accusi gli avversari per farli punire. E qui pare che cominci la seconda
parte. Il Sillogismo dallalto della cittadella fa il bando, e chiama i filosofi a render conto di sè:
vengono pochissimi. Lasciate che li chiami io, dice Parlachiaro, e vedrete. Tutti quelli che si
tengono filosofi, venite qua; cè distribuzione, due mine per uno, focacce, e dolciumi. Corrono,
sarrampicano, saffollano, saggruppano, e ronzano come pecchie, si urtano, si bisticciano; ma come
odono che si tratta di provare se sono buoni filosofi, spulezzano tutti: nella bisaccia caduta ad un
cinico trovano oro, dadi, e galanterie. Sono fuggiti, non si può giudicarli, come si ha a fare per
distinguere i buoni dai tristi? Manderemo Parlachiaro pel mondo, ed egli con la Pruova li conoscerà
e metterà una corona in capo ai buoni, e marchierà in fronte i tristi con un ferro rovente. La pruova
sarà questa, dice la Filosofia. Presenta oro, gloria, piaceri: se vi guardano senza curarsene, sono veri
figliuoli daquila: se vi fan locchio damore, sono bastardi. Questa pruova è facilissima, e possiamo
cominciarla da qui, dice Parlachiaro. Sacerdotessa, dammi la canna del pescatore, e un po doro, e
fichisecchi per inescar lamo: caliamolo in mezzo la piazza: ve, ve quanti pesci vi corrono: eccone
uno preso: è tua questa bestia, o Diogene? e questaltra, o Platone? e questa, o Crisippo? Noi non li
conosciamo. Dunque giù dalla rocca. Dopo questa pesca piacevolissima, la Filosofia dice a
Luciano: Vattene pel mondo con la Pruova, e corona o marchia come tho detto.
Questo dialogo è un vero dramma, ha movimento ed azione più di tutti gli altri, e si potrebbe
proprio rappresentare. I motti, i frizzi, le piacevolezze sono versate a larga mano, e non ti stancano,
anzi ti rallegrano sino allultimo. Vendere i filosofi è unacre beffa certamente, ma almeno i venduti
sono considerati come persone, e non perdono la loro qualità umana; ma pescarli nella piazza di
Atene è una terribile satira, è considerarli come le ultime delle bestie che non hanno neppur voce.
Luciano ha un giusto sentimento di sè stesso, assume lufficio di frustare glimpostori, e lo adempie
mirabilmente con una fantasia, un ardire e con un senno insieme ed unarte che ha pochi pari, e che
dimostra un grande ed originale scrittore. Non è un argomento per negare che questi dialoghi sieno
di Luciano il dire che egli nella Vendita fa quello strazio dei grandi filosofi antichi, e nel Pescatore
si scusa, e dice che egli intende parlare dei cattivi, non dei buoni. Innanzi abbiamo mostrato qual è
il vero concetto dellartista, e come sha ad intendere: ora aggiungiamo che nel Pescatore queste
scuse non ci sono, ei non si pente, non muta il suo concetto, ma lo spiega più chiaramente. I veri
savi chi li può biasimare? Ma siccome egli è persuaso che saper vero non cè, o è tuttaltro da quel
che si dice, così mentregli onora quei savi per alcune parti, per altre li canzona. Lo scettico stima un
uomo dotto e savio, sebbene si rida delle sue opinioni: il motteggiatore motteggia anche il sapiente
in quella parte che gli trova ridicola, ma non però lo spregia. Luciano era un cervello bizzarro che
ne aveva per tutti; e se ei vivesse ora, ne avrebbe delle buone per chi gli vuol togliere due dialoghi
bellissimi, e forse anche pel suo traduttore italiano.
LXIX. Il Menippo e lIcaro-Menippo hanno il medesimo concetto: aver cercata e non aver trovata la
verità su la terra, dove i filosofi dicono mille cose contraddittorie, e loro non si può credere. Nel
Menippo si cerca la verità morale; nellIcaro-Menippo la verità fisica ed intellettuale ancora.
Nel dialogo intitolato il Menippo o la Necromantia, Menippo dice così: Quandio ero bimbo, e
leggevo in Omero che gli Dei fanno adulterii, furti, incesti e cose simili, io le credevo lecite e sante,
perchè le fanno gli Dei: ma fatto grandicello, seppi che le leggi proibiscono queste cose come
misfatti, e le puniscono. Mi trovai imbrogliato, e ricorsi ai filosofi: peggio di peggio,
mimbrogliarono di più. Poeti no, leggi no, filosofi no, come dunque dovrò fare per conoscere il
vero, e vivere bene? Pensa e ripensa, mi viene lidea di ricorrere alla Necromantia. Allora che tutti ci
credevano, questidea era naturalissima. Menippo adunque dice che egli si propose di scendere
allinferno e dimandare a Tiresia, savio ed indovino famoso, come si deve fare per menare una
buona ed onesta vita in questo mondo. Descrive certi incantesimi, la discesa nellinferno, dove vede
in tribunale Minosse che giudica e fa anche qualche parzialità: vede i castighi dei ribaldi, e vede gli
eroi e le eroine, e gli altri morti, quali rosi ed intarlati per lantichità, e quali ancora freschi, massime
gli Egiziani, perchè ben salati: tutti scheletri simili ed indistinti. Fatte alcune considerazioni su la
vita umana che è simile ad una favola rappresentata su la scena, finalmente trova Tiresia, e lo
dimanda. Il buon vecchio non glielo vorria dire, infine tiratolo in disparte gli dice allorecchio: La
vita degli ignoranti è la più savia: non udire chiacchiere di filosofi: fa come tutti, ridi di tutto, e non
curarti di nulla. A questa conclusione si doveva venire dopo tante ricerche e tanti affanni! E perchè
si doveva venire a questa conchiusione, che è negativa, però si dipinge largamente linferno, in cui è
riflesso il mondo di quassù, dove è il positivo ed il reale. I dotti, dice il Weise, a ragione dubitano
della genuinità di questo dialogo, in cui le sentenze sono una mera ripetizione di quelle che si
leggono nei dialoghi dei morti. Ripetizioni ce nha, ma non tante: nè scioccamente fatte da cagionare
questo giudizio. Uno scrittore spesso ripete le sue idee con le stesse frasi e parole, e non però fa
credere che egli sia un altro. Il Giove confutato ripete il concetto che è nellultimo dialogo dei morti;
però non è genuino? Se si ripete male, allora la ripetizione è cosa di altra mente. Io per me ci vedo
Luciano, che ha sempre innanzi la mente la religione ed il sapere del suo tempo, e non si lascia mai
sfuggire loccasione di mordere la vacuità dei retori: ci vedo lo scettico che si ride di ogni cosa. E
invece di notarvi qualche inezia nella dizione, come dice il Weise, io vi noto alcuni tratti belli, come
quei vuoti e nuovi retori che fanno da accusatori ai morti, e sono le ombre dei loro corpi vivi; il
giudizio di Dionisio assoluto pel favore di Aristippo; quei morti insalati, quei re che fanno i
ciabattini, quel Tiresia con una vociolina sottile, ed altri. Sicchè io tengo il dialogo bellissimo no,
ma bello e genuino.
LXX. Menippo per conoscere che cosa è questo universo, e il sole, e la luna, e le stelle, e perchè
piove, e tuona, e grandina, si mette lali dIcaro, e sale al cielo, per dimandarne Giove; perchè non
altri che Giove può conoscere queste verità, delle quali i filosofi su la terra dicono le più matte cose.
Descrive il suo viaggio aereo, e la prima posata che fa nella Luna, dove trova il fisico Empedocle
scagliatovi dallEtna in uneruzione, il quale glinsegna come vedere di lassù le cose della terra.
Volando egli dalla Luna, questa piglia faccia e voce femminile, e gli raccomanda dire a Giove che i
filosofi le danno noia ogni giorno, la misurano, la squadrano, e vogliono sapere tutti i fatti suoi.
Viene finalmente al cospetto di Giove, gli conta ogni cosa de suoi dubbi, del suo desiderio di
sapere, dei filosofi che gli avevano messo sossopra il cervello con le loro pazzie. Giove sinforma
che si fa su la terra, che pensano di lui gli uomini, e se sono religiosi; ed egli stesso riconosce che è
curato poco. Così ragionando, vanno ad un luogo dove Giove apre alcuni finestrini, e si mette ad
udire le preghiere, e le promesse, e i voti che si alzano dalla terra. Dispone la pioggia, la grandine, i
tuoni, e conduce Menippo a cena. Il giorno appresso chiama gli Dei a parlamento, e fa una diceria
nella quale discorre dei filosofi: gente prosuntuosa ed oziosa che vuole ragionare di tutto, trova da
ridire in tutto, spia tutto, si mischia dei fatti nostri, dice che noi non siamo niente, e che gli uomini
ci sprecano i sacrifizi con noi, e tra breve ci ridurrà a morirci di fame in cielo. Gli Dei frementi
gridano: Fulmini e Tartaro. Giove risponde: La sentenza sarà eseguita, ma ora no, perchè sono
giorni di festa: leseguiremo a primavera certamente. Il parlamento si scioglie, e Menippo è posato
da Mercurio nel Ceramico di Atene. Questo dialogo bellissimo, pieno delle più liete e festive
invenzioni, di sali e di motti piccanti, vago di stile leggiero e spigliato, corretto in tutte le parti, è
certamente di Luciano, secondo la mia opinione. I soliti dotti al solito dicono di no, senza darne una
ragione. Luciano per loro è un mezzo filosofo, e veneratore della filosofia come sono essi, poco
meno che un dottor laureato in utroque: però quando leggono un dialogo ardito che lacera i filosofi,
e tira giù contro la filosofia senza riguardi, e ride, sentenziano tosto: Oh, non può esser suo; non è
suo; è spurio; roba da scapestrato e da scolare. Se si volesse stare al giudizio di questi areopagiti
giudicanti nel buio, le opere certamente di Luciano sarebbero meno di una dozzina. Ei credeva che
la filosofia fosse una ciancia, e i filosofi deglimpostori. Buona o cattiva questa era lopinione sua, e
non bisogna dimenticarla nel leggere le sue opere.
LXXI. Ho ragione di così dire, perchè leggo che la Vendita ed il Pescatore dialoghi sì belli per arte
sono dichiarati inetti e spurii, e poi lErmotimo, dialogo pregevole sì, ma non paragonabile a quei
due, è tenuto come il capolavoro di Luciano, e lodato più di tutti: Scriptio vere Lucianea, ac
genuina, ac plane egregia. Io non lo biasimo, non nego che abbia bellezze, ma dico che non è di
quella bontà e perfezione che altri dice. LErmotimo non è altro che una disputa intorno alla filosofia
ed alle sètte filosofiche; e pare scritto da Luciano quando lasciò la rettorica e si messe a conversar
coi filosofi, essendo su i quarantanni. Lo scopo della filosofia è la felicità, a cui si giunge con la
cognizione della verità. Per giungervi bisognano anni assai, e neppure vi si giunge. Ci ha tante sètte,
che sono tante vie, che menar dovrebbero alla verità; quale di queste è la vera? Ognuno ti dice che
la sua è la migliore. Per giudicare, dovresti conoscerle tutte: e se per conoscere il solo stoicismo tu
dici che appena bastano ventanni, per conoscere tutte le sè tte ci vorranno due secoli almeno. E dato
anche che tu le conosca tutte, devi sapere scegliere la migliore: e sceltala, chi ti assicura che esista
quella verità per la quale ti sei tanto affaticato? Può essere che nessuna delle vie meni allo scopo, e
che la Verità sia una bugia bella e buona. Adunque tutte coteste ricerche sono vane, la virtù sta nei
fatti non nelle parole; i filosofi insegnano chiacchiere. Vivi come gli altri, ed avrai quella felicità
che vai cercando. Questo scetticismo, questo modo di considerar la filosofia è ben volgare; e se in
unopera darte è cagione di bellezza e piace, in unopera che si propone di confutare seriamente la
filosofia, non piace molto nè può piacere, perchè è troppo leggiero e superficiale per un filosofo,
troppo grave ed impacciato per un artista. Per combattere la filosofia da filosofo, bisognano
argomenti di maggior peso, e per combatterla da artista ci vuole altro ardire e immaginativa. Di
questi Luciano non mancava, ma egli era preoccupato dalla gravità della materia, stava in mezzo
alle disquisizioni filosofiche, avrebbe voluto dire tutto, e non può, perchè la materia gli manca. Però
egli si dibatte in vano; potrebbe dire più breve, e si dilarga in molte parole; accumula esempi ad
esempi senza una necessità, e quasi con la coscienza di non giungere ad esprimere bene ciò che egli
si sforza di esprimere. Insomma egli per mostrarsi filosofo non riesce nè filosofo nè artista. O
volete filosofico questo dialogo, o lo volete artistico: filosofico non è, perchè la materia è volgare;
artistico non è, perchè è di forma grave e platonica, non altro che un ragionamento serio con poca e
sottile ironia. Lunico suo pregio è uno stile lucente, una maniera schietta, la lingua pura: pregio non
suo particolare, ma di tutte le altre opere di Luciano. Eppure lo stile manca di quella leggerezza e
semplicità che nasce dai pensieri più che dalle parole. E per questo pregio tutto esterno sha a dire
che sia una scrittura plane egregia? Nè vi trovo alcuna idea o parola che alluda a Marco Aurelio, sì
che io possa congetturare, come altri ha fatto, non so su quale argomento, che sia stato composto
per pungere lo stoico imperatore. Credo che fu scritto prima del Pescatore e della Vendita,
dellAccusato, e degli altri dialoghi drammatici, appunto allora che Luciano conversava
nellAccademia e nel Liceo. È la prima lancia che ei ruppe contro la filosofia. Ci vedi senza dubbio
un uomo ingegnoso, ma che combatte con arme non sua: quando dà di mano allarte, allora ferisce e
vince. LErmotimo in una forma platonica racchiude uno scetticismo volgare, ed io non lo tengo dei
più fini lavori di Luciano.
LXXII. LAccusato di due accuse contiene importanti notizie intorno la vita di Luciano, delle quali
abbiamo ragionato innanzi; ed è uno dei dialoghi più belli, un quadro di tutto il mondo greco, nel
cui centro è Luciano stesso, che osserva quanto gli sta intorno e ride. Tu lo vedi col suo scetticismo
religioso e filosofico, col disprezzo che aveva per le inezie rettoriche, e pei dotti vanitosi del suo
tempo, rispondere a chi lo accusa, parlare sicuramente di sè, e rovesciare il ranno addosso a chi
loffende. In Atene tutta la greggia degli studianti doveva accusarlo di leggerezza e di mutate
opinioni: i retori lo biasimavano di aver lasciata la rettorica, onde aveva tratto gloria e ricchezze: ed
i filosofi di avere apprese le loro dottrine per beffarle, di avere studiato Platone per guastarne larte.
A queste due accuse ei rispondeva trafiggendoli, e dicendo: Lasciare il peggio per appigliarsi al
meglio non è leggerezza ma buon giudizio: molti grandi ed illustri così mutarono, e sono lodati.
Polemone da giovane scapestrato diventò filosofo; Dionisio da stoico diventò epicureo; Aristippo
da severo diventò voluttuoso; Diogene lasciò il banco e Pirrone la pittura, e si diedero alla filosofia.
Perchè biasimate me che ho lasciata la rettorica e la filosofia, e mi sono messo a scrivere dialoghi?
E qui naturalmente doveva allegare molte ragioni per dimostrare come la rettorica era scaduta, e
non più professione per un uomo onesto, e come la filosofia ridotta a vuote disputazioni non poteva
piacere ad un uomo di senno. Questo era il senso della risposta, non la risposta di Luciano. Egli
retore, non sa dimenticare i tribunali; egli in Atene, non vede nè ode altro che piati, che piacciono
tanto a quel popolo: questaccusa è un piato vecchio che già appartiene al mondo
dellimmaginazione, nel quale egli ti trasporta, e scrive questo dialogo.
Ecco Giove che si lagna di avere per mano tante faccende da non fargli chiudere occhi nè respirare:
si affatica notte e giorno a governare il mondo, e pure molti sparlan di lui, e sono malcontenti, e
dicono che egli è un poltrone. Molti affari sono trascurati per mancanza di tempo: stanno lì un
monte di processi coperti di ragnateli, e non potuti sbrigare: sono citatorie e libelli e querele che le
Arti e le Scienze hanno fatto contro alcuni uomini: e questi processi non sono ancora giudicati. A
consiglio di Mercurio egli decide di farli giudicare in Atene, ne dà lincarico allo stesso Mercurio e
alla Giustizia, la quale si turba a sentire che deve scendere di nuovo su la terra, e specialmente in
Atene. Ma Giove la conforta e lassicura che il mondo è mutato per opera di tanti filosofi che vi
sono: ed ella deve ubbidire. La poveretta non persuasa interamente, mentre scendono, dimanda a
Mercurio come sono i filosofi, e se ella può stare con essi. Mercurio se nesce pe generali: ce nha di
buoni e di cattivi: i cattivi sono i più, ma pur ci sono i buoni coi quali puoi stare. Ma Pane, che vien
loro incontro e che abita nella spelonca sul Partenio, donde si vede tutta Atene di sotto, le dice
schiettamente che egli ode sempre grida e schiamazzi e risse di questi tali, e vede che fanno di
brutte cose. Intanto Mercurio chiama per bando gli Ateniesi a venir su lAreopago dove si giudica
dei piati: e gli Ateniesi corrono a giudicare ed a piatire. La Giustizia dice: Oggi giudicheremo
solamente le querele che le Arti, le Scienze e le Professioni hanno dato ad alcuni uomini: dimani
giudicheremo le altre querele. Si sorteggiano le cause, ed a ciascuna, secondo la sua importanza, si
destina un numero di giudici. LUbbriachezza accusa lAcademia di averle rubato il suo servo
Polemone: ma avendo la lingua grossa, non può parlare, e Mercurio propone che lAcademia, la
quale in tutte le cose suole sostenere il pro ed il contra, faccia ella stessa laccusa e la difesa.
LAcademia accusa, e difende, e vince la causa. La Stoa accusa la Voluttà di averle rapito Dionisio:
difensore della Voluttà è Epicuro, che parla e vince. La Stoa vuol cavillare coi sillogismi, ma non
può altro, e si appella a Giove. E finchè Giove non giudichi di questo appello, è differita la causa tra
la Voluttà e la Virtù che contendono per Aristippo. Diogene che si ode accusato dal Banco, gli corre
appresso, e vuol decidere egli la lite col bastone. Pirrone non si presenta, perchè dubita, e si astiene,
e sarà giudicato in contumacia. Si viene adunque alla causa del Siro, che è Luciano, accusato di due
accuse, dalla Rettorica e dal Dialogo. La Rettorica dice che ella prese a nutrirlo ed educarlo
garzone, lo fece ammirare, celebrare, arricchire, conoscere in tanti paesi; e lingrato mi ha lasciata,
me bella e ricca e desiderata da tanti e innamorata solo di lui; ed ora se ne sta col vecchio e
malinconico Dialogo, e di lui si piace; sebbene sento che hanno tra loro qualche briga. Il Siro non
nega i benefizi ricevuti, ma dice che ella è divenuta una sfacciata sgualdrina, e però gli è convenuto
lasciarla, e ricoverarsi a casa il Dialogo, che lo ha accolto benignamente. Vince il Siro, ed ha un
solo voto contrario, forse di qualche retore. Il Dialogo accusa il Siro che lo ha spogliato del suo
grave e composto vestimento, e gli ha messa indosso una giornea comica e satirica: gli ha
sguinzagliato addosso Menippo, vecchio cane cinico che ride e morde tutti; e che lo ha fatto
diventare mezzo prosa e mezzo verso. Luciano risponde, che egli lo ha renduto piacente, gli ha tolta
lasprezza e la ruvidezza che aveva, lo fa parlare di cose utili ed umane, non di aeree vanità. Ed ha
tutti i voti, salvo quello del solito retore.
Si può egli con più bella immaginazione, con maggiore grazia e vivezza, e con più fina satira
rivestire un concetto, e difendersi da unaccusa di leggerezza? Il Pescatore e lAccusato sono due
drammi compiuti, hanno azione e forza comica più di tutti gli altri, e come lavori darte a me
piacciono più di tutti gli altri. E perchè Luciano trattava in essi la causa propria, vi messe ogni
sforzo dingegno e di arte, quanto potè dire della sua vita, de suoi studi, delle sue opinioni, infine
tutto sè stesso.
LXXIII. Nei quattro dialoghi gli Osservatori, il Tragitto, il Gallo ed il Naviglio, non si trova
concetto particolare di Luciano, nè la sua maniera; ma si vede un moralista che satireggia su i
generali, ed ora osserva la vita umana e ne deride la vanità, ora guarda la superbia dei potenti e si
piace a vederla punita, ora il fasto e la mollezza dei ricchi che stanno in fondo a mille turpitudini, ed
ora la stoltezza di quelli che agognano ricchezze e fanno castelli doro. Il pensiero di tutti e quattro
pare sia uno, che la ricchezza e la potenza non sono un vero bene, ma una vanità, sono
accompagnate da vizi orribili, e sono punite in questa vita e nellaltra. Tutti e quattro sono tenuti
certamente spurii. Io per me affermo che solo gli Osservatori non mi pare dialogo genuino, e degli
altri dubito. Non ho detto, nè credo che nella mente di Luciano non entrassero altri concetti che
quelli di cui ho parlato, e che egli non sapesse altro che motteggiare la religione, la filosofia, e i
cattivi artisti. La morale per sè stessa è tale argomento che ben egli poteva trattarlo; e Luciano
pittore di costumi, vedeva linsolenza dei ricchi, le sofferenze dei poveri, lavidità di tutti, spettacolo
ben grave in quel tempo, e degno di essere fedelmente ritratto. E se egli ne dipinse un lato piacevole
nei suoi leggiadri Saturnali, non poteva ritrarne il lato tristo e più vero in tre dialoghi? Io dunque
credo che per la materia possono appartenere a Luciano. Ci ha fantasia molta, ci ha molti sali e
leggiadrie: manca la sola limpidezza del dettato: ma tutte le opere di uno scrittore sono tutte di
egual pregio? Per queste ragioni io dubito, e non so dire nulla di certo.
Gli Osservatori sono Caronte e Mercurio, che declamano su le generali vanità del mondo, e per
osservare queste generalità si fanno un ridicolo osservatorio di monti sovrapposti a monti: il che
non è satira nè imitazione dOmero, come lautore vorrebbe fare intendere, ma niente altro che una
goffaggine. Nè il dialogo tra Creso e Solone ficcato in questo dialogo è una invenzione molto felice.
Le osservazioni poi sono comuni e volgari, e non osservano nulla di particolare e di piacevole.
Il Tragitto è pieno di azione, non manca di bellezze e di sentimenti generosi: mostra la pena che si
dà nellinferno ad un Tiranno scelleratissimo: gli è opposto un Cinico che lo accusa di tutte le
ribalderie commesse, ed un povero ciabattino vissuto onestamente. Vi scorgi acerbità molta, non
quel sentimento di disprezzo che Luciano aveva per gli uomini e per le opinioni del suo tempo. Il
cinico, tipo delluomo onesto e generoso, è opposto al tiranno; ma il filosofo maestro e medico degli
uomini, non è concetto dello scettico Luciano, che si rideva della filosofia e dei filosofi.
Il Gallo è fatto per consolare i poveri, e persuaderli a non invidiare ai ricchi, dei quali si descrive a
lungo la vita, le noie, i vizi, e infine se ne dimostrano le infamie. Lavidità del plebeo che non ode
sermoni, e guarda soltanto alla materia ed allutile, è dipinta assai bene. Consolatore del povero
artigiano è un gallo nel quale è lanima di Pitagora, è la filosofia che scende sino al povero, è il suo
buon senso stesso che gli dimostra il vero. Ma questo buon senso non basta: il ciabattino deve
vedere e toccare: così si persuade e si contenta della sua povertà. Il dialogo è bello, e non manca di
molti mali bottoni gettati contro i filosofi.
Il Naviglio non mi pare indegno di Luciano, ed è una satira degli Ateniesi chiacchieroni e facitori di
castelli. Capita nel Pireo una gran nave carica di grano per Roma: quattro amici scendono a vederla:
risalendo in città, e chiacchierando della ricchezza che portava la nave, cominciano ad immaginare
mirabilia, e fanno a chi desidera una cosa migliore. Il primo vorrebbe quella nave carica doro; il
secondo vorrebbessere un conquistatore; il terzo vorrebbe un anello che lo rendesse invisibile; il
quarto, che pare esso Luciano, si burla degli altri, e dice che egli non è così pazzo da desiderar cose
impossibili. Forse il fatto e i discorsi furono veri, e lo scrittore che li riferisce, li adorna di molte
piacevolezze.
LXXIV. LEunuco ed il Convito mordono i mali costumi dei filosofi, e sono tenuti spurii senza
dubbio per la grave ragione che non hanno bastante rispetto alla filosofia!
NellEunuco si descrive una scena ridicola tra due filosofi che contendono in piazza innanzi ai
giudici per avere il posto e la provvisione di pubblico professore, che aveva mille dramme lanno.
Luno diceva che laltro non poteva essere professore, perchè eunuco: laltro sostiene che un eunuco
può essere un gran savio, e ce ne sono stati, ed essendo professore fa meglio pei giovani. Entra un
terzo e dice, che questi che pare eunuco fu già colto in adulterio. Tutti ridono: chi propone una
pruova, chi unaltra: i giudici simbrogliano, e per far cessare le risa e lo scandalo, rimettono
allimperatore il giudizio di questo gran caso. È un capriccio, ardito ed allegro, una scena accaduta
in piazza e gittata su la carta così come era stata. Il concetto è di Luciano, lo stile facile, la dizione
chiara e scorrevole, la satira pungente: e non è a torcere il muso alle ultime parole non troppo
costumate, ma ricordare la differenza dei costumi, e come i Greci nel parlare non usavano quei
gentili riguardi che usiam noi. Io dunque non sono senza dubbio, e pendo piuttosto a crederlo
genuino.
A proposito di questo Eunuco, trovo infine della prefazione latina che il Reitz ha premessa al suo
Luciano, queste parole: Matrimonium iniit media ætate (Lucianus), filiique meminit Eunuchus, c.
13, f. E più giù queste altre: Periisse podagra non affirmare ausim cum Bourdelotio, licet id non
absimile vero sit, si ipse auctor est Tragodopodagræ. Il Reitz adunque crede che Luciano ebbe
moglie ed un figliuolo, perchè dun figliuolo si parla nellEunuco; e non afferma col Bourdelot, ma
crede possibile che ei sia morto di podagra, se egli è lautore della Tragodopodagra. Questi bravi
eruditi talvolta ne dicono delle grosse.
LXXV. E così pendo ancora per il Convito. Questo dialogo descrive un banchetto in casa di un
ricco, dove convengono filosofi di ogni setta, e un retore, e un grammatico, e un medico, ed altri
savi. Le cose che fanno e che dicono costoro sono le più nuove del mondo, infine scoppia tra loro
una rissa, vengono alle mani ed al sangue, e nasce un parapiglia che ti sforza a ridere. Io sarei
tentato a credere che è una satira dei Dipnosofisti di Ateneo, il quale tratta sul serio questo
argomento dun convito, dove si raccolgono savi di ogni specie e ragionano di molte e belle cose:
ricordanza dei lieti tempi nei quali i Tolomei pascevano greggi di letterati, che talvolta si
ragunavano anche alla mensa reale. Luciano che non pregiava molto la sapienza cortigiana, avrebbe
detto ad Ateneo: Sì, raccoglili a mensa, e vedrai che staranno insieme come un sacco di gatti, non
saranno dipnosofisti, ma dipnolapiti. Infatti i convivanti lapiti di Luciano recitano versi e dicerie,
come i sofisti di Ateneo; ed alcuni hanno gli stessi nomi e la stessa appellazione, come il divino
Iono. Ad ogni modo se questo dialogo non è la satira dei dipnosofisti, se non fu scritto a posta per
pungere Ateneo, è scritto certamente con intendimento contrario a quello dAteneo. Ora dove sono
meglio dipinti i filosofi ed i savi del secolo, in questo Convito o nei Dipnosofisti? Ateneo si traportò
in un tempo antico, e ci rimase nella sua opera una raccolta di tutte le cognizioni che erano nel
tempo suo: Luciano dipinge con più verità gli uomini della sua età, e fa unopera darte che riesce
bella ed allegra: luno è un erudito, laltro è un artista. Egli è vero che lo stile e la lingua di questo
dialogo non hanno il candore ed il nitore lucianesco: ma se esso è una caricatura, come io sospetto,
lo stile devessere un poco sforzato: e se io avessi lopera di Ateneo, vorrei vedere se quella che non
pare semplicità, sia pieghevolezza ed imitazione naturalissima. È questa una tentazione che mè
venuta, e lho detta per quanto vale. Quello che mi pare certo è che il dialogo è piacevole, e dimostra
ciò che Luciano cerca sempre dimostrare, che la più parte dei savi di quel tempo erano una gente
prosuntuosa che diceva grandi paroloni, mentre era fitta in una fangaia di vizi e di turpitudini.
LXXVI. E per ammaccare questa prosunzione, per rallegrare e ridere e dire una bizzarria, è scritto
il Parassito, che con molti sottili e speciosi argomenti vuol dimostrare che larte parassitica è la
maggiore e migliore di tutte le arti, e sorpassa anche la filosofia e la rettorica tenute sì grandi. E
questa dimostrazione è fatta con molto fine accorgimento, molte grazie e lepori: se non che lo
scherzo è protratto un poco troppo a lungo; e talvolta la molta saccenteria genera una certa
freddezza, ed incresce. Può essere di Luciano, ma non ha la forma breve e leggiera, il fare libero e
sicuro che è nelle altre opere: onde ragionevolmente si dubita se sia suo. Noi non conosciamo
loccasione per la quale questo ed altri dialoghi furono scritti, e però non possiamo farne giudizio
esatto, nè dirne altro. E forse è bene di non dire molto di uno scherzo troppo prolungato.
LXXVII. Se alcune delle più belle opere di Luciano, perchè strapazzano la filosofia ed i filosofi,
non sono tenute per sue, il Peregrino, perchè narra la morte di un impostore che fu cristiano, e
perchè dice per incidente poche parole generali intorno ai cristiani, ha fatto nascere mille scrupoli,
mille dubbi, mille clamori, ed è stato sentenziato come scritto empio, scellerato, apocrifo, e monco.
Osserviamo senza preconcetto. Non è un dialogo, ma una lettera di Luciano a Cronio, nella quale
con molti particolari si narra la morte di Peregrino, detto il Proteo, che da sè stesso si gettò in una
pira accesa innanzi a moltissimi spettatori raccolti per i giuochi olimpici. Lo scrittore afferma di
avere già prima conosciuto quel tristo, e di aver navigato con lui: racconta che egli con altri amici
andò in Elide e lo rivide, ludì parlare prima di morire, e con gli occhi propri lo vide gettarsi nel
fuoco. Bisogna pur credere a chi afferma di aver veduto con gli occhi suoi, o pure non bisogna
credere più a nessuna persona al mondo. Può egli avere esagerato i vizi di Peregrino; può non
essere del tutto vero che Peregrino fu adultero, corruttore de giovani, parricida, e quel sozzo e
scellerato impostore che è descritto: una cosa è vera, e veduta con gli occhi propri, e della quale non
cè ragione di dubitare, che Peregrino gettossi da sè nel fuoco in Olimpia per desiderio di una
famosa morte. Questo basta per rigettare il sospetto di Stefano Le Moyne, il quale crede che questo
Peregrino, che si bruciò da sè in Olimpia, sia san Policarpo, che fu bruciato a Smirne, e la cui
anima, dicesi, fu veduta volare dal rogo in forma di colomba: e che però Luciano disse per beffa che
lanima di Peregrino volò dal rogo in forma di corvo. Sospetto ingiusto, senza fondamento, e quasi
puerile, venutogli unicamente da quel corvo che gli parve scambiato con la colomba. Luciano non
aveva ragione di nascondere e mentire nome, luogo, persone, e tutte le circostanze del fatto; egli
che non suole risparmiare nessuno e non aver riguardi per nessuno, avrebbe egli parlato con lontane
allegorie di un povero cristiano perseguitato e giustiziato, se egli fosse stato sì vile da infamarlo e
beffarlo? Rigettato questo sospetto, e stabilito che Peregrino non fu altro che Peregrino, si cerca di
sapere se fu veramente un tristo, o se ei fu calunniato. Di lui parlano A. Gellio, Atenagora,
Tertulliano, Ammiano Marcellino: i pagani ne dicono gran male, i cristiani gran bene, e lo
annoverano tra i martiri. Senza entrare molto in questa discussione, che forse è inutile; e
considerando che lo zelo religioso, come ogni amore di parte, ci guasta il giudizio e ci fa credere
buoni tutti quelli che sentono come noi, e malvagi tutti quelli che sentono diversamente da noi,
possiamo dire che i pagani riguardavano in Peregrino le azioni della vita e lo vituperavano, i
cristiani la sola fede e lo lodavano a cielo: ed in questopera noi troviamo che ei fu malvagio e
cristiano, qualità che possono stare insieme benissimo, perchè la fede non ha che fare con la morale,
ed oggi il mondo è pieno di malvagi cristiani. Ma nessuno degli scrittori sì pagani che cristiani, dice
con tante particolarità: io con gli occhi miei lho veduto morire; però Luciano merita più fede, voglio
dir solamente per la morte. Ora chi sceglie quel genere di morte, che non è nè savia nè cristiana; chi
ha il soprannome di Proteo, perchè mutossi in mille guise; chi da vecchio muore a quel modo, fa
credere ragionevolmente che ei visse da giovane assai male, e che veramente fu un ribaldo ed un
impostore. Luciano non biasima Peregrino perchè fu cristiano, ma perchè fu un malvagio, perchè fu
un impostore anche tra i cristiani. Bisogna adunque distinguere e separare Peregrino dai cristiani, e
non confondere la causa dun tristo con quella duna religione. Vediamo come Luciano parla dei
cristiani. Poichè Peregrino per i suoi misfatti fu costretto a fuggire dalla patria, capitò nella
Palestina, dove apprese la mirabile sapienza dei cristiani. Questo farsi cristiano dopo una vita
scorretta e dopo grandi delitti, è cosa confermata da mille esempi nella storia. In breve tempo
questo furbo, che era intelligente assai e destro, sorpassò i sacerdoti ed i dottori cristiani, e diventò
profeta, e interpetre, e spositore, e scrittore ancora dei libri sacri: sicchè i cristiani lo stimavano
come un dio, lo tenevano come legislatore, lo intitolavano loro capo. Infatti essi adorano quel
granduomo che fu crocifisso in Palestina, perchè introdusse questa nuova religione nel mondo.
Incarcerato come cristiano, fu da ogni specie di cristiani aiutato, visitato, sovvenuto; le vedove e gli
orfani lo servivano, i principali andavano in carcere ad intrattenersi con lui, e lo tenevano come il
loro Socrate; le città gli mandavano ambasciatori e danari, ed ei ne raccolse assai. Perocchè questi
sciagurati credono che saranno immortali e che vivranno nelleternità: però spregiano anche la morte
e le vanno incontro. Poi che il loro primo maestro li ha persuasi a tenersi fra loro come fratelli,
quando essi abbandonano gli Dei de Greci, adorano quel loro sofista crocifisso, vivono secondo le
sue leggi, spregiano ogni cosa, hanno tutto in comune esattamente. Sicchè se entra fra loro un uomo
astuto e destro, tosto si fa ricco, avendo a trattare con uomini ignoranti. Ecco tutto il gran male che
un pagano dice dei cristiani! li chiama sciagurati ed ignoranti, ma buoni e soccorrevoli tra loro. Un
pagano che non credeva nella divinità di Cristo, pur lonora, perchè lo chiama quel granduomo che
fu crocifisso in Palestina, e sofista crocifisso; e dice non per ironia che la sapienza de cristiani è
mirabile, ma davvero, perchè ella era nata da un granduomo, e praticata da gente di bontà e
credulità mirabile. Ora dire che Luciano in questopera deride Cristo e i cristiani è la più grande e
sciocca bugia che sia stata detta, e che si riconosce subito da chiunque si fa a leggere questo scritto.
Luciano, come pagano, e come quel satirico scrittore che egli è, tratta benignamente i cristiani; non
come Tacito, che li chiamò nemici del genere umano: egli biasima solamente Peregrino, pessimo
uomo, cattivo cristiano. E questa moderazione che egli usa parlando dei cristiani, ci dimostra chiaro
che egli non si lasciava traportare da passione, e diceva il vero quando vituperava quel tristo che dai
cristiani istessi fu infine conosciuto e scacciato dalla loro comunione, quel Proteo che anche dopo la
morte doveva pigliar nuove forme, e dalla superstizione essere ascritto tra i martiri. Oh come la
superstizione stravolge gli uomini ed i giudizi! Un onesto pagano che parla moderatamente e con
certo rispetto del cristianesimo, e lo dice mirabile sebbene nol conosca, è un empio; ed un parricida
che si mette la maschera di cristiano, è un santo. Infine non avendosi che altro dire, si ricorre a
supposizioni, e si afferma che in questa opera sono stati soppressi molti dispregi che vi eran detti
dei cristiani, e si addita anche una lacuna nel cap. 11, prima delle parole Infatti essi adorano ancora
quel granduomo: dove ognuno che ha senno e sa un tantino di greco, vede che lacuna non vè, nè vi
può essere. Tutto lo scandalo è nato perchè Cristo è detto granduomo da uno che non lo credeva
Dio. Ma lasciamo pure questa discussione, e diciamo con piena coscienza che Luciano nel
Peregrino non deride nè oltraggia i cristiani in nessun modo: e che gli uomini timorati possono
leggere senza scandalo questo scritto, i sennati farne giudizio più giusto.
Non è già una fantasia, ma unusanza dei Greci quel parlare che fanno nel ginnasio un Cinico, il
quale loda Peregrino come il maggiore dei filosofi, un miracolo di natura, paragonabile solamente a
Giove olimpico; ed un altro innominato (che forse è Luciano stesso) il quale ne racconta
diffusamente la vita e le vergogne, e discorre del proposito fatto di bruciarsi vivo per acquistare
gran fama, ed essere tenuto come un iddio dalla gente sciocca, ed infine vorrebbe che tutti i cinici
seguissero lesempio del loro maestro. La gran vanità di Proteo, il suo dubitare, poi decidersi, il
rogo, la processione, il bruciamento, i Cinici che rimangono immobili, Luciano che li deride, quelli
che gli si voltano in cagnesco, e alle minacce cagliano, la partenza, i discorsi della gente che ritorna
dal fatto, ogni cosa è descritto con evidenza e con bellezza di stile e di parole. Io vi riconosco
Luciano che si ride delle sciocchezze umane, e si piglia spasso a descrivere gli sciocchi, ma non
perdona mai e niente a coloro che fanno il tristo mestiere dingannare il genere umano: e per me
questopera è certamente genuina.
LXXVIII. Ei pare che alcuni di quei Cinici seguaci di Peregrino, che Luciano minacciò afferrarli e
gettarli nel rogo appresso al loro maestro, avessero sparlato di Luciano: il quale avendo dipinto il
maestro, dipinge gli scolari nel dialogo i Fuggitivi. Al Bourdelot ed al Marcilio questo dialogo non
pare di Luciano: al Kustero sì, e per la materia e per lo stile. La scena, come in molti altri, è prima
in cielo poi su la terra. Apollo dimanda a Giove se egli è vero che un vecchio si è gittato da sè nel
fuoco in Olimpia, e per quale cagione: e mentre Giove sta per dirglielo, viene la Filosofia tutta
sossopra e lagrimosa a chiedere aiuto e vendetta contro una gente piena dignoranza e sozza di ogni
vizio, i quali lhanno offesa, e sfacciatamente pigliano il suo nome, e si chiamano filosofi. Questi
sono la più parte vilissimi artigiani, nettapanni, scardassieri, ciabattini, che non potendo vivere
dellarte loro, indossano mantello e bisaccia, e si spacciano filosofi. Al racconto delle ribalderie di
quei tristi, Giove rimanda su la terra la Filosofia accompagnata da Mercurio e da Ercole, per
scopare quella sozzura dal mondo. Scendono in Tracia, sabbattono in alcuni uomini che vanno
cercando certi loro servi fuggitivi, ed in un povero marito cui è stata rubata la moglie da uno di quei
servi. Si dimandano gli Dei e gli uomini, si rispondono, scoprono che i tre servi fuggitivi sono
divenuti tre filosofi cinici, e la donna cinicamente filosofeggia con tutti e tre. Mercurio promette per
bando un premio a chi indica i fuggitivi. Comparisce Orfeo, gentil poeta e legislatore, però nemico
di ogni impostura ed ingiustizia, il quale indica una casetta dove essi sono, e ritirasi. Te li
acchiappano tutti e quattro, te li riconoscono per quei ghiotti che sono; e Mercurio comanda che la
donna torni al marito che non la vuole più, i servi ai padroni, ed ai mestieri che facevano, ma uno, il
più sfacciato, sia legato, pelato, battuto, ed esposto nudo su la neve di monte Emo. Il dialogo ha
molta vita ed azione; e massime nel riconoscimento dei fuggitivi è una forza e celerità comica, un
gruppo di motti, di allusioni, di malizie che mi fanno riconoscere lingegno, larte, e la maniera di
Luciano.
RELIGIONE.
LXXIX. OPERE SATIRICHE. Quando leggi il Prometeo di Luciano naturalmente ti viene a
memoria il Prometeo di Eschilo: ambedue cominciano quasi nel modo stesso, ma quanto sono
lontani e diversi tra loro! Luno fu scritto al tempo che vivevano i giganti di Maratona, ed è opera
gigantesca: laltro fu scritto al tempo dei sofisti, ed è una diceria sofistica. Eschilo in quel Titano
sapiente e magnanimo rappresenta la persona della intelligenza umana che soffre per aver fatto il
bene, e nel suo sofferire è più grande di Giove fortunato e potente: quindi il bene che Prometeo ha
fatto, ed il dolore che egli soffre sono le due grandi idee che il poeta mostra e spiega largamente: le
accuse che gli si danno, ed il pretesto pel quale egli è fatto sofferire, essendo cagioni lievi e false,
sono accennate leggermente. Quel grande patisce ingiustizia, e non discute, ma tace. Luciano per
contrario si appiglia appunto a quel pretesto, a quelle accuse, a quelle colorate cagioni, e ne
dimostra la falsità e la sciocchezza: egli tocca poco del bene fatto da Prometeo, e niente del dolore
di quel magnanimo; il quale non è più quel sublime sapiente che non si abbassa a dire neppure un
ahi innanzi ai suoi tormentatori, che rifiuta ogni intercessione damici, che non cessa di beneficare,
consigliare, e confortare di speranze gli altri sventurati come lui perseguitati dallira dei potenti, che
disprezza e ributta chi gli consiglia una viltà, che sfida impavido tutta lira ed il furore del cielo; ma
è divenuto un sofista linguacciuto e pettegolo, che vuol contare le sue ragioni al bargello, e non
potendo dimenticare i piati e i tribunali, fa giudici ed accusatori i birri, ed ei sciorina la diceria della
difesa. Se leggi il Prometeo di Eschilo, quella sublimità di concetti, quella solenne e sobria melodia
di arte ti fa spiacere il Prometeo di Luciano. Ma se consideri che Luciano non volle fare una poesia,
ma una satira religiosa, troverai che egli non poteva appigliarsi ad altro per cavarne il ridicolo, e
che assai abilmente, e secondo retore, ha trattato il soggetto, ed ha raggiunto il suo scopo di
mostrare sciocco il senno supremo del mondo. E la satira è più amara perchè fatta con una specie di
apparente moderazione. Insomma Eschilo ti vuol fare ammirare Prometeo, Luciano ti vuol fare
disprezzar Giove, atterrare questo grandidolo della fantasia antica: luno innalza un grande intelletto
al di sopra di tutti gliddii; laltro piglia il massimo degliddii e te lo abbassa al di sotto del senso
comune degli uomini.
LXXX. Il Giove confutato contiene un concetto profondo, il gran problema della prescienza divina
e della libertà umana, che tutte le religioni cercano di sciogliere. Un Cinico fa a Giove certe
semplici dimande, e lo imbroglia, lo fa cadere in contraddizione, lo deride. Se le Parche
prestabiliscono ogni cosa, e nessuno può mutare i loro destinati, a che si fanno preghiere e sacrifizi
agli Dei, i quali non possono nulla, e sono soggetti alle Parche come gli uomini, anzi più degli
uomini, perchè questi servono per il breve tempo della vita, ed essi sono eterni servitori e ministri
di quelle? Se tutto è prestabilito ed ordinato, i vaticinii sono inutili o bugiardi, la provvidenza degli
Dei non esiste, e luomo non deve avere nè colpa nè merito delle sue azioni, che non sono volontarie
ma predestinate. Giove che si sente nei lacci, si dimena per uscirne, e non sa, e ricorre infine alle
minacce, ed il Cinico lo sfida: Fulmina pure, percuotimi se è destinato che io debba essere percosso
dal fulmine; io non te ne vorrò male, perchè so che non mi percuoti tu, ma il fato, e tu sei
impotente. Questo dialogo è lespressione più compiuta dello scetticismo religioso di Luciano, ed è
fatto con molta schiettezza e molti lepori: ma non è altro che una semplice discussione, non unopera
darte. Lo scrittore sente la gravità del suo argomento, e lo tratta con certo rigore, che ammette pochi
ornamenti, e rifiuta le invenzioni e la poesia. Il fato sì terribile agli antichi e scuro ed inevitabile è
mostrato ridicolo, perchè è già conosciuto e vinto dalla ragione umana. E il Cinico che la
rappresenta, si protesta di non usare gli argomenti della scuole, ma le osservazioni del senno
naturale contro Giove, personificazione della ragione sacerdotale antica. Questa discussione è
importantissima; finisce con lannullamento del fato ed il trionfo pieno della libertà umana, o per dir
meglio e come lintendeva Luciano, della libertà individuale. Poteva egli entrare poesia in questa
discussione sì grave?
LXXXI. Lo stesso concetto è nel Giove tragedo, ma non nella stessa ampiezza, però il dialogo
piglia una forma artistica e leggiera, ha molta comica poesia, e molte grazie. Giove pensoso e tristo
come un re di tragedia, si lagna di una grande sventura: gli fanno forza a dire, ed ei dice: Ieri uno
Stoico ed un Epicureo in Atene disputavano pubblicamente intorno alla provvidenza ed agli Dei; la
gente che udiva era molta, ed aspettano chi uscirà vincitore della disputa, che oggi dovrà finire. Che
consiglio prendere? Convocare tutti gli Dei a parlamento, perchè la è una faccenda che importa a
tutti. Chiamati, convengono tutti, e siedono ciascuno secondo che è di oro, di argento, di bronzo:
viene anche il Colosso di Rodi, e rimane in piedi e fa da ombrella alladunanza. Giove fa la sua
diceria raffazzonando Demostene, ed espone il caso. Momo dimanda la parola libera, e dice che gli
Dei hanno meritato questo male e peggio perchè non si curano affatto delle cose del mondo, e sono
un punto peggiori degli uomini. Nettuno propone di fulminare lepicureo: ma la proposta è scartata,
perchè il fato nol consente. Apollo propone di dare un avvocato allo stoico non troppo bravo
parlatore: ed è anche scartata, perchè ridicola. Ercole propone, se la disputa piglia cattiva piega, di
scrollare il portico e farlo cadere in capo allepicureo: ed è scartata come un poco bestiale, ed anche
non voluta dal fato. Intanto ecco il Mercurio di piazza che viene ad annunziare cominciata la
disputa: si aprono le porte del cielo, e tutti gli Dei guardano ed odono i due disputanti in mezzo una
grande moltitudine di ascoltatori. Lo Stoico villanamente attacca lEpicureo, e lingiuria: questi
freddo risponde, discorre delle cose del mondo, e dice che non sono governate da alcun senno.
Mentre si parla in terra, non si tace in cielo: mentre lEpicureo gitta bottoni grossi contro gliddii,
Momo di su rinforza le botte, e Giove, che si sente ferito più degli altri, vanamente si dibatte. Infine
lo Stoico vinto si scaglia nelle più grossolane villanie, e mette mano ai sassi: lEpicureo ride e
vassene, e con lui tutta la gente, che lo applaudisce. In cielo gli Dei tacciono. Giove dice: E che
faremo ora? Nulla, risponde Mercurio; non è gran male che pochi la pensino così: nel mondo non
mancherà mai una gran moltitudine di sciocchi che ci adoreranno. Ma io vorrei, ripiglia Giove,
piuttosto un savio solo da mia parte, che molte migliaia di sciocchi. Da queste ultime parole si
raccoglie che il problema della provvidenza e della esistenza degli Dei non è presentato alla ragione
per iscioglierlo, ma alla fantasia; quindi nel dialogo non sono argomenti per convincere la ragione
che è sempre di pochi, ma immagini convenienti a muovere le fantasie del popolo in mezzo al quale
è la disputa. Io non so per quali ragioni questo dialogo, che a me pare genuino per il concetto, per lo
stile, per le leggiadre invenzioni, e per la correzione della lingua, paia al Weise un dialogo spurio,
dialogus spurius, senza aggiungervi altro. Forse largomento, forse il titolo, forse i versi onde
comincia il dialogo fanno dare questo giudizio? Ma se Luciano è uno scettico che deride la
religione del paganesimo, perchè scandalezzarsi che egli spinga troppo in là il suo scetticismo, e per
lo scandalo negargli questo dialogo? Il quale per largomento è assai meno grave, o per dirla con una
frase religiosa, è assai meno empio del Giove confutato; or se questo non si dubita che sia di
Luciano, perchè deve dubitarsi del Giove tragedo? Questo titolo poi è convenientissimo, e vuol dire
quasi Giove piagnone, Giove simile ad uno di quei re di Euripide caduti in basso e spogliati del
regno, e però dolenti, Telephus et Peleus pauper et exul uterque. I versi ci stanno a proposito,
perchè Giove devessere ridicolo, e deve dire ampullas et sesquipedalia verba; e sono parodie dei
versi di Euripide, col quale Luciano non ha lo sdegno di Aristofane, ma non ha neppure molta
simpatia, e quando può dargli una bolzonata, non la risparmia. Dunque per quali ragioni è spurio?
Per dichiarare spurio un figliuolo, tutte le leggi del mondo vogliono che si proceda con assai
riguardi e con pruove sovrabbondanti, le quali non sono allegate affatto. Io allego le contrarie,
sostengo che questo figliuolo è legittimo, e dico: Guardatelo in viso, e vedete come esso alle
fattezze, al moto, al riso, al parlare, somiglia tutto a suo padre.
LXXXII. Anche legittimo figliuolo ed amabile è il Parlamento degli Dei, piacevole finzione, in cui
si deride la sformata accozzaglia di Numi forestieri venuti ad abitare lOlimpo de Greci. Giove
chiama un parlamento come quelli che si facevano in Atene, e fa che il banditore dimandi chi degli
Dei perfetti, a cui è permesso per legge, vuol parlamentare. Si leva Momo, e dice: che la gran folla
de forestieri in cielo è ormai insopportabile, e vi ha fatto incarare il prezzo dellambrosia e del
nèttare: che Bacco vi ha condotto una truppa di villani, di caprai, di brutti figuri, di bagasce, ed una
di queste anche con un cagnolino: che non tutti gli Dei che si tengono per cittadini veraci, sono tali;
e Giove stesso non si sa se è tale, perchè si tiene che sia sepolto in Creta: che Giove coi suoi
amorazzi ha empiuto il cielo di bastardi, ed ogni dea ha voluto condurvi il suo ganzo, ed ogni dio il
suo mignone. Gli dei dei Goti e degli Sciti si conoscono al vestito: ma che vuol dire che sono
nellOlimpo anche il toro di Menfi, e le scimmie, e i cani, e glibi, e i becchi, e gli altri dii egiziani? E
lasciando questi mistici egiziani, come si può sopportare che ogni impostore e furfante che muore, è
fatto iddio, e dà oracoli, e gli si rizzano are, e gli si offrono corone? Infine, come se fossero pochi
tutti questi, i filosofi hanno inventato certi vuoti nomi, come la Virtù, la Natura, il Fato, la Fortuna,
e ne hanno fatto altri iddii. Però Momo propone un decreto, nel quale si ordina che chiunque si tiene
Dio vero debba provare la sua divinità con buoni e validi documenti innanzi sette arbitri giurati, che
saranno scelti tre dal vecchio consiglio di Saturno, e quattro dai Dodici; i quali esamineranno i titoli
di ciascuno, la patria, il padre, la madre, ogni cosa: ai filosofi vietato di foggiar nomi, e ragionare di
cose che non conoscono. Giove approva da sè il decreto, il quale se fosse messo a partito sarebbe
ributtato da molti voti contrari; ed annunzia che gli arbitri faranno giustizia senza riguardi per
nessuno. Questo Momo è il senno volgare, il quale considera le credenze di tutti i popoli ormai
mescolati e confusi; e ride di tutto il politeismo, come di una varia, diversa ed immensa mole di
vuote fantasie che tra poco dovevano cadere.
LXXXIII. Il titolo del Filopseude è la prima piacevolezza di questo dialogo piacevolissimo, nel
quale Luciano deride coloro che facendo professione di sapienti, non erano vaghi della sapienza, ma
della bugia, non filo-sofi, ma filo-pseudi; e andavano perduti dietro la medicina empirica,
glincantesimi, la ciarlataneria, ed ogni specie di superstizioni religiose. Essendo venuta meno quella
forza dintelletto che cercò la verità nel mondo della ragione e vi fece sì grandi conquiste, si cercava
la verità nel mondo della natura e nel mondo dellimmaginazione. Onde questo dialogo, quantunque
sia una satira dei filosofi del tempo, pure tratta di argomento religioso, e per dire più corretto, della
superstizione religiosa. La quale non è dipinta in persone del volgo, ma in uomini di una certa
intelligenza e conoscenza, cosicchè più spiccato è il contrasto che produce il ridicolo. Ecco adunque
in casa di un filosofo, uomo assai riputato e dabbene, che giace in letto ammalato, una
conversazione di filosofi di varie sètte, i quali ragionano di malattie risanate con rimedi strani e
ridicoli, con parole ed incantesimi. In mezzo a questo mazzo di sapienti capita un uomo di buon
senso che ride di tali sciocchezze, e quelli, come suole questa gente, dicono che egli non crede negli
Dei. Or uno, or un altro raccontano di maghi ed incantatori che camminavano per laria e sullacqua e
sul fuoco, e risuscitavano morti, e facevano uscir dellinferno le ombre, e scendere la luna dal cielo,
e liberavano indemoniati: poi della virtù dun anello; e dei prodigi che fa una statua che ogni notte
scende del piedistallo, e va per la casa, e risana ogni specie di malattie. Non sono impostori che
vogliono ingannare, ma uomini ignoranti e fanatici, che credono pienamente alle loro fantasie, ed
affermano di aver veduto con gli occhi loro quei prodigi che narrano, e che sono stati veduti da altri
che essi allegano a testimoni. Specialmente il filosofo padron di casa racconta come in una selva ei
vide la terribile figura di Ecate, e chiama in testimone un servo; e narra innanzi a due figliuoli
giovanetti, come la madre loro e sua moglie già morta gli apparve una volta, e gli ragionò. Il
medico presente a questo racconto dice, che anchegli ha una statuetta dIppocrate, che la notte gli va
camminando per la casa; e che egli conosce un uomo il quale morì e dopo venti giorni resuscitò. Il
più leggiadro di questi racconti è quello dellEgiziano, che sapeva fare dun palo o dun pestello un
servitore che andava in piazza, spendeva, portava acqua, faceva il cotto, e tutte le faccende di casa:
favola che il Goethe in una delle sue poesie ha saputo anche più illeggiadrire, e mettervi dentro un
sentimento più vero. Insomma costoro che insegnavano sapienza ai giovani, ed erano fiori di senno
e di dottrina, raccontano le più matte fole di fantasmi, di anime, di miracoli, con la maggior fede e
serietà. Quelluomo di senno che sta ad ascoltare, li rimbecca e li punge con frizzi e motti; ma infine
non potendo più, e parendogli scortesia contraddire più oltre, e motteggiare, vassene, lasciandoli
liberamente scialare delle loro corbellerie. Il dialogo è fatto con arte assai fina; i racconti sono
schietti ed efficaci per modo che ti pare di essere in mezzo a quei vecchi, e udirli parlare, e vedere
le cose che raccontano. Quanto è vero il guizzare del giovanetto, quando il padre, parlando della
mamma già morta, gli mette una mano su la spalla! Io crederei quasi che Luciano fosse stato
presente a simili discorsi in casa di qualcuno: tanto al naturale ei ritrae le persone ed i discorsi, e
con quella sobrietà e snellezza che è tutta greca, e tutta sua.
LXXXIV. Il Filopatride per consenso di tutti non è di Luciano certamente. Il Gesnero in una
dissertazione che si legge nel vol. IX del Luciano Bipontino, dimostra lucidamente che questo
dialogo fu scritto in Costantinopoli, poco innanzi la morte dellimperatore Giuliano, quando i
Cristiani oppressi desideravano e predicevano sconfitte a Giuliano, ed i loro avversari ed oppressori
si levavano ad alte speranze, avendo saputo le prime vittorie dellimperatore contro i Persiani.
Sospetta che può essere stato scritto da un altro Luciano, sofista ed amico di Giuliano, ed allega una
lettera che Giuliano gli scrive, e che leggesi nelle sue opere.(23) Io seguo intieramente lopinione di
quel dotto uomo; e solamente per più confermarla aggiungerò alle molte ragioni che egli adduce
alcune poche di altra natura. Questo dialogo vuol dimostrare che i Cristiani sono una setta di
sciagurati fanatici, nemici della patria, che desiderano e pregano pubbliche calamità e disastri
allesercito che combatte contro i Persiani, e però lacera essi ed i loro dommi con molta asprezza.
Questo scopo non poteva averlo nè Luciano, nè alcun uomo del suo tempo; perchè i Cristiani nel
secondo secolo erano ancora pochi, deboli, poveri, ed umili. Luciano nel Peregrino ne parla come di
gente fanatica ma bonaria, amorevole, ignorante, facile ad essere abusata da ogni scaltro impostore,
non già nemici pubblici, ed uomini abbominandi come qui sono chiamati. Quellasprezza dimostra
che i Cristiani erano già potenti, ed avevano fieri nemici. Lo scrittore trova un leggiero appicco per
parlare ancora con molto disprezzo degli Dei del paganesimo: nel che vedesi un tempo, in cui il
Cristianesimo, perchè potente, era odiato, ed il paganesimo, perchè cadente, era disprezzato; e
vedesi un uomo che è un sofista saccente, che non vuole lasciare occasione di sfoggiare erudizione,
che dimostra il dimostrato, e dà la pinta al caduto. Questo saccente non cristiano nè pagano, che non
riconosce nè adora altro che lIgnoto Dio che è in Atene, è un cortigiano che vuole adular Giuliano
tenero di Atene. Se il vecchio Luciano ributtava il cristianesimo e il paganesimo, adorava egli un
Dio ignoto? Se ne sarebbe riso. E se il concetto di questo dialogo non può appartenere a Luciano nè
al suo tempo, la forma di esso è anche lontana da lui, e dal suo tempo. Quelluscire a parlar degli Dei
senza un perchè, e passarli a rassegna ad uno ad uno dicendone delle freddure o delle sozzure; quei
tanti versi male infarciti e rimpinzati; quelle sozze corregge che mettono Borea su la Propontide,
sono sciocchezze e sporchezze tali che non possono comportarsi in unopera darte. E lo stile è così
povero didee, ed intralciato, e rabbuiato; così frequente è il vezzo di non dir mai le cose con le
parole proprie e semplici, ma andare cercando con lo spilletto le più strane; così torbida e fecciosa è
la lingua, che tosto si vede lo scritto non essere opera di gentile ingegno. I Cristiani sennati non si
scandalezzeranno a leggerlo, perchè il Cristianesimo ormai si ride delle satire che gli si facevano
nella sua prima età, come noi fatti adulti ridiamo di qualche offesa fattaci nella fanciullezza da
qualche scioccherello nostro coetaneo. Chi volesse saperne altro legga la bella dissertazione del
Gesnero.
LXXXV. Le opere satiriche di forma discorsiva non sono più di tre: lAlessandro, i Sacrifizi ed il
Lutto.
Alessandro di Abonotechia, piccola città di Paflagonia presso Sinope, uomo di non volgare
ingegno, fu un impostore famoso che acquistò molte ricchezze, per un tempio ed un oracolo che
stabilì nella sua patria, al quale traeva gente da ogni parte, e finanche i più illustri di Roma. Di
costui Luciano scrive la vita a consiglio di Celso suo strettissimo amico, filosofo epicureo,
eloquente, ed avversario dei Cristiani. Il fine che ebbero Celso nel consigliare, e Luciano nello
scrivere questopera, fu di mostrare apertamente tutte le astuzie onde i furbi ingannavano i semplici,
e di confermare sempre più gli uomini di senno nel disprezzo delle superstizioni e delle
ciarlatanerie. I pochi savi che si affaticavano ad insegnare e diffondere la verità, dovevano sentire
un nobile sdegno contro di quelli che si affaticavano a diffondere lerrore nel popolo, per trarne
profitto a proprio vantaggio. Chi sostiene lerrore perchè ne è persuaso, e senza fine di utile
particolare, può essere sciocco, non è tristo; ma chi abusa della credulità della gente grossa, e fa
bottega del suo ingegno, è un ribaldo che merita davvero di essere dato a sbranare alle scimmie ed
alle volpi. In questo scritto Luciano nomina sè stesso, narra come egli aspreggiò ed offese
Alessandro, come lo tentò con varie dimande, come gli morse la mano datagli a baciare, e poi il
pericolo che corse per questo fatto: onde sia per tutto questo racconto, che per nessuna ragione si
può credere finto, sia ancora per la materia dello scritto, e la forma, e la lingua, io non dubito che
sia genuino. Luciano compose questo scritto quando era già provetto negli anni, e dopo la morte di
Marco Aurelio, perchè dice che Alessandro mandò un suo oracolo in Roma mentre ardeva la guerra
di Germania, e il divo Marco era alle mani coi Quadi e coi Marcomanni. Or lepiteto divo si dava
solamente aglimperatori già morti: ed alla morte di Marco era Luciano, se non vecchio, molto
attempato. Ma i fatti che egli narra, avvennero quandegli era nel vigore degli anni, e famoso, e
aveva suo padre (cap. 56), ed era pieno di baldanza giovanile, sì che non seppe ridere dellimpostore,
e volle irritarlo. Egli si scusa di scrivere la vita di costui, che avria dovuto essere dimenticato, o
gittato alle fiere, dicendo di fare il volere dellamico, ed allegando lesempio di Arriano, discepolo di
Epitteto, prode capitano ed istorico, il quale scrisse la vita di un Tilliboro ladrone. Ed Arriano,
governatore della Cappadocia, forse fu quellamico che gli diede i due soldati che lo salvarono,
quandegli morse la mano al profeta. Tutta la vita di questo furbo, dalla sua fanciullezza, è narrata
con molti e minuti particolari, che Luciano sapeva solamente per fama, e forse potè esagerarli per
odio. Ognicosa è dipinto al vivo: la persona bellissima, lingegno ardito, le prime furfanterie della
giovanezza, il disegno di stabilire un oracolo, tutta quella commedia onde loracolo fu stabilito, i
prodigi che faceva il nuovo iddio, le risposte che dava, la celebrazione de misteri, nei quali
Alessandro faceva da ierofante e da Adone, e la moglie di un procuratore faceva da Venere, e quei
mascalzoni di Paflagoni fetenti daglio, che gli facevano coro, e gridavano: viva Alessandro! tutto è
descritto mirabilmente. Il carattere di Rutiliano è forse più importante del carattere di Alessandro
stesso; perchè, essendo dipinto senza odio, pare più vero. Quel patrizio romano, bravo nelle
faccende di governo, ma sì perduto di superstizioni, che se pur vedeva una pietra unta di olio o con
una corona sopra, tosto smontava del cocchio e adorava e pregava per molte ore; che mette sossopra
tutta Roma e la corte parlando del nuovo oracolo, e spedisce corrieri sopra corrieri a consultarlo;
che, vecchio comè, sposa la figliuola di Alessandro; e che dopo la morte di costui non ardisce di
succedere egli al profeta, nè vuole che altri gli succeda, è un uomo vero e vivo con tutti i vizi e la
virtù dun Romano di quel tempo, e tu ne ridi come ne rideva Luciano, ma senza odiarlo.
Nondimeno lasprezza con cui è trattato Alessandro non offende la verità della narrazione, perchè
certamente colui fu un impostore; ed un impostore è sempre un tristo: vi può essere un po di
colorito soverchio, ma il disegno della pittura è vero. Lo stesso animo generoso dettò la vita di
Demonatte e quella di Alessandro; ammirò il savio dabbene, e abborrì limpostore ribaldo. Nella
giovanile baldanza combattè e smascherò i furbi; nel senno virile, accortosi di non potere
contrastare alla piena dellignoranza e della malizia unite insieme, se ne trasse fuori, e con amaro
sorriso vendicò la verità offesa, e ne infamò in perpetuo gli offensori.
LXXXVI. Prendendo occasione dai Sacrifizi che si facevano agli Dei, si ragiona con molta
piacevolezza delle favole che i poeti avevano inventate intorno a tutte le Divinità, ed il volgo
credeva cecamente; e poi dei templi e delle statue. E prendendo occasione dal Lutto che si faceva
pei morti, si ragiona delle favole e delle divinità dellinferno, e dei riti che si serbavano nei funerali.
Luna e laltra scrittura, intitolate Dei Sacrifizi, e del Lutto non mancano di motti, e dimostrano che
lo scrittore si rideva delle comuni credenze; ma non hanno alcuna forma darte, non sai come
chiamarle; e pure luna e laltra erano capaci di bella forma. Però in esse manca una gran parte di
Luciano, e giustamente si dubita se sono genuine.
LXXXVII. Opere serie di argomento religioso, non dovremmo trovarne tra gli scritti di Luciano,
per la semplicissima ragione che egli non credeva a nulla. Pure ce ne ha due, lAstrologia e la Dea
Siria: ma queste non sono, e non possono essere sue, come nel primo leggerle si vede al concetto,
alla credulità, alla mancanza di arte, ed al dialetto gionico in cui sono scritte, a differenza di tutte le
altre che sono nel puro dialetto attico.
NellAstrologia lo scrittore non vuol dare precetti, ma lodarla; e si lagna che ella sia trascurata dagli
studiosi come scienza bugiarda e inutile. Eppure questa fu sapienza un tempo; gli Etiopi, gli
Egiziani, e i Babilonesi lebbero in gran pregio. Tra gli Elleni la portò Orfeo, che ad imitazione della
gran lira delluniverso compose la sua lira, e vi adattò sette corde quanti sono i pianeti: ed egli, la
sua lira, il toro, il leone, e gli altri animali che stanno intorno a lui, non sono altro che immagini di
costellazioni che stanno nel cielo. Molte favole e tradizioni, come Tiresia, Dedalo, Atreo e Tieste,
Pasifae non sono che immagini di astrologia: Endimione fu osservatore della luna, Fetonte del sole;
ladulterio di Marte e di Venere è simbolo della congiunzione di questi due pianeti. Infine si
conchiude che lAstrologia non è nè bugiarda nè inutile. Questo concetto e questa affermazione non
poteva entrare in mente di Luciano, non poteva esser detto da lui, se non per celia. Lo scrittore
crede davvero a ciò che dice, e benchè mostri un certo acume dingegno, e scriva con certa
leggiadria, pure si vede in lui un uomo pieno dei pregiudizi del tempo. E come egli pretende che la
mitologia pagana pigliava i suoi simboli dallastrologia; così al tempo de nostri padri il Dupuys, con
altro ingegno e con altra dottrina, volle dimostrare che il Cristianesimo ha fatto lo stesso. Nil sub
sole novum.
LXXXVIII. Il libro intitolato la Dea Siria contiene la descrizione del famoso tempio di Gerapoli, e
della religione che ivi era, delle feste che si celebravano, dei riti, dei sacerdoti, del culto. Poco
giudizio, nessuna arte vi trovi: unico pregio, e non piccolo, è una mirabile trasparenza dei pensieri
in una lingua schiettissima: ti pare di leggere una scrittura ascetica del nostro trecento, così rozza,
semplice, scucita, e così efficace. Non può essere di Luciano; o egli doveva avere due nature
diverse ed opposte. È stimata importante per molte antiche notizie che ci ha conservate; e forse per
questa ragione è stata messa tra le opere di Luciano. Ma io non farei molto capitale, e non formerei
giudizio sicuro sopra notizie fornite da persona che tutto crede, ed è di poco conoscere.
COSTUME.
LXXXIX. Ognuno sa che specie di feste erano i Saturnali. Luciano ce li dipinge in alcune
leggiadrissime operette. La prima è un dialogo tra Saturno ed il suo povero Sacerdote, nel quale si
descrive lallegria della festa, si parla dellorigine e della ragione di essa, e si ride piacevolmente di
alcune favole intorno a Saturno, spacciate dai poeti e credute dal volgo. La festa è bella, il costume
è buono, serbiamolo senza queste favole sciocche. La seconda è il Saturno-Solone, ossia il
Legislatore dei Saturnali, che è una specie di programma piacevole, cui seguono le leggi che
governar dovrebbero la festa, e che paiono una parodia delle leggi di Solone. In terzo luogo
vengono le Lettere Saturnali, che sono quattro. Il sacerdote scrive a Saturno in nome dei poveri, che
si lagnano della ineguale distribuzione dei beni, e dimandano o unaltra divisione giusta, per la quale
ognuno abbia la sua parte, o che i ricchi sieno più larghi e meno insolenti coi poveri. Saturno
risponde che quella distribuzione ineguale lha fatta Giove, e che egli cercherà nella sua festa di
persuadere i ricchi ad essere più generosi e compagnevoli: che i poveri poi non abbiano invidia alla
ricchezza, sotto la quale stanno magagne assai; non se ne curino molto, e vedranno che i ricchi
stessi anderanno ad invitarli e condurli in casa loro. Poi Saturno scrive ai ricchi di trattar bene e
senza superbia i poveri, specialmente nella festa. Ed i ricchi gli rispondono che essi lo faranno
volentieri, purchè i poveri non commettano insolenze e scostumatezze. Tutte queste scritture
dipingono il costume con facilità e naturalezza, con una vena allegra di pensieri e di motti e di
leggiadrie che ti solleva, e vorresti, come vuole lo scrittore, che nella festa regnasse benevolenza e
cortesia, costumatezza ed allegria. E qui si vede la potenza dellingegno che sa fare oro di qualunque
cosa gli viene alle mani: cerca di correggere gli abusi rimproverando a ciascuno i suoi torti, e di
ridurre il costume a certa ragionevolezza. Il che in certo modo si ottiene quando si dicono alcune
verità che per la forma nuova e bella colpiscono, piacciono, sono ricordate, ripetute, e spesso ancora
messe in pratica.
XC. Io non ho letto lAsino di Apuleio, ed ho una vaga rimembranza della pulitissima traduzione
che ne fece il Firenzuola, e però non saprei paragonare lAsino latino col greco. Ma quantunque sia
cosa certa che il latino è assai rozzamente fatto in lingua fangosa, e questo Asino greco è una facile
e piacevole scrittura in dialetto gionico, pure ei non pare che sia di Luciano. Un giovanotto scapato,
vago di femmine e dincantesimi, per forza dun incantesimo diventa asino; e così serve a molte
persone, e incontra molti casi, infine ritorna alla sua prima forma umana. Limportante di questa
favola sarebbero i casi incontrati: ma scegliere quelli che contengono un insegnamento utile, una
pittura di costumi, una verità morale, un interesse vivo e generale, quelli insomma che hanno uno
scopo ragionevole, e narrarli con facilità e schiettezza, è cosa che richiede buon giudizio ed arte.
Ora in questa scrittura i casi dellasino sono senza scopo, senza insegnamento, senza utilità veruna;
sono molti, e potrebbero essere dieci volte tanti, torneria lo stesso; è sempre una superficiale
descrizione di ciò che avviene ogni giorno tra contadini, ortolani, mugnai, asinai, e simile gente; un
racconto della nuda e bassa realtà, senza arte e senza invenzione. Quello che fa il giovane Lucio
prima di diventare asino, e come viene a sapere che la moglie del suo ospite è una maga, e la tresca
con la fante, è narrato con troppa prolissità, e con certa aria di credulità. Se Luciano avesse avuto il
capriccio di scrivere una favola milesia, vi avrebbe messo, anche senza volerlo, quelle osservazioni
fine e giuste che sono abituali ad un ingegno grande, avrebbe mirato ad uno scopo, non avria
narrato così per narrare e per chiacchierare a vanvera. In queste fantasie contadinesche, e in queste
oscenità non vè pensiero, non vè arte, non vè altra bellezza che una dizione semplice; pregio che
può avere ogni balia cui stia bene la lingua in bocca, e che racconti una novella per acchetare i
bimbi. LAsino adunque è opera di basso ed umile scrittore: e sta tra quelle di Luciano perchè sotto
il nome del grande e celebrato satirico si sono ricoperte tutte le scritture mediocri che offendevano
la religione ed il costume.
XCI. Lo stesso è a dire per gli Amori, scrittura di sozza oscenità, e di stile contrario a quello
dellAsino, piena di concetti lambiccati, di locuzioni strane, di parole studiate e ricercate col
fuscellino. Luciano che non rifinisce mai di riprendere il mal costume, massime nei filosofi,
avrebbe egli fatto uno scritto nel quale si vuole giustificare un sozzissimo costume? Era egli uomo
libero e piacevole, secondo greco, ma amava troppo larte, e non lavria prostituita a tanta bruttura.
Lo stile scuro, intralciato, e torto pare che sia unespressione della coscienza dello scrittore, il quale
sentiva di fare opera poco onesta, e però nel farla procede con quella peritanza che suole sempre
essere in chi si mette ad una turpitudine. Ci vedi una certa ipocrisia sino nelle parole, la quale in
ultimo si svela, e la maschera cade. Io non credo affatto che questo dialogo sia di Luciano, e non
voglio più dirne.
MIMI.
XCII. Sebbene le quattro raccolte dei dialoghetti, che a me piace di chiamare Mimi, potevano essere
esaminate con gli altri dialoghi, secondo ciascuno argomento, o la religione, o larte, o la filosofia, o
il costume; pure mè sembrato meglio ragionare di tutti insieme.
I Dialoghi degli Dei deridono la sciocchezza e la turpezza delle credenze religiose serbate nelle
tradizioni e nei poeti: i personaggi sono tutti iddii, esseri fantastici che soli popolano il mondo
soprannaturale. Creati dalluomo, hanno tutte le sue passioni, i suoi vizi, e talvolta sono peggiori di
lui. Giove, tenuto massimo senno, non ne ha dramma: non sa quel che fa, e viene a patti con
Prometeo suo nemico, perchè questi gli predice quello che ei non conosce, e gli mette addosso la
gran paura di perdere la signoria: si sdegna con Amore che si fa gioco di lui: fanciulleggia con
Ganimede; pettegoleggia con Giunone per amore del zanzero; e saputo che Issione gli ha tentata la
moglie, con divina tolleranza propone un mezzo di salvare la fama di Giunone, e contentare il
povero innamorato. Per fare figliuoli, questi è un padre doro, e talvolta fa anche da madre, si sgrava
di Minerva facendosi spaccare il capo con una scure, e partorisce Bacco da una coscia. Per generar
Ercole, che fu quel gran forzuto, gli bisogna lavorare tre giorni, e il mondo sta per lo spazio di tre
giorni alloscuro, e non se naccorge. Mercurio suo figliuolo e valletto è un finissimo ladroncello, il
quale talvolta stanco di andare su e giù, si discrede con la mamma, e sverta tutte le segrete libidini
del padrone. Nè state a credere ad Omero quando racconta della gran forza di Giove, che avria
tirata in su una catena cui si fossero appesi tutti gli Dei e la terra tutta ed il mare, perchè Omero
stesso dice che tre soli dii, Nettuno, Giunone, e Pallade una volta lo volevano legare, ed ei tremava,
e se Teti non avesse chiamato in soccorso Briareo, te lo avrebbero legato con tutto il fulmine ed il
tuono. Insomma Luciano sattacca specialmente a Giove, e quando lha per mano, ne fa un cencio, e
lo strapazza. Nè risparmia gli altri Dei: ora ti rappresenta Ercole ed Esculapio, che si bisticciano
villanamente tra loro; ora trafigge Castore e Polluce, coppia di giovanotti scioperati che non fanno,
nè sanno far nulla. Motteggia le follie amorose degli altri, e vuol mostrarti che sono come le umane:
ti pone innanzi gli occhi Endimione che dorme, e lamante Luna che tacita gli si avvicina, e ne sente
lambrosio respiro: ti fa vedere la vecchia Rea col suo Atte in mezzo ai Coribanti furiosi, ed Amore
a cavallo ai leoni che gli leccano le mani: ti fa compatire ad Apollo addolorato per il suo Giacinto;
ridere di Bacco tentato da Priapo; e di Mercurio bellissimo, che per ingannare una donna prese la
figura di becco, e divenne padre di Pane bruttissimo e mezzo caprone. Apollo bel giovane è
sfortunato in amore; Vulcano brutto, zoppo, ed artigiano ha due mogli bellissime che gli fanno le
fusa torte: infine Marte colto in adulterio con Venere non è biasimato, ma invidiato dagli altri. Il
giudizio di Paride non è satira, ma lavoro darte, vaghissimo, spirante tutta la fraganza della bellezza
e della voluttà: ha tutta la leggerezza, il moto, e la leggiadria delle Grazie, ed è cosa veramente
divina. Sono ventisei questi mimi, tutti genuini, e di ogni parte perfetti.
XCIII. I Dialoghi marini sono lavoretti darte, quindici vaghe miniature, che rappresentano Nereidi,
Tritoni, ed altre divinità del mare, ed anche alcuni uomini elevati a perfezione eroica, come
Polifemo, Anfione, Perseo, Ulisse, Menelao. Alcuni traggono largomento da Omero, ed hanno il
motto contro quel poeta, ma il motto leggiero, e nulla più: sono poesia, come lomerica, ma dentro vi
è lo scettico che si mostra appena: e questo suo parere e non parere è cagione di bellezza, perchè
ricordi del gran poeta e lo vedi quasi riprodotto, e senti ancora una potenza che lo ammira e lo
giudica. Con quale vaghezza e leggerezza è ritratto lamore di Alfeo e di Aretusa, e come è bella
quellacqua limpida che corre su i sassolini, e pare dargento! Viene il dubbio dello scettico: ma
come un fiume dArcadia si può mescolare con una fontana di Sicilia, se vi passa tanto mare per
mezzo? Ma questo dubbio molesto, che intorbidirebbe quella pura acqua ed un puro sentimento,
tosto è rimosso, come una dimanda fuori di proposito (perierga eroton) a cui non si risponde. Con la
stessa arte è dipinto laccecamento di Polifemo, le trasformazioni di Proteo, il ratto della bella
Amimone, velocissimo dialoghetto e bellissimo, la trasformazione dIo, il bruciamento del fiume
Xanto, e linganno fatto alla povera Tiro. Alcuni poi sono dipinture originali, poesie freschissime e
senza motto alcuno. Polifemo con lorsatto in braccio che va a mattinare Galatea; Arione che si getta
in mare; Elle che tragitta il mare sul montone, e gli si tiene alle corna, e trema, e cade; Danae nella
barchetta, che piange e prega linflessibil padre, e gli mostra Perseo bambinello che guarda il mare e
sorride; Andromeda mezza nuda legata allo scoglio e salvata da Perseo che uccide la balena;
Europa portata dal toro che nuota sul mare, e intorno le vanno le Nereidi, e i Tritoni, e gli Amori, e
Venere, e Nettuno con Anfitrite, e pare che tutta la natura senta la presenza dun gran dio, e si
rallegri delle sue nozze. Io per me tengo questi mimi come i più belli fra tutti gli altri, non pure per
le vive immagini, ma per una pura vena daffetto, che raro sincontra nelle opere di Luciano, ed è
limpida come lacquicella della fontana Aretusa.
XCIV. I Dialoghi dei morti sono i più famosi, perchè presentano limmagine della vita umana.
Diogene manda a chiamar Menippo per mezzo di Polluce (dial. 1), che ogni sei mesi, scambiandosi
col fratello, ritorna su la terra, e gli manda a dire: Se hai riso a bastanza costassù, vientene quaggiù
che ci avrai da ridere assai della grandezza e superbia umana che vedrai bene ammaccata. Si ride
adunque del passato in cui si specchia il presente. Va Menippo con una truppa di morti (d. 10), un
leggiadro garzone, un tiranno, un atleta, un guerriero, un filosofo, un retore, ai quali tutti dispiace
lasciare la vita; ed egli solo, che ne conosce la vanità, vassene lieto e scevro. Ma se egli è povero,
come pagherà il nolo a Caronte? (d. 22). Si bisticcerà col navicellaio; ma, vuoi o non vuoi, dovrà
passare. Anche laggiù gli Dei stanno attaccati al danaro, e Caronte e Mercurio fanno spesso tra loro
i conti di ciò che guadagnano (d. 4). Disceso Menippo non ha altra voglia che di vedere come
stanno laggiù i grandi della terra, e si piace di beffare e trafiggere Creso, Mida, Sardanapalo (d. 2);
poi canzona Trofonio, e Tiresia (d. 3 e 28) impostori ed indovini; e ride di Tantalo (d. 17), e non gli
crede che abbia sete e fame, perchè è ombra, non corpo che sente questi bisogni. Cercando le belle
persone, tanto ricercate dai Greci, vede il teschio di Elena, e ride della vanità della bellezza (d. 18):
fu fatto e sofferto tanto per una che doveva ridursi a questo! Mentre egli fa questa osservazione,
Nireo e Tersite contendono per bellezza (d. 25), e fanno giudice Menippo, il quale decide che sono
due teschi eguali, e Tersite è contento, perchè i poveri e i servi sorridono alla morte che li agguaglia
a tutti gli altri. Cerca di vedere i filosofi, e parlando con essi (d. 20) sa che Pitagora ha mutato
dommi e mangia le fave; che Empedocle si gettò nellEtna per una fiera malinconia; e che Socrate
diceva davvero che egli non sapeva nulla, e la gente credeva che ei lo dicesse per ironia. Dimanda a
Cerbero (d. 21) come Socrate sostenne la morte, e quei gli risponde: Gli dispiacque assai, ma come
la scorse inevitabile, fece le viste di sprezzarla per essere ammirato. Infine Menippo dimanda al
savio Chirone (d. 26): È vero che tu eri immortale, e volesti morire? Sì, perchè mi noiavo della
vita. E se ora ti noierai della morte e di stare qui, cercherai forse di andare in unaltra vita? Chi non
sa sofferire non è savio. Non pure Menippo, ma Diogene ancora è personaggio principale in questi
dialoghi. Diogene deride Alessandro (d. 13) che si faceva tenere per un dio, e morde la crudeltà del
conquistatore. Il quale, paragonato a suo padre Filippo (d. 14), non pare più sì grande per geste
guerriere, ed è un vanitoso. Poi Diogene mette in canzone Ercole (d. 16), e gli dice: Lombra tua è
nellinferno, lanima è dio in cielo, il corpo è cenere sullOeta: dunque o sono tre Ercoli, o non ce nè
che uno, ed è morto. Infine trafigge Mausolo, che è superbo del sepolcro rizzatogli dalla moglie (d.
24).
Diogene è introdotto ancora in due dialoghi che a me non paiono genuini, perchè non hanno nè
concetto nè arte lucianesca. Nel 27° parla con Antistene e Cratete del grande amore che gli uomini
hanno alla vita, ed ognuno di essi narra una storiella per confermare questo argomento. Nell11°
Diogene ragiona con Cratete di quelli che uccellano alle eredità dei ricchi, e dice con gran tuono la
gran freddura, che egli non desiderava la morte di Antistene per ereditarne il bastone, nè Cratete
voleva ereditare da lui la botte e la bisaccia coi lupini. Essi, i filosofi, lasciano ed ereditano
sapienza, verità e libertà. Chi può credere che questi paroloni sono di Luciano?
Questo 11° dialogo mi pare una sgarbata imitazione dei cinque dialoghi (5, 6, 7, 8, 9), nei quali
Luciano ha dipinti gli uccellatori di eredità, tanto comuni nel suo tempo, che spesso rimanevano
uccellati: egli li ritrae a maraviglia, con semplicità, facendoli parlare, e mostrandone lavidità
sozzissima, senza moralizzare a sproposito. Generoso è poi il rimprovero di Antiloco ad Achille (d.
15), che disonestando i due sapienti suoi maestri Chirone e Fenice, aveva detto voler essere
piuttosto zappatore tra i vivi, che re tra i morti, ed affermava che tutti gli altri sentono così, ma non
hanno la franchezza di dirlo. Bisogna sofferire e tacere: il lamentarsi di cosa inevitabile è bassezza
danimo. Questa è una botta ad Omero, che mette quelle parole in bocca ad Achille. E gliene dà
unaltra ancora per ciò che dice di Protesilao, il quale morto nello sbarcare sul lido di Troia, ottenne
da Plutone di tornare per un giorno solo a vedere la giovane e diletta moglie. Mentre Protesilao
prega Plutone (d. 23), questi gli dice: Come, hai bevuto Lete, e non puoi dimenticare la tua donna?
Non posso: in me non fece effetto. Aspetta, che verrà ella. Tu fosti innamorato, e sai che tormento
è laspettare. Ma come ti riconoscerà ella se tu sei un teschio spolpato? Qui entra Proserpina, che
aiuta Omero e Protesilao, e dice al marito: Ordina a Mercurio di toccarlo con la verga, e di rifarlo
giovane sposo. Lo stesso Protesilao, dolendosi della morte che lo tolse ad amore (d. 19), se la piglia
con Elena, poi con Menelao, poi con Paride, poi con Amore, infine riconosce che di tutto ha colpa il
fato, il quale destina ogni cosa, e a nessuno si può imputare nè il bene nè il male. Così ancora Aiace
odia Ulisse (d. 29) senza ragione, perchè non Ulisse, ma Pallade, non il guerriero, ma lintelligenza
lo vinse: e pure egli lodia, perchè eterno è lodio tra la forza e lintelligenza. Infine Sostrato, ladrone
dannato a supplizio atroce, disputa con Minosse (d. 30) e dice: Se ognuno fa necessariamente quello
che la Parca ha destinato, la Parca fa il bene e fa il male: e io non merito pena, perchè ho fatto
quello che la Parca mi ha comandato. Minosse lo assolve, e gli raccomanda di non dire a nessuno
queste cose. Infine il dialogo 12° in cui Alessandro, Annibale e Scipione contendono innanzi a
Minosse del primato nelle armi, non mi pare di Luciano; perchè è una declamazione rettorica noiosa
tra i vivi, noiosissima tra i morti. Solamente in capo ad un retore poteva entrare lidea di fare
Alessandro ed Annibale dicitori di due magre dicerie. Cotesta specie di paragoni sono o da
Plutarco, o da fanciulli.
XCV. I Dialoghi delle Cortigiane non paiono una scrittura, ma un parlare vivo e vero, schiettamente
popolare, ed ateniese: sono quindici scene della vita delle cortigiane dAtene. Dovunque i Greci
potevano vagheggiare e cogliere un fiore di bellezza, essi adoperavano larte per coltivare quel fiore.
Onde questi dialoghi non sono fatti ad eccitamento di lascivia, che sarebbe fine sozzo ed indegno di
Luciano, ma per uno scopo di arte, per godere della bellezza che si rinviene anche nellamore
sensuale. Quindi queste cortigiane non fanno schifo, nè orrore, nè pietà, ma si fanno udire con certa
compiacenza, e talune tinteressano; come la Mirtina, che si crede abbandonata dallamante; o la
Musetta, fanciulla di diciotto anni, innamorata dun garzone sì perdutamente, che non vede nè vuole
altro che lui; o la Joessa affettuosa e a torto strapazzata dallamante; o la Innide, a cui un soldato
vantatore racconta di avere tagliato, e squartato, e infilzato un capo su la lancia, ed ella inorridisce e
vassene; e quei la chiama, promette, prega, confessa che ha detto una bugia, e pure non la persuade.
Lindole femminile, e delle femmine cortigiane, è ritratta al vivo: e i Greci solevano compiacersi di
queste dipinture della cortigiana non sozza e sfacciata, ma buona ed amorosa. Così, credo io,
doveva dipingerle Menandro, perchè Terenzio, che limitò e copiò, così dipinge la Gliceria nella sua
Andriana, che pare simile alla Mirtina o alla Joessa. Non faccia maraviglia adunque che Luciano
artista, per uno scopo darte, imitando a modo suo i poeti della commedia nuova, abbia dipinto le
cortigiane, e rilevato quel po di bene che è in tutte le creature umane anche degradate. Questo è
stato fatto sempre e da buoni artisti di tutte le nazioni: e ai tempi nostri il giovane Alessandro
Dumas ci ha commossi e dilettati descrivendoci i casi duna cortigiana, La Dame aux Camelias. Per
lo stile e la lingua questi dialoghetti sono duna vivezza e duna grazia veramente femminile.
EPIGRAMMI
XCVI. Compiuta questa lunga esposizione delle opere di Luciano, rimane a dire qualche parola
degli Epigrammi che gli sono attribuiti. Epigrammata Luciani, quorum tamen haud pauca non
Luciani, sed Lucilii, aliorumque potius habenda videntur, ut 4, 7, 15, 17, 20, 21, 24, 27, 29, 33.(24)
E se non sono di Luciano, perchè li avete messi dopo le sue opere? Agli eruditi non pare bello e
compiuto uno scrittore antico senza epigrammi, come animale senza coda: dove un povero
traduttore trova il più duro a scorticare. Io concedo che Luciano abbia potuto scriverne, ma non so
certo che egli ne abbia scritto, egli che nella sua forma de Mimi poteva meglio e più artisticamente
esprimere i suoi concetti. Tra questi epigrammi ce ne ha de leggiadri: ma io non saprei trovare
modo, o regola, o principio alcuno per discernere i genuini dagli spurii. Sicchè io dubito di tutti, e
non voglio dire di alcuno: anche perchè sì piccola cosa è un epigramma, che non merita molto
discorso: egli è un fiore che si fiuta e si lascia.
CAPO QUARTO.
TRADUZIONE ITALIANA DELLE OPERE DI LUCIANO.
XCVII. Quale utilità possono recare le opere di Luciano al secolo presente, ed alla nazione
deglItaliani, pei quali è fatta questa traduzione? Credenze, sapere, costumi, lingua, tutto ora è
mutato e diverso dallantico; pure i vizi e le sciocchezze che Luciano derise, rimangono e
rimarranno sempre, sebbene piglino altre forme: e la verità che egli disse, siccome non era nuova al
suo tempo, così non è vecchia nel tempo nostro, e giova sempre ripeterla. Io non desidero nè credo
che oggi nascano scettici come Luciano, perchè chi non crede a nulla non opera nulla, ed ogni
impresa grande nasce da grande persuasione: oggi lumanità tutta quanta sente il bisogno di edificare
non di distruggere, di unire non di separare, e riconosce che il vero sta nella coscienza universale
non nella individuale. Limportanza che hanno le opere di Luciano è quella che ha ogni opera darte,
ogni rappresentazione del bello, ogni concetto che trasparisca mirabilmente in una forma. Venere
ed Apollo non sono più iddii, ma le due statue greche che li rappresentano sono due capilavori. I
Greci, e Luciano tra i migliori, furono eccellenti per questa trasparenza del concetto nella forma,
per questa schiettezza nellespressione: la quale, a mio credere, procede non pure da intelligenza
viva, ma ancora da animo abituato a libertà e verità, ed abborrente da ogni ipocrisia: però le loro
opere giovano non pure allintelletto, ma alla morale, e in certo modo ci dispongono ad essere leali e
franchi. Questo vorrei fosse bene inteso daglItaliani, ormai dimentichi di una lingua che i nostri
antichi parlarono, ed in essa insegnarono tante verità e bellezze; fosse bene inteso da quei
pochissimi che la conoscono, e potrebbero nella nostra favella recare la luce del pensiero greco.
Come volete che quei grandi scrittori sieno studiati ed imitati da molti, se voi pochi non li fate
conoscere ed amare? Quanti, e cólti, Italiani non hanno letto Tucidide, Senofonte, Polibio,
Demostene, Platone, Aristotele, perchè non sono tradotti nella nostra lingua, o sono male tradotti! e
quanti hanno dovuto leggerli in una traduzione francese! Lopera di traduttore è assai modesta, ma
assai utile ancora: grandi ingegni non la sdegnarono: e chi non può essere grande ed originale
scrittore, che è dato a pochissimi, fa meglio a tradurre nella sua lingua i grandi pensieri altrui, che
esprimere i suoi, mediocri e forse insulsi. Il sapere di un uomo e di una nazione non è proprio, ma è
parte ereditato e parte acquistato da altri: ed i popoli più cólti cercano sempre di appropriarsi e
rinsanguinarsi del sapere di tutti gli altri e antichi e moderni, e recarlo nella loro favella per renderlo
comune. Quei buoni, ingegnosi, e perseveranti Tedeschi, che tanto sanno e tanto fanno negli studi,
non hanno lasciato scrittore greco senza unottima traduzione tedesca, senza lunghi comenti e
dichiarazioni di ogni sorte; sicchè solamente da essi ci viene un buon libro greco. I Francesi ancora,
benchè a modo loro, pure traducono e comentano con diligenza: e glInglesi pongono in questo la
cura ed il senno che pongono in ogni cosa. Fra noi da un secolo in qua si è preso a tradurre i poeti
greci, e gli studi ne sono avvantaggiati: ma quasi tutti i prosatori più insigni sono conosciuti
solamente per nome daglItaliani. Tutte le nazioni cólte di Europa hanno varie traduzioni più o meno
pregevoli delle opere di Luciano, scrittore massimo ed unico in piacevolezza. Non parlo delle
interpetrazioni latine, le quali, quantunque pregevoli per fedeltà ed accuratezza, pure sono fatte
solamente per agevolare lintelligenza del testo greco; e se le leggi sole, ti pare di vedere un corpo
umano senza pelle con tutti i muscoli e i tendini scoperti. E tra queste la più riputata è quella del
Gesnero. Io parlo delle traduzioni fatte nelle lingue vive dEuropa. La Francia ne ebbe da prima una
libera parafrasi da Niccola Perrot dAblancourt, e poi una buona traduzione dal Belin de Ballu:(25)
lInghilterra ne ebbe una da Tommaso Franklin, ed unaltra dal Carr: la Germania ne ha una del
Wieland, tenuta in gran pregio, ed altre due del Pauly, e del Minckeritz anche lodate. A noi ne
avrebbe data una eccellente il buon Gaspare Gozzi, se avesse tradotte tutte le opere, come tradusse
pulitissimamente alcuni dialoghi. Nessuno dei nostri, più del Gozzi, ebbe ingegno simile a quello di
Luciano; nessuno meglio di lui sapeva intenderlo e farlo parlare italiano. Abbiamo una traduzione
di tutte le opere, fatta da Guglielmo Manzi, la quale io non ho letta nè so lodata: ma se posso
argomentare dal dialogo di Cicerone De legibus, che ho letto, tradotto dallo stesso Manzi, mi pare
che questi non abbia potuto voltare felicemente in italiano la festività, lurbanità, e la semplicità
dello scrittore greco. LItalia adunque nella sua lingua non ha ancora una buona e compiuta
traduzione di Luciano.(26)
XCVIII. Le opere darte quando sono voltate in unaltra lingua, come le monete che si cambiano in
un paese forestiero, scemano sempre di pregio; spesso ritengono solo quello della materia: e mi
ricorda di aver letto che una volta il Klopstoch leggendo una traduzione della sua Messiade, pianse
di dolore. Per me sta che la traduzione dunopera darte debba essere anche unopera darte, e che il
traduttore nel suo ingegno debba trovare e nei modi della sua lingua un colorito simile a quello
delloriginale, quando quello delloriginale non può essere ritratto fedelmente: il che avviene
specialmente allora che si traduce da una lingua antica, o molto diversa. Dove i concetti sono
limportante, tradurre è facile, perchè la forma è cosa secondaria; ma dove limportante è il modo
onde sono espressi i concetti, ivi tradurre è difficile, perchè ogni lingua ha un suo modo particolare,
e per sostituire convenevolmente lun modo allaltro, bisogna buon giudizio assai, e fine conoscenza
delle due lingue, e un certo ardire dartista. Queste cose sono facili a dire, ma non facili ad eseguire;
perchè di buon giudizio nessuno ha a bastanza; conoscere bene anche la propria lingua non è affare
di lieve momento; e spesso lardire trasmoda in prosunzione. Onde, benchè io desideri che questa
traduzione paia ottima agli Italiani, come quella del Wieland pare ai Tedeschi, pure nessuno meglio
di me sa dove ella manca, dove non risponde puntualmente alloriginale, dove per istanchezza, per
noia, e per manco di conoscenze non ho potuto nè saputo far meglio. I concetti ho serbato
fedelmente, senza curarmi punto della schifiltà moderna, perchè io non parlo io, e sento lobbligo di
far dire allo scrittore il bene ed il male che egli dice, acciocchè sia bene conosciuto da chi legge. Ho
serbato ancora la forma greca se è simile alla nostra; se no, ho adoperata la nostra più schietta e
propria. E come Luciano usò della buona lingua antica, e seppe essere chiarissimo a tutti, efficace,
ed elegante, così anche io ho cercato di usare la buona lingua nostra, senza le goffaggini antiche,
senza i lezii e le smancerie dei moderni, pigliando le parole e le frasi non pure dagli ottimi scrittori,
ma dal popolo di Italia meglio parlante. Tuttavolta dove il pensiero mi comandava, ho usato parole
e vecchie e nuove, e ne ho anche foggiate, perchè il pensiero da dentro forma e trasforma le lingue,
e le governa secondo la sua necessità. E tanto mi sono ingegnato di esser chiaro e di fuggire ogni
affettazione, che anche a talune opere tenute spurie, e che, lette in greco, ti presentano una
differenza notabile di stile e di lingua, e modi oscuri e sforzati, io non ho potuto dare quella
differenza; anzi dove i concetti sono scabri, io li ho renduti piani, dove le sentenze sono contorte, io
lho raddirizzate, dove le parole sono strane, io lho scambiate con le ragionevoli. Per isforzi che io
ho fatti, non ho potuto altrimente, non ho saputo imitar bene il male: ma sono certo che la materia, e
quel colore che la materia dà necessariamente allespressione, farà distinguere anche in italiano
queste opere spurie dalle genuine. Nel tradurre mi sono venute fatte alcune correzioni al testo, le
quali mi pare sieno necessarie a bene intenderlo: io le propongo a tutti coloro che intendono bene il
greco, e sono uomini discreti, affinchè possano giudicarne, e, se le riconosceranno necessarie,
usarne ancora nelle future ristampe del testo di Luciano.(27)
XCIX. Sebbene io sappia che niente può scusare la mediocrità di unopera, e che tutti i lettori senza
curarsi di sapere con quali mezzi e con quante difficoltà fu fatta, la scartano o la lodano senzaltro;
sebbene io non chieda indulgenza, perchè so che lè inutile; e non sacquista fama per indulgenza, e
solo il buono resiste al tempo; nondimeno io credo che a taluno non dispiacerà che io dica in qual
luogo e come fu fatta questa traduzione; almeno io sento il bisogno ed il dovere di dirlo. Ero io da
due anni nellergastolo di San Stefano, quando ci venne il mio diletto amico Silvio Spaventa, il quale
portò seco un volume contenente alcune opere di Luciano tradotte in francese dal Belin de Ballu.
Lo lessi, mi piacque, mi ricordai degli studi della mia giovinezza; e mi parve che il riso e lironia di
Luciano si confacesse allo stato dellanima mia. Per non perdere interamente lintelligenza, che ogni
giorno mi va mancando, per non perire interamente nella memoria degli uomini, mi afferrai a
Luciano, e mi proposi di tradurne le opere nella nostra favella. Ebbi il nudo testo emendato dal
Weise, e cominciai a lottare disperatamente con mille ostacoli, senzaltro aiuto che un piccol lessico
manuale: ma pervenuto più oltre della metà del lavoro, ebbi ledizione Bipontina. Per cinque anni vi
ho lavorato continuamente fra tutte le noie, i dolori, e gli orrori che sono nel più terribil carcere, in
mezzo agli assassini ed ai parricidi: e Luciano, come un amico affettuoso, mi ha salvato dalla morte
totale della intelligenza. Il mio Silvio, che ha veduto questo lavoro nascere e venir su con tante
fatiche, mi ha aiutato de suoi consigli, e ragionando meco, mi ha suggerito col suo solito acume
parecchie osservazioni che io ho espresse in questo discorso. La sua amicizia mi è conforto unico
nella comune sventura, io lamo con amore di fratello, ed ammiro in lui un alto cuore ed un alto
intelletto. E se queste carte un giorno potranno uscire del carcere ed essere pubbliche, io voglio che
dicano al mondo quanto io amo e quanto io pregio questo mio amico.
Eppure altri pensieri ed altri dolori crudeli laceravano lanima mia, ed io, non che attendere a questi
studi, non avrei potuto durare la vita, se ANTONIO PANIZZI, Direttore del Museo Britannico, non
avesse con amore di padre preso cura del mio povero figliuolo, e fatti a me grandi e singolari
benefizi. Qualunque sia questa mia fatica, per suo benefizio io potei farla, e però a lui è dovuta, ed a
lui loffero e la consacro. O mio PANIZZI, voi che di senno inglese e di cuore italiano siete
ottimamente contemperato, gradite questo che solamente può darvi uno che voi onorate del nome di
vostro amico. Sarò contento se voi crederete che io, anche nellergastolo, ho cercato di fare quel
poco di bene che potevo alla patria comune.
Ergastolo di San Stefano, Settembre 1858.
I.
IL SOGNO,
o
LA VITA DI LUCIANO.
Avevo pur allora smesso di andare alle scuole, essendo già della persona un giovanotto, e mio padre
si consultava con gli amici a che mi dovesse applicare. I più opinavano che la Letteratura vuole
fatica assai, e tempo lungo, e spesa non poca, e fortuna splendida; e in casa nostra cera poco, e ci
voleva presto un aiuto: se io imparassi una di queste arti meccaniche, subito avrei dallarte il
necessario per me, non dovendo più alletà mia logorare di quel di casa, e indi a non molto darei
anche un sollievo a mio padre recandogli il mio guadagno. Il secondo punto fu, quale fosse la
migliore arte, e più facile ad apprendere, e conveniente ad uomo libero, e di più poca spesa ad
imparare, e che desse un guadagno sufficiente. Qui, chi ne lodava una, chi unaltra, secondo che
ciascuno ne aveva conoscenza o esperienza: quando mio padre, voltosi allo zio (chè vera presente
un mio zio materno tenuto un bravo scultore di Mercurii), disse: Non va che unaltrarte sia preferita,
quando sei tu qui. Prenditi costui (e additò me), e fammene un buon artefice, un marmoraio, uno
statuario; ei ci può riuscire, perchè sai come ci ha buona attitudine. Argomentava ei così da certi
balocchi di cera chio facevo: chè quando io tornavo di scuola, mi mettevo a raschiar cera, e
formavo buoi, o cavalli, o anche uomini con un certo garbo, come pareva al babbo. Per quei
balocchi ne avevo toccato nerbate dai maestri, e allora navevo lode di buona disposizione dingegno!
Onde si avevano le più belle speranze di me, che in breve imparerei larte per quelle figurine chio
formavo.
Quando dunque parve giunto il giorno di mettermi allarte, mi consegnarono allo zio, e io non ero di
mala voglia, anzi mi pareva che ci avrei uno spasso, e mi farei bello coi compagni, se scolpissi iddii
ed altre immaginette da tenerle per me, o darle a chi più mi piaceva. E primamente mi avvenne quel
che suole ai principianti. Lo zio mi diede uno scalpello, e mi disse di leggermente sgrossare una
tavola di marmo che stava in mezzo allofficina, aggiungendomi quel proverbio: chi principia ha
mezzo fatto. Ma io che non sapevo, diedi forte un po, e il marmo ruppesi. Egli adirato piglia un
randello che gli viene a mano, e mi picchia senza una pietà; sicchè la prima lezione fu picchiate e
lagrime. Me ne scappai, e giunto a casa singhiozzando e piangendo a caldi occhi, raccontai di quel
randello, e mostrai i lividori, e dissi che quegli era un crudele, e me laveva fatto per invidia che io
non lo sorpassassi nellarte. La mamma ne fu corrucciata, e nebbe a garrire col fratello: ed io la sera
andai a letto, e maddormentai piangendo ancora, e ripensandoci tutta notte.
Finora vho detto cose da ridere e fanciullate: ma ora verrà il buono, che è da udire attentamente.
Imperocchè per dirvela con Omero
... Divino a me veniva un sogno
Nella dolcezza della notte,
e così chiaro che non differiva punto dal vero: e infatti anche dopo tanto tempo, le immagini che mi
apparirono, mi stanno ancora innanzi agli occhi; e sento ancora il suono delle parole: tanta era la
chiarezza.
Due donne, presomi per le mani, mi tiravano ciascuna a sè con sì gran forza e violenza che per poco
in quel tira tira non mi fecero in due pezzi: chè ora prevaleva una e mi teneva tutto a sè, ora venivo
in potere dellaltra. Si bisticciavano e gridavano: Egli è mio, e me lo vo tenere. No, non è tuo, e non
devi pigliarti laltrui. Luna era un donnone, unartigiana, coi capelli scomposti, le mani callose, la
veste succinta, tutta impolverata, comera lo zio quando scalpellava i marmi; laltra di assai
bellaspetto, e composta, e ornatamente vestita. Infine lasciarono a me decidere con chi volessi
andare. E prima quel duro donnone parlò in questa guisa:
Io, o bimbo mio, sono larte della Scultura, che tu ieri cominciasti ad imparare; sono di casa tua, e
tua parente; chè il tuo avo (e mi nominò il padre di mia madre) era scultore, e i tuoi zii amendue, ed
ebbero fama per me. Se tu vuoi tenerti lontano dalle inezie e dai cicalecci di costei (additando
laltra), e venire e startene con me, io ti alleverò da uomo, e tu avrai braccia robuste; non sarai
invidiato affatto, non anderai in paesi forestieri lasciando la patria e i congiunti, e non per
chiacchiere, ma per opere sarai da tutti lodato. Nè ti dispiaccia lumiltà della persona, e la sordidezza
della veste, chè cominciando così Fidia fece il suo Giove, e Policleto formò la Giunone, e Mirone fu
celebrato, e Prassitele fu ammirato, ed ora sono anche adorati coi loro iddii. Oh, se tu divenissi uno
di costoro, che gloria avresti dagli uomini, quanto sarebbe invidiato tuo padre, che lustro daresti alla
tua patria!
Queste cose e più di queste ancora balbettando e mezzo in barbaro mi disse lArte, raccozzandole
con molto studio, e sforzandosi di persuadermi. Ma non me ne ricordo più, chè la maggior parte mè
uscita di mente. E quando ella cessò, laltra così prese a dire:
Ed io, o figliuolo, sono lEloquenza, già tua amica e conoscente, quantunque tu non mi conosca bene
a fondo. Quanti beni avrai diventando uno scultore, te lha detto costei: tu non sarai altro che un
operaio, uno che lavora con la persona e in questa ripone ogni speranza della vita, un uomo oscuro,
avente sottile e ignobile mercede, poca levatura di mente, nessun seguito nelle vie; non difensore
degli amici nei giudizi, non terrore ai nemici, non invidiabile ai cittadini, ma soltanto un operaio,
uno come tanti altri, sempre soggetto al potente, sempre a riverire chi sa parlare; vivrai la vita del
lepre, e sarai boccone del più forte. E se pure divenissi un Fidia o un Policleto, e facessi molte opere
stupende, larte loderebbero tutti, ma nessun uomo di senno che le vedesse, vorrebbe esser simile a
te: chè per miracoli che tu facessi, saresti tenuto sempre un artefice, un manuale, uno che vive delle
sue braccia. Ma se ti affidi a me, io primamente ti mostrerò molte opere degli antichi uomini, e i
loro fatti maravigliosi, e recitandoti i loro scritti, ti farò, per così dire, conoscere tutte le cose.
Lanima tua, che è sì nobil parte di te, io adornerò di molti e belli ornamenti: la temperanza, la
giustizia, la pietà, la mansuetudine, la modestia, la prudenza, la costanza, lamore del bello, il
desiderio dellonesto: chè questi sono i veri e incorruttibili ornamenti dellanima. Non ti sfuggirà
nulla del passato, nulla che al presente convien fare, e con me prevederai anche il futuro: insomma
tosto io tinsegnerò tutte le cose divine e le umane. E tu ora poveretto, e figliuolo dun tale, e che
consultavi non so che intorno ad unarte così ignobile, tu in breve sarai da tutti invidiato, onorato,
lodato, pregiato per il tuo valore, riguardato dai nobili e dai ricchi, rivestito di questa veste (e mi
mostrò la sua che era splendidissima), creduto degno dei primi uffizi e dei primi seggi. E se anderai
in altri paesi, non vi sarai nè sconosciuto nè oscuro, chè io ti darò tanto lustro, che chiunque ti
vedrà, scotendo il vicino e mostrando te a dito, dirà: Questi è colui. Se accaderà qualche grave caso
o agli amici o alla città tuttaquanta, in te riguarderanno tutti: e dove tu parlerai, tutti ti ascolteranno
a bocca aperta, ammirandoti, e dicendo: beato lui che parla con tanta facondia, e beato il padre che
lha generato. Si dice che alcuni di uomini diventano iddii: ebbene, tale io ti renderò: chè quando
uscirai di vita, non cesserai di startene coi savi, e converserai con gli uomini migliori. Vedi
Demostene di chi era figliuolo, e chi lo feci io divenire? Vedi Eschine, figliuolo duna sonatrice di
tamburello, quanto fu carezzato da Filippo per amor mio! E Socrate stesso, allevato dalla Scultura,
e poi, veduto il suo meglio, lasciatala, e venuto nelle braccia mie, quanto è celebrato nel mondo! Or
tu lasciando da banda tanti e tali uomini, ed opere splendide, e scritti sapienti, e nobile aspetto, e
onori, e gloria, e lodi, e primi seggi, e potenza, e uffizi, e il plauso che si dà alla facondia ed alla
prudenza, tu ti metterai indosso una vestaccia impolverata, piglierai laria dun servo, e con in mano
leve, scalpelli, martelli e raspe, starai curvo sul lavoro, prostrato proprio a terra, non solleverai mai
il capo, non avrai mai forti e liberi pensieri: attenderai a dare acconcezza ed ornamento alle tue
opere, e non baderai ad essere tu acconcio ed ornato, anzi renderai te stesso da meno dei sassi.
Dicendo ella così, io non aspettai che finisse, e decisi: lasciai quella brutta e artigiana, e me nandai
dallEloquenza tutto lieto, massime perchè mi venne a mente quel randello, e le gran picchiate del
giorno innanzi che incominciai larte. Ella così piantata, primamente sdegnossi, e battè le mani, e
arrotò i denti; poi, come Niobe, rimase immobile e si mutò in sasso. Se la cosa vi parrà strana,
credetela pure; chè i sogni fanno vedere maraviglie.
Laltra volgendosi a me, disse: Ed io ti ricompenserò di questa giustizia con la quale hai giudicato
questa lite. Vieni, monta su questo carro (e mi mostrò un carro con alati cavalli simili al Pegaso),
acciocchè tu veda quali e quante cose avresti ignorato, se non mavessi seguito. Come io montai, ella
prese le briglie e guidò: ed io levato in alto andava contemplando dallOriente sino allOccidente
città, nazioni e popoli, spargendo come Trittolemo certi semi su la terra;(28) ma non mi ricorda più
che semi eran quelli, se non che mi sovviene che gli uomini di giù rimirando mi lodavano, e
dovunque io mavvicinavo in quel volare, maccoglievano a grandonore. Poichè ella mostrò a me
tante belle cose, e me a quelli che mi lodavano, mi ricondusse in patria non più vestito di quella
veste che avevo quando montai sul cocchio, ma mi pareva tornarci da gran signore. Ed avendo ella
scontrato mio padre che mi stava aspettando, gli mostrava quella veste, e laria con che io tornavo, e
gli ricordò ancora che poco mancò e non mi rovinava la consulta fatta su di me. Questo mi ricorda
chio sognai essendo ancor garzonetto, turbata la mente, credio, dal timore delle busse.
Ma qui taluno minterrompe, e dice: Oh, che sogno lungo, e proprio sogno davvocato! Un altro
soggiunge: Gli è un sogno dinverno, quando sono sì lunghe le notti; e forse fu fatto in tre notti,
come Ercole.(29) Come è venuto in mente a costui contarci queste fanfaluche, e ricordare i sogni
della fanciullezza? Le son cose rifritte coteste. O ci ha preso egli per disfinitori di sogni? No, caro
mio. Senofonte quando narrava quel suo sogno, come gli pareva che sera appiccato il fuoco alla
casa paterna, e il resto che sai,(30) non raccontava egli quella visione come una fiaba, o con
intenzione di scherzare, massime allora che la guerra gli ardeva intorno, i nemici laccerchiavano, e
non cera scampo; ma quel racconto aveva un certo utile. Così anchio vho raccontato questo mio
sogno, affinchè i giovani si volgano al meglio, e si diano alleloquenza, specialmente se alcuno di
essi, scorato dalla povertà, inclinasse al peggior partito, e lasciasse guastare una natura non
ignobile. Ei si conforterà a questo racconto, e avrà innanzi agli occhi lesempio mio, pensando chi
era io quando feci il buon proponimento e mi diedi a studiare eloquenza, senza temere le strette
della povertà dallora, e chi sono ora che a voi ritorno, non dico altro, tanto famoso quanto ogni altro
scultore.
II.
A CHI GLI DICEVA: «TU SEI UN PROMETEO NEL DIRE.»
Dunque tu dici chio sono un Prometeo? Se intendi, o caro, che son di creta anche le opere mie,
tengo per buono il paragone, e dico: sì sono, nè rifiuto il nome di pentolaio, benchè la mia creta sia
molto vile, come quella che è raccolta in su le vie e poco meno che fango. Ma se per lodarmi di
gran finezza darte tu mi appicchi il nome di quel sapientissimo de Titani, bada che alcuno non dica
che sotto la lode sta lironia e un frizzo attico. Oh che finezza darte è la mia? che gran sapere e gran
vedere è negli scritti miei? È assai per me che non ti paiono di loto, e proprio degni del Caucaso.
Eppure quanto più giustamente potreste essere paragonati a Prometeo voi altri grandi avvocati che
splendete nelle battaglie dei giudizi. Quelle opere vostre sono veramente vive, ed animate, e calde
di fuoco ardente: lì cè del Prometeo; se non che non le fate di creta voi, ma parecchi di voi le fate
doro. Noi altri che recitiamo queste dicerie al pubblico, noi formiamo certe povere figure; e larte
nostra, come dicevo testè, non maneggia che la creta, come i bambolai: non vè quel movimento,
quellespressione danima; non vè altro che un po di diletto, e scherzi. Onde mi fai pensare che tu mi
dái questo nome di Prometeo, come il comico lo diede a Cleone, quando gli disse, come ricordi:
È Cleone un Prometeo dopo il fatto.(31)
Anche gli Ateniesi per celia chiamavano Prometei tutti i pentolai, i fornaciai, ed ogni maniera di
vasai, perchè trattano la creta ed il fuoco in cui cuociono i vasi: se mi chiami Prometeo in questo
senso, hai dato giusto nel segno, ed usi bene lacre frizzo degli Attici: chè anche le opere nostre sono
pentole fragili, e se vi scagli un sassolino, vanno tutte in cocci.
Ma qui alcuno per chetarmi dirà: Non ti ha paragonato a Prometeo per questo, ma per lodare le
opere tue come nuove e non imitate da alcuno antico; come Prometeo fece quando non verano
ancora gli uomini; egli li ideò e formò, e diede loro e vita e moto e grazia daspetto, e ne fu al tutto il
primo fabbro; se non che un cotal poco laiutò Minerva, che soffiò nella creta già formata, e le infuse
lanima. E così si dirà che quel nome mi fu dato per farmi onore. Forse questa intenzione ci fu: ma a
me non basta che io paia di far opere nuove, e delle quali non si possa dire che cè esempio negli
antichi: sio non le facessi belle, io me ne vergognerei, e le calpesterei, e distruggerei; chè per me la
novità è niente, e non mimpedirebbe distruggerle, se fossero brutte. Se non pensassi così, mi
crederei meritare lo strazio di sedici avoltoi, perchè non intenderei che è molto più brutto il brutto
che è nuovo.
Tolomeo figliuolo di Lago condusse in Egitto due novità, un camello della Battriana tutto nero, ed
un uomo di due colori sì spiccati e distinti, che duna metà era perfettamente nero, e dunaltra
oltremodo bianco; e ragunati gli Egiziani in teatro, mostrò loro molte maraviglie, e infine questo
camello e questuomo mezzo bianco e mezzo nero, stimando che questo spettacolo li dovesse
dilettare. Ma la gente, a vedere il camello, sbigottì, e poco mancò che non fuggissero, quantunque
fosse tutto covertato doro, con gualdrappa di porpora, e con freno tempestato di gemme, arnese che
era stato di uno dei Darii, o di Cambise, o di Ciro stesso: a veder poi quelluomo, molti risero, ed
alcuni lo ebbero a schifo come un mostro. Onde Tolomeo accortosi che non piaceva, e che gli
Egiziani non ammirano la novità, ma pregiano più la bellezza e la formosità, li fece ritirare, e non
tenne più luomo nel conto di prima. Il camello per manco di cura morissi; e quelluomo di due colori
fu donato al flautista Tespide, che aveva molto dilettato il re sonando ad una cena.
Or io temo che lopera mia non sia come il camello fra gli Egiziani, e che la gente ammiri ancora le
belle coverte ed il freno. Perocchè lessere ella composta di due cose bellissime, che sono il dialogo
e la commedia, non fa che ella sia bella, se lunione non è armonica e di leggiadra proporzione.
Lunione di due cose belle può riuscire una stranezza, come è il notissimo Ippocentauro,(32) che
certo non puoi dire essere una bestia piacevole, così sozzo e rissoso come è, se bisogna credere ai
pittori, che ce lo rappresentano fra crapule ed uccisioni. Ma che? e di due cose ottime non se ne può
fare una bella, come dal vino e dal mele una dolcissima bevanda? Si può: ma credo che non sia
questo il caso mio, e temo che la bellezza delluno e dellaltra non sia guasta dallunione. Da prima
non erano molto amici e famigliari tra loro il dialogo e la commedia: quello ritirato in casa, e nei
passeggi solitari ragionava con pochi; questa datasi a Bacco, stava sul teatro, e scherzava, faceva
ridere, motteggiava, e talvolta camminava in cadenza a suon di flauto, e spesso saltabeccando su gli
anapesti, dava la baia agli amici del dialogo, salutandoli coi nomi di malinconici e di strolaghi, e
non sera proposta altro scopo che trafiggere costoro, e rovesciar loro in capo tutta la furia di Bacco,
rappresentandoli ora che andavan per laria e conversavano con le nuvole, ora che misuravano il
salto duna pulce, e fantasticavano di cotali altre corbellerie come di cose sublimi. Il dialogo poi
ragionava di cose gravissime, filosofando della natura e della virtù; sicchè, a dirla coi musici, eran
lontani fra loro due ottave, luno stava al tono più acuto, laltra al più basso. E pure noi ardimmo di
congiungere ed acconciare due cose che non facilmente pativano di stare insieme.
Ho paura ancora chio non paia daver fatto qualcosa di simile al tuo Prometeo, ad aver mescolato
maschio e femmina, e che di questo fatto io sia reo. Ma meglio questo che, come lui, ingannare gli
ascoltatori, mettendo innanzi a loro losso nascosto sotto il grasso, il riso del comico sotto la gravità
del filosofo. Di furto poi (chè anche di furto fu appuntato quel Dio) bah, no: questo puoi dirlo, che
nel mio non cè roba altrui. E da chi avrei rubato? Io non so che ci sia stato altri che abbia composto
di tali irchicervi e bizzarrie. E se cè, che potrei fare? È forza seguitar la via presa: mutare consiglio
è cosa da Epimeteo,(33) non da Prometeo.
______
III.
NIGRINO,
o
DE COSTUMI DUN FILOSOFO.
LETTERA A NIGRINO.
Luciano a Nigrino salute.
Il proverbio dice: Non portar nottole in Atene: infatti saria ridicolo chi ne portasse dove ce ne ha
tante. Ed io, se per desiderio di sfoggiar dottrina ed eloquenza scrivessi un libro e lo mandassi a
Nigrino, farei ridere, e davvero gli porterei nottole a vendere. Ma perchè io non voglio altro che
mostrarti in quanto pregio ti ho, e come serbo riposti in cuore i tuoi ragionamenti, spero che non mi
si potrà dire quella sentenza di Tucidide, che lignoranza fa luomo ardito, la riflessione cauto. Perchè
egli è chiaro che di questo mio ardire non è cagione la sola ignoranza, ma anche lamore che io ho ai
tuoi ragionamenti. Sta sano.
Luciano ed un Amico.
LAmico. Con che aria, con che contegno grave sei ritornato! Non ci degni duno sguardo, non ci fai
motto, non ti accomuni ai soliti discorsi, ma sei mutato subito ed entrato nel superbo. Dimmi un po,
donde ti viene tanta boria, e perchè questo?
Luciano. Perchè? Ho avuta una gran fortuna, o amico mio.
LAmico. Come dici?
Luciano. Eccomi allimpensata divenuto felice, beato, e, come si dice su la scena, strafortunatissimo.
LAmico. Oh! così presto?
Luciano. Sì.
LAmico. Ma che gran cosa è cotesta che ti gonfia tanto? Per rallegrarcene vogliamo saperla, e non
così solamente in aria, ma particolarmente: informaci di tutto.
Luciano. Non ti pare cosa mirabile, per Giove! chio di servo son divenuto libero, di povero
veracemente ricco, di stolto e di sciocco son divenuto assennato?
LAmico. Cosa grandissima; ma non ancora intendo bene che vuoi dirmi.
Luciano. Io andai a dirittura a Roma col proponimento di vedere qualche medico docchi, perchè il
male a questocchio più mi cresceva.
LAmico. Sapevo cotesto, e desideravo che tu venissi a mano di qualche medico valente.
Luciano. Adunque volendo io da molto tempo ragionar con Nigrino, il filosofo platonico, mi levai
presto una mattina per giungere a casa sua; e picchiata la porta, e detto al servo chi ero, entro, e lo
trovo con un libro in mano, ed accerchiato da molte immagini di antichi sapienti. Nel mezzo della
stanza era una tavola scritta di figure geometriche, ed una sfera fatta di canne, che, a quanto mi
parve, rappresentava il mondo. Con grande affetto ei mi abbracciò, e dimandommi che fossi venuto
a fare. Io gli dissi il tutto; e poi volli anchio sapere da lui che facesse, e se pensava di ritornare in
Grecia. Comegli cominciò a parlare di queste cose, e ad aprirmi il suo pensiero, mi riempì di tanta
dolcezza di parole, che mi pareva, o amico mio, di udir le Sirene, se mai ve ne furono, o i
rosignuoli, o lantico loto(34) di Omero: sì divine cose diceva! Perocchè il discorso lo condusse a
lodare la filosofia, e la libertà che da essa deriva, ed a spregiare quei che il volgo crede beni, la
ricchezza, la gloria, la potenza, gli onori, loro, la porpora, ed altre cose tanto ammirate da molti, ed
una volta anche da me. Io accogliendo il suo discorso nellanima mia attenta e desiosa, non ti so
spiegare ciò che sentivo: era un rimescolamento di pensieri e di affetti: ora mi dispiaceva di udir
disprezzare cose a me carissime, le ricchezze, le grandezze, la gloria, e quasi piangeva su gli
strapazzi che egli ne faceva: ed ora quelle stesse cose mi parevano vili e spregevoli, e mi rallegravo
come se, vissuto per linnanzi in un aere tenebroso, venissi a riguardare il sereno ed una gran luce.
Onde (e questa è più nuova), mi dimenticai dellocchio e del male, ed in breve acquistai acutissima
la vista dellanima, che fino allora era stata cieca, ed io non me nero accorto. E così finalmente son
divenuto quale tu testè mi chiamavi: sì, son superbo e fiero per quel ragionamento, e più non
mabbasso a piccoli e vili pensieri. Perciocchè mi pare che in me la filosofia abbia fatto ciò che fa il
vino aglIndiani quando lo bevono la prima volta: chè quelle calde nature, bevendo così poderosa
bevanda, danno subito in delirio, e a doppio degli altri uomini impazziscono. Così io men vo tutto
invasato ed ebbro di quei discorsi.
LAmico. Non è ebbrezza cotesta, ma sobrietà e saggezza. Tu mi hai messa una gran voglia di
ascoltare da te quei discorsi. Oh, non dirmi di no: chi vuole udirli tè amico, ed ama gli stessi studi.
Luciano. Non dubitare, o amico: tu sproni chi saffretta, come dice Omero: se tu non mi avessi
prevenuto, io ti avrei pregato di udirmeli contare. Io voglio che tu mi sia testimone innanzi alla
gente che non senza ragione io ne son matto: ed anche ho un gran diletto a ricordarmene spesso e
meditarvi sopra, come facevo testè: chè quando non ho con chi parlarne, tra me stesso li rumino due
e tre volte il dì. E, come gli amanti, lontani dalla persona amata, ricordano certe azioni, e certi
discorsi tenuti insieme, e di questi pascendosi ingannano la loro passione; e talvolta, come se fosse
presente lamor loro, credono di parlargli, si piacciono di riudirne le risposte che già ne udirono, ed
hanno lanima così piena di queste memorie che non si addolorano daltro male presente; così anchio
lontano dalla filosofia, raccogliendo e rivolgendo tra me stesso le parole che udii, ho un grande
conforto. In somma io, come traportato per un pelago in buia notte, rivolgo locchio a questa face; e
credo che a tutte le mie azioni sia presente quel grande uomo, e mi pare sempre di udirlo ripetermi
quei discorsi: e talvolta, specialmente quando più vi attacco lanima, mi apparisce la sua persona, e
leco della sua voce mi rimane nellorecchie, chè davvero, come dice il comico, ei lascia un
pungiglione in quei che lo ascoltano.
LAmico. Lascia un po coteste ricercate, o amico mio; ripiglia il filo del discorso, e contami ciò che
ti disse: se no, con tanti aggiramenti mi opprimi.
Luciano. Ben dici, e così va fatto. Ma vedesti mai, o amico, quei goffi istrioni che guastano le
tragedie o le commedie, dico quelli che sono fischiati ed infine scacciati dal teatro, benchè
rappresentino drammi molte volte applauditi e premiati?
LAmico. Ne ho veduti tanti! ma che vuoi dire?
Luciano. Temo che non ti parrò anchio un ridicolo istrione, esponendoti disordinatamente le cose, e
talvolta guastando, pel mio poco conoscere, il suo sentimento; e che così a poco a poco tu non
giungerai a biasimare anche il dramma. Per me non mi dolgo: ma mi dorrebbe assai se il dramma
cadesse o scomparisse per cagion mia. Insomma ricòrdati, mentre io parlo, che il poeta non ha colpa
dei falli miei, che sta lontano dalla scena, che non si briga di ciò che accade in teatro. Io voglio darti
una pruova del mio valore, della memoria che ho, facendo la parte di un nunzio in una tragedia.
Onde se dirò qualche sciocchezza, e tu di subito che la non era così, che certamente il poeta disse
altro: per me poi, se anche mi fischierai non me ne offenderò.
LAmico. Bravo, per Mercurio! hai tirato un proemio secondo tutte le regole della rettorica. Avresti
dovuto aggiungere che il vostro ragionamento fu breve; che tu lo riferisci così alla buona senza
esservi apparecchiato; che saria ben diverso a udir lui stesso parlare; e che tu dirai poche cose,
quante hai potuto ritenerne a memoria. Non eri per dire anche questo? Ma con me non è mestieri di
tanto: fa conto di avermelo già detto, ed io sono già pronto ad applaudirti a gran voci. Ma se
indugerai più, mi verrai in uggia, e farò una solenne fischiata.
Luciano. Cotesto sì volevo dirtelo, e unaltra cosa ancora: che io non ti riferirò tutto con quellordine
e in quel modo che egli diceva; chè ciò mi sarebbe impossibile. Nè gli attribuirò parole mie, per non
parer simile a quegli altri istrioni, che spesso si mettono la maschera di Agamennone, di Creonte, o
di Ercole, vesti sfoggiate doro, hanno una guardatura terribile, aprono tanto di bocca, e cacciano
una vociolina di femmina più sottile di quella di Ecuba o di Polissena. Perchè dunque non sia
ripreso anchio che mi metto una maschera più grande del capo, e disonoro la veste che prendo, a
faccia scoperta voglio ragionare con te; e così, se cado, non istorpio leroe che rappresento.
LAmico. Oh, costui oggi non la finirà con tante filastrocche di scena e di tragedia.
Luciano. Ora finisco, e torno a bomba. Ei cominciò il discorso da una lode alla Grecia,
specialmente agli Ateniesi, perchè, educati nella filosofia e nella parsimonia, guardano di mal
occhio quel cittadino o forestiere che si sforza dintrodurre il lusso tra loro: anzi se vi capita
qualcuno cosiffatto, a poco a poco te lo correggono, lo ammaestrano, lo riducono a vivere alla
semplice. E ricordava uno di questi ricconi, che venuto in Atene con grande sfarzo, lungo codazzo
di servi, tante vesti ed oro, si pensava di fare gran colpo in tutti gli Ateniesi, ed esser riguardato
come felicissimo. Ma il pover uomo fece pietà; e presero a medicarlo di quella boria, ma senza
asprezza, senza vietargli apertamente di vivere come voleva, in una libera città. Quando nei ginnasii
e nei bagni egli era molesto pei tanti servi che urtavano ed impacciavano la gente, taluno sottovoce,
fingendo di non voler essere inteso, come se non lavesse con lui, gittava un motto: Teme che non
luccidano mentre si lava. Oh, da tanto tempo sta in pace il bagno: che bisogna un esercito? Quegli
udiva il motto, e si correggeva. Le vesti sfoggiate, e la porpora gliele fecero smettere, dando un po
di baia cittadinesca a quei fiori che vi aveva dipinti di tanti colori: Oh! ecco già primavera! Donde
vien questo pavone? Certo è la veste della mamma. E con cotali altre piacevolezze lo
motteggiavano per le moltissime anella che portava, per la coltura della zazzera, per la rilassatezza
del vivere: per modo che tosto egli si fu moderato, e se ne partì molto migliore che non era venuto,
stato così corretto dal popolo. Per dimostrarmi poi come non si vergognano di confessare che ei son
poveri, ricordava di una parola che egli udì dire da tutti gli spettatori nei giuochi delle Panatenee.
Preso un cittadino e menato allagonoteta, perchè assisteva allo spettacolo avendo indosso un
mantello colorato, tutti gli spettatori nebbero pietà e pregavano per lui: e quando il banditore
pubblicò che colui aveva trasgredito alle leggi essendo in quella veste allo spettacolo, gridarono ad
una voce tutti, come se si fossero indettati, doverglisi perdonare, se era vestito così, perchè non
aveva altro. Queste cose egli lodava, e la libertà, la sicurezza, il silenzio, e la pace che sempre si
gode tra essi: e mi dimostrava che questa maniera di vita è conforme alla filosofia, serba i costumi
puri, e per un uomo di studi che sa sprezzare ricchezza e vuol vivere onestamente secondo natura, è
molto accomodata. Chi poi ama la ricchezza, e si lascia abbagliare dalloro, e misura la felicità dalla
porpora e dalla potenza, senza aver mai gustato libertà, nè conosciuto franchezza di parlare, nè
veduto verità, e fu allevato tra adulazione e servitù; chi va perduto dietro la voluttà, e non cerca,
non adora altro che squisiti desinari, e bere, e lascivie, ed è pieno di furfanterie, di lacciuoli, di
bugie; chi si piace di udire continui suoni e canti lascivi, a costoro ben conviene la vita che si mena
in Roma. Quivi tutte le vie e tutte le piazze son piene di cose ad essi carissime; per tutti i sensi entra
la voluttà, e per gli occhi, e per le orecchie, e per il naso; e con tutti i solletichi della gola e della
lascivia: è un fiume continuo che si dilarga per ogni dove, e nella sua torbida corrente mena
ladulterio, lavarizia, lo spergiuro, e simili lordure; inonda tutta lanima, ne porta via il pudore, la
virtù, la giustizia, e nel luogo che in essa rimane vuoto ed arido, crescono molte e fiere passioni.
Cosiffatta egli mi dipinse la città e di tanti beni maestra, e soggiunse: Quandio la prima volta tornai
dalla Grecia, avvicinandomi a questa città, sostai, e dimandai a me stesso, perchè ci ritornavo,
dicendo quelle parole dOmero:
O sfortunato, perchè lasci il caro
Lume del sole,
la Grecia, con quella cara felicità e libertà, e vieni qui a vedere tanto tumulto, e calunnie, e superbe
salutazioni, e banchetti, e adulatori, e sicari, ed aspettazioni di eredità, ed amicizie infinte? Che hai
risoluto di fare, non potendo nè fuggire, nè adattarti a questi costumi? Così ripensando, e, come
Ettore aiutato da Giove, ritraendomi fuori il tiro dei dardi,
Dalla strage, dal sangue, e dalla mischia,
deliberai di rimanermene in casa pel resto de miei giorni; e sceltami questa vita, che a molti pare
timida e molle, io mi sto a ragionare con la filosofia, con Platone, con la verità. E messomi qui,
come in un teatro dinnumerevoli persone, io dallalto riguardo le cose che avvengono, delle quali
alcune mi danno spasso e riso, ed alcune ancora mi provano qual uomo è veramente forte. Se dei
vizi si può dir qualche lode, non credere che si possa meglio esercitar la virtù, e provar meglio la
saldezza dellanima, che in questa città , e nella vita che qui si mena. Non è piccola cosa contrastare a
tante passioni, a tante voluttà che per la vista e per ludito ti attirano da ogni parte, e ti combattono: e
si deve, come Ulisse, passar oltre, non con le mani legate, che saria viltà, nè con le orecchie turate
con cera, ma sciolto, udendo tutto, e con animo veramente superiore. Ben si può ammirare la
filosofia paragonandola a tanta stoltezza, e spregiare i beni della fortuna guardando, quasi in una
scena o in un dramma di moltissime persone, chi di servo diventa padrone, chi di ricco povero, chi
di povero satrapo o re, chi entra in grazia, chi cade in disgrazia, chi va in esiglio. E il più strano è,
che quantunque fortuna dimostri col fatto che ella si prende giuoco delle cose umane, e dica chiaro
che nessuna di queste è stabile, pure a queste riguardano sempre tutti, anelano alla ricchezza ed al
potere, e si pascono di speranze che non si avverano mai. Ti ho detto che di alcune cose posso
ridere e spassarmi: ora ti dirò di quali. Come non ridere di quei ricchi che pompeggiandosi
sciorinano la porpora, allungano le dita cariche di anella, e mostrano la loro grande vanità? E che
stranezza è quella di salutar le persone con la voce altrui, credendo di far cortesia a degnarle solo
duno sguardo? E i più superbi si fanno anche adorare, non da lungi, come è lusanza de Persiani, ma
uno deve avvicinarsi, inchinarsi, rappicciolirsi nellanimo e nella persona, e baciar loro il petto o la
mano destra; e tutti guardano e glinvidiano questo onore: e quel figuro del ricco stassene a ricevere
per molto tempo quelle carezze bugiarde. Una sola cortesia ci usa, di non farsi da noi baciare la
bocca. Ma molto più ridicoli dei grandi sono coloro che li accerchiano e li corteggiano; e che,
levandosi a mezzanotte, vanno correndo per tutta la città, senza curarsi che i servi li scacciano, e li
chiamano cani e adulatori. Premio di questo disonesto correre è quella disonesta scorpacciata che
loro cagiona mille malanni: e dopo daver diluviato, dopo dessersi imbriacati, dopo di aver dette
tante scostumatezze, se ne vanno scontenti o corrucciati, e dicendo che il banchetto è stata una
miseria, una spilorceria, un vero insulto per loro. Intanto li vedi andar vomitando pe chiassuoli, e
rissarsi innanzi ai bordelli: molti vanno a dormire a giorno fatto, e danno faccende ai medici che
corrono per la città; ed alcuni (che è più strano) non hanno neppure lagio di stare ammalati. Io per
me, molto più degli adulati, tengo per birbe gli adulatori; perchè essi li fanno così superbi. Quando
essi ne ammirano lo sfarzo, ne vantano la ricchezza, dallalba si affollano innanzi alle loro porte, e
avvicinandosi parlano loro come a padroni, che debbono quelli pensare? Ma se di comune accordo,
anche per poco, si astenessero da questa volontaria servitù, non credi tu che anderebbono i ricchi
alle porte dei poveri, e li pregherebbero di venire a vedere la loro felicità, a godere della bellezza
delle mense, della magnificenza dei palagi? Essi non amano tanto la ricchezza, quanto esser tenuti
beati per la ricchezza. E così è: una casa tutta sfoggiata doro e di avorio non piace a chi labita, se
non vè chi lammira. Così basserieno le creste, quando alla ricchezza si contrapponesse il disprezzo:
ora sono adorati; che maraviglia è che insolentiscono? E che facciano questo gli sciocchi che
confessano apertamente la loro ignoranza, passi pure; ma che quelli che si spacciano per filosofi,
discendano anche a più ridicole bassezze, questo è brutto assai. Oh! come sento rimescolarmi
lanima quando vedo alcuno di costoro, massime de vecchi, misto al gregge degli adulatori, far
codazzo a qualche grande che lo ha invitato a cena, e andare strettamente ragionando con lui,
facendosi distinguere pel mantello, e mostrare a dito. E quel che più mi spiace, non mutano vesti,
avendo tutto mutato, e rappresentando unaltra parte nel dramma. E nei conviti quali brutture non
fanno? sempiono scostumatamente, simbriacano sfacciatamente, si levan di tavola gli ultimi,
pretendono di portarsi via il meglio, e spesso per darsi unaria di leggiadria giungono sino a cantare.
Queste cose egli stimava degne di riso. Specialmente poi ricordava di quelli che per prezzo
insegnano filosofia, ed espongono in vendita la virtù come fosse roba da mercato; onde chiamava
botteghe e taverne le loro scuole, perchè credeva che chi insegna a spregiare ricchezza, deve prima
egli esser lontanissimo da ogni guadagno. E in verità egli ha fatto sempre così; non pure insegnando
gratuitamente, ma dando del suo ai bisognosi, e spregiando ogni soverchio per sè. E non che
desiderare laltrui, egli lascia perire anche il suo e non vi bada: possiede un podere non lungi dalla
città, e per tanti anni non vè andato mai, anzi non dice neppure che nè padrone, forse perchè egli
stima che di cotali cose noi per natura non siamo padroni, ma per legge e per successione ne
riceviamo luso in tempo indeterminato, siamo padroni di breve durata; e, passata lora nostra, se le
piglia un altro con la stessa condizione. E poi egli è un bellesempio, a chi vuole imitarlo, di
frugalità nel cibo, di moderazione negli esercizi, di dignità della persona, di semplicità nel vestito, e
sopra tutto di compostezza di mente e di dolcezza di costumi. Esortava quelli che ragionavano seco
a non differire a fare il bene, come molti che dicono: dal tale dì comincerò a non dire più bugie,
dalla tale festa ad essere onesto uomo; perchè, diceva, non si deve ritardare quellimpeto che ci porta
al bene. Apertamente poi biasimava quei filosofi che, per esercitare giovani nella virtù, li adusano a
fatiche e tormenti: chi li consiglia a legarsi, chi a flagellarsi, e i più graziosi li consigliano a
sfregiarsi con un ferro la faccia. Egli credeva nellanimo doversi piuttosto mettere questa durezza ed
insensibilità; e che il saggio che prende ad educare gli uomini, deve aver riguardo ed allanima, ed al
corpo, ed alletà, ed alla prima educazione, per fuggire il biasimo di consigliare cose impossibili.
Molti giovani, diceva, sono morti per tali consigli sconsigliati. Io stesso ne vidi uno che avendo
assaggiato le amare pruove che gli fecero fare, come si avvenne a udire la verità, volse tanto di
spalle ai suoi maestri, e venne da lui, che facilmente lo rimesse.
Ma lasciando costoro, venne a parlare di altre persone, discorse della gran folla di Roma, dellurtarsi
nella calca, dei teatri, del circo, delle statue rizzate ai cocchieri, dei nomi dei cavalli, e del parlare
che se ne fa in tutti i chiassuoli. Chè veramente la mania de cavalli quivi è grande, e sè appiccata
anche a coloro che non paiono dappochi. Dipoi entrando in un altro atto del dramma, toccò delle
usanze che tengono nei mortorii e nei testamenti, dicendo che i Romani una sola volta in vita loro
dicono la verità, nei testamenti, per non usarne giammai. E così dicendo ei mi fece ridere di costoro
che si fanno seppellire con tutta la loro stoltezza, e lasciano la pruova scritta della loro sciocca
vanità, disponendo alcuni di esser bruciati con tutte le loro vesti, o altra cosa avuta più cara in vita;
altri che i loro servi ne guardino le tombe; ed altri che le colonne de loro sepolcri sieno coronate di
fiori; e così rimangono sciocchi anche dopo la morte. Vuoi vedere, diceva, che hanno fatto questi
nella vita loro? vedi che vogliono si faccia dopo che son morti. Questi sono quei tali che comperano
le vivande del più caro prezzo, che nei banchetti bevono vino con croco e con aromi, che a mezzo
verno si covrono di rose, non pregiandole se non quando son rare e fuori stagione, e tenendole vili
quando vengono al tempo loro: questi sono quelli che bevono unguenti. E massimamente li
riprendeva perchè non sanno moderare le loro passioni, ma con esse trapassano ogni legge,
confondono ogni termine, fiaccano lanima prostrandola a tutte le sozzure, e come si dice nelle
tragedie e nelle commedie, entrano per ogni parte, tranne per la porta: e questi tali piaceri ei li
chiamava sgrammaticature. Ed a questo proposito ei diceva un altro motto come quello di Momo, il
quale biasimò il dio che fece il toro e non gli pose gli occhi sopra le corna; ed egli riprendeva
coloro che si coronano di fiori, perchè non sanno il luogo dove debbono mettere le corone. Se,
diceva, si piacciono dellodore delle viole e delle rose, sotto il naso si dovriano mettere le corone,
per fiutarle e trarne la maggior soavità. Si rideva ancora di quegli altri che stanno su tutti i punti
della gola, e attendono a variar salse e delicature: e diceva che durano tante fatiche per un piacere sì
corto e sì breve. Ve, si affaticano tanto per quattro dita, quanto è lunga la gola delluomo: chè prima
di mangiare non godono dei cibi di caro prezzo, dopo di averli mangiati non ne rimangono meglio
sazi: dunque per un piacere che non dura più che il trapassar per le canne, spendono tante ricchezze.
E soggiungeva che hanno ragione a far questo, perchè sono ignoranti, e non conoscono i piaceri più
veri che dà la filosofia a chi la studia.
Discorse anche molto di ciò che si fa nei bagni pubblici, di coloro che ci vanno con una truppa di
gente, con grande boria, appoggiandosi ai servi e quasi facendosi portare. Ma più di tutto gli pareva
bruttissima quellusanza che è nella città e nei bagni: che alcuni servi debbono andare innanzi al
padrone, e gridando avvertirlo di guardarsi ai piedi nel passare un rialto, o una fossatella, e fargli
ricordare (cosa veramente nuova) che ei cammina. E maravigliavasi che costoro non han bisogno
anche della bocca e delle mani altrui per mangiare, e delle orecchie altrui per udire, giacchè con gli
occhi sani han bisogno di chi guardi innanzi a loro, e si fan dire quelle parole che si dicono ai
poveri ciechi. E questa usanza la tengono anche i magistrati camminando per le piazze in pieno
giorno.
Poi che ragionommi di queste e di molte altre cose, tacquesi. Io era stato a udirlo maravigliato, e
temendo che ei non finisse. Ma poi che cessò, io mi sentii quello che sentirono i Feaci. Per molto
tempo lo riguardai come ammaliato, poi mi sentii turbare ed aggirare il capo, sudavo tutto, volevo
parlare, ma avevo un nodo in gola, e non potevo, la voce mi mancava, la lingua balbettava, infine
non potei altro che scoppiare a piangere. La sua parola non mi fece colpo leggiero e così a caso, ma
mi aperse una piaga profonda e mortale; fu colpo di mano perita, e, per così dire, mi trapassò sino
allanima. E se anche ad un par mio è lecito di discorrere un po da filosofo, io penso che questo
accada così. Io credo che lanima di un uomo ben naturato sia simile ad un molle bersaglio. Molti
arcieri con le faretre piene di vari e diversi discorsi vi tirano, ma non tutti con eguale destrezza:
alcuni tendendo troppo la corda, scoccano con forza, colgono nel segno sì, ma il dardo non vi
rimane, trapassa, e lascia lanima dilacerata e vuota: altri per contrario fiacchi e deboli non mandano
il dardo sino al bersaglio, spesso fanno caderlo a mezza via, e se vi giunge, appena tocca, e non fa
piaga, perchè non è scagliato da mano gagliarda. Ma il bravo arciero, come egli era, prima riguarda
bene il bersaglio, se cede, se resiste al dardo (perchè ce ne ha dei saldi ad ogni colpo); e poi che ha
osservato questo, unge la freccia, non di tossico, come gli Sciti, nè dei succhi mortiferi dei Cureti,
ma di un leggiero mordente, di un dolce farmaco, e così destramente tira. La saetta scagliata dà nel
segno, vi rimane, vi lascia gran parte del farmaco, che spandesi soavemente per tutta lanima. Chi si
sentirà colpito, ne avrà gran diletto, e ascoltando piangerà di gioia, come intervenne a me, che mi
sentii correr per lanima la dolcezza del farmaco, e mi sovvenne di dirgli quel verso
Scaglia così, se agli uomini sei luce.
Come quelli che odono sonare il flauto frigio, non tutti vanno in furore, ma solamente coloro che
sono agitati da Rea a quel suono ricordano la loro passione, così quelli che ascoltano i filosofi, non
tutti se ne tornano ispirati e feriti, ma soltanto coloro che sono per natura inclinati alla filosofia.
LAmico. Oh! che sagge, e mirabili, e divine cose tu mhai dette, o amico mio. Senza accorgertene
mhai riempito veramente dambrosia e di loto. Mentre tu parlavi, lanima mia era commossa; ed ora
che hai finito sento certo dolore, e, come tu dici, mi sento ferito. Non maravigliartene: tu sai che chi
è morso da un cane arrabbiato, se morde un altro, gli dà la stessa rabbia e lo stesso furore; chè il
veleno trapassa col morso, e il male cresce, e rapidamente si comunica il furore.
Luciano. Dunque anche tu mi confessi che lami?
LAmico. Sì: e ti prego di trovare un rimedio per tutti e due.
Luciano. Bisogna fare il rimedio di Telefo.(35)
LAmico. E qual è?
Luciano. Andare da chi ci ha feriti, e pregarlo che ci risani.
______
IV.
Qui segue il Giudizio delle Vocali, che non è tradotto. Vedine le ragioni, ed un sunto nel Discorso
proemiale.
______
V.
TIMONE,
o
IL MISANTROPO.
Timone, Giove, Mercurio, Pluto, la Povertà, Gnatonide, Filiade, Demea, Trasiclete.
Timone. O Giove, signore dellamistà, e protettor dello straniero, e re dei banchetti, e ospitale, e
fulminatore, o vendicator dei giuri, e adunator di nembi, e tonante, e come altro ti chiamano gli
intronati poeti, massime quando intoppano a compiere il verso, e tu allora, con uno de tanti nomi
che prendi, puntelli il verso cadente e ne riempi la vuota armonia; dove stanno gli accesi lampi, i
fragorosi tuoni, e lardente, la rovente, la terribile folgore? Già tutti sanno che le son vecchie ciance,
fumo poetico, vuoto rumor di parole. Quel tuo fulmine sì celebre, che colpiva sì lontano, e che
avevi sempre tra le mani, non so come, sè spento; è freddo, e non serba neppure una favilluzza di
sdegno contro i ribaldi. Uno di questi spergiuratori temerebbe più il moccolo duna lucerna
mattutina, che la fiamma di cotesta folgore domatrice delluniverso: e pare che tu brandisca un
tizzone che nè per fuoco nè per fumo fa paura, e se colpisce, copre soltanto di fuliggine. Però anche
Salmoneo(36) ardì di contraffarti il tuono, e non ebbe torto in tutto a farsi tenere uomo di focoso
ardimento contro un Giove così freddo alla vendetta. E come no? Tu dormi come se avessi presa la
mandragora: intanto si spergiura, e tu non odi: si fanno scelleraggini, e tu non le vedi: povero
moccicone, sei cieco, sordo, e imbarbogito. Una volta, quanderi giovane, la non andava così, chè
subito ti montava la mosca, e facevi maraviglie contro i furfanti ed i violenti; non davi loro mai
posa; la folgore non stava mai inoperosa, legida sempre agitata, il tuono muggiva, spessissimi lampi
precedevano le saette, la terra sossopra come un crivello, la neve a gran fiocchi, la gragnuola come
sassi, e per dirtela più grossa, rovesci di pioggia veementissima, ogni gocciola un fiume. Onde in un
attimo venne quel sì gran nabisso ai tempi di Deucalione, che tutto andò sommerso nelle acque: e
ne scampò sola una barchetta approdata sul monte Licoride, nella quale fu serbata la semenza di
questa razza umana, che doveva rigerminare più scellerata della prima. Or ti sè fatto poltrone, e ben
ti sta che nessuno toffre più sacrifizi nè corone, se non rare volte in Olimpia qualcuno a caso, e lo
fa, non per adempiere un dovere, ma per pagare un tributo ad una vecchia usanza; e fra breve ti
spodesteranno in tutto, e ti manderan con Saturno. Lascio stare quante volte thanno spogliato il
tempio; ma a farti metter le mani addosso in Olimpia! Tu che fai tanto rumore lassù, te ne stavi zitto
come un vigliacco, non destare i cani, non chiamare i vicini, che sarien corsi al rumore, e avrien
presi i ladri che fuggivano coi fardelli in collo. O valoroso sterminator dei giganti, o domator di
Titani, come te ne stesti lì a lasciarti tosare dai malandrini, e avevi in mano una folgore di dieci
cubiti? Sciagurato che sei, gittaci unocchiata, su questa terra: quando ci avrai un po di cura? quando
punirai tante scelleratezze? Quanti Fetonti e Deucalioni ci vorrebbero per questa soverchiante piena
di umane malvagità!
Ma lasciamo i generali, e veniamo al fatto mio. Quanti Ateniesi io ho sollevati, e di poverissimi li
ho fatti ricchi! Ho soccorso tutti glindigenti, ho profuso tutta la mia ricchezza per beneficare gli
amici miei: ed ora che io per questo son divenuto povero, ora non mi conoscono più, non mi
guardano più in viso questingrati, che poco fa tutti raumiliati mi riverivano, mi baciavan le mani,
pendevano da un cenno mio. Se per via ne incontro alcuni, ei trapassano, come si fa presso unalta
colonna di antico sepolcro rovesciata dal tempo, che neppur si legge il nome che vè scritto. Se
madocchian da lungi, voltano strada, per non riguardare uno spettacolo spiacente e di tristo augurio;
e laltrieri io era loro salvatore e benefattore. Or poichè la mia sventura mi ha condotto a questo
estremo, io con questo pelliccione indosso lavoro la terra per guadagnarmi quattro oboli, e in questa
solitudine vo filosofando io e la zappa. Almeno parmi di averci un bene, che non vedo più tanti che
godono e non lo meritano: ed io non mi addoloro. Orsù, o figliuolo di Saturno e di Rea, risvégliati
una volta da cotesto sonno profondo, chè hai dormito più di Epimenide,(37) desta la folgore,
raccendila sullOeta, brucia mezzo mondo, mostra una furia degna di Giove giovane e gagliardo; se
no, è vero quello che i Cretesi contano di te e della tua tomba.(38)
Giove. Chi è colui, o Mercurio, che ha gridato così dallAttica, presso lImetto, laggiù in quella valle,
ed è tutto lordo, e squallido, e impellicciato? Sta curvo, e parmi che zappi. Sfringuella bene ed
ardito. Certo è un filosofo, che nessuno ardiria parlar sì empiamente di noi.
Mercurio. Che dici, o padre? Non riconosci Timone di Echecratide, quel di Colitta? Questi è colui
che tante volte ci ha offerte le migliori vittime, le ecatombe intere, quel gran riccone, in casa di cui
con tanta magnificenza celebravamo le tue feste.
Giove. Come è mutato! quel bello, quel ricco, con tanti amici attorno? E come è ridotto così povero
e sparuto? Per campare cava la terra, e mena una zappa tanto pesante!
Mercurio. Dice egli che la sua bontà, la sua filantropia, laver compassione a tutti gli sfortunati lha
perduto: ma il vero è che è stata la sua sciocchezza, la sua leggerezza, e il suo poco conoscere nella
scelta degli amici, e non capire che ei faceva bene a corvi ed a lupi. Questi avoltoi gli mangiavano il
fegato, ed il misero li teneva amici sviscerati che glielo facevan per bene, e quei scialavano. E poi
che lebbero spolpato bene, e rosegli le ossa, e smidollatele tutte, gli voltaron le spalle, lasciandolo
secco e tronco dalle radici, non lo conobbero più, non lo guardarono: pensa tu se lo soccorsero e gli
rendettero un po del bene che ne avevano avuto. E però presa la zappa ed il pelliccione, come vedi,
e lasciata la città per vergogna, sè messo a garzone con un lavoratore. La sventura lo ha invelenito,
ed egli esce de gangheri quando gli arricchiti da lui gli passano innanzi tutti, tronfi, e senza
ricordarsi che ei si chiama Timone.
Giove. Dovevo pensare un po a lui: ha ragione di dolersi. Saria unazione da quei sozzi adulatori
dimenticarmi dun uomo che ha bruciato su i nostri altari tante cosce di tori e di capre grassissime: e
la soavità di quellodore lho ancora nel naso. Ma le faccende grandi, e il gran fracasso che fanno gli
spergiuratori, i ribaldi, i ladroni, ed ancora il timore dei sacrileghi, che son tanti, e non giungo a
contenerli, e non mi lasciano chiudere gli occhi un tantino, da molto tempo mhanno impedito di
gittare uno sguardo su lAttica, massimamente da che vi corre landazzo del filosofare e contendere
di parole. Bisticci, strilli, rombazzo: come posso udir preghiere? o debbo turarmi le orecchie, e
starmene, o farmi assordare da mille voci che gridano tutte insieme virtù, immortalità, e non so che
altre corbellerie. Per cagion loro questo uomo che non è tristo mè uscito di mente. Ma, o Mercurio,
va da Pluto, e tosto menalo a lui. Pluto conduca anche il Tesoro seco, ed amendue rimangano in
casa di Timone, e non ne escano, ancorchè egli per la sua dabbenaggine torni a scacciarli con la
mazza. A quegli adulatori, a queglingrati, penserò io: me la pagheranno poichè mavrò fatto
racconciare la folgore: che vi si ruppero e rintuzzarono due raggi i più grandi, quando ultimamente
la scagliai di gran forza contro quel furfante del filosofo Anassagora, il quale persuadeva ai suoi
discepoli che noi siam niente noi altri iddii. Lo sfallii, chè Pericle gli parò il colpo con la mano, e la
folgore battendo nel tempio de Dioscuri, lo bruciò, e per poco la non ruppesi su la pietra. Ma per
ora basti loro il castigo di veder Timone straricco più di prima.
Mercurio. Ve che vuol dire il gridar forte, e lesser importuno ed ardito! Ei giova non sol nel piatire,
ma nel pregare. Ecco qui Timone di poverissimo tornerà gran ricco, perchè ha pregato e strillato
con male parole, ed ha fatto voltar Giove. Se zappava zitto e curvo, zapperebbe ancora, e nessuno
gli avria badato.
Pluto. Io non voglio tornar da colui, o Giove.
Giove. E perchè no, o buon Pluto, quando io te lo comando?
Pluto. Perchè mha offeso troppo, mha gettato, mha sparnicciato, e quantunque amico di suo padre,
mha scacciato di casa quasi con la forca; gli pareva di aver fuoco nelle mani. Ritornarci ora per
esser dato a parassiti, ad adulatori, a cortigiane? Mandami a quelli, o Giove, che sentono il valore
del dono, e mi custodiscono come cosa preziosa e desiderabile. Questi scialacquatori restino sempre
poveri, chè lo vogliono; e con un cencio indosso e con la zappa in mano, stentino la vita a quattro
oboli il giorno, giacchè spensieratamente han dato fondo a un dono di dieci talenti.
Giove. Timone non te lo farà più. La zappa lo ha bene ammaestrato, sei non si sente affatto dirotti i
fianchi, che tu sei migliore della povertà. Ma tu mi pari sempre malcontento: ora accusi Timone che
ti apriva le porte, ti lasciava andar libero, non ti chiudeva, non taveva caro: e un tempo dicevi il
contrario, tarrovellavi contro i ricchi che ti chiudono con chiavi, chiavistelli e suggelli, senza
lasciarti fare un po di capolino e vedere la luce. Te ne sei lamentato con me: mhai detto che ti
sentivi affogare nel buio; che però eri così giallo e sparuto, e che pel continuo contare teran rimaste
rattratte le dita, e minacciavi che vedendo il bello, te lavresti svignata. Ti pareva insopportabile a
stare in una camera di bronzo come Danae, con due fiere streghe per balie, lUsura e lAritmetica.
Dicevi che costoro erano sciocchi ad amarti tanto e non goderti, a non ardire neppur sicuramente di
usare di te, di cui sono signori; ma vegliare per custodirti, spalancar tanto docchi su i chiavistelli ed
i suggelli; godere di non goderti essi, nè farti godere dagli altri un poco, come la cagna della stalla
che non mangia orzo, e non fa mangiarne al cavallo che ha fame. Ed ancora tu ridevi di coloro che
risegano, risparmiano, accozzano, si privano del necessario, e non sanno che un birbone di servo, o
leconomo, o laio, traforatosi nel celliere, sguazza allegramente, mandando un canchero al misero
padrone, che al fioco lume duna lucernetta con picciol becco e sottilissimo stoppino, studia a
calcolare le usure. Come dunque può stare, una volta biasimar questo, ed ora dar colpa del contrario
a Timone?
Pluto. Eppure se consideri bene, ti parrà che ho ragione per luno e per gli altri. Quello spendere e
spandere che Timone faceva allimpazzata, e non per bontà, lè certo una stoltezza: e quel tenermi
così serrato alloscuro per farmi divenir più grasso e tondo e paffuto, senza ardire di toccarmi, senza
farmi veder la luce per paura che qualcuno non mi faccia locchio damore, è unaltra pazzia di quegli
avaracci; i quali mi tengono a muffire in sì brutto carcere senza un delitto, e non pensano che tra
poco morranno, e mi lasceranno a qualche fortunato. Io non lodo nè questi, nè quegli altri che han
le mani forate, ma quegli uomini misurati che stanno egualmente lontani dalla sozza avarizia e dalla
matta prodigalità. Ma per Giove! dimmi un po, Giove mio, se uno sposasse legittimamente una
fresca e bella fanciulla, e poi non se ne curasse, non ne fosse geloso, le desse briglia sciolta a
correre dì e notte dovella vuole, a darsi alle voglie di ognuno, e menasse egli stesso gli adulteri in
casa, aprisse le porte, e chiamasse tutti quelli che passano, ti parrebbe amarla egli? Tu dirai che no,
o Giove, che tu damore ne sai alcuna cosa. E se per contrario uno si menasse a casa legittimamente
una donna libera, ed atta a far bei figliuoli, e neppure fiutasse il fiore di sì bella vergine, nè la
facesse pur guardare in viso da altri, ma la chiudesse, e la lasciasse languire sterile e vergine,
dicendo che egli lo fa per amore, e mostrandosi pallido, magro, con gli occhi incavati, morto di
passione, non ti parrebbe pazzo costui, che potendo generar figliuoli, e goder delle nozze, lasciasse
appassire la fiorita gioventù duna cara fanciulla, destinandola a perpetua verginità come
sacerdotessa di Cerere? Però io mi sdegno e contro quelli che mi scacciano a calci, mi buttano, mi
strapazzano, e contro quelli che mi mettono i ceppi come fossi un servo fuggitivo marchiato.
Giove. Perchè sdegnartene? Tutti hanno la pena dovuta: gli uni come Tantalo, affamati, assetati,
secchi, stanno con tanto di bocca spalancata su loro: gli altri, come Fineo, mentre hanno il cibo
nelle canne, so lo veggono strappare dalle arpie. Ma or va da Timone, che lo troverai più sennato.
Pluto. E cesserà egli una volta dessere come un cofano pertugiato, nel quale prima che io versi tutto
di su, tosto se nè scorso di giù; e di temere che io non gli rovesci una gran piena, e non laffoghi? Mi
pare di portar acqua nella botte delle Danaidi che non si può riempiere chè il fondo è aperto, e
quanto ci versi, scorre da ogni parte per le tante aperture e fessure che vi sono.
Giove. Ebbene, se egli non ristopperà le fessure e le aperture, e diffonderà quello che tu gli verserai,
ritroverà nel fondo della botte il pelliccione e la zappa. Andate ora, ed arricchitelo. E tu ricòrdati, o
Mercurio, al ritorno, di condurmi i ciclopi dallEtna, per racconciarmi la folgore. Non anderà guari e
avrò bisogno che sia ben aguzza ed arrotata.
Mercurio. Andiamo, o Pluto. Ma che è questo? tu zoppichi? Non sapevo che eri e cieco e zoppo.
Pluto. Non sempre zoppo, o Mercurio: quando Giove mi manda da alcuno, io non so come, non
posso sgranchiare, e baleno su tuttadue le gambe, e quando giungo al termine, chi maspettava è già
fatto vecchio; quando poi debbo tornarmene, diresti che ho lali, e volo più veloce degli uccelli.(39)
Come cade la corda,(40) io son gridato vincitore: percorro lo stadio, e talvolta non possono
seguirmi con locchio gli spettatori.
Mercurio. Non dici il vero. Io ti potrei nominare tanti che ieri non avevano un obolo da comprarsi
un laccio, ed oggi a un tratto ricchi, sfarzosi; in cocchio tirato da una muta di cavalli bianchi,
quando prima non possedevano neppure un asino, vanno vestiti di porpora, le mani tutte anella
doro, essi stessi quasi credono di sognare.
Pluto. Questo è altro, o Mercurio: nè ci vo coi piedi miei allora, nè mi manda Giove da quelli, ma
Plutone, datore di ricchezze anchegli, e gran donatore, come suona il suo nome. Quando adunque i
debbo mutar casa e signore, mi ravvolgono nelle carte di un testamento, mi vi suggellano
accuratamente, e mi trasportano come un fardello. Intanto il morto giace disteso in un cantuccio
scuro della casa, coperto sino alle ginocchia da un cencio, mentre intorno gli saltano i gatti: e quelli
che sperano di avermi, vanno in piazza ad aspettare il testamento a bocca aperta, come i rondinini
pigolando cercano limbeccata alla madre che va intorno svolazzando. Poichè rompesi il suggello,
tagliasi la tela, ed apresi il testamento, vien gridato il mio novello padrone, che è un parente
lontano, o un adulatore, o un servo bagascione, prediletto bardassa che porta ancora le gote rase, il
quale dei tanti e sì diversi piaceri di cui ha saziato il suo signore, quantunque non sia più garzone,
riceve ora questo gran premio. Quel furfante, chiunque egli sia, abbrancatomi nel testamento, me ne
porta via, e non è più Pirria, o Dromone, o Tibio, ma chiamasi Megacle, o Megabise, o Protarco.
Gli altri rimangono trasecolati a guatarsi, stanno in un lutto vero, ripensando come un sì gran tonno
è sfuggito dal mezzo della rete, dopo di avere inghiottita più di unesca. Come mi afferra quello
stupido bestione, che al vedere i ceppi ancor guizza di paura, che se ode scoppiettare una frusta
drizza gli orecchi, e che adora un mulino come un tempio, prende i più fecciosi modi con tutti,
insulta gli uomini liberi, e fa frustare i suoi antichi conservi per provare se egli è veramente
divenuto padrone; finchè capitato fra lunghie duna sgualdrinella, o spendendo in cavalli, o aggirato
da adulatori che gli fan credere dessere più bel di Nireo, più nobile di Cecrope, e più ricco di
quindici Cresi insieme, lo sciagurato disperde in un momento quella ricchezza a stenti raccolta con
tanti spergiuri e furti e scelleratezze.
Mercurio. Così accade quasi sempre. Ma quando tu cammini co piedi tuoi, come fai, se sei orbo, a
trovare la via? come distingui coloro a cui Giove ti manda, e che crede degni di arricchire?
Pluto. Pensi tu chio mi dia questa pena? Altro!
Mercurio. È vero, per Giove. Certo non avresti lasciato Aristide, per andare da Ipponico, da Callia,
e, da molti altri Ateniesi, che non son degni di avere neppure un obolo. Ma che fai quandhai una
commissione?
Pluto. Vo su e giù vagando alla ventura, finchio mabbatta in qualcuno. Quegli che prima mincontra,
mi mena a casa sua, e poi ringrazia te, o Mercurio, della inaspettata fortuna.
Mercurio. Dunque Giove è ingannato credendo che tu secondo il suo volere arricchisci quelli che
egli stima degni di arricchire?
Pluto. Ei lo vuole, o caro mio. Ei sa che son orbo, e mi manda a cercar cosa sì difficile a trovarsi, e
che da molto tempo non è più su la terra, e non la troveria Linceo; così è piccola ed impercettibile. I
buoni sono pochissimi; i malvagi formicolano nelle città, ed hanno in mano il tutto: è più facile che
questi mincontrino, e mi piglino nella loro rete.
Mercurio. E quando li abbandoni, come fuggi sì ratto, se non sai la via?
Pluto. Ho la vista acuta e le gambe leggiere sol quando debbo fuggire.
Mercurio. Deh, dimmi unaltra cosa. Tu se cieco (non sì può negare), tu giallo, tu sciancato, come
hai tanti amadori? Come tutti guardano te, e chi ti ottiene si stima beato, chi no, mena smanie e vuol
morire? Conosco molti tanto innamorati di te, che
Da un alto scoglio nel profondo mare
Per disperati si vanno e gettare,(41)
credendosi sprezzati da te, e non guardati neppure una volta. Ma io credo che tu, se tu sai chi se tu,
dirai con me che cotesti tuoi spasimati sono più matti de Coribanti.
Pluto. E pensi tu che questi veggano come io son fatto, zoppo, cieco, e come altro io sono?
Mercurio. Come no? forse son ciechi anchessi?
Pluto. Non ciechi: ma lignoranza e lerrore, che oggi annebbiano il mondo, fanno un velo agli occhi
loro. Ed ancora io per non parere sì brutto, mi metto una maschera piacevole, ornata doro e di
gemme, e vestito sfoggiatamente, mi presento a loro: ed essi credendo vedere una bellezza vera,
sinnamoran di me sino a morire, se non mi hanno. Ma se uno mi mostrasse loro tutto nudo, come
vergognerebbero di non essersi accorti, anzi di avere amata sì disamabile e laida bruttezza!
Mercurio. Ma come va che costoro già divenuti ricchi, si mettono la stessa maschera, e rimangono
ancor nellerrore? E se uno volesse loro strapparla, essi lasceriano più la testa che la maschera?
Allora non dovrebbero ignorare che la è una bellezza posticcia, perchè han veduto tutto quel che sta
sotto.
Pluto. E per questo, o Mercurio, io ho grandi aiuti con me.
Mercurio. E quali?
Pluto. Quanduno, scontratomi la prima volta, mapre la porta, e mi mette dentro, con me gli entrano
in casa nascostamente lorgoglio, la stoltezza, la superbia, la mollezza, linsolenza, lerrore, una
schiera di vizi che gli conquide lanima. Però egli ammira quel che dovrebbe sprezzare, desidera
quel che dovrebbe fuggire, e sovra tutto pregia me, che son padre e capitano di quella schiera che
gli è accampata in casa, e sosterrebbe ogni cosa anzi che lasciarmi sfuggire.
Mercurio. E veramente tu sei sfuggevole e liscio, e difficile a trattare, e sdrucciolevole, chè non dái
salda presa, e come anguilla o biscia sguiccioli tra le dita non so come: la povertà per contrario è
tutta viscosa, appiccaticcia, con mille uncini su tutta la persona, che tosto afferrano chi le si
avvicina, e non è facile disciogliersene. Ma le chiacchiere ci han fatto dimenticare il meglio.
Pluto. Che cosa?
Mercurio. Il Tesoro: non abbiam condotto il più necessario.
Pluto. Non darti pena per questo. Io lo lascio sempre sotterra quando salgo da voi, e guardo se ei sta
ben chiuso, e lammonisco di non aprir la porta a nessuno, se non ode la voce mia.
Mercurio. Ma già entriamo nellAttica: seguimi, e tienti alla mia clamide finchè giungiamo al
confine.
Pluto. Fai bene, o Mercurio, se mi conduci per mano: se mi lasciassi, i mi sperderei, e tosto
incontrerei Iperbolo o Cleone. Ma che è questo rumore, come di ferro che percuota su pietra?
Mercurio. È Timone, che zappa un sassoso campicello su questa costa vicina. Oh! gli sta da presso
la Povertà, e la Fatica ancora: cè la Pazienza, la Saggezza, la Fortezza, e tutta la schiera capitanata
dalla Fame. Queste son lance migliori della tue.
Pluto. Perchè non torniamo indietro, o Mercurio? Noi non faremo alcun pro con un uomo
accerchiato da tanto esercito.
Mercurio. Giove vuole altramente, non ci mostriamo codardi.
La Povertà. Dove meni cotestui, o uccisore di Argo?
Mercurio. A cotesto Timone siam mandati da Giove.
La Povertà. Ora Pluto a Timone, ora che io, avendolo raccolto frollato dalla mollezza, e confidatolo
alla saggezza ed alla fatica, lho renduto uomo forte e dabbene? E tanto spregevole vi pare la
Povertà, e tanto meritevole dinsulti, che il solo bene chio avevo, questuomo da me formato alla
virtù, voi me lo strappate? Pluto lo riprenderà, lo ridarà in mano allOrgoglio ed al Lusso, e quando
lavran renduto infemminito, vigliacco, insensato, lo getteranno a me unaltra volta, già fatto uno
straccio.
Mercurio. Così vuole Giove, o Povertà.
La Povertà. Me ne vado: e voi, o Fatica, o Saggezza, o tutte voi, seguitemi. Questi tosto conoscerà
chi son io che egli perde; compagna alla fatica, maestra di virtù, glinvigorivo il corpo, gli schiarivo
ed aguzzavo la mente; lo feci viver da uomo, ripensare a sè stesso, conoscere le superfluità e
spregiarle.
Mercurio. Vanno via: facciamoci verso di lui.
Timone. Chi siete voi, o malvagi? che volete? perchè venite a sturbare uno che fatica? Andatevene
con la malora, siete tutti furfanti: o io con queste piote e questi sassi farò polvere di voi.
Mercurio. No, o Timone: pon giù i sassi; non percuoteresti uomini: io son Mercurio, e questo è
Pluto: ci ha mandati Giove, che ha udita la tua preghiera: apri dunque il seno alla buona fortuna, e
lascia la fatica.
Timone. Alla malora anche voi, che dite esser Dei: tutti ed uomini e Dei io abborrisco. E cotesto
cieco, chiunque egli sia, voglio proprio accopparlo con la zappa.
Pluto. Torniamo a Giove, o Mercurio. Costui è un pazzo arrabbiato: aspettiamo che ci faccia
qualche cattivo giuoco?
Mercurio. Non fare sciocchezze, o Timone; smetti cotesta asprezza salvatica, apri le braccia alla
buona fortuna, ritorna ricco, sii il primo degli Ateniesi, e fa crepare queglingrati non dando loro una
briciola della tua ricchezza.
Timone. Non ho bisogno di voi: mavete già fradicio: la zappa è la ricchezza mia. Per tuttaltro sarò
felicissimo, se non vedo nessuno.
Mercurio. Ma così da bestia?
Cotesti detti ingiuriosi e crudi
Posso a Giove ridir?
Che tu odii gli uomini, che than fatto tanto male, passi pure: ma gli Dei, no, che han tanta cura di te.
Timone. Ringrazio assai te e Giove di cotesta cura: ma non voglio riprendere Pluto.
Mercurio. E perchè?
Timone. Perchè la cagione di tutti i mali miei è stato egli: egli mha dato in mano agli adulatori, mha
condotto ai loro tranelli, mha corrotto coi piaceri, mha fatto invidiare, mha fatto odiare, ed infine il
perfido mha piantato e mha tradito. La buona Povertà, per contrario, esercitandomi a dure fatiche, e
parlandomi francamente il vero, mha dato il necessario per mezzo del lavoro, e mha insegnato
spregiare tutte quelle superfluità, e riporre in me stesso le speranze della vita mia: e mi ha mostrato
che questa è ricchezza, ed è mia, e non potrebbero tormela giammai nè lusinghieri adulatori, nè
tristi calunniatori, nè popolo furioso, nè giudice corrotto, nè insidioso tiranno. Rinvigorito dalla
fatica io coltivo a grande amore questo campo, non vedo i mali della città, e la zappa mi dà quel che
mi basta. Onde ritórnati, o Mercurio; e rimena Pluto a Giove. Io non vorrei altro che far piangere
tutti gli uomini.
Mercurio. Oh, caro mio, non tutti hanno voglia di piangere. Ma non fare il fanciullo ritroso, raccogli
Pluto. Non si deve spregiare i doni di Giove.
Pluto. Vuoi udire, o Timone, due parole in mia difesa; o ti dispiace chio parli?
Timone. Di, ma due, veh, e senza i proemii di quei mariuoli di oratori. Se sarai breve, tudirò per
amor di Mercurio.
Pluto. Eppure io avrei molto a dire, perchè tu mi dai molte accuse. Vedi sio tho fatto il male che tu
dici. Io ti ho dati piaceri dogni sorte, onori, primi seggi, corone; e per me tu eri riguardato,
celebrato, riverito. Se ti cuoce la malvagità de tuoi adulatori, non ci ho colpa io: anzi io sono stato
offeso da te, che mi spargevi tra quei ribaldi che lodavano te, e furbescamente tendevan trappole a
me. Infine mi chiami traditore che tho piantato; al contrario potrei io accusar te che hai adoperato
ogni modo per iscacciarmi di casa tua, e mi hai gittato a capo in giù dalla finestra. E però invece
della fine clamide, la Povertà, che tu pregi tanto, tha messo cotesto pelliccione in dosso. Ma
Mercurio qui è testimone come io pregavo Giove a non mandarmi da te, che modii o non mi puoi
patire.
Mercurio. Vedi, o Pluto, come sè già rabbonito? Non aver più paura, e rimanti con lui. Séguita a
zappare, o Timone. E tu, o Pluto, fagli venir sotto la zappa il Tesoro, che verrà alla tua voce.
Timone. È forza ubbidire, o Mercurio, e tornar ricco. Che si può fare quando gli Dei ci sforzano?
Ma vedi su quali rasoi tu riponi un misero che è vissuto finora felicissimo, ed ora senza alcuna
colpa debbo riprendere tanto oro e tanti affanni.
Mercurio. Sopportalo, o Timone, per amor mio, benchè ti sia grave: almeno per far crepare dinvidia
quegli adulatori. Io su per lEtna rivolerò al cielo.
Pluto. Se nè ito, pare: me ne accorgo al ventilar dellali. Tu rimani qui; io vo, e ti mando il Tesoro:
mena di forza. A te dico, o Tesoro doro, ubbidisci a Timone, e fa che ti prenda. Cava, o Timone,
affonda. Io vi lascio insieme.
Timone. Su, o zappa, fa forza, non ti stancare finchè non iscopri Tesoro.... O Giove miracoloso, o
Coribanti, o Mercurio datore di guadagni, donde tantoro? Fosse un sogno questo? Temo di
svegliarmi, e di trovar carboni. Ma no, è oro, monete ardenti, pesanti, e bellissime a vedere.
O oro, il più bello acquisto de mortali,
Tu vinci di splendore il fuoco ardente
In cheta notte!(42)
e in chiaro giorno. Vieni, o carissimo amor mio. Ora sì credo che Giove si mutò in oro. E qual
vergine non aprirebbe il grembo per raccogliere un sì bello amadore che le piovesse dal soffitto? O
Mida, o Creso, o voti del tempio di Delfo, voi siete niente verso Timone, e la ricchezza di Timone:
al quale neppure il gran re si può paragonare. O zappa, o carissimo pelliccione, i vi consacrerò a
questo Pane. Io comprerò tutto questo campo solitario, fabbricherò una torre per serbarvi il tesoro, e
labiterò io solo, e voglio che sia il mio sepolcro quandio sarò morto. Sì, così voglio, e facciamoci
una legge per questaltra vita che mi rimane: Unione con nessuno sconoscenza e disprezzo per tutti:
amico, ospite, compagno, laltare della compassione, son tutte ciance: intenerirsi al pianto, sovvenire
alla miseria, è un trasgredire la legge, un rovesciare i costumi: vivere solitario come i lupi: Timone
solo amico a Timone. Tutti gli altri uomini nemici ed insidiatori: conversare con alcuno, sia
contaminazione: e se ne vedo pure uno, quel giorno sia nefasto. Saranno per me come statue di
pietra o di bronzo: messi da loro non riceverne, a patti non venire giammai: questa solitudine divida
me da loro: compagni, cittadini, tribù, e patria stessa, nomi freddi ed inutili, pregiati solo dagli
sciocchi. Timone sia ricco solo per sè, disprezzi tutti, goda egli solo tra sè, e fugga ogni adulazione
e lode: faccia sacrifizio agli Dei, e banchetti egli solo, sia egli il suo vicino, il suo confinante, e
discacci tutti. Sia legge chei non porga la mano a nessuno, ancorchè debba morire e mettersi la
corona in capo. Piacemi che mi chiamino Misantropo, e che mi riconoscano come un acerbo, un
collerico, un duro, un disumano: se vedo uno nel fuoco, e che mi prega di spegnere lincendio, lo
spegnerò con pece ed olio: se uno, traportato da una fiumana gonfia, il verno, mi tende le mani e mi
prega di trarlo fuori, io lo attufferò con la testa giù affinchè non possa salire a galla. Così saremo
pari: chi te la fa, fagliela. Propose questa legge Timone Echecratide di Colitta; e lha decretata
nelladunanza Timone stesso. Questo sia, questa è la legge, e bisogna osservarla da uomo. Ma
quanto io vorrei far conoscere a tutti che fo questo, perchè son divenuto straricco!
Simpiccherebbero per dispetto! Ma che è questo! Poh, che fretta! Quanta gente corrono pieni di
polvere, affannati! come han già fiutato loro! E che farò ora? salire su questo poggio e scacciarli a
sassate? o violar la mia legge parlando loro solo una volta per più tormentarli col disprezzo? Questo
parmi il partito migliore: aspettiamoli a piè fermo. Chi viene innanzi a tutti? È Gnatonide il
parassito: gli chiesi ultimamente di fare per me una colletta, ed egli mi offerse un laccio: egli che in
casa mia ha vomitato le botti di vino. Ma ha fatto bene a venire il primo, piangerà prima degli altri.
Gnatonide. Non lo dicevo io che gli Dei non abbandonorebbon mai questo eccellente uomo di
Timone? Salute, o Timone, bellissimo, leggiadrissimo, piacevolone fra i trincatori.
Timone. Ed anche a te, o Gnatonide, avoltoio voracissimo, schiuma di ribaldissimi.
Gnatonide. E tu sempre col motto. Ma dovè il banchetto? Tho portato un canzoncino novello, dei
ditirambi che ho imparati freschi freschi.
Timone. Unelegia canterai ben patetica sotto questa zappa.
Gnatonide. Che è? tu mi batti, o Timone? Accorrete, testimoni. Ahi, ahi! Ti accuserò allAreopàgo,
che mhai ferito.
Timone. Se rimani un altro momento maccuserai che tho ucciso.
Gnatonide. No; ma sanami la ferita, ungendola con un po doro, che è mirabile ristagnativo del
sangue.
Timone. E non mi ti togli dinanzi?
Gnatonide. Vado via: ma tu ti pentirai desser ora sì bestiale, di sì buono che eri.
Timone. E quel zuccone? Oh, è Filiade, il più sfacciato degli adulatori. Questi si prese da me un
podere, e due talenti in dote alla figliuola, in premio delle più sperticate lodi che ei mi diede una
volta che io cantai, e tutti tacevansi, ed egli solo mi lodò, e giurò che io avevo voce più soave dei
cigni. Non ha guari io era malato, andai a chiedergli un soccorso, e il valentuomo mi scacciò a
pugni.
Filiade. Vergogna! ora riconoscete Timone? ora Gnatonide gli è amico e commensale? Gli sta bene
a quellingrato. Noi familiari, duna età, duna tribù; e pure io gli ho un riguardo, per non parere
dandare ad investirlo, io. Salute, o signore: guárdati da questi parassiti osceni, corbacci che aliano
solo intorno alle mense. Già ora non si può fidare in nessuno uomo: tutti ingrati e malvagi. Io ti
portava un talento per qualche tuo bisogno, ma per via ho saputo che sei divenuto oltre misura
ricchissimo. Onde son venuto a darti un consiglio, benchè tu se savio, e non hai bisogno de consigli
miei, anzi potresti darne a Nestore.
Timone. Accòstati, o consigliero sconsigliato: te ne do io uno con questa zappa.
Filiade. Buona gente, vedete, questingrato mha rotto il cranio, perchè gli davo un consiglio.
Timone. Ecco il terzo: è loratore Demea che viene con un decreto in mano, e si spaccia mio parente.
Questi ebbe da me sedici talenti in un giorno, che egli pagò alla città: era stato condannato a questa
ammenda, non poteva pagarla, fu imprigionato, io per pietà lo liberai. E testè essendo egli
incaricato di distribuire alla tribù Eretteide il danaro dello spettacolo,(43) io andai a chiedergli la
parte mia, ed egli disse che non mi conosceva per cittadino.
Demea. Salve, o Timone, ornamento della tua gente, sostegno degli Ateniesi, propugnacolo della
Grecia. Il popolo assembrato, e i due consigli già ti aspettano. Ma odi prima il decreto che io ho
scritto per te. «Considerando che Timone, di Echecrate, di Colitta, è non pure un ottimo uomo, ma
un sapiente, che non vè il pari nella Grecia; che egli fa continui e grandi benefizi alla città; che in
Olimpia in un sol dì vinse alla lotta, al pugilato, al corso, e con le quadrighe, e con le bighe di
puledre....»
Timone. Io non ho veduto mai i giuochi in Olimpia.
Demea. Che importa? Li vedrai di poi. Queste cose è meglio che ci sieno. «Considerando che egli
sillustrò lanno passato combattendo per la città fra gli Acarniesi,(44) e che tagliò a pezzi duemila
Peloponnesii...»
Timone. Come? Se io per non aver armi non sono scritto nei registri!
Demea. Tu lo dici per modestia, ma noi saremmo ingrati a dimenticarcene. «Considerando ancora
che egli proponendo consigliando buoni partiti, e capitanando eserciti, rende grande utilità al
comune: Per tutte queste considerazioni, il Consiglio, il popolo, gli Eliasti radunati per tribù,
ciascun borgo, e tutti insieme, decretano di rizzarsi una statua doro a Timone accanto a quella di
Minerva nella ròcca, col fulmine nella mano destra, e il capo ornato di sette raggi: di coronarlo di
sette corone doro; e per bando dargli questonore oggi nelle nuove tragedie nelle feste Dionisiache;
le quali per onorar lui si celebreranno oggi stesso. Fece questa proposta loratore Demea, suo stretto
parente, e discepolo:(45) che Timone è anche valentissimo oratore, e tutto quello che ei vuole.»
Questo è il decreto per te. Volevo condurti un mio figliuolo, cui ho dato anche il tuo nome di
Timone.
Timone. Figliuolo? ma io so che tu non hai tolto moglie.
Demea. La torrò, se piace agli Dei, al nuovo anno, navrò un figliuolo, che certo sarà maschio, e gli
porrò nome Timone.
Timone. Non so se la torrai, dopo che tavrai tolta questa botta.
Demea. Ohimè! che è cotesto? Tu aspiri alla tirannide, o Timone, tu percuoti uomini liberi, tu che
non sei schiettamente libero, nè cittadino. Ma la pagherai per tante altre colpe, e per aver bruciata la
cittadella.
Timone. La cittadella non è bruciata, o sfacciato calunniatore.
Demeo. Ma sei ricco; dunque hai sconficcata la tesoreria.
Timone. La non è sconficcata: anche questa accusa è stolta.
Demea. Sarà sconficcata dipoi, intanto tu già thai preso quel che vera dentro.
Timone. Ed eccotene unaltra.
Demea. Ahi, ahi le spalle!
Timone. O cessa di latrare, o rinterzo. Saria nuova cotesta, che io, il quale senzarmi ho tagliati a
pezzi due squadre di Lacedemoni, non potrei scuotere un poco i panni ad un omiciattolo. E che
vincitore di lotta e di pugilato sarei io? Ma chi è questaltro? non è il filosofo Trasiclete? proprio
desso. Lo riconosco alla barba sciorinata, alle sopracciglia aggrottate, a quel borbottare fra sè, a
quellocchio spaventato, a quelle chiome scomposte e sparte indietro, sì che parmi il vento Borea o il
Tritone di Zeusi. Questi che allandare è sì modesto e sì dimesso nel vestire, il mattino spaccia mille
pappolate su la virtù, biasima chi si lascia vincere ai piaceri, e loda a cielo la frugalità: ma la sera
quando dopo il bagno va a cena, ed un servo gli mesce una gran coppa del pretto, che a lui piace
assai, come se bevesse lacqua di Lete, sdimentica i bei discorsi del mattino, gettasi come nibbio su
le vivande, dà gomitate al vicino, simbratta la faccia di sanguinacci, insacca, divora come cane, e
curvato sul piattello, come se dovesse trovarvi dentro la virtù, lo netta col dito pulitissimamente, per
non lasciarvi briciolina di salsa. Per questa gola sfondata ogni porzione è piccola, dice sempre che è
poco ancorchè si afferri egli solo tutta la focaccia ed il porchetto; e quando è briaco fradicio, non si
contenta di cantare e di ballare, ma dice villanie ed insulti a tutti; con una tazza in mano non finisce
di parlare di temperanza e di modestia; finchè gli monta il vino, gli si rappallottolano le parole in
bocca ridevolmente, e fa lepilogo con un vomito: e quando i servi lo levan di peso per portarlo
altrove, ei va brancicando qualche sonatrice di flauto. Quando è digiuno, non cè un bugiardo, un
orgoglioso, un avaro che gli entri innanzi: è adulatore astutissimo, spergiuratore prontissimo, il più
sfrontato impostore, il più compiuto ribaldo, che sa tutte le arti e le trappole della marioleria. Or te
lo farò io strillare questo dabbene uomo. Oh, da quanto tempo non ti rivedo, o Trasiclete!
Trasiclete. Io non vengo da te, o Timone, come questi altri che ammirano la tua ricchezza, e ti si
accalcano intorno sperando da te argento, oro, e banchetti sontuosi, adulando sconvenevolmente un
uomo come te, semplice e liberale. Tu sai che con una focaccia io fo banchetto: che squisita vivanda
per me è il timo o il nasturzo, e fo lusso quando lintingo in un po di sale: che la bevanda mia è delle
nove cannelle;(46) questo mantello piacemi più di qualunque porpora. Per amor tuo ci son venuto,
per non farti corrompere dalle ricchezze, pessime e pericolosissime compagne, che sovente hanno
cagionato a molti infinite sventure. Se vuoi credere a me, gettale tutte in mare, chè non sono punto
necessarie a te uomo dabbene, e che puoi contemplare le vere ricchezze della filosofia. Ma non
gettarle nel profondo, entra nellacqua sino alla forcata, presso il lido, che ti vegga io solo. Se non ti
piace questo consiglio, puoi sbrigartene anche meglio, distribuendole ai bisognosi fino allultimo
obolo, a chi cinque dramme, a chi una mina, a chi mezzo talento: e se darai ad un filosofo, è giusto
dargli il doppio od il triplo. Per me, non ti chiedo niente per me, ma per rinfrescare certi miei amici
riarsi, basta che tu mi riempi questa bisaccia, che cape due medinni di Egina.(47) Un filosofo
devessere parco e moderato, e nei desiderii non uscir della bisaccia.
Timone. Bravo, o Trasiclete, e prima di riempirti la bisaccia, vo riempirti il capo di bernoccoli, e te
ne farò buona misura con la zappa.
Trasiclete. O popolo, o leggi, siamo battuti da uno scellerato in una città libera.
Timone. Di che ti lagni? di misura scarsa? to altre quattro per soprammercato. Ma chi sono costoro
che vengono? Oh, è Blepsia, è Lachete, è Grifone, una falange di mariuoli, che ora te li farò strillare
io. Ora salgo su questo ciglione, e lasciando star la zappa che ha lavorato assai, mano ai sassi da
farne piovere una gragnuola su questi furfanti.
Blepsia. Non iscagliare, o Timone: noi ce nandiamo.
Timone. Ma vi porterete almeno un po di sangue o unammaccatura.
VI.
LALCIONE,
o
DELLA METAMORFOSI.
Cherefonte e Socrate.
Cherefonte. Che voce è questa, o Socrate, che lontana ci viene dal mare, e da quello scoglio? Come
è dolce a udire! E qual è lanimale che ha questo canto? Gli abitatori delle acque son muti.
Socrate. È un uccel marino, o Cherefonte, detto Alcione, che ha questa voce di pianto e di lamento:
e intorno ad esso contasi unantica favola. Dicono che una volta egli ora donna, figliuola di Eolo
lElleno, donzelletta che si struggeva damore e si disfaceva in pianto perchè le morì lo sposo Ceice
di Trachinia, prole dellastro Lucifero, di bel padre bel figliuolo; e che dipoi essendole spuntate le ali
per volere divino, e mutata in uccello, andò scorrendo il mare in cerca del suo diletto, che ella per
tutta la terra non avea potuto trovare.
Cherefonte. E questo è lAlcione? Io non ne avevo mai udita la voce, che ora mè stata nuova. Oh, mi
lascia veramente un eco di pianto nellanima! E quanto è grande questo uccello, o Socrate?
Socrate. Non molto; ma molto onore ebbe dagli Dei per lamore che ella portò al marito: chè, per
farle fare il nido, il mondo reca alcuni giorni, detti alcionii, placidi e sereni in mezzo del verno: ed
oggi è uno di quei giorni. Non vedi come è sereno il cielo, ed il mare tranquillo e cheto, che pare
uno specchio?
Cherefonte. Ben dici: Ei pare che oggi sia un giorno alcionio, e ieri fu uno simile. Ma deh, per gli
Dei, o Socrate, come mai si può credere agli antichi, che una volta gli uccelli diventavano donne, e
le donne uccelli? Cotesta è una cosa che pare del tutto impossibile.
Socrate. O mio Cherefonte, delle cose possibili e delle impossibili noi siamo giudici di assai corta
veduta. Noi giudichiamo secondo la potenza umana, la quale è ignorante, infedele, cieca, però
molto cose facili ci paiono difficili, molte riuscibili ci paiono non riuscibili, sia per inesperienza, sia
per fanciullezza di mente: perchè fanciullo a me pare ogni uomo, per vecchio che ei sia, essendo
assai breve il tempo della vita verso leternità. E come, o caro mio, non conoscendo la potenza degli
Dei e dei Geni, potremmo noi dire quale cosa di queste è possibile, e quale impossibile? Vedesti, o
Cherefonte, che tempesta fu laltrieri? Fa terrore pure a ricordare quei lampi, quei tuoni, quella gran
furia di vento: pareva dovesse subissare il mondo. Indi a poco si messe un sereno mirabile, che dura
anche oggi. Ora quale cosa credi tu sia maggiore e più difficile, tramutare in tanta serenità quel
terribil turbine e quella gran procella, e ricondurre la tranquillità su tutta la terra, o trasformare
laspetto duna donna in un uccello? Anche i nostri fanciulli, che imparano a plasticare, quando
pigliano in mano cera o creta, formano e trasformano facilmente la stessa massa in varie figure
secondo i loro capricci. Ad un Dio che ha forze grandi e non punto comparabili alle nostre, tutte
queste cose sono facili ed agevoli. Ma orsù, sapresti dirmi di quanto credi che tutto il cielo sia
maggiore di te?
Cherefonte. E chi tra gli uomini, o Socrate, potria conoscere questo, e risponderti? Non è cosa
neppur da parlarne.
Socrate. Ebbene, guardiamo un po tra uomo ed uomo alcune grandi disorbitanze di potenza e
dimpotenza. Letà virile in paragone de bambini di cinque o dieci giorni, presenta una maravigliosa
differenza di potenza e dimpotenza in quasi tutte le azioni della vita, per tutto ciò che si fa con le
mani industriose, e ciò che si opera col corpo e con lanima. Quello tenere creaturine non potrebbero
giungere neppure a pensarlo. E la forza dun solo uomo fatto è smisuratamente grande a petto alla
loro: uno solo varrebbe più di migliaia e migliaia di essi: perchè in quelletà gli uomini sono per
natura bisognosi di tutto e debolissimi. Essendo dunque tanta differenza tra uomo e uomo,
immaginiamo un po quanto maggiore della nostra apparirebbe la potenza di tutto il cielo a chi
giungesse a mirarla. Però a molti parrà probabile che di quanto il mondo vince in grandezza Socrate
e Cherefonte, di tanto la sua potenza, la sua sapienza, la sua intelligenza è maggiore della nostra. A
te, a me, ed a molti altri come noi, molte cose sono difficili, che ad altri sono facili: infatti il sonare
per chi non lha imparato, il leggere e lo scrivere per chi non sa di lettera, è più impossibile, mentre
dura lignoranza, che il far degli uccelli donne, o delle donne uccelli. La natura depone nel favo un
animaletto senza piedi e senzali, poi gli scioglie i piedi, gli mette le ali, lo dipinge di vari e bei
colori, e ne fa lape, ingegnosa artefice del divino mèle: e dalle uova che sono mute ed inanimate
ella forma tante specie di animali e volatili, e terrestri, ed aquatici, adoperando, come si dice, le
sacre arti del grandetere. Essendo adunque grande la potenza deglimmortali, noi che siamo mortali
e pusilli, e non possiamo conoscere nè le cose grandi nè le piccole, e neppure quelle che accadono a
noi stessi, noi non potremmo dire niente di certo nè degli alcioni, nè de rosignoli. Ma questa bella
favola, come ce la raccontarono i padri nostri, così io la racconterò ai miei figliuoli, o uccello che
canti con melodiosa voce di pianto: e con le donne mie Santippe e Mirto io loderò la tua pietà, e
laffetto che avesti a tuo marito, e dirò ancora quale onore te ne diedero gli Dei. E tu farai anche il
simigliante, o Cherefonte?
Cherefonte. Conviene farlo, o Socrate: e quel che tu hai detto è bel consiglio di virtù per le mogli e
pe mariti.
Socrate. Salutiamo adunque lalcione: chè ormai è tempo di tornar dal Falero in città.
Cherefonte. Facciamo come ti piace.
VII.
PROMETEO,
o
IL CAUCASO.
Mercurio, Vulcano, Prometeo.
Mercurio. Ecco, o Vulcano, il Caucaso, dove dobbiamo inchiodare questo sventurato Titano.
Andiamo guardando se vè qualche rupe acconcia, qualche balza nuda di neve, per fermarvi salde le
catene, e sospenderlo alla vista di tutti.
Vulcano. Andiam guardando, o Mercurio: non conviene crocifiggerlo in luogo basso e vicino alla
terra, chè gli uomini da lui formati verrebbero ad aiutarlo: nè troppo in cima, chè non saria veduto
da quei di giù. Se ti pare, qui è una giusta altezza, su questo precipizio potrà esser crocifisso:
stenderà una mano a questa rupe, ed unaltra a questa dirimpetto.
Mercurio. Ben dici: queste rocce son brulle, inaccessibili da ogni parte, ed alquanto pendenti; e
nella rupe cè appena questo poco di sporto, dove poggiare le punte de piedi: per croce non
troveremmo di meglio. Non indugiamo, o Prometeo: monta, ed accónciati ad essere affisso al
monte.
Prometeo. Almeno voi, o Vulcano, o Mercurio, abbiate pietà di me sventurato immeritamente.
Mercurio. Vuoi che abbiamo pietà di te, o Prometeo, affinchè siamo crocifissi noi in vece tua, per
aver trasgredito ad un comando? Ti pare egli che sul Caucaso non ci sia luogo per inchiodarvi due
altri? Via, stendi la mano destra, e tu, o Vulcano, legala, fermala ad un chiodo, mena di forza il
martello. Dammi laltra: stia salda anche questa. Ora va bene. Tosto discenderà laquila a roderti il
fegato, e così avrai tutta la ricompensa delle tue ingegnose invenzioni.
Prometeo. O Saturno, o Giapeto, o Terra madre mia, mirate che soffro io infelice, che non ho fatto
alcun male.
Mercurio. Non hai fatto alcun male, o Prometeo? Primamente quando avevi luffizio di spartire le
carni, facesti parti ingiuste e linganno di serbare il meglio per te, e di mettere innanzi a Giove ossa
nascoste sotto bianco grasso. Mi ricorda che Esiodo ha detto così. Dipoi hai formati gli uomini,
maliziosissimi animali, specialmente le donne. Infine hai rubato il fuoco, possessione preziosissima
degli Dei, e lhai dato agli uomini. Hai fatti questi gran mali, e dici che sei incatenato senza veruna
colpa?
Prometeo. Pare, o Mercurio, che anche tu, come dice il poeta, incolpi un incolpabile: che mi accusi
di tali cose per le quali, se vi fosse una giustizia, io sarei giudicato degno dessere nutrito dal
pubblico nel Pritaneo. Se tu avessi tempo, io vorrei chiarirti come son false queste accuse, e
dimostrarti come Giove è ingiusto verso di me. E tu che sei sì bel parlatore e difensore di cause,
difenderai poi anche questa, sì, dirai che ha fatto un giudizio giusto, a mettermi in croce presso
queste porte Caspie, sul Caucaso, e farmi miserando spettacolo a tutti gli Sciti.
Mercurio. Troppo tardi, o Prometeo, vuoi appellarne, e senza pro: ma di pure; tanto è, io debbo
rimaner qui finchè non discenda laquila a conciarti il fegato; mi piace dimpiegar questo tempo a
udir ragionare un sofista sì scaltrito come se tu.
Prometeo. Parla tu primo, o Mercurio: fammi unaccusa gagliarda, e non tralasciar mezzo per
difendere tuo padre. E te, o Vulcano, io prendo a mio giudice.
Vulcano. Giudice? altro! io sarò tuo accusatore. Tu mi rubasti il fuoco, e mi lasciasti fredda la
fucina.
Prometeo. Bene: dividerete laccusa: tu parlerai di questo rubamento: e Mercurio maccuserà davere
formati gli uomini, e male spartite le carni. Tutti e due siete valenti, e vi sta bene la lingua in bocca.
Vulcano. Mercurio parlerà anche per me: cose di tribunali non ne so io, di fucina sì, te ne direi
quante ne vuoi: egli è oratore, e di queste cause ne ha avute per mano.
Prometeo. Non avrei mai creduto che Mercurio volesse parlar di furto, ed accusar me di ciò che è
arte sua ancora. Ma se anche di questo, o figliuolo di Maia, vuoi incaricarti, comincia laccusa.
Mercurio. Veramente, o Prometeo, ci vuole un lungo discorrere e un gran meditare su quello che tu
hai fatto! Non basta esporre in due parole le colpe tue? Quando ti fu commesso lo spartir delle
carni, serbasti il miglior boccone per te, ed ingannasti il tuo signore: formasti gli uomini, quando
non ce nera necessità: rubasti il fuoco a noi, e lo portasti a loro. Parmi, o caro mio, che non vuoi
capirla, che dopo tutto questo, Giove tha usato clemenza assai. Se tu negassi di aver fatte queste
cose, dovrei sciorinare una lunga diceria per convincerti reo, e chiarir tutto il vero, punto per punto:
ma tu dici di avere spartite le carni a questo modo, di aver fatta la invenzione degli uomini, e di aver
rubato il fuoco, io dunque ho finita laccusa: se dicessi più, sarebbero inezie.
Prometeo. E inezie sono tutte, come tosto vedremo. E giacchè dici che queste accuse bastano, io
tenterò, come posso, di purgarmi di queste colpe: e prima comincerò da quella delle carni. Giuro al
cielo, che a parlar di questo, ho vergogna io per Giove; il quale è danimo così gretto, è così ghiotto,
che per un ossicino trovato nella sua porzione, manda alla croce un dio antico come me, senza
ricordare che ho combattuto per lui, e senza pensare qual era infine la cagione di tanto sdegno. I
fanciulli fanno il broncio e si corrucciano quando non hanno la parte più grossa. Queste burle, o
Mercurio, questi dispettuzzi che si suol fare nei conviti, non bisogna tenerli a mente, anzi le offese
stesse stimarle scherzi, e lasciarne lo sdegno nel banchetto. Serbar lastio, nutrir lodio sino al dimani,
e non dimenticare loffesa, non è da iddio, nè da re. Se dai banchetti si bandiscono cotali piacenterie,
e le burle, ed i motti, e le occhiate, e le risate, non vi resta che lubbriachezza, la sazietà, il silenzio,
cose triste e noiose, e sconvenienti ad un banchetto. Io non potevo mai credere che Giove se ne
ricorderebbe il dimani, che se ne sdegnerebbe tanto, che si terrebbe gravemente offeso chio nello
spartire le carni feci uno scherzo per provare se egli sapesse scegliere la porzione migliore. Ma
poni, o Mercurio, un caso più grave, che invece di dare a Giove la porzione più piccola, non gliene
avessi data affatto, doveva egli per questo rimescolare cielo e terra, pensare a catene, a croci, al
Caucaso, mandare giù aquile a straziarmi il fegato? Queste furie dimostrano un animo gretto ed
ignobile, di poca conoscenza, e facile a sdegnarsi per nulla. E che avrebbe fatto egli se avesse
perduto un bue, quando per un ciccioletto di carne si corruccia tanto? Con quanta maggior
temperanza si conducono gli uomini in questi casi: eppure dovrebbero essere corrivi allo sdegno più
degli Dei! Nessuno di essi farebbe crocifiggere il cuoco, che lessando le carni, avesse intinto il dito
nel brodo, e leccatoselo, o spiccato un pezzo dellarrosto, lavesse ingoiato. Lè colpa che sassolve
cotesta: o pure uno stizzoso ti daria un cazzotto, una ceffata: ma nessuno mai tra gli uomini saria
messo in croce per sì lieve cagione. E questo è il mio delitto delle carni: io ho vergogna a
scolparmene, ma è maggior vergogna a Giove laccusarmene.
Vengo ora a parlare della formazione degli uomini. Questa accusa, o Mercurio, ha due parti; ed io
non so di che più mincolpate, o che gli uomini non dovevano esistere affatto, ed era meglio che
rimanevano terra inerte ed informe; o pure che dovevano esser fatti, ma di forma e daspetto diversi
da quel che sono. Io parlerò delluna cosa e dellaltra: e primamente mi sforzerò dimostrare, che gli
Dei non hanno avuto alcun male che gli uomini son venuti alla vita; e dipoi che ne hanno avuto
bene, ed utile molto maggiore che se la terra fosse rimasta deserta e senza uomini. In principio (e mi
fo dal principio per chiarire più facilmente chio non feci novità nocevole e pericolosa quando
formai gli uomini) vera la sola specie divina e abitatrice del cielo; la terra era una cosa selvaggia ed
informe, tutta ispida di foreste dove non penetrava il giorno, e non aveva altari nè templi degli Dei:
chè doverano allora le statue, i simulacri, e gli altri monumenti che or si veggono per ogni parte, e
con tanto onore venerati? Io, che sempre ripenso al bene comune, e considero come accrescere la
gloria degli Dei, dando novelle bellezze al mondo, io pensai che saria cosa buona prendere un po di
creta, e comporne alcuni animali dando loro una forma simile alla nostra; perchè io credetti che
saria mancata sempre qualche cosa alla divinità, se non ci fosse stato un essere a cui ella
paragonarsi, e così sentire quantella è più beata: però volli che questessere fosse mortale, ma pieno
dindustria, di senno, e di sentimento del bene. Laonde, come dicono i poeti, mescendo terra ed
acqua, e fattone una poltiglia, feci gli uomini: e chiamai Minerva per aiutarmi nellopera. Questo è il
mio gran peccato verso gli Dei. Vedi che danno ho recato loro a fare di creta alcuni animali, e a
dare il moto a cosa fino allora immota. Pare che gli Dei abbiano perduto un pezzo della loro deità
dacchè sulla terra ci sono animali che pur muoiono: e Giove se ne sdegna, come se gli Dei fossero
rabbassati per la nascita degli uomini: e forse teme che questi non si rivoltino contro di lui, e non
portino guerra agli Dei, come i giganti. Ma voi non aveste mai offesa da me, o Mercurio, nè dalle
mie fatture, e tu il sai: o dimmene anche una sola piccolissima, ed io mi tacerò, ed avrò meritato
questa pena che voi mi fate patire. Il bene che io ho fatto agli Dei per mezzo di essi, vedilo, getta
uno sguardo su la terra non più squallida ed orrida, ma abbellita di città, di campi coltivati, di alberi
fruttiferi; vedi il mare coperto di navi, le isole abitate, altari, sacrifizi, templi, solennità in ogni
parte, piene di Giove tutte le vie, piene tutte le piazze. Se io li avessi formati per sola utilità mia, per
esserne signore io, sarei un furfante ed un avaro; ma io mi sono travagliato pel vostro bene comune:
in tutti i luoghi ci sono templi di Giove, di Apollo, di Giunone, di te, o Mercurio, e di Prometeo no.
Io dunque pensare a me solo? io tradire il comun bene? io rabbassare gli altri? Considera meco un
po, o Mercurio, se puoi immaginare un bene che non abbia spettatori, una possessione, una fattura
che nessuno debba mai vedere nè lodare, e che pure sia piacevole e gradita a chi la possiede. Che vo
dire con questo? che non essendovi gli uomini, la bellezza delluniverso saria senza spettatori; e noi
saremmo ricchi duna ricchezza che nessuno ammirerebbe, e che neppure agli occhi nostri avrebbe
pregio, perchè non potremmo paragonarla ad una inferiore; non comprenderemmo che beatitudine
noi godiamo, perchè non vedremmo altri privi di quello abbiamo noi: così il grande non si terrebbe
grande se non si misurasse col piccolo. E voi che dovreste onorarmi per questo benefizio che ho
renduto a tutti, voi mi avete messo in croce, e mi date questo merito per lopera chio pensai di fare.
Ma ci ha de ribaldi tra loro, tu mi dirai, ma fanno adulterii, si sgozzano nelle guerre, sforzano le
sorelle, insidiano alla vita dei genitori. E fra noi non si fanno assai di queste cose? però dobbiamo
accusare il cielo e la terra che ci han data lesistenza? Forse mi dirai, che per aver cura degli uomini
è necessità che sofferiamo la noia di molte faccende. Dunque così anche il pastore si lamenterà di
avere la greggia, perchè è necessità che ne abbia cura. Questa fatica è una dolcezza; questo pensiero
non è senza diletto, perchè ci dà unoccupazione. Che faremmo noi se non avessimo a pensare a
nulla? Ce la passeremmo così in ozio a bere il nèttare, a riempirci dambrosia, senza far niente. Ma il
maggior mio dispetto è che voi, i quali mi biasimate di aver formati gli uomini, e massimamente le
donne, vi innamorate di esse, e non cessate di scender sulla terra divenendo ora tori, ora satiri e
cigni, e non disdegnate di generar Dei con esse. Ma si doveva, forse dirai, formare gli uomini, sì,
ma daltra forma, e non simili a noi. E quale altro esempio migliore di questo io poteva propormi, e
del quale io conosceva laltissima bellezza? Conveniva forse che luomo fosse un animale stupido,
feroce, e salvatico? E come avrebbe fatto sacrifizi agli Dei, e renduti altri onori a voi, se egli non
fosse stato quale egli è? Eppure quando vi offrono le ecatombe, voi non le rifiutate, ancorchè
doveste andare sino allOceano, aglincolpabili Etiopi. E chi vi ha procacciati questi onori e questi
sacrifici, voi lavete messo in croce. Ma basti questo intorno agli uomini, passiamo ora a parlare del
fuoco, a quel bruttissimo delitto che voi mapponete.
Deh, per gli Dei, non tincresca di rispondermi: Avete perduto voi qualche parte del fuoco, dacchè
lhanno anche gli uomini? No, certamente: perchè tale è la natura di questa cosa, che la non
diminuisce, se ne dai, chè fuoco accende fuoco, e non si spegne. È dunque schietta invidia la vostra
di non volerne dare a chi ne ha bisogno, quando voi non ne avete danno. Eppure voi che siete Dei,
dovreste essere buoni, generosi, e lontanissimi da invidia. Se vi avessi imbolato anche tutto il fuoco
e portatolo sulla terra, senza lasciarvene pure una scintilla, io non vi avrei fatto gran danno, perchè
esso non vi è utile a niente, voi non avete freddo, non vi cocete lambrosia, non avete bisogno di
lume artificiale. Gli uomini per contrario non possono farne senza, ne usano a molte loro necessità,
e specialmente pe sacrifizi, per profumare le vie con lodor delle carni e degli incensi, per bruciar le
cosce delle vittime su gli altari. Ma io vedo che a voi piace il fumo, e ve ne fate le satolle grandi,
quando lodor delle carni sale sino al cielo tra vortici di fumo. Di che mi biasimate adunque, di quel
che tanto vi piace? io non so come non avete proibito anche al sole di risplendere sugli uomini,
quantunque il suo fuoco sia più divino ed ardente. O biasimate anche lui, che sparge così e diffonde
la roba nostra? Ho detto. Voi, o Mercurio e Vulcano, se vi pare che ho detto male, confutatemi,
ribadite pure laccusa, ed io vi risponderò in mia difesa.
Mercurio. Non è facile, o Prometeo, contendere con un sì valente sofista. Ma buon per te che Giove
non tha udito. Ti so dire che invece duno ti manderia sedici avoltoi a stracciarti le viscere, perchè
facendo vista di difendere te, hai accusato lui acerbamente. Ma mi fa maraviglia che un profeta
come te non hai preveduto questa tua pena.
Prometeo. I lo sapeva, o Mercurio, e so ancora che ne sarò liberato: e già un Tebano verrà tra breve,
un tuo fratello, e saetterà laquila che tu dici che sta per discendere.
Mercurio. Così fosse, o Prometeo! Io vorrei vederti già disciolto, al comune banchetto con noi,
purchè tu non faccia lo scalco.
Prometeo. Sta certo: tornerò al banchetto vostro, e Giove mi discioglierà per compensarmi di un
gran benefizio.
Mercurio. E quale? dimmelo.
Prometeo. Conosci Teti, o Mercurio? Ma non bisogna dirlo, è meglio serbare il segreto, affinchè sia
prezzo e riscatto della mia condanna.
Mercurio. E serbalo, o Titano, se è meglio così. Noi andiamo via, o Vulcano, chè già laquila si
appressa. Soffri da forte: oh, fosse già qui quellarciero tebano, e ti togliesse allo strazio di questo
uccello!
______
VIII.
DIALOGHI DEGLI DEI.
1.
Prometeo e Giove.
Prometeo. Scioglimi, o Giove, che già ho patito assai.
Giove. Scioglierti? Tu avresti meritato catene più pesanti, e tutto il Caucaso sovra il capo, e sedici
avoltoi non pure a roderti il fegato ma a scavarti gli occhi, perchè ci formasti quei begli animali che
son gli uomini, e rubasti il fuoco, e facesti le donne. E dellinganno fatto a me nello spartir delle
carni, mettendomi innanzi alcune ossa coverte di grasso, e serbando il migliore boccone per te, che
debbo dire?
Prometeo. E non basta ancora la pena che ho sofferta, da tanto tempo inchiodato sul Caucaso,
nutrire del mio fegato la crudele aquila divoratrice?
Giove. Cotesto è niente verso di quello che tu devi patire.
Prometeo. Se mi scioglierai, io ti darò una ricompensa, o Giove; ti avviserò di cosa molto
importante.
Giove. Minganni tu, o Prometeo?
Prometeo. Ed a che pro? Tu ora conosci dove è il Caucaso, e non hai bisogno di catene se trovi che
tho ordita qualche astuzia.
Giove. Dimmi prima la cosa importante che mi sarà di ricompensa.
Prometeo. Se ti dico dove vai ora, mi darai fede nelle altre cose chio ti profeterò?
Giove. E perchè no?
Prometeo. Vai da Teti, per giacerti con lei.
Giove. Sì, lhai detto. Ma che sarà dipoi? perchè parmi che tu dica qualcosa di vero.
Prometeo. Non mescolarti affatto con la Nereide, o Giove. Chè se ella concepirà di te, il figliuolo
che nascerà farà a te quel tu facesti a Saturno.
Giove. Vuoi dire, che mi torrà la signoria?
Prometeo. Non sia mai; o Giove. Ma se ti mescoli con lei, questo pericolo ti minaccia.
Giove. Dunque Teti si stia pe fatti suoi. Per questo che mi hai detto, Vulcano ti sciolga.
2.
Amore e Giove.
Amore. Se ho errato in qualche cosa, o Giove, perdonami, che i sono ancora un fanciullo e senza
giudizio.
Giove. Tu fanciullo, o Amore, che sei più antico assai di Giapeto? Forse perchè non hai barba e
capelli bianchi, però vuoi passare per bimbo, vecchio e malizioso che sei?
Amore. E che grande offesa tha fatto questo vecchio, come tu di, che vuoi incatenarmi?
Giove. Vedi, o furfante, se è piccola offesa: ti fai giuoco di me, non cè cosa che non mi hai fatto
divenire, satiro, toro, cigno, oro, aquila: di me non hai fatto innamorar mai alcuna, non mi sono mai
accorto di piacere a nessuna donna: ma mi è forza usare astuzie con esse, e nascondermi: ed esse
amano il toro o il cigno, ma se vedesser me, morrebbono di paura.
Amore. Con ragione: chè elle sono mortali, e non sostengono la tua vista.
Giove. E come va che Apollo è amato da Branco e da Jacinto?
Amore. Ma Dafne lo fuggiva, quantunque bel giovane, con bella chioma, e sbarbatello. Se vuoi
essere amato non iscuoter legida, non portare la folgore, acconciati il viso più dolce che puoi, fa di
parer delicato e leggiadro; spártiti in su la fronte i ricciuti capelli, e su ponvi la mitra, vèstiti di
porpora, mettiti scarpette ricamate doro, componi i passi a suono di flauto e di timpani, e vedrai che
verranno dietro a te più donne, che non Menadi a Bacco.
Giove. Bah! non vorrei far questo per essere amato.
Amore. Dunque, o Giove, lascia damare: questo è più facile.
Giove. No; voglio amare, ma senza tante brighe. A questo patto ti lascio unaltra volta.
3.
Giove e Mercurio.
Giove. La bella figliuola dInaco, la conosci, o Mercurio?
Mercurio. Sì: vuoi dire Io.
Giove. Ella non è più fanciulla, ma giovenca.
Mercurio. Oh peccato! E come fu trasmutata?
Giove. Per gelosia Giunone la trasmutò. Ed un altro gran male ha macchinato contro quella misera:
le ha dato a custode un boaro che ha molti occhi, ed è detto Argo; il quale fa pascer la giovenca, ed
ei non dorme mai.
Mercurio. Che dunque si dee fare?
Giove. Vola giù nella selva Nemea dove è Argo bifolco, ed uccidilo; mena Io per mare in Egitto, e
falla Iside: e dindi innanzi ella sia Dea a quelle genti, e faccia crescere il Nilo, e mandi i venti, e
salvi i naviganti.
4.
Giove e Ganimede.
Giove. Su via, o Ganimede, giacchè siamo arrivati qui, dammi ora un bacio: vedi che io non ho più
il rostro ricurvo, nè gli unghioni, nè le ali, nè sono uccello come ti parevo.
Ganimede. O uomo, non eri tu aquila testè, che volando mi ciuffasti in mezzo al gregge? Come ti
sono scomparite quelle ali, e sei divenuto un altro?
Giove. I non sono nè uomo, nè aquila, o fanciullo; ma il re di tutti gli Dei, che per poco tempo mi
son trasformato.
Ganimede. Che dici? se tu Pane? E come non hai la sampogna, nè le corna, nè le cosce pelose?
Giove. Solo quel dio tu conosci?
Ganimede. Sì: e noi gli sacrifichiamo un caprone che ha le più grosse coglie, e proprio innanzi alla
spelonca dove egli abita. Tu mi pari che sei un ruba-fanciulli.
Giove. Dimmi: e di Giove non udisti mai il nome, non vedesti mai lara sul Gargaro? di colui che
piove, che tuona, che fa i lampi?
Ganimede. Tu se colui che testè fece cader tanta grandine, che abiti in su in cielo, come dicono, che
fai quei rumori, ed a cui il babbo sacrificò un ariete! E che male tho fatto io, o re degli Dei, che mi
hai rapito? Ah! forse i lupi mi sbraneranno le pecore, che sono tutte sbrancate.
Giove. E pensi ancora alle pecore, or che sei immortale, e starai sempre qui con noi?
Ganimede. Che dici mai? E non mi poserai sullIda oggi stesso?
Giove. No: chè invano mi sarei tramutato di dio in aquila.
Ganimede. Oh, il babbo mi anderà cercando, e si sdegnerà non trovandomi: ed infine io sarò battuto
per avere abbandonata la greggia.
Giove. E dove ti vedrà egli?
Ganimede. No, no: i voglio babbo mio. Se mi lasci andare, io ti prometto che ei ti sacrificherà un
altro ariete per mio riscatto. Nabbiamo uno di tre anni, così grande, che guida esso la greggia.
Giove. Che fanciullo semplice ed innocente! e parmi ancora troppo fanciullo! Ma, o Ganimede,
lascia stare tutte coteste cose, e scòrdati della greggia e dellIda. Tu che già sei uno de celesti, farai
gran bene di qui ed al tuo babbo ed alla patria tua: ed invece del cacio e del latte, gusterai
lambrosia, e berai il nèttare, e verserai bere a noi altri. E la più bella cosa è che tu non sarai più
uomo, ma immortale: ed io farò risplendere bellissima la tua stella; e infine tu sarai beato.
Ganimede. E se vorrò giocare, chi giocherà con me? SullIda eravam tanti compagni.
Giove. Anche qui avrai un compagno, che, vedilo, è Amore, e giocherete insieme a dadi. Però fà
cuore, stà lieto, e non pensare alle cose di laggiù.
Ganimede. E che mi farete fare? avete bisogno dun pastore anche qui?
Giove. No; tu mi mescerai, avrai cura del nèttare, e dapparecchiare il convito.
Ganimede. Questo non mè difficile; chè io so come si versa il latte, e come si serve nella tazza
dellera.
Giove. E rieccolo al latte: egli crede di servire agli uomini. Qui è il cielo, e tho detto che noi
beviamo il nèttare.
Ganimede. Ed è più dolce del latte, o Giove?
Giove. Lo saprai or ora; e quando lavrai gustato, non desidererai più il latte.
Ganimede. E dove dormirò la notte? forse col mio compagno Amore?
Giove. No; i per questo tho rapito, per farti dormire con me.
Ganimede. Ah, non potresti star solo, e però hai piacere di dormire con me.
Giove. Sì: e poi tu se sì vago, o Ganimede, se sì bello!
Ganimede. E che ti fa la bellezza pel sonno?
Giove. Gli dà maggior dolcezza, lo fa venir più soave.
Ganimede. Eppure il babbo si dispiaceva quandio mi corcavo con lui, e la mattina contava che io lo
svegliavo rivoltandomi, dando calci, e parlando nel sonno: onde spesso mi mandava a dormir con la
mamma. Or vedi, se tu dici di avermi rapito per questo, di ripormi in terra: se no, tu starai svegliato,
chè io ti molesterò continuamente rivoltandomi.
Giove. Questo sarà il più gran piacere che mi darai, se io veglierò con te baciandoti spesso ed
abbracciando.
Ganimede. Te lo vedrai tu: io dormirò, io, e tu bacerai.
Giove. Vedremo allora il da fare. Ora, o Mercurio, menalo teco, e fattagli bere limmortalità,
riconducilo a noi coppiere, che abbia prima imparato come si deve porger la tazza.
5.
Giunone e Giove.
Giunone. Dacchè, o Giove, menasti qui quel garzonetto frigio che rapisti dallIda, non ti dái più
pensiero di me.
Giove. E già tingelosisci, o Giunone, anche di lui sì semplice ed innocentissimo? Io ti credevo
acerba alle sole donne che simpacciano con me.
Giunone. Sta male e sconviene a te, che sei signore di tutti gli Dei, lasciar me tua legittima moglie,
e discendere su la terra a trescar con le donne, divenendo ed oro, e satiro, e toro. Almeno quelle tue
pratiche rimangono in terra: ma questo fanciullo Ideo lhai rapito, o fortissimo degli Dei, ce lhai
messo in casa, e proprio in capo a me sotto nome di coppiere. Forse ci mancavan coppieri, ed Ebe e
Vulcano sono già vecchi ed inutili? Tu non prendi la coppa da lui, se pria non lo baci al cospetto di
tutti; e quel bacio ti sa più dolce del nèttare; però spesso non hai sete, e chiedi bere; e talvolta
appena assaggi, e gli ridai la tazza, e mentre egli beve, gliela ritogli, e bevi il rimanente dove il
fanciullo ha attaccate le labbra, sicchè tu e bevi e baci. Ieri tu, re e padre di tutte le cose, deposta
legida ed il fulmine, sedevi a giocare a dadi con lui, ed hai tanto di barba. Tutto questo io lo vedo, e
non credere che non capisca.
Giove. Che male è, o Giunone, baciare un fanciul sì leggiadro mentre si beve; e godere insieme e
del bacio e del nèttare? Se gli permettessi di baciare una volta anche te, non mi riprenderesti più che
io stimo il bacio più soave del nèttare.
Giunone. Tu parli come un fanciullaio.(48) Non sarei io sì pazza da accostar le labbra a cotesto
zanzero di Frigia, così molle e infemminito.
Giove. Non parlar male dei fanciulli, chè questo infemminito, questo barbaro, questo zanzero, mi è
più caro e desiderato.... ma via, non voglio dirtelo per non farti andare più in collera.
Giunone. Di pure che te lo godi per far?... Ma ricòrdati quanti insulti mi fai per cotesto coppiere.
Giove. Oh lui no, ma dovevam farci mescere da Vulcano tuo figliuolo, zoppo, uscito della fucina,
tutto bruciato di scintille, e che allora lascia le tanaglie? da quelle mani prendere la tazza e
abbracciare intanto e baciare lui, che neppur tu, sua madre, avresti cuore di baciargli quella faccia
lorda di fuliggine? Quegli era più leggiadro, non è vero? Quel coppiere conveniva assai meglio al
convito degli Dei: bisogna rimandar tosto sullIda Ganimede, che è sì pulitino, sì grazioso nel
presentar la tazza con quelle manine di rosa, e, quel che più ti duole, che dà baci più savorosi del
nèttare.
Giunone. Ora è zoppo Vulcano, e non ha mani degne da porgerti la tazza, ed è pieno di fuliggine, e
lhai a schifo vedendolo, da quando lIda ci ha allevato questo bel zazzerino. Prima non le vedevi
queste cose: nè le scintille, nè la fucina ti facevan rivolger la faccia quandegli ti porgeva bere.
Giove. O Giunone, tu affanni te stessa con cotesta gelosia, e niente più; e cresci lamor mio. Se ti
spiace un bel fanciullo per coppiere, abbiti il figliuol tuo. Tu, o Ganimede, a me solo porgerai la
tazza, ed ogni volta mi darai due baci, uno quando me la presenterai piena, ed un altro quando la
riprenderai. Che è questo? tu piangi? Non temere: chi ti vorrà punto di male, guai a lui.
6.
Giunone e Giove.
Giunone. QuestIssione, o Giove, per che uomo lo tieni?
Giove. Dabbene, o Giunone, e convivante nostro. Non saria con noi, se fosse indegno del nostro
banchetto.
Giunone. Nè indegno, perchè è un insolente, e non ci devessere più.
Giove. Che insolenza ha fatto? Parmi chio debbo saperla.
Giunone. Che altro che.... ma mi vergogno di dirlo; ha avuto un ardire troppo grande.
Giove. Ma così tu dici cosa molto più brutta che forse egli non ha tentato. Ha fatto vergogna a
qualcuna? Capisco, questa sarà la turpitudine, che tu non vuoi dire.
Giunone. A me lha fatta, o Giove, a me proprio: e da un pezzo. Da prima io non capivo perchè egli
mi guardava fiso, e sospirava, e imbambolava gli occhi, e se io beveva e rendeva la tazza a
Ganimede, ei cercava bere in quella, e prendendola in mano la baciava, se la recava agli occhi, e mi
guatava. Capivo poi che questi eran segni damore: e per molto tempo per pudore non lo dissi a te, e
credevo che colui si torrebbe di quella pazzia. Ma ora che ha ardito di richiedermi damore, io lho
lasciato che piangeva e mi stava gettato ai piedi, e turatemi le orecchie per non udire il suo
disonesto pregare, son venuta a dirtelo. Vedi tu come punire costui.
Giove. Bravo il malvagio! a me proprio? Sino a mia moglie Giunone? Cotanto ti ha inebbriato il
nèttare? Ne siam cagione noi, che fuor di misura amiamo gli uomini, e li abbiamo fatti commensali
nostri. Ma pure ei sono perdonabili se bevendo quel che beviamo noi, e vedendo le bellezze celesti,
che non mai videro su la terra, desiderano di goderle, e ne son presi damore. Amore è forza grande,
e signoreggia non pure gli uomini, ma talvolta anche noi altri.
Giunone. Signoreggia te, che ti fai guidare, menare, tirare pel naso, e lo segui dove egli vuole, e ti
muti facilmente in ogni cosa secondo ei comanda, e sei una girandola, un trastullo in mano dAmore.
Ed ora intendo perchè vuoi perdonare ad Issione; una volta te ne godesti la moglie, la quale ti
partorì Piritoo.
Giove. E ancora ricordi di qualche follia che ho fatto quando son disceso su la terra? Ma sai quel
che penso per Issione? Non punirlo affatto nè discacciarlo dal convito, che saria una rozzezza. Ma
giacchè egli è cotto damore, e, come tu di, piange, ed ha gran passione....
Giunone. Che, o Giove? Vuoi insultarmi anche tu?
Giove. Niente affatto: ma faremo di una nube unimmagine simile a te, e poichè sarà finita la cena,
ed egli come innamorato non potrà dormire, noi gliela porteremo a letto: e così gli cesserà la
smania, credendo soddisfatto il suo desiderio.
Giunone. Ah no: che muoia il temerario.
Giove. Permettilo, o Giunone. Che male puoi aver tu da una finzione, se Issione starà con una nube?
Giunone. Ma la nube parrà che sono io, e la vergogna verrà su di me per la somiglianza.
Giove. Non dir questo: chè la nube non sarà mai Giunone, nè tu la nube; solo Issione sarà
ingannato.
Giunone. Ma poi, come soglion fare tutti gli sciocchi, ei forse se ne vanterà, lo conterà a tutti, dirà
che si è giaciuto con Giunone, e divide il letto con Giove. Forse dirà ancora che io sono spasimata
di lui, e la gente lo crederà, non sapendo che egli ha abbracciata una nube.
Giove. Dunque se ei ne dirà parola, io lo sprofonderò nellinferno, dove legato ad una ruota, girerà
con essa sempre, ed avrà pena senza posa; così pagherà il fio non dellamore, che non è male, ma
della sua iattanza.
7.
Apollo e Vulcano.
Vulcano. Hai veduto, o Apollo, il figliuolino di Maia, testè nato, come è bello, e sorride a tutti, e già
mostra voler divenire un gran pezzo di bontà?
Apollo. Quel fanciullino, o Vulcano? Quel tuo gran pezzo di bontà è più vecchio di malizia, che
non danni Giapeto.
Vulcano. Ed a chi ha potuto far male, se è nato ieri?
Apollo. Dimandane Nettuno, al quale rubò il tridente; o Marte, a cui sottrasse la spada
cavandogliela dal fodero; non ti parlo di me, che mi disarmò dellarco e delle frecce.
Vulcano. Quel bimbo ha fatto questo, se appena si regge, e sta nelle fasce?
Apollo. Lo saprai, o Vulcano, se pur ti viene vicino.
Vulcano. Mi è venuto attorno.
Apollo. Ed hai tutti gli istrumenti? Non ne hai perduto nessuno?
Vulcano. Lho tutti, o Apollo.
Apollo. Guardali meglio.
Vulcano. Per Giove! Le tanaglie non vedo.
Apollo. Le troverai nelle fasce del fanciullo.
Vulcano. È così leggiero di mano, che ha imparato a rubare in corpo alla mamma!
Apollo. Non lhai udito a parlare, e come ha lo scilinguagnolo spedito. Ei vuole anche render servigi
a tutti. Ieri avendo sfidato Amore alla lotta, tosto lo vinse, facendogli, non so come, mancare i piedi:
e mentre Venere lo lodava della vittoria e labbracciava, le rubò il cinto; e lo scettro a Giove, che
ancor se ne ride: gli avrebbe preso anche il fulmine se non fosse grave troppo e con molto fuoco.
Vulcano. Questi è un nuovo miracolo di fanciullo.
Apollo. Ed aggiungi che è già anche musico.
Vulcano. E che pruova nhai?
Apollo. Trovata a caso una testuggine morta, ei ne compose uno strumento. Vi adattò i manichi e li
congiunse, poi vi fece i bischeri, vi pose il ponticello, e su di esso distese le corde, e sonava con
tanta dolcezza, o Vulcano, e con tanta maestria, che faceva invidia anche a me, che son vecchio
ceteratore. Diceva Maia che neppur la notte ei rimane in cielo, non sa trovar posa, scende sin
nellinferno certamente a rubacchiarvi qualche cosa. Ha lali ai piedi, ed in mano una verga di gran
virtù, con la quale conduce e guida allorco le anime dei morti.
Vulcano. Gliela diedi io come un balocco.
Apollo. Ed ei te ne ha ricompensato con le tanaglie.
Vulcano. Appunto me ne ricordi: vo a riprenderle, se, come tu di, gliele troverò nelle fasce.
8.
Vulcano e Giove.
Vulcano. Che debbo fare, o Giove? Eccomi al tuo comando, e con la scure arrotata, che ad un colpo
taglieria netto un sasso.
Giove. Bene, o Vulcano: spaccami il capo in due.
Vulcano. Vuoi farmi fare una pazzia? Dimmi da senno che vuoi da me.
Giove. Questo appunto, che tu mi apra il cranio: e se non ubbidisci mi vedrai unaltra volta sdegnato.
Devi dare di tutta forza, e fà presto, chè io mi sento le trafitture del parto che mi straziano il
cervello.
Vulcano. Bada, o Giove, che non facciam qualche guasto; la scure è tagliente, e farà sangue: non ho
le mani di Lucina io.
Giove. Dà senza paura, o Vulcano: so io quel che conviene.
Vulcano. Mi dispiace, ma darò: che posso altro, quando tu il comandi?... Ma che è? una fanciulla
armata? Gran male, o Giove, avevi nel capo: a ragione eri così sdegnoso, ti stava viva sotto la
meninge una tanta vergine, e tutta armata. Avevi un padiglione per capo, e nol sapevi. Ma ella balla
la danza pirrica, agita lo scudo, palleggia lasta, ed è compresa da divino furore, e quel che è più, la è
molto bella, ed in breve sè fatta adulta; ha gli occhi azzurri, che le stan bene sotto quellelmo. O
Giove, io tho aiutato a partorirla, in compenso dammela in isposa.
Giove. Chiedi cosa impossibile, o Vulcano: ella vuol rimaner sempre vergine. Io per me non ti dico
di no.
Vulcano. Questo volevo: al resto penserò io: me la rapirò.
Giove. Se puoi, fà pure: ma ti so dire che brami cosa impossibile.
9.
Nettuno e Mercurio.
Nettuno. Si può parlar con Giove, o Mercurio?
Mercurio. No, o Nettuno.
Nettuno. Ma portagli lambasciata.
Mercurio. Non essere importuno, ti dico: non è tempo, ora non potresti vederlo.
Nettuno. Forse è con Giunone?
Mercurio. No: tuttaltro.
Nettuno. Capisco: Ganimede è dentro.
Mercurio. Neppure: sta indisposto un po.
Nettuno. E come, o Mercurio? Oh, questo mi dispiace!
Mercurio. Mi vergogno a dirlo: ecco.
Nettuno. Ma non devi vergognarti con me, che ti son zio.
Mercurio. Vuoi saperlo? Ora ha partorito.
Nettuno. Partorito egli? e chi lha ingravidato? Dunque era maschio-femmina, e noi nol sapevamo?
Ma il ventre non gli pareva cresciuto affatto.
Mercurio. Ben dici; chè ei non aveva nel ventre il feto.
Nettuno. Intendo: ha partorito dalla testa unaltra volta, come partorì Pallade: egli ha la testa che
partorisce.
Mercurio. No, in una coscia ei fu gravido dun fanciullo avuto da Semele.
Nettuno. Benissimo: costui ingravida tutto, in tutte le parti del corpo. Ma chi è Semele?
Mercurio. Una Tebana, una delle figliuole di Cadmo: ei vebbe che fare, e la ingravidò.
Nettuno. E poi ha partorito egli, invece di lei?
Mercurio. Appunto: e so che ti parrà nuova. Giunone (sai quanto è gelosa) andò da Semele, e con
suoi inganni la persuase a chieder da Giove che landasse a trovare coi tuoni e coi lampi. La
semplice così fece, Giove vandò anche col fulmine, il quale bruciò la soffitta della casa, e Semele
perì nel fuoco. Egli mi comandò di sparare il ventre della donna, e di portargli il feto ancora
imperfetto di sette mesi; e poi chio ebbi ciò fatto, egli si aprì una coscia, e ve lo chiuse per farlo
giungere al punto; ed ora entrato nel terzo mese lha partorito, ed è sfinito dai dolori.
Nettuno. Ed ora dovè il fanciullo?
Mercurio. Lho portato in Nisa, e lho dato ad allevare alle Ninfe, e si chiama Dioniso.
Nettuno. Dunque mio fratello è padre e madre di questo Dioniso?
Mercurio. Così pare. Ma lasciami andare a portargli lacqua per la ferita, e a far le altre faccende
duso, chè egli è nel puerperio.
10.
Mercurio ed il Sole.
Mercurio. O Sole, Giove dice, non uscirai nè oggi, nè dimani, nè diman laltro, ma ti rimarrai dentro,
e intanto sia una sola notte lunga: onde le Ore sciolgano i cavalli, tu spegni il fuoco, e ripòsati un
pezzo.
Il Sole. Tu mi porti nuova e strana ambasciata, o Mercurio. Non mi pare daver deviato dal corso, nè
guidato il carro oltre i limiti: perchè sdegnasi egli meco, e vuol fare una notte triplice del giorno?
Mercurio. Niente di questo, nè sarà sempre così. Egli ha ora bisogno che ci sia una notte più che
lunghissima.
Il Sole. Dove è? e donde ti mandò a me con questa ambasciata?
Mercurio. È in Beozia, o Sole, e stassene con la moglie di Anfitrione, della quale è innamorato
fradicio.
Il Sole. E non gli basta una notte?
Mercurio. Altro! Da quel congiungimento dovrà nascere un grande e divino miracolo datleta;
impastarlo in una notte sola è impossibile.
Il Sole. Limpasti col buon pro. Ma queste cose, o Mercurio, non accadevano quando cera Saturno
(siam fra noi, e possiamo parlare); quegli non lasciava mai Rea sola nel letto, nè abbandonava il
cielo per andare a dormire in Tebe: il giorno era giorno, e la notte misuratamente proporzionata alle
stagioni: non ci eran novità e mutazioni: nè mai egli fece comunella con donne mortali. Ora per una
misera femminella si deve stravolgere il mondo: i cavalli divenirmi ritrosi per ozio, la strada
guastarsi per non essere battuta tre dì, ed i poveri uomini vivere nelle tenebre. Ecco frutto che
godranno degli amori di Giove, star corcati ad aspettare chegli compia latleta che tu dici, ricoperti
di sì lungo buio.
Mercurio. Zitto, o Sole, che non ti colga male per la lingua. Io vommene dalla Luna e dal Sonno, a
dire quello che Giove mha commesso; alla Luna che non saffretti di troppo; e al Sonno che non
lasci gli uomini, affinchè non saccorgano duna notte sì lunga.
11.
Venere e la Luna.
Venere. Che si va bucinando di te, o Luna? che quando sei su la Caria fermi il cocchio per
riguardare Endimione, il quale, come cacciatore, dorme allo scoperto; e che talvolta discendi a lui
lasciando a mezzo il corso?
La Luna. Dimandane il figliuol tuo, o Venere: ei mè cagione di tutto questo.
Venere. Oh che tristo! Anche a me che gli son madre quante ne fa egli! Ora mi fa scender sullIda
per Anchise troiano; ora sul Libano presso quel garzonetto Assiro, del quale ha fatto innamorare
anche Proserpina, e mha tolto metà di quellamor mio. Più volte lho minacciato di spezzargli larco e
la faretra, e di spennacchiargli lale: e già gli diedi una sculacciata col sandalo: ei piange, dice che
nol farà più, ma non guari dopo si scorda di tutto. Ma dimmi, è bello Endimione? chè così il male
ha un po di dolce.
La Luna. A me pare tutto bellissimo, o Venere, massime quando, distesa la clamide su la rupe, vi si
pon sopra a giacere, avendo la mano sinistra ai dardi che gli cadono tra le dita; e la destra che in su
ripiegata intorno il capo inquadra la bella faccia: e così dormendo respira un alito soave dambrosia.
Allora io tacitamente mavvicino, camminando su le punte dei piedi per non fare strepito e
svegliarlo.... tu intendi: che debbo dirti di più? Ah, io mi sento morir damore.
12.
Venere ed Amore.
Venere. O figliuol mio Amore, poni mente a quel che fai. Non dico su la terra, quante pazzie
persuadi agli uomini di fare contro sè stessi e contro gli altri, ma qui in cielo. Ci mostri Giove sotto
varie forme, e lo trasmuti in quel che ti pare; fai discender la luna dal cielo; e talvolta costringi il
Sole ad indugiarsi presso a Climene scordando il cocchio e i cavalli. A me poi ne fai sicuramente
quante ne vuoi, chè io ti son madre. Ma, o temerario, anche a Rea che è sì vecchia e madre di tanti
Dei, hai messo il chiodo dun garzone frigio. Eccola ammattita per cagion tua, ha aggiogati due
leoni, e facendosi seguire dai Coribanti, che son furiosi anchessi, va su e giù scorrendo per lIda: ella
chiama Ati a gran voci; ed i Coribanti, chi con la spada si ferisce un braccio, chi scapigliato va
furiando pe monti, chi suona col corno, chi fa rimbombare il timpano, chi strepita coi cembali;
sicchè tutto lIda è pieno di rumori e di furori. Io temo, misera a me che ti ho partorito così gran
malvagio, io temo tutto, e specialmente questo, che Rea o tornando in sè, o più impazzando, non ti
faccia prendere dai Coribanti, e sbranare o gettare ai leoni. Temo, perchè ti vedo in questo pericolo.
Amore. Non temere, o mamma: i leoni con me sono mansueti, spesso mi portano sul dorso, io li
afferro per la giubba, e li meno dove voglio; essi dimenan la coda, si fan mettere la mano in bocca,
me la leccano, ed io me la ritraggo senza offesa. Rea poi quando avria tempo di brigarsi di me, se
ella pensa solo ad Ati? Ma infine che male fo io, che vi dimostro quale è il bello? Voi correte ad
esso: dunque non incolpate me. Vuoi tu, o madre, non amare più? nè tu Marte, nè egli te?
Venere. Come sei tristo! come sforzi tutti! Ma ricòrdati talvolta de miei consigli.
13.
Giove, Ercole, ed Esculapio.
Giove. Finite, o Esculapio, o Ercole, di bisticciarvi tra voi, come fanno gli uomini. Questa è una
indecenza, e sconviene al banchetto degli Dei.
Ercole. E vuoi, o Giove, che questo spezial meschinello abbia un posto più onorato del mio?
Esculapio. Certamente, chè io sono da più di te.
Ercole. Ed in che? Forse perchè Giove ti fulminò per le tue ribalderie, ed ora per pietà tha rifatto
immortale!
Esculapio. A me rimproveri il fuoco? e dimenticasti, o Ercole, che di te fu fatto un falò sullOeta?
Ercole. Dunque tra la vita tua e la mia non vè differenza. Io figliuol di Giove, io tante fatiche, io
tanti benefizi agli uomini, combattere e domar fiere, punire scellerati, io; e tu? Tu sei un cavaradici,
un cerretano, forse buono a mettere empiastri agli ammalati, ma non hai fatto mai cosa da uomo.
Esculapio. Dici bene, chè io ti sanai le scottature, quando testè mi venisti innanzi mezzo arrostito,
che ti si erano attaccate addosso e la tunica ed il fuoco. Io almeno non fui servo, come te, non filai
lana in Lidia, vestito di porpora e battuto da Onfale col sandalo ricamato doro; io non mai venni in
tanto furore da uccidere figliuoli e moglie.
Ercole. Se non cessi d insultarmi, tosto taccorgerai che non ti gioverà molto lessere immortale; che
tafferro e ti sbatacchio col capo giù dal cielo, e te lo sfracello, che non te lo potrà sanare Peone.
Giove. Finitela, dico, e non turbate la conversazione, o ve ne scaccerò tuttadue. Contèntati, o
Ercole, che Esculapio segga più sopra di te, perchè è morto prima.
14.
Mercurio ed Apollo.
Mercurio. Perchè sei mesto, o Apollo?
Apollo. O Mercurio, io sono sventurato in amore.
Mercurio. Giusta cagione di dolore è cotesta. Ma che sventura? o taffanni ancora per Dafne?
Apollo. Ah no; piango lamato Lacone, figliuolo di Ebalo:
Mercurio. Di, è morto Jacinto?
Apollo. Pur troppo.
Mercurio. E chi lha morto, o Apollo? chi è stato sì crudele da uccidere quel vago fanciullo?
Apollo. Io stesso.
Mercurio. Tu? ma che, deliravi, o Apollo?
Apollo. Fu involontaria sventura.
Mercurio. E come? vo udire come fu questo caso.
Apollo. Egli imparava a trarre il disco, ed io era con lui. Quello scellerato vento Zefiro da molto
tempo lamava anchesso, ed essendone sprezzato, se ne stava pieno di mala voglia. Io, lanciai al
solito, il disco in alto; e quegli soffiando dal Taigete, lo portò a cadere sul capo al fanciullo, che al
colpo versò gran sangue, e subito si morì. I mi scagliai contro Zefiro saettandolo ed inseguendolo
che fuggiva, sino al monte: al fanciullo rizzammo un tumulo in Amicla, dove il disco lo colse; e del
suo sangue feci nascere dalla terra un fiore, il più soave, o Mercurio, il più bello di tutti i fiori, che
porta scritto il suo nome e la sua sventura. Or ti pare giusto il dolor mio?
Mercurio. Sì, o Apollo: ma tu sapevi che quellamor tuo era mortale onde non accorarti s egli ora è
morto.
15.
Mercurio ed Apollo.
Apollo. Or vedi, uno sciancato, un fabbro sposarne due bellissime, Venere e Carite! vedi fortuna, o
Mercurio. La maraviglia è come esse patiscono a stargli vicino, massime quando lo vedono curvo
sulla fucina, grondante sudore, e con la faccia tutta affumicata. Tutto che egli è così conciato, e
labbracciano e lo baciano e ci dormono.
Mercurio. Questo fa dispetto anche a me, ed ho grande invidia a Vulcano. Coltiva la bella chioma, o
Apollo, suona la cetera, poni ogni cura in farti bello; ed io posso pure affaticarmi in destrezza e in
sonar la lira: quando andiamo a letto, dormiamo soli.
Apollo. Io poi son disgraziato in amore: amai due veramente, Dafne e Jacinto: Dafne mebbe tanto
in ira che volle diventar legno, anzi che mia: Jacinto lo uccisi col disco: degli amori miei non ho che
una corona.
Mercurio. Io con Venere una volta.... ma non bisogna parlarne.
Apollo. Mi ricordo, e dicono che ti partorì Ermafrodito. Ma dimmi, se lo sai, come non han gelosia
Venere di Carite, e Carite di Venere?
Mercurio. Perchè, o Apollo, egli in Lenno stassi con Carite, ed in cielo con Venere. Ma costei si
tiene Marte, che è il cuor suo, e si cura poco del fabbro.
Apollo. E Vulcano sa di questa tresca?
Mercurio. Sa; ma che può contro uno giovane robusto e soldato? Caglia, e fa lo scemo: ma
minaccia di fabbricar certa sua rete da pescarli e prenderli sul letto.
Apollo. Non so, ma vorrei esser io preso con lei.
16.
Giunone e Latona.
Giunone. Bei figliuoli, o Latona, hai partoriti a Giove.
Latona. Non tutte, o Giunone, possiamo farli sì belli, come è Vulcano.
Giunone. Egli è zoppo sì, ma utile e valente artefice, e ci ha adornato il cielo, ed ha sposato Venere,
ed è voluto bene da lei. Ma dei figliuoli tuoi, colei è una pulzellona che ha del maschio, una
salvatica, che infine se nè andata in Scizia, e tutti sanno che quivi uccide i forestieri e li mangia,
imitando gli Sciti mangiauomini: Apollo poi spaccia di sapere ogni cosa, fa larciero, il ceteratore, il
medico, il profeta, ha messe botteghe di oracoli in Delfo, in Claro, in Didimo, ed inganna chi va ad
interrogarlo, rendendo risposte a due capi, che si possono prendere da ogni parte, e così sicuro di
non fallire, acquista riputazione e ricchezze: i gonzi ci corrono e si fanno abbindolare, ma chi ha un
po di senno ride di questo profeta che non seppe profetare a sè stesso che egli uccideria col disco un
suo zanzero, e saria sfuggito da Dafne, quantunque sì bel giovane e con sì bella chioma. Onde vedo
che tu non sei madre di più bella prole che Niobe.
Latona. Eppure questa prole, quella salvatica ammazzaforestieri, e quel falso profeta, so che ti fan
male agli occhi, quando li vedi tra gli Dei, e massime quando ella è lodata per bellezza, ed egli
sonando la cetera nel convito, è meraviglia a tutti.
Giunone. Mi fai ridere, o Latona. Quella maraviglia di sonatore saria stato scorticato da Marsia, che
lo vinse nella musica, se le Muse avessero voluto giudicar giusto; ma il povero Marsia soverchiato
ed aggirato, morì ingiustamente: e quella tua bella vergine è così bella, che accortasi dessere stata
veduta da Atteone, e temendo che il giovane non divulgasse come ella era brutta, gli aizzò i cani
addosso. Non dico poi che non farebbe la levatrice se fosse vergine.
Latona. Tu sei superba, o Giunone, perchè sei moglie di Giove e regni con lui, e però insulti
sicuramente: ma come ti vorrò riveder piangere tosto che ei ti lascerà, e discenderà su la terra
divenuto cigno o toro.
17.
Apollo e Mercurio.
Apollo. Perchè ridi, o Mercurio?
Mercurio. Perchè ho veduto cosa veramente da far ridere, o Apollo.
Apollo. Dimmela, e farai ridere anche me.
Mercurio. Venere è stata còlta con Marte, e Vulcano li tiene tutti e due legati.
Apollo. Come? oh, questa è piacevole.
Mercurio. Da molto tempo ei sapeva ogni cosa, e li spiava: ed avendo messa intorno al letto una
rete invisibile, vassene a lavorar nella fucina. Ed ecco Marte entra di soppiatto, comei credeva; ma
il Sole lo vede, e ne avvisa Vulcano. Poi che salgono sul letto, e sono nel più bello del giuoco;
scocca la rete, e si trovano ravviluppati nelle catene, e tosto giunge Vulcano. Ella era nuda, e non
aveva come nascondersi per la vergogna. Marte da prima tentò di fuggire, e sperò di spezzar quei
legami: ma accortosi di non avere altro scampo, si volse alle preghiere.
Apollo. Infine li ha sciolti Vulcano?
Mercurio. Niente affatto, ma ha chiamati tutti gli Dei, e ce li ha mostrati in quellatto delladulterio.
Entrambi nudi, raccoccolati, legati, non ardivan levare il viso: io aveva tanto diletto a riguardare,
quantessi navevano avuto nel fare.
Apollo. E il fabbro non arrossiva di mostrar la sua vergogna?
Mercurio. Altro! ei stava presente, e li beffava. Io, se debbo dirti il vero, invidiavo a Marte, che non
pure si era sollazzato con una Dea tanto bellissima, ma stava legato con lei.
Apollo. E avresti sofferto desser legato anche così?
Mercurio. E tu no, tu, o Apollo? Vieni a vedere, tavrò in gran concetto se a tal vista non ti verrà la
stessa voglia.
18.
Giunone e Giove.
Giunone. Io mi vergognerei, o Giove, se avessi un figliuolo come il tuo, così frollato e fradicio per
ubbriachezza con una mitra in capo, con un codazzo di femmine impazzate, ed ei più molle di esse,
mena balli a suono di timpani, di flauti e di cetere, e a tuttaltri somiglia che a te suo padre.
Giove. Eppure questo frollato che ha la mitra e la mollezza delle donne, non solo, o Giunone, vinse
la Lidia, sottomise gli abitatori del Tmolo, e domò i Traci; ma fino dallIndia menando questo
esercito donnesco, prese elefanti, soggiogò tutta quella regione, e strascinò prigioniero un re che per
poco sattentò di contrastargli. E tutte queste imprese egli le fece tra danze e cori, e tirsi ricoperti di
edera, ubbriaco, come dici tu, ed invasato di furore divino. E se alcuno ardì di oltraggiarlo, e
dinsultare alle sue feste, egli lo punì o legandolo coi tralci, o facendolo sbranar dalla madre come
un cerbiatto.(49) Vedi imprese gagliarde, e non indegne di suo padre. Che se egli le fa tra scherzi e
piacevolezze, nessuno può biasimarlo: specialmente se considera che faria egli sobrio, quando fa
questo essendo ubbriaco?
Giunone. Parmi che tu loderai anche la vite, il vino, e le altre sue invenzioni, mentre pur vedi che
fanno questi ubbriachi barcollanti, che ingiurie dicono a tutti, e come pèrdono interamente il senno
pel bere. Icario, a cui il primo fu dato il magliuolo, fu accoppato con le zappe da quegli stessi che
bevevan con lui.
Giove. Non dire cosi: nè il vino nè Bacco fanno questi effetti, ma la dismisura nel bere, e il
riempirsi sconvenevolmente de vini più poderosi. Chi bevesse misuratamente, diventerebbe
allegretto e festevole, ma nessuno de compagni gli farebbe quello che Icario patì. Ma parmi che tu
sei ancora gelosa, o Giunone, e ancora ti ricordi di Semele, se biasimi le più belle imprese di Bacco.
19.
Venere ed Amore.
Venere. Perchè mai, o Amore, tu che vincesti tutti gli altri Dei, Giove, Nettuno, Apollo, Rea, e me
tua madre, solo Pallade non tocchi, e per lei hai la face spenta, la faretra vuota, sei senzarco e senza
dardi?
Amore. Io la temo, o madre, chè ella mi fa paura con quegli occhi cerulei e con quellaria di
maschile fierezza. Quando io vado per tender larco e mirare in lei, ella squassa le creste dellelmo,
ed io mi sbigottisco, e tremo, e mi cadon le saette di mano.
Venere. E Marte non era più terribile di lei? eppure lo disarmasti e lo vincesti.
Amore. Ma egli mi viene incontro da sè, e mi chiama: Pallade per contrario è sempre sospettosa: ed
una volta che a caso la toccai passando, avendo in mano la face, ella mi disse: Se mi ti avvicini,
giuro a Giove, con questa lancia ti passerò fuor fuora, o tafferrerò per un piede e ti getterò nel
Tartaro, o ti squarterò; e maggiunse molte altre minacce. Ella guarda sempre in torto, e innanzi al
petto porta una figura orribile chiomata di vipere, e di quella specialmente io mi spaurisco, e fuggo
quando la vedo.
Venere. Dici che temi di Pallade e della Gorgone, tu che non hai temuto il fulmine di Giove. Ma e
le Muse perchè non sentono i tuoi dardi? forse anchesse squassan le creste dellelmo, e mostrano la
Gorgone?
Amore. Le rispetto, o madre, perchè sono venerande, han sempre lanimo ai bei pensieri, e sono
intese al canto: spesso mi accosto ad esse, tirato dai loro canti soavi.
Venere. Vada anche per queste perchè venerande. E Diana, perchè non la ferisci ?
Amore. Perchè non posso raggiungerla, che va sempre scorrendo pe monti: ma pure ella ha un certo
amore.
Venere. E quale, o figliuolo?
Amore. Di cacciar fiere, e cervi, e cerbiatti, di seguitarli, di saettarli, ed è tutta in questo. Ma il
fratel suo, tutto che valente saettatore anchegli....
Venere. So, o figliuolo, che tu spesso lhai saettato.
20.
IL GIUDIZIO DELLE DEE.
Giove, Mercurio, Giunone, Minerva, Venere, Paride.
Giove. O Mercurio, prendi questo pomo, và in Frigia, dal figliuolo di Priamo, che pasce i buoi
sullIda nel Gargaro, e digli così: O Paride, Giove comanda che tu, il quale sei bello, ed intendi assai
nelle cose damore, giudichi tra queste Dee, quale è la bellissima, ed ella in premio della vittoria si
avrà il pomo. Ora potete voi stesse andare dal giudice. Non voglio esser io arbitro tra voi, perchè io
vi amo egualmente, e, se fosse possibile, vorrei vedervi tutte e tre vincitrici: ma è forza dare ad una
sola il premio della bellezza, e dispiacere le altre; però io non sarei buono giudice. Il giovanetto
frigio, dal quale voi andate, è di sangue reale, e parente di questo Ganimede; e poi è un semplice
montanaro, e nessuno lo terrebbe indegno di riguardarvi e giudicare.
Venere. Per me, o Giove, se tu ci dái anche Momo per giudice io sono pronta a presentarmegli. Oh,
che potrebbe il ser appuntino appuntare a me?(50) A queste deve piacere quelluomo.
Giunone. Neppur noi, o Venere, temiamo, ci fosse anche giudice il tuo Marte; ed accettiam,
chiunque egli sia, questo Paride.
Giove. E a te che ne pare, o figliuola? che dici? Volgi la faccia, ed arrossisci? Così solete fare voi
altre fanciulle: ma hai accennato di sì. Andate dunque, e le vinte non se la piglino col giudice, non
si sdegnino, non facciano male al giovanetto. Ei non è possibile che siate tutte e tre belle
egualmente.
Mercurio. Andiam diritto in Frigia: io vo innanzi, voi seguitemi tosto, e di buon animo: io lo
conosco Paride, è un bel giovane ed affettuoso, e non ci ha chi meglio di lui diffinisca quistioni
damore: e uningiustizia egli non la faria.
Venere. Assai mi piace questo che tu mi dì, che abbiamo un giudice giusto. È smogliato, o ha
qualche donna seco?
Mercurio. Smogliato in tutto no, o Venere.
Venere. E come?
Mercurio. Parmi che abbia seco una donnetta Idea, non bruttina, ma che sente dellagresto e del
salvatico: egli poi non nè tanto spasimato. Ma perchè mi fai questa dimanda?
Venere. Dicevo così a caso.
Minerva. Ehi tu, tu trapassi il dovere dambasciatore a parlar segretamente con costei.
Mercurio. Non dicevam niente di male, o Minerva, nè contro di voi: ella mi dimandava se Paride è
smogliato.
Minerva. E perchè si piglia questo pensiero ella?
Mercurio. Non so: dicella, che me lha dimandato così a caso, non a posta.
Minerva. Or di, è smogliato?
Mercurio. Non credo.
Minerva. Ed ha genio pe combattimenti? è vago di gloria? o è tutto bovaro ?
Mercurio. Il vero non so dirtelo: ma si dee credere che, giovane comè, si troveria a menar le mani, e
vorria essere il primo nelle zuffe.
Venere. Vedi ora? io non ti rimprovero nè ti sgrido che parli segreto con costei. Sdegnerebbesi ogni
altra; Venere no.
Mercurio. Ella mi dimandava quasi la stessa cosa: non averlo a male nè a dispregio, se così nella
semplicità le ho risposto. Ma mentre parliamo così andando, abbiamo lasciato gli astri molto
indietro, e siamo quasi sopra la Frigia. Io scorgo lIda, e tutto il Gargaro chiaramente; e, se non
minganno, anche il vostro giudice Paride.
Giunone. Dové? io non lo discerno.
Mercurio. Qui, o Giunone, riguarda a sinistra, non su la cima del monte, ma su la costa, vedi
quellantro, quella mandra.
Giunone. Non vedo mandra.
Mercurio. Come dici? Non vedi i vitelli, lì, dove io dirizzo il dito, che escono di mezzo le pietre, e
colui che scende di quel ciglione col vincastro in mano, e sforzasi di non far più sbrancare la
mandra?
Giunone. Vedo ora: ed è quegli?
Mercurio. È desso. Ma poichè siamo già presso alla terra, discendiamo, se vi pare, e camminiamo,
per non ispaurirlo volandogli addosso allimprovviso.
Giunone. Ben dici, e così facciamo. Ma poichè siamo discese, va innanzi, o Venere, e mostraci la
via: tu devi ben conoscere la contrada, chè spesso ci sei venuta a trovare Anchise.
Venere. Io non mi sdegno per motti, o Giunone.
Mercurio. Vi guiderò io, che ho pratica dellIda: chè quando Giove amoreggiava quel suo
garzoncello Frigio, io ci venni molte volte per suo comando a spiare il fanciullo: e quando egli era
nellaquila, io volavo con lui, e laiutavo a portar quel suo vago: e se ben mi ricorda, appunto da
questo sasso ei lo ciuffò. Stava il fanciullo presso la greggia e fistoleggiava, Giove di dietro
piombagli addosso, abbrancalo con gli artigli lievemente, e col becco tienegli la tiara sul capo, ed ei
così traportato tremava, e torceva il collo per riguardarlo. Io allora raccolsi la fistola, che gli era
caduta per la paura. Ma ecco il vostro giudice: andiamo a fargli motto. Salve, o mandriano.
Paride. Salve anche tu, o giovanetto. Chi sei, che qui vieni a noi? E chi sono queste donne che
meni? Di così belle non sogliono andare pei monti.
Mercurio. Non sono donne elle, o Paride. Tu vedi Giunone, e Minerva, e Venere, e me che sono
Mercurio; e ci ha mandati Giove. Ma perchè tremi e impallidisci? Non temere: non è male alcuno.
Ei comanda che tu sia giudice della bellezza loro, e ti dice: Perchè tu sei bello, e sai tutte a dentro le
cose damore, io affido a te questo giudizio. Saprai il premio di questa lite, leggendo la scritta che è
su questo pomo.
Paride. Dammi, vo leggerla; dice: La bella labbia. E come, o potente Mercurio, potrei io, che sono
mortale e boscaiuolo, esser giudice di bellezza sì maravigliosa, che neppur cape nella mente dun
mandriano? Piuttosto i delicati cittadini potriano fare questo giudizio; che io per larte mia potrei
solo discernere tra capra e capra qualè la più bella, e tra giovenca e giovenca. Ma queste sono tutte
egualmente belle, e non so come spiccar gli occhi da una e riguardarne unaltra: non vorrei staccarmi
da colei che prima mi viene veduta, ma vi rimango fiso con gli occhi e con la mente, e la mi pare
bellissima; e se trapasso ad unaltra, anche questa è bella, è incantevole, come le altre che le stanno
vicino: sicchè da ogni parte elle fioccano bellezze sovra di me, e vorrei come Argo aver occhi per
tutto il corpo per rimirarle. Io penso che saria una bella giustizia dare a tutte il pomo. E ci è di più,
che costei viene ad essere sorella e moglie a Giove, e queste gli sono figliuole. Anche per questa
cagione quanto non è pericoloso il giudizio?
Mercurio. Io non so: ma non si può disubbidire al comando di Giove.
Paride. Di questa sola cosa falle persuase, o Mercurio, che le due vinte non me ne vogliano male, e
credano pure che solo gli occhi hanno sbagliato.
Mercurio. Elle dicono che così faranno. Ma attendi ora a fare il giudizio.
Paride. Tenteremo: come posso altrimente? Ma prima voglio sapere se basterà riguardarle così
come stanno vestite, o converrà farle spogliare per contemplarle il più accuratamente
Mercurio. Questo sta a te che se giudice, ordina come vuoi.
Paride. Come io voglio? Vo vederle nude.
Mercurio. Dispogliatevi: tu rimirale: io me ne ritorno.
Giunone. Bene, o Paride: e prima io mi spoglierò affinchè tu sappi che non ho soltanto le braccia
bianche, nè vo superba per aver gli occhi di bue, ma che io sono tutta quanta bella.
Paride. Spògliati anche tu, o Venere.
Minerva. Prima che si spogli, o Paride, fa che ella deponga il cinto, che è incantato, affinchè ella
non ti ammalii con esso. Per altro non bisognava venir qui tutta parata ed azzimata come una
cortigiana, ma mostrar nuda la propria bellezza.
Paride. Han ragione pel cinto: deponilo.
Venere. E perchè anche tu, o Minerva, non ti togli lelmo e non mostri il capo nudo, ma scuoti le
creste, ed atterrisci il giudice? O temi che non paian brutti gli occhi cilestri senza la terribilità degli
sguardi?
Minerva. Eccoti tolto lelmo.
Venere. Ed eccoti il cinto.
Giunone. Dispogliamoci.
Paride. O Giove prodigioso! o vista! o bellezza! o voluttà! o come risplende questa vergine
maestosa e pudica, e veramente degna di Giove! Che dolci sguardi ha costei, che soave ed attrattivo
sorriso! Ma già mi sono beato a bastanza. Deh, vogliate che io vi rimiri ad una ad una, chè ora io mi
confondo, e non so che riguardare, e gli occhi mi sono attratti da tutte le parti.
Venere. Così facciamo.
Paride. Discostatevi voi due: rimani tu, o Giunone.
Giunone. Rimango io. Rimirami prima attentamente, e poi considera se anche è bello il dono che io
ti farò. Se tu giudicherai che sono io la bella, o Paride, tu sarai signore di tutta lAsia.
Paride. Io non fo questo per doni. Ma ritírati: si farà quello che è dovere. E tu, avvicínati, o
Minerva.
Minerva. Eccomi a te. Se tu, o Paride, sentenzierai che la bella son io, non sarai mai vinto in
battaglia, e ne uscirai sempre glorioso: io ti farò pro guerriero, e vincitore.
Paride. Non fanno per me, o Minerva, le guerre e le battaglie: ora come vedi, tutto è pace in Frigia
ed in Lidia, ed il regno di mio padre è tranquillo. Non temere però, nè sarai tenuta da meno, benchè
io non giudico per doni. Ma rivèstiti, e riponti lelmo: ho veduto a bastanza. Venga ora Venere.
Venere. Son qui a te vicino. Rimirami tutta a parte a parte, non tralasciar nulla, contempla le
membra ad uno ad uno; ed ascoltami un poco, o bel giovane. Come prima io tho veduto così
giovane e bello, che non so se in tutta Frigia ci sia uno eguale a te, io ho detto: o che bel garzone!
peccato che tu non lasci queste rupi e questi sassi, e non vivi in una città, e fai appassire tanta
bellezza in questo deserto! Che piaceri hai tu tra questi monti? che godono della tua bellezza i buoi?
A te stava bene di tôrre una donna, non di queste rozze e salvatiche che sono sullIda, ma una Greca
dArgo, o di Corinto, o di Sparta, come sarebbe Elena, giovane e bella, nè punto da meno di me, e
tutta amorosa. Ella se pur ti vedesse, ti dico io, lascerebbe tutto e si darebbe a te, e ti seguirebbe, e
vorrebbe star sempre teco. Certamente anche tu avrai udito parlare di lei.
Paride. Niente, o Venere: ed ora con piacere tudirei se tu me ne parlassi, e mi contassi ogni cosa.
Venere. Ella è figliuola di Leda, di quella bella, alla quale Giove discese mutato in cigno.
Paride. E che aspetto ha ella?
Venere. Ella è bianca, perchè nata di un cigno; ella è delicata, perché nutrita in un uovo; spesso va
nuda, e si esercita nella palestra: ed è di così fina e ricercata bellezza, che fece nascere una guerra,
quando ancor tenerella fu rapita da Teseo. Come prima giunse a fiorire donzella, tutti i migliori
Achei vennero a cercarne le nozze, e fra tutti fu scelto Menelao, sangue de Pelopidi. Se tu vuoi, io
te la darò in moglie.
Paride. Ma come? Sella è daltrui.
Venere. Sei troppo giovane, e rozzo. So io come aggiustar ogni cosa.
Paride. E come? vo saperlo anchio.
Venere. Tu anderai in Grecia, e farai vista di viaggiare: quando sarai giunto a Sparta, Elena ti vedrà:
da quel punto sarà cura mia chella sinnamori di te, e ti segua.
Paride. Questo mi pare incredibile, che ella abbandoni il marito, e voglia venirsene con un barbaro,
con un forestiero.
Venere. Non darti pensiero di questo. Io ho due bei figliuoli, Cupido ed Amore, e te li darò a
compagni del viaggio. Amore si porrà tutto in lei, e la costringerà ad amarti; e Cupido verserà su di
te tutti i suoi vezzi, e ti renderà desiderabile ed amabile: verrò io stessa in aiuto, e mi
accompagneranno le Grazie: e così tutti insieme la farem persuasa.
Paride. Chi sa come questo avverrà, o Venere! Ma io già mi sento acceso di cotesta Elena, e, non so
come, parmi di vederla: già navigo diritto in Grecia, e vo a Sparta, e me ne ritorno menando meco
la donna. Oh quanto mi tarda che tutto questo succeda!
Venere. Ma tu non sarai amato, o Paride, se prima col tuo giudizio non mi farai conciliatrice e
pronuba di queste nozze. Conviene che io ci venga vittoriosa per festeggiare le nozze e la vittoria.
Tutto puoi acquistare con cotesto pomo, lamore, la bellezza, le nozze.
Paride. Temo che dopo il giudizio non ti scorderai di me.
Venere. Vuoi chio tel giuri?
Paride. No; ma promettilo unaltra volta.
Venere. Io ti prometto di darti Elena in moglie, di accompagnarti a lei, e di tornare con entrambi in
Ilio; io ci sarò, e farò ogni cosa per voi.
Paride. Ed Amore, e Cupido, e le Grazie le condurrai?
Venere. Non dubitare: anche il Desio e lImeneo io ci menerò.
Paride. A questo patto io do a te il pomo; a questo patto prendilo.
21.
Marte e Mercurio.
Marte. Hai udita, o Mercurio, la superba spampanata di Giove? Se voglio, ei dice, io collerò dal
cielo una catena, e voi afferrandola e traendo di tutta forza, vi affaticherete invano, e non mi trarrete
giù; ma se io pur voglio trarre in su, non solo voi, ma la terra ancora ed il mare io terrò appesi in
alto. Ed il resto lhai udito. Che egli sia più valente e più forte di ciascuno di tutti noi, io nol nego:
ma superarci tutti quanti, da non poterlo vincere anche se ci mettessimo la terra ed il mare, questa è
grossa, e non la credo.
Mercurio. Taci, o Marte: non è prudenza parlare così, e tirarci un male addosso per una ciancia.
Marte. E credi che io parli così con tutti? con te solo, che ti so segreto. E sai perchè mi veniva più a
ridere nelludirlo così minacciare? voglio dirtene la cagione. Mi ricordavo quando, non ha guari,
Nettuno, Giunone e Pallade gli si levaron contro, e congiuraron di prenderlo, e dincatenarlo, come
ei tremava a verga a verga; ed erano tre! E se Teti impietosita di lui non gli avesse chiamato in aiuto
Briareo dalle cento mani, saria stato legato con tutto il fulmine ed il tuono. Ripensavo a questo, e mi
veniva il riso a quella elegante sparpagliata di parole.
Mercurio. Taci, ti replico; chè può far male a te dire, a me udire di queste cose.
22.
Pane e Mercurio.
Pane. Buon dì, o babbo Mercurio.
Mercurio. Buon dì: ma come io ti son padre?
Pane. Non sei tu il Cillenio Mercurio?
Mercurio. Sì, sono: ma come tu mi se figliuolo?
Pane. Sono tuo bastardello, e nato damore.
Mercurio. Per Giove! bastardo forse di un becco e di una capra. Tu mio, se hai le corna, e cotesto
naso, e la barba irsuta, e i piè forcuti e caprini, e la coda su le natiche?
Pane. Con queste ingiurie che dici a me, tu dimostri la bruttezza del figliuol tuo, o padre. Le
stariano meglio a te, che sai far figliuoli di questo garbo. Che colpa ci ho io?
Mercurio. Chi tieni tu per madre? O mi sarei accozzato con una capra io?
Pane. Non una capra, ma ricòrdati bene, se mai in Arcadia facesti violenza ad una fanciulla libera.
Ti mordi il dito: che cerchi? e non ricordi? La figliuola dIcario, Penelope?
Mercurio. E perchè ella ti fece non simile a me, ma ad un caprone?
Pane. Ti dirò proprio le parole sue. Quando ella mi mandò in Arcadia, mi disse: O figliuolo, io sono
tua madre Penelope Spartana; e sappi che hai per padre il dio Mercurio, prole di Maia e di Giove.
Se tu hai le corna, ed i piedi forcuti, non dispiacertene; chè quando tuo padre mescolossi con me,
per nascondersi, prese la simiglianza di un capro; e però tu se venuto simile al capro.
Mercurio. Per Giove! Mi ricordo di una certa scappata. Dunque io che vo superbo per bellezza, e
sono ancora imberbe, sarò chiamato tuo padre; e a mie spese farò rider la gente per sì bella
figliolanza.
Pane. Io non ti fo vergogna, o padre; chè io son musico, e so sonar la siringa molto bravamente.
Bacco non può far nulla senza di me, e mi ha fatto suo compagno ed agitatore del tirso, ed io gli
guido i balli. Se tu vedessi le greggie mie, quante ne ho in Arcadia e sul Partenio, ne saresti assai
lieto. lo sono signore di tutta Arcadia. Ultimamente pòrsi un grande aiuto agli Ateniesi, e combattei
con tanto valore a Maratona, che in premio mi diedero una spelonca sotto la cittadella. Se talora
vieni in Atene, vi udirai chi è Pane.
Mercurio. Dimmi, hai tolto moglie, o Pane? così mi pare che ti chiamino.
Pane. No, o padre: io son focoso, e non sarei contento di una.
Mercurio. E certamente abbranchi le capre.
Pane. Tu motteggi, io mi sollazzo con Eco, con Pite, e con tutte le Menadi di Bacco: e le mi
vogliono un gran bene.
Mercurio. Sai, o figliuolo, che cosa mi farai gratissima, e che io richiedo da te?
Pane. Comanda, o padre; vediamo.
Mercurio. Vieni a me, ed abbracciami pure; ma guárdati di chiamarmi padre innanzi agli altri.
23.
Apollo e Bacco.
Apollo. E che diremo, o Bacco? che son fratelli nati duna madre Amore, Ermafrodito, e Priapo,
dissimilissimi tra loro per aspetto e per inclinazione? Uno tutto bello, e arciero, e rivestito di gran
potere, è signore dogni cosa: laltro è un personcino cascante, mezzo maschio, e a guardarlo non sai
discernere se è garzone o donzella. Priapo ha quel del maschio anche troppo.
Bacco. Non è maraviglia, o Apollo. Non è Venere cagione di questo, ma i diversi padri che li han
generati: anche da uno padre e da una madre spesso nascono chi maschio, e chi femmina, come voi
due.
Apollo. Sì: ma noi siamo simili, abbiamo le stesse inclinazioni, ed ambedue trattiamo larco.
Bacco. Sino allarco siete simili, o Apollo, e non più in là, chè Diana uccide forestieri in Scizia, e tu
fai il profeta ed il medico.
Apollo. Credi tu che mia sorella goda a stare tra gli Sciti? Ella è deliberata, se capita qualche Greco
in Tauride, di mettersi in mare e tornarsene con lui, essendole venute in orrore quelle uccisioni.
Bacco. Oh! così farà bene. Tornando a Priapo, ti dirò cosa da ridere. Non ha guari fui in Lampsaco,
e passando per la città, egli mi accolse ed ospitò in casa sua, e poi che dopo il convito ce ne
andammo a letto bene alticci, in su la mezza notte si levò il prode, e.... ma mi vergogno a dirlo.
Apollo. Ti tentò, o Bacco?
Bacco. Appunto.
Apollo. E tu che facesti?
Bacco. Che altro, che riderne?
Apollo. Bene: ei non cera da pigliarsela a male. E poi è scusabile: ti vide sì bello, e ti tentò.
Bacco. Oh per questo tenterebbe anche te, o Apollo: tu se sì bellino e con sì bella chioma, che
Priapo anche senza daver bevuto ti abbrancherebbe.
Apollo. Ma non mabbrancherà no, o Bacco: chè io ho la chioma ed una buona saetta.
24.
Mercurio e Maia.
Mercurio. Ed evvi, o madre, un dio in cielo più infelice di me?
Maia. Non dir questo, o Mercurio.
Mercurio. Come non dirlo? se le faccende maffogano, se io solo debbo affaticarmi, e non basto a
tanti servigi? La mattina, come mi levo, debbo spazzar la sala del banchetto, e rifare il letto, e
rassettato ogni cosa, esser pronto ai cenni di Giove, e andare su e giù per istaffetta tutto il dì
portando suoi ordini: e tornato, ancor polveroso come sono, mettermi a preparare lambrosia. Prima
che ci fosse venuto questo garzone per coppiere, anche il nèttare doveva mescerlo io. La pena
maggiore è che solo io fra tutti non posso dormire la notte, e mi conviene condurre le anime a
Plutone, e far da guida ai morti, e star presente al tribunale. Non bastavan le faccende del giorno,
andar nelle palestre, fare il banditore nei parlamenti, insegnare ai retori: mi mancava questaltro
rompicapo de morti. Almeno i figliuoli di Leda si danno lo scambio, e ciascun dessi un giorno è in
cielo, un giorno in inferno: io poi ogni giorno debbo fare sempre lo stesso. I figliuoli di Alcmena e
di Semele, nati di due povere donne, se la godono senza darsi un pensiero: ed io nato di Maia di
Atlante, fo il servitore a loro. Ed ecco, ora ritorno da Sidone, dove il Sire mi ha mandato a vedere
che faceva la figliuola di Cadmo; e senza darmi un po di respiro, mi ha spedito di nuovo in Argo a
visitar Danae: e di là, mha detto, passando per la Beozia, dà unocchiata ad Antiope. Io mi sento
tutto rotto e stracco: e se potessi, vorrei proprio esser venduto; come su la terra i servi di mala
voglia.
Maia. Lascia questo pensiero, o figliuolo: tu se giovanetto, e devi fare ogni servigio a tuo padre. Va
ora, come egli ti ha commesso, salta in Argo, e poi in Beozia: se tardi, avrai a toccar delle busse;
chè chi ama, sdegnasi per nulla.
25.
Giove ed il Sole.
Giove. Che hai fatto, o pessimo dei Titani? Hai distrutto ogni cosa sulla terra, avendo affidato il
cocchio ad un giovane sventato, il quale dove fece tutto bruciare abbassandosi di troppo, e dove
tutto gelare per freddo, allontanando troppo il fuoco. Ha sconvolto e guasto ogni cosa: e se io,
accortomi del fatto, non lo avessi rovesciato col fulmine, non ci saria rimasta degli uomini neppur la
semenza. Bel cocchiere ci mandasti a guidare il carro!
Il Sole. Errai, o Giove; ma non isdegnarti meco, se io mi lasciai svolgere alle tante preghiere del
mio figliuolo. Come potevo credere che ne nascerebbe tanto male?
Giove. E non sapevi quanta cura ci vuole per questo; e come, se punto sesce di via, il mondo va
sossopra? Non conoscevi la foga dei cavalli, e come si deve rattener con forza le redini? Che se si
allenta, vincono il freno subitamente: e così ne portavano costui, or a destra, or a sinistra, or
indietro, or innanzi, or su, or giù, dove essi volevano: ed egli non aveva modo di contenerli.
Il Sole. Sapevo tutto questo, e però stavo alla dura, e non gli volevo cedere il cocchio, ma le lagrime
sue e di sua madre Climene mi vi sforzarono: e mentre io lo poneva sul cocchio lo ammonii come
doveva condurlo, di quanto allentare le redini per montare in su, e poi nello scendere in giù come
tenerle salde e non secondare la foga de cavalli: e gli dissi che pericolo vera a non carreggiar diritto.
Ma egli, fanciullo che era, vedendosi sovra un seggio fiammeggiante, e da quellaltezza guardando
in giù, satterrì, come era naturale: e i cavalli, che non sentivano la mano mia, sprezzando un
fanciullo, usciron di via e fecero questa rovina. Lasciò le redini, credo per paura, e per non cadere,
si teneva afferrato allorlo del seggio. Ma ei già nebbe la pena, ed a me, o Giove, basta il dolore.
Giove. Basta dici, dopo che hai avuto tanto ardire? Per ora ti perdono; ma per lavvenire, se ne fai
unaltra, se ci manderai un altro cocchiere come questo invece tua, sentirai tosto quanto il fuoco del
fulmine è più possente del tuo. Le sue sorelle lo seppelliscano su lEridano, dove egli è caduto dal
carro, e versando lagrime di ambra sovra di lui, sieno mutate in pioppi. Tu raccónciati il cocchio
(che vi si è rotto il timone ed una delle ruote), e séguita a carreggiare, raffrenando bene i cavalli.
Ma ricòrdati di tutto questo, e sta in cervello.
26.
Apollo e Mercurio.
Apollo. Sai dirmi, o Mercurio, chi di questi due è Castore, e chi è Polluce? lo non posso discernerli.
Mercurio. Quegli che fu ieri con noi era Castore, questi è Polluce.
Mercurio. E come li distingui, se ei sono simili?
Mercurio. Perchè costui, o Apollo, porta sul volto le margini delle ferite avute dagli avversarii nel
pugilato, e massime di quei colpi che gli diede Bebrico Amico, quando navigavan con Giasone:
laltro non ha segno alcuno, ed è liscio di volto e senza sfregio.
Apollo. Mhai tolta una pena a dirmi questi segni; chè eglino sono simili in ogni cosa, ciascuno de
due un mezzuovo, una stella sul capo, un dardo in mano, e va sopra un caval bianco: onde io spesso
ho chiamato Castore chi era Polluce, e Polluce chi era Castore. Ma dimmi un po, perchè non sono
con noi tuttadue, ma si scambiano, e ciascuno di loro un giorno è in inferno, un giorno fra noi?
Mercurio. Per lamore che si portano come fratelli. Perchè doveva morire uno dei figliuoli di Leda,
ed un altro essere immortale, però si hanno divisa limmortalità, per goderne ambedue.
Apollo. La divisione è sciocca, o Mercurio: essi non si vedranno mai, e non ottengono quello che
più desideravano: e come in fatti si vedriano se uno è fra gli Dei, uno è fra i morti? E poi io fo il
profeta, Esculapio il medico, tu se ottimo maestro nelle palestre, Diana fa la levatrice, ciascuno di
noi fa unarte utile agli Dei, o agli uomini: costoro che fanno? o debbono mangiare e bere così
scioperati, essendo due pezzi di giovani?
Mercurio. No: ma hanno luffizio di aiutare Nettuno, andar cavalcando sul mare, e se veggono
nocchieri in fortuna, posandosi sul naviglio, salvarli dal naufragio.
Apollo. Bella arte e salutare è cotesta!
IX.
DIALOGHI MARINI.
1.
Dori e Galatea.
Dori. Quel tuo bello innamorato, o Galatea, quel pastore siciliano dicono che sia impazzato di te.
Galatea. Non motteggiare, o Dori: infine è figliuol di Nettuno egli.
Dori. E che fa? fosse anche figliuol di Giove, quandè così salvatico e peloso, e con quella gran
bruttezza dun sol occhio? Sai che gentilezza non fa bellezza.
Galatea. Quellesser peloso e salvatico, come tu di, non lo rende brutto, ma gli dà unaria più
maschile: e quellocchio gli sta bene in fronte, e poi non ci vedria meglio con due.
Dori. Pare, o Galatea, che tu se più innamorata di lui, che egli di te, chè troppo lo lodi.
Galatea. Innamorata no: ma non posso patire che voi ne diciate tanto male; e mi pare che lo fate per
invidia, perchè una volta che ei pascolava il gregge, vedendoci da unaltura che scherzavamo sul
lido alle falde dellEtna, dove tra il monte ed il mare si dilarga la spiaggia, a voi neppure riguardò,
ma io gli parvi la più bella fra tutte, ed a me sola teneva fiso locchio. Questo vi cuoce: perchè è
segno chio sono dappiù, e più degna damore; e voi da non essere neppure guardate.
Dori. Oh, paresti bella ad un pastore che ha un occhio, e credi di fare invidia? E che altro egli ha da
lodare in te, se non che sei bianca? È usato a veder sempre cacio e latte; e tutto ciò che a questo
somiglia gli pare bello. Se vuoi conoscere tu che viso hai, quando è calma, rimirati da uno scoglio
nellacqua, e vedrai non aver altro che un po di pelle bianca dilavata; nella quale che bellezza cè, se
non cè un po dincarnato?
Galatea. Se io son dilavata, almeno ho un amante; ma voi non avete un can che vi voglia bene, nè
pastore, nè marinaio, nè nocchiero. Ma Polifemo fra le altre cose è anche musico.
Dori. Zitto, o Galatea; ludimmo cantare quando testè venne a farti la serenata. O Venere cara,
pareva un asino che ragghiava. E che sorte di cetera aveva egli? Un teschio di cervo scarnato: le
corna eran le braccia della cetera: ei le aveva congiunte, vi aveva messe le corde, e senza tirarle coi
bischeri, vi sonava e vi cantava rozzo e scordato: ei muggiva ad un tuono, e il colascione
rispondeva a un altro: e noi non potevamo tener le risa alludire quel rantolo amoroso. Neppure Eco,
che è sì ciarliera, voleva rispondere a quel gorgogliare, e vergognavasi di parer imitatrice di così
aspra e ridicola canzone. Il zerbino si portava in braccio un orsacchio, a guisa di cagnoletto, tutto
peloso come lui. E chi vorrà invidiarti, o Galatea, cotesto innamorato?
Galatea. E tu, dimmi il tuo, o Dori, che sia più bello, e sappia meglio cantare e sonare la cetera.
Dori. Io non ho innamorato, io, nè mi vanto dessere vagheggiata da alcuno. Cotesto Ciclope che
puzza di caprone, che cibasi di carni crude, come dicono, e che mangia i forestieri che gli capitano,
sia tutto tuo, e tu sii tutta sua.
2.
Il Ciclope e Nettuno.
Ciclope. O padre, vedi che mha fatto uno scellerato di forestiero, mha ubbriacato, e, mentre io
dormivo, mha accecato.
Nettuno. E chi è stato sì ardito, o Polifemo?
Ciclope. Uno che prima disse chiamarsi Nessuno; ma poi che mi scappò, e fu in salvo, disse che
aveva nome Ulisse.
Nettuno. Conoscolo: è lItacese, che ritorna da Ilio. Ma come ha fatto questo? egli non è punto
audace.
Ciclope. Tornandomi dal pascolo, maccorsi che nellantro cerano entrati alcuni, che certo volevano
rubarmi il gregge. Posi allentrata la chiusura, che è un gran petrone, ed acceso il fuoco con un
albero che maveva portato dalla montagna, li vidi che sandavano acquattando, ne abbrancai alcuni,
e me li mangiai saporitamente perchè erano ladri. Intanto quellastutissimo Nessuno, o Ulisse, comei
si chiamava, mi diede bere una bevanda dolce sì ed odorosa, ma traditora e turbatrice, chè tosto
chio la bevvi mi pareva che ogni cosa mi girasse intorno, la spelonca si rivoltasse sossopra, non ero
più in me, ed infine fui preso dal sonno. Allora quegli, aguzzato un palo, e messolo anche al fuoco,
maccecò mentre dormivo. E da quel punto, o Nettuno, io son cieco.
Nettuno. Che sonno profondo avevi, o figliuolo, che non ti svegliasti mentre ti accecavano! Ma
Ulisse come sfuggì? So che egli non avria potuto smuovere quel sasso dallentrata.
Ciclope. Lo tolsi io per acchiapparlo quandegli usciva. Mi sedei presso la porta, e laspettavo con le
mani distese; facevo passar solo le pecore per andare al pascolo, e diedi al montone lincarico di far
le veci mie.
Nettuno. Capisco: si nascose sotto di esse, e se ne uscì. Ma perchè non chiamasti gli altri Ciclopi
per dargli addosso?
Ciclope. Li chiamai, o padre, e vennero; mi domandarono chi è il ladro? io risposi: Nessuno;
credettero chio fossi uscito pazzo, e mi piantarono. E così lo scellerato mi canzonò con quel nome,
e poi per più straziarmi minsultò ancora, e mi disse: Neppure Nettuno tuo padre ti risanerà.
Nettuno. Consòlati, o figliuolo, ti vendicherò io: ed insegnerò io a colui, che se non posso risanare i
ciechi, io posso e salvare e perdere i naviganti. Egli sta ancora in mare.
3.
Alfeo e Nettuno.
Nettuno. Che è questo, o Alfeo? Tu solo tra quanti fiumi mettono in mare, non ti mescoli con le
salse acque, come fan tutti gli altri, nè ti accheti diffondendoti, ma tutto unito e serbando la corrente
dolce, corri puro ed intatto, attuffandoti non so dove, come i gabbiani e gli aghironi; e pare che vuoi
riuscire in qualche parte e ricomparire.
Alfeo. È un affar damore, o Nettuno: e non volermene male; anche tu se stato innamorato molte
volte.
Nettuno. Ed ami una donna, o Alfeo, o pure una ninfa, o una delle Nereidi?
Alfeo. Una fontana, o Nettuno.
Nettuno. Ed in qual paese ella scaturisce?
Alfeo. È unisolana di Sicilia; e la chiamano Aretusa.
Nettuno. La conosco, o Alfeo: non è brutta Aretusa, è una polla dacqua limpida e pura, che vassene
sovra bei ciottolini, e pare tutta dargento.
Alfeo. Veramente la conosci quella fontana, o Nettuno: or io me ne vado da lei.
Nettuno. Va pure; e buona fortuna in amore. Ma dimmi una cosa: dove mai tu vedesti Aretusa, se tu
sei dArcadia, e di Siracusa ella?
Alfeo. Io ho fretta, e tu mindugi, o Nettuno, con certe dimande che non ci han proprio che fare.
Nettuno. Dici bene: corri dalla tua diletta: e riuscendo del mare, mesciti in un letto con la fontana, e
diventate entrambi unacqua.
4.
Menelao e Proteo.(51)
Menelao. Che tu diventi acqua, o Proteo, non è incredibile, perchè sei marino: che diventi albero,
può passare: che ti trasmuti in leone, ti si può credere; ma che tu possa diventar fuoco, stando tu nel
mare, questa è maraviglia, e non la credo.
Proteo. Non è maraviglia, o Menelao: divento fuoco io.
Menelao. Lho veduto cogli occhi miei, ma parmi, a dirla fra noi, che tu ci metta un po di magia, che
tu inganni gli occhi altrui, e che non ti muti nè diventi niente di questo.
Proteo. Ma che inganno ci potria essere in cose sì chiare? Non hai veduto ad occhi aperti in quante
cose mi son trasformato? Se non credi, se ti pare una menzogna, una illusion della vista, quandio
divento fuoco, appressami la mano, e saprai se io solamente paio, o se allora so anche bruciare.
Menelao. Non è sicura questa prova, o Proteo.
Proteo. Mi pare, o Menelao, che tu non hai veduto mai il polpo, nè sai la natura di questo pesce.
Menelao. Ho veduto il polpo; ma non so la sua natura, e volentieri ludirei da te.
Proteo. A qualunque pietra attacca le sue boccucce, e lafferra tra le sue branche, si fa simile a
quella, trascolora la pelle mutandola nel color della pietra, e così si nasconde ai pescatori non
trasmutandosi nè comparendo qualè, ma sembrando simile alla pietra.
Menelao. Così dicono: ma il fatto tuo è più maraviglioso, o Proteo.
Proteo. I non so, o Menelao, a chi altro crederesti, quando non credi agli occhi tuoi.
Menelao. Lho veduto, sì: ma è troppo gran prodigio che uno diventi acqua e fuoco.
5.
Panope e Galene.
Panope. Vedesti, o Galene, ieri che fece la Discordia sul finir del banchetto in Tessaglia, perchè non
vi fu convitata?
Galene. Io non fui a banchettar con voi, o Panope, chè Nettuno mi comandò di serbare in quel
mentre tranquillo il mare. Ma che fece la Discordia, se ella non vi fu?
Panope. Già Teti e Peleo erano andati nel talamo, condottivi da Anfitrite e da Nettuno. La Discordia
colse il tempo, e non veduta da nessuno (era cosa facile, chè chi beveva, chi schiamazzava, chi
stava attento a udire Apollo sonar la cetera, le Muse cantare), gettò nella sala del banchetto un
pomo bellissimo, tutto doro, o Galene, e con una scritta, che diceva: la bella labbia. Quello ruzzolò,
e venne, come a posta, dove erano sedute Giunone, Venere e Minerva. Poichè Mercurio lo raccolse,
e lesse la scritta, noi altre Nereidi non dicemmo una parola (e che ci conveniva fare quando cerano
quelle?); ma tra loro surse contesa, e ciascuna lo voleva essa: e se Giove non le avesse separate,
sarien venute sino alle mani. Lo pregarono che diffinisse egli la lite, ma ei rispose: Di questo non
voglio giudicare io; ma andato sullIda da Paride figliuolo di Priamo, il quale è fine conoscitor di
bellezze, sa giudicarne, e non faria torto a nessuna.
Galene. E le Dee che hanno fatto, o Panope?
Panope. Oggi, credo, vanno sullIda; e qualcuno verrà in breve ad annunziarci la vittoriosa.
Galene. Te lo dico ora io: nessuna sarà superiore a Venere nel paragone; se pure il giudice non ha le
traveggole agli occhi.
6.
Tritone, Nettuno, Amimone.
Tritone. A Lerna, o Nettuno, viene ogni dì per attignere acqua una vergine, chè una bella cosa. Io
non ricordo daver veduto fanciulla di più ghiotta bellezza.
Nettuno. È libera ella, o Tritone, o è unancella che porta acqua?
Tritone. No: ella è figliuola di Danao, una delle cinquanta, e chiamasi Amimone: i mi sono
informato del suo nome e della casa. Questo Danao educa duramente le figliuole, vuole che
facciano ogni cosa da sè, le manda per acqua, e le avvezza a far volentieri tutte le altre faccende.
Nettuno. E viene sola per sì lunga via da Argo a Lerna?
Tritone. Sola: sai che in Argo non vè acqua, e bisogna sempre portarvela.
Nettuno. O Tritone, a parlarmi di questa fanciulla me ne hai fatto venire una gran voglia. Andiamo
da lei.
Tritone. Andiamovi, già è lora dattignere: ella sarà quasi a mezza via per Lerna.
Nettuno. Dunque aggiogami il cocchio: ma non perdiam tempo a porre il giogo ai cavalli, e
preparare il cocchio: conducimi uno de più veloci delfini: cavalcherò sovresso subito.
Tritone. Eccoti un delfino velocissimo.
Nettuno. Bene: andiamo: tu tiemmiti presso, o Tritone. Quando saremo in Lerna, io mappiatterò in
qualche luogo, tu farai la vedetta. Come sentirai che la savvicina....
Tritone. Eccotela vicino.
Nettuno. Bella, o Tritone, e fresca vergine. Oh, dobbiam rapirla.
Amimone. O rapitore, dove mi meni? Tu sei un rubator di fanciulle: certo tha mandato lo zio
dallEgitto. Oh, io chiamerò il babbo.
Tritone. Taci, o Amimone: egli è Nettuno.
Amimone. Che Nettuno dici? E tu, o uomo, perchè mi fai forza, e mi trascini al mare? Io affogherò,
misera me, io affondo.
Nettuno. Non temere, non avrai male. Io farò qui spicciare una fontana, che avrà il tuo nome,
percotendo col tridente questa pietra vicina al lavatoio: tu sarai beata, e sola fra le tue sorelle non
porterai acqua quando sarai morta.
7.
Noto e Zefiro.
Noto. Questa giovenca, o Zefiro, che Mercurio conduce per mare in Egitto, è quella che fu
sverginata da Giove che nera preso damore?
Zefiro. È quella, o Noto: allora non era giovenca, ma una donzella, figliuola del fiume Inaco: ora
Giunone lha così trasmutata per gelosia, essendosi accorta che Giove nera innamorato.
Noto. E lama anche ora chella è vacca?
Zefiro. Molto: e però lha mandata in Egitto, ed ha ordinato a noi di non muovere fiato sul mare,
finchè ella nol tragitterà a nuoto: colà sgraverassi del ventre, che è già gravida, e sarà Dea ella ed il
parto.
Noto. Dea una giovenca?
Zefiro. Sì, o Noto: e avrà signoria su i naviganti, come ha detto Mercurio, e sarà nostra regina, e a
suo talento ci comanderà di soffiare o di restarci.
Noto. Dobbiam dunque prestarle ossequio, o Zefiro, se già è nostra regina.
Zefiro. Certamente: e cosi ci sarà benigna. Ma già ha valicato, ed è uscita su la riva. Vedi come non
cammina più su quattro piedi, Mercurio lha rizzata, e lha rifatta donna bellissima.
Noto. Oh, che maraviglia, o Zefiro: non più corna, nè coda, nè unghie fesse, ma una leggiadra
donzella. Oh, e Mercurio perchè si tramuta egli, e di giovanetto che era, ha presa la faccia di cane?
Zefiro. Non ci brighiam di tante cose noi: egli sa meglio di noi che deve fare.
8.
Nettuno e Delfini.
Nettuno. Bene, o Delfini, voi siete sempre amici degli uomini. Una volta portaste allIstmo il
figlioletto dIno, avendolo raccolto sotto Scironide, donde era caduto con la madre: ora tu thai preso
sul dorso questo ceterista di Metinna, e lhai portato al Tenaro con tutto labbigliamento e la cetera; e
non hai voluto che fosse bruttamente morto dai marinai.
Delfini. Non maravigliarti, o Nettuno, se facciam bene agli uomini; chè noi di uomini or siamo
pesci.
Nettuno. Io biasimo Bacco, che dopo di avervi vinti in navale battaglia, vi trasmutò così: dovea
bastargli davervi soggiogati, come tanti altri. Ma come è andato il fatto di questo Arione, o Delfino?
Un Delfino. Periandro gli voleva gran bene pel suo gran valore nellarte, spesso mandava per lui, e
gli faceva gran doni. E così essendo egli arricchito, sentì un desiderio di tornare a Metinna sua
patria per farvi mostra della sua ricchezza. E salito sovra una nave di certi malvagi uomini, si fece
vedere che portava molto oro ed argento: onde come furono in mezzo allEgeo, gli diedero addosso i
marinai. Allora egli (io ho udito ogni cosa, chè io nuotava presso la barca) disse loro: Giacchè
volete far questo di me, concedetemi solo che io, preso il mio abbigliamento e cantando la mia
canzone di morte, mi getti da me stesso in mare. I marinai glielo concessero: egli si abbigliò tutto, e
cantò assai dolcemente: e poi cadde in mare, come per morirvi: ma io lo raccolsi, me lo posi sul
dorso, e lho portato volentieri sino al Tenaro.
Nettuno. Bravo, o delfino! tu ami le opere delle muse. Tu lhai ben rimeritato della dolce canzone
che ti fece udire.
9.
Nettuno, Anfitrite, e Nereidi.
Nettuno. Questo stretto dove cadde la povera Elle, si chiami da lei Ellesponto. Voi, o Nereidi,
pigliate il cadavere della fanciulla, portatelo presso la Troade, affinchè sia sepolto da quei del paese.
Anfitrite. No, o Nettuno, ma stia sepolta qui nel mare del suo nome. Gran pietà mi fa ella, che patì
tanto dalla madrigna.
Nettuno. Non è lecito questo, o Anfitrite; e poi non è bello che ella giaccia qui sotto larena; ma sarà
sepolta, come ho detto, nella Troade o nel Chersoneso. Sarà un gran conforto per lei che tra poco la
madrigna Ino patirà lo stesso: perseguitata da Atamante, caderà in mare dalla vetta del Citerone,
precipitandovi con un figliuolo in collo. Ma costei dovrem salvarla: Bacco vuole questo favore,
perchè Ino gli fu nutrice e balia.
Anfitrite. No, non dobbiamo, chè ella è una malvagia.
Nettuno. Ma non possiamo, o Anfitrite, negare questa grazia a Bacco.
Nereide. Ma la fanciulla per qual cagione cadde giù dal montone, quando il fratel suo Frisso arrivò
a salvamento?
Nettuno. È naturale: egli era giovanetto, e poteva contrastare al flutto: ma ella inesperta, cavalcando
in quella strana guisa, e guardando giù nella profondità immensa, si smarrì; e traportata dalla
corrente, aggirandole il capo per la rapidità dellandare, non ebbe più forza di attenersi alle corna del
montone, e cadde in mare.
Nereide. E la madre Nefele non doveva aiutarla nel cadere?
Nettuno. Doveva: ma il fato è più possente di Nefele.
10.
Iride e Nettuno.
Iride. O Nettuno, quellisola vagante, che fu svelta dalla Sicilia e che ancor va nuotando sottacqua,
quella, Giove dice, fermala, discoprila, e fa che sorga chiara in mezzo allEgeo, e rimanga ben salda,
perchè egli ne ha bisogno.
Nettuno. Sarà fatta ogni cosa, o Iride: Ma che bisogno ha egli di farla apparire e fermare?
Iride. Sovressa deve sgravar Latona, che ha già i dolori del parto.
Nettuno. E che? in cielo non cè luogo da partorirvi? E se non cè, la terra, che è sì grande, non
potrebbe accoglierne il parto?
Iride. No, o Nettuno. Giunone fe giurare alla Terra un gran giuramento di non dar ricetto a Latona
quando fosse sul parto. Questisola non è compresa nel giuramento, perchè allora non appariva.
Nettuno. Intendo. Férmati, o isola, e sorgi dal profondo mare, e non affondare più; ma rimanti
salda, ed accogli, o isola fortunata, i figliuoli dei fratel mio bellissimi tra gli Dei: E voi, o Tritoni,
trasportate Latona su di essa, e sia calma per tutto. E quel dragone, che ora furioso la persegue e la
impaurisce, come prima nasceranno i fanciulli lo uccideranno, e vendicheranno la madre. Tu
riferisci a Giove che tutto è pronto. Delo è fermata:(52) venga Latona, e vi partorisca.
11.
Il Xanto ed il Mare.
Il Xanto. Raccoglimi, o Mare, vedi che ho sofferto, spegnimi lardore di queste piaghe.
Il Mare. Chi tha così concio, o Xanto? chi ti ha bruciato?
Il Xanto. È stato Vulcano. Misero me! son divenuto un carbone, e ribollo tutto.
Il Mare. E perchè ti ha gettato il fuoco addosso?
Il Xanto. Pel figliuolo di Teti. Come ei menava strage de Frigi, io lo pregai che cessasse da quella
furia, non mi chiudesse coi cadaveri la corrente, ed egli niente: io allora per pietà di quei miseri, gli
andai addosso, quasi per sommergerlo, sicchè avesse paura e non uccidesse tanta gente. Allora
Vulcano, che per caso mi era vicino, mi fu sopra con tutto il fuoco che aveva nella fucina, e
nellEtna, e in ogni parte; mi bruciò salci e tamarigi, mi arrostì i poveri pesci e le anguille, mi fe
tutto ribollire, e per poco non minaridì. Vedimi come mi son fatto per tante scottature.
Il Mare. Ei pare che tu sei torbido, e caldo; il sangue è dei cadaveri, ed il caldo è del fuoco, come tu
di. Ma ti sta bene, o Xanto, che te la volesti pigliare con un mio nipote, non avendo rispetto che egli
era figliuolo duna Nereide.
Il Xanto. Ma non doveva io aver pietà de Frigi miei vicini?
Il Mare. E Vulcano non doveva aver pietà di Achille figliuolo di Teti?
12.
Dori e Teti.
Dori. Perchè piangi, o Teti?
Teti. Ho veduto, o Dori, una bellissima donzella in una cesta, messavi dal padre, ella ed un bambino
suo testè nato. Il padre comandò ai marinai di prender la cesta, e, come si fosser molto dilungati
dalla terra, di gettarla nel mare; affinchè la sventurata perisse ella ed il suo fanciullino.
Dori. E perchè, o sorella? Oh, dimmelo, se il sai.
Teti. Essendo ella bellissima, Acrisio suo padre per serbarla vergine la chiuse in una stanza di
bronzo. Se è vero, non so, ma dicono che Giove tramutato in oro venne a lei piovendo dalla soffitta;
e che ella accogliendo il dio che le scorreva nel seno, ne divenne gravida. Accortosene il padre, che
è un vecchio salvatico e geloso, sdegnossene fieramente: e credendo che avesse avuto che fare con
tuttaltri, ancor tenera del parto la gettò in quella cesta.
Dori. E che faceva ella, o Teti, quando vera messa?
Teti. Di sè non parlava, o Dori, e sopportava la sua condanna; ma pregava pel suo bambino che non
luccidessero, e piangendo mostrava allavolo quella bellissima creaturina, che inconsapevole delle
sue sventure sorrideva guardando al mare. Oh, mi si tornano a riempir gli occhi di lagrime, come
me ne ricordo.
Dori. Hai fatto piangere anche me. E sono già morti?
Teti. No: la cesta va galleggiando attorno Serifo, e vi son vivi tutti e due.
Dori. E perchè non la salviamo, spingendola nelle reti dei pescatori di Serifo? essi nel tirarle la
salveranno certamente.
Teti. Ben dici: facciamolo. Non perisca nè ella nè quel suo fanciullino sì bello.
13.
Nettuno ed Enipeo.(53)
Enipeo. Non istà bene questo, o Nettuno, a dire il vero: ingannarmi linnamorata, prendendo le mie
sembianze, e sverginarmela: ella credeva che glielo facessi io, però si stette.
Nettuno. Ma tu, o Enipeo, eri uno sprezzante, un freddo con una sì bella fanciulla che veniva ogni
giorno da te, tamava perdutamente, e tu non te ne curavi, e godevi di affliggerla. Ella andava
ruzzando sulle tue rive, entrava nellacqua, spesso si lavava, si struggeva di essere teco, e tu la tenevi
a badalucco.
Enipeo. E che? E per questo tu dovevi rubarne lamore, fingerti dessere Enipeo invece di Nettuno,
ed ingannar quella semplice fanciulla di Tiro?
Nettuno. Tardi se divenuto geloso, o Enipeo, e prima eri sprezzante. Ma Tiro non ha sofferto alcun
male, perchè ha creduto che il suo fiore lhai tu avuto.
Enipeo. No: chè tu glielo dicesti, andandotene, che eri Nettuno: e di questo ella si è più doluta; ed io
sono offeso di questo, che tu thai goduto il mio, ed involgendo e nascondendo te e lei in unonda
porporina, thai beccata la fanciulla in vece mia.
Nettuno. E sì, perchè tu te ne mostravi svogliato, o Enipeo.
14.
Tritone, Ifianassa, ed altre Nereidi.
Tritone. Quella balena, o Nereidi, che voi mandaste contro Andromeda figliuola di Cefeo, non
offese la fanciulla, come credevate, anzi è già morta.
Una Nereide. E chi lha morta, o Tritone? Forse Cefeo, che espostale la donzella come ésca, e
messosi in agguato con molti suoi, lha assalita ed uccisa?
Tritone. No: ma vi ricordate, specialmente tu, o Ifianassa, di Perseo, di quel figliolino di Danae, che
con la madre fu messo in una cesta e gittato in mare dallavolo, e che voi salvaste per la pietà che ne
aveste?
Ifianassa. Me ne ricorda, or devessere garzone, gagliardo e bello.
Tritone. Egli ha uccisa la balena.
Ifianassa. E perchè, o Tritone? Non doveva rimeritarci così di averlo salvato.
Tritone. Vi conterò per filo ogni cosa. Fu egli mandato contro le Gorgoni, a compiere questaltra
fatica comandatagli dal re. Come giunse in Libia, dove erano....
Ifianassa. E come vandò? solo? o menò seco altri guerrieri? la via è sì difficile!
Tritone. Vandò per aria, chè Minerva gli diede le ali. Come egli venne dovelle dimoravano, e,
credo, dormivano, tagliò la testa di Medusa, e tornossene rivolando.
Ifianassa. Come le vide? Elle sono invisibili: e se uno pur le vedesse, non vedria più altra cosa.
Tritone. Minerva gli porse lo scudo (ho udito lui stesso raccontar queste cose ad Andromeda e poi a
Cefeo), Minerva su lo scudo brunito, come in uno specchio, gli fece vedere limmagine di Medusa:
ed egli afferrandole con la mano sinistra la chioma, e riguardando sempre nella immagine, con la
destra armata di una falce le troncò il capo; e prima che le sorelle si destassero, rivolossene. Poichè
fu su questo lido di Etiopia, volando più presso alla terra, scòrse Andromeda, esposta sovra uno
scoglio sporgente in mare, legata, bellissima, con le chiome sparte che le ricopriano a mezzo le
ricolme mammelle. Da prima nebbe pietà, e le dimandò perchè stesse a cotal pena; indi a poco se
naccese damore, e per salvar la fanciulla, si deliberò di porgerle ogni aiuto. E come la balena
savvicinava terribile per divorare Andromeda, il giovanetto libratosi in aria, e brandita la falce, con
una mano menavale di gran colpi, e con laltra le mostrava la Gorgone, e la faceva divenir pietra. La
belva moriva ed insieme impietriva a parte a parte, dove Medusa guardava. Egli disciolse i legami
della vergine, e prendendola per mano, laiutò a scendere dallo scoglio tutta tremorosa e che mal si
reggeva. Ed ora ei la sposerà nelle case di Cefeo, e poi la condurrà in Argo: onde ella invece di
morte, trovò nozze che non si sperava.
2a Nereide. Non mi dispiace come la cosa sia riuscita. In che ci offese la povera donzella, se la
madre per vantarla disse chella era più bella di noi?
3a Nereide. Avremmo dato così un gran dolore alla madre con la pena della figliuola.
2a Nereide. Non ricordiamo più, o Dori, di queste cose, se una donna barbara ha parlato da sciocca.
Le basti la pena che le abbiam data, a farla temer tanto per la figliuola. Ora rallegriamoci delle
nozze.
15.
Zefiro e Noto.
Zefiro. Non mai ho veduto sul mare un corteo più magnifico, dacchè io sono e spiro. Non lhai tu
veduto, o Noto?
Noto. Di qual corteo parli, o Zefiro? e chi lo ha fatto?
Zefiro. Hai perduto uno spettacolo bellissimo; e non vedresti il somigliante mai più.
Noto. Io avevo un gran fare nel mare Eritreo; soffiavo sovra una parte dellIndia, su tutto il lido di
quella regione: onde non ho veduto quel che tu dici.
Zefiro. Conosci Agenore di Sidone?
Noto. Sì: il padre di Europa. Ma che?
Zefiro. Di lei appunto ti racconterò.
Noto. Forse che Giove nè innamorato da molto tempo? Cotesto già lo sapevo.
Zefiro. Sai dellamore: odi ora il resto. Europa era discesa sul lido a scherzare con le compagne: e
Giove fattosi torello scherzava con esse, e pareva bellissimo: Aveva una bianchezza grande, le
corna ben ricurve, pareva assai mansueto, ruzzava anchegli sul lido, e soavemente mugliava; onde
ad Europa venne ardire di salirgli sul dorso. E come fu salita, rattissimo Giove corse al mare, e
portandola nuotava: ed ella tutta smarrita attenevasi con la mano sinistra ad un corno per non
cadere, e con laltra si stringeva il peplo che ventilava.
Noto. Dolce spettacolo ed amoroso tu vedesti, o Zefiro: Giove nuotante portar sul dorso lamata
donzella.
Zefiro. Il più bello, o Noto, fu quel che seguì. Il mare subito divenne senzonde, e si distese in calma
perfetta. Noi tutti taciti, e non altro che spettatori del fatto, seguitavamo. Gli Amori sorvolando di
poco le acque, e quasi sfiorandole con le punte dei piedi, portavano faci accese in mano, e
cantavano un imeneo. Le Nereidi cavalcando delfini, e molte sorgendo mezzo nude dalle acque,
applaudivano. La famiglia dei Tritoni, e degli altri marini non dispiacenti alla vista, tutti guizzavano
ballando intorno la fanciulla. Nettuno montato sul cocchio, avendo a fianco Anfitrite, precedeva
lieto facendo la via al nuotante fratello. Dietro tutti Venere portata da due Tritoni, e sedente in una
conca, spargeva fiori dogni sorte su la novella sposa. Questo fu dalla Fenicia sino a Creta: dove,
come giunsero, non apparve più il toro, ma Giove, che presa Europa per mano, la menò nellantro
Ditteo, arrossendo ella e tenendo gli occhi bassi, chè già sapeva perchè vera menata. Noi ce ne
tornammo, chi qua, chi là, a sconvolgere il mare.
Noto. O Zefiro, tu ti beasti con questa vista: ed io vedeva grifi, elefanti, ed uomini negri.
X.
DIALOGHI DEI MORTI.
1.
Diogene e Polluce.
Diogene. O Polluce, i vo darti un incarico. Poichè tosto ritornerai su, chè, pensomi, spetta a te di
riviver dimani, se mai ti avvieni in Menippo il cinico (lo troverai in Corinto presso il Craneo, o nel
Liceo, deridendo i filosofi che si bisticcian tra loro), digli così: O Menippo, Diogene ti esorta, se hai
riso a bastanza delle cose della terra, a venir qui, dove riderai di più ancora. Costà il riso aveva
sempre un certo dubbio, quel tale dubbio: chi sa bene quel che sarà dopo la vita? ma qui non
cesserai di ridere di tutto cuore, come fo io adesso; massime quando vedrai i ricchi, i satrapi, i
tiranni così miseri e trasfigurati che si riconoscono ai soli lamenti; e come son codardi ed ignobili
quando ricordano chi furono nel mondo. Digli questo: e di più che si porti la bisaccia piena di lupini
assai, di un uovo lustrale, e di qualche altra coserella trovata in qualche trivio, o sovra una mensa
consacrata ad Ecate.
Polluce. Glielo dirò, o Diogene: ma affinchè io possa riconoscerlo, che fattezze ha egli?
Diogene. È vecchio, è calvo, con un mantello sbrandellato che muovesi ad ogni poco di vento ed è
rattoppato di vari colori; ride sempre, e spesso motteggia cotesti filosofi vanitosi.
Polluce. A questi segni è facile riconoscerlo.
Diogene. Vuoi che ti dica ancor due parole da riferirle ai filosofi?
Polluce. Di pure: le parole non pesano.
Diogene. Non altro che questo: ammoniscili che smettano le inezie, e il contender degli universali, e
il mettersi le corna tra loro, e il far coccodrilli, o il riempir la mente di quistioni difficili.(54)
Polluce. Ma mi diranno che io sono un ignorante ed uno sciocco che biasimo la loro sapienza.
Diogene. E tu di loro da parte mia, che piangano.
Polluce. Riferirò anche questo, o Diogene.
Diogene. Ed ai ricchi, o carissimo Polluce, porta anche questambasciata da parte nostra: Perchè, o
sciocchi, serbate loro? perchè defraudate voi stessi, calcolando usure, e ponendo talenti sovra
talenti, se tra poco non vi bisogna più dun obolo per venir qui?
Polluce. Lo dirò anche a costoro.
Diogene. E di ai leggiadri ed ai forzuti, come a Megillo di Corinto, e a Damasseno il palestrita, che
tra noi non ci ha più nè chiome bionde, nè occhi cilestri o neri, nè lincarnato del volto; non ci ha nè
valide membra, nè omeri robusti; ma di che siam tutti zucconi, teschi nudi di bellezza.
Polluce. Non mi grava dir questo anche ai leggiadri ed ai forzuti.
Diogene. Ed ai poveri (i quali son molti, e stentano, e si dolgono della miseria) di che non piangano
e non si lamentino: racconta loro come qui siam tutti duna condizione, e come ci vedranno i ricchi
non punto migliori di loro. E piacciati di sgridare da parte mia i tuoi Spartani, e dire che sono
divenuti altri.
Polluce. No, o Diogene: non mi commetter nulla per gli Spartani. Ad essi no; agli altri riferirò quel
che mi hai detto.
Diogene. Lasciamoli, giacchè così vuoi: ma non ti smenticare quello che tho commesso per gli altri.
2.
Plutone, Menippo, Mida, Sardanapalo, e Creso.
Creso. O Plutone, noi non possiamo più sopportare questo can di Menippo, che ci sta vicino: o
manda altrove lui, o ce ne anderemo noi in altro luogo.
Plutone. E che male vi fa egli, se è morto come voi?
Creso. Quando noi piangiamo e lamentiamo ricordando quello che abbiamo lasciato lassù, questo
Mida loro, Sardanapalo le sue morbidezze, ed io i tesori miei, costui ci beffa e cinsulta,
chiamandoci schiavi e vigliacchi: spesso canta mentre noi piangiamo, ed è proprio insopportabile.
Plutone. Che dicono questi, o Menippo?
Menippo. Il vero, o Plutone. Io li abborrisco questi vili e questi ribaldi, ai quali non basta di esser
vissuti male, ma anche morti si ricordano e parlano di lassù. E però io ho gusto a trafiggerli.
Plutone. Ma non conviene cotesto. Han di che dolersi, avendo perduto assai.
Menippo. Sei matto anche tu, o Plutone, a compatire i loro sospiri?
Plutone. Compatire no; ma non vorrei parti tra voi.
Menippo. Sappiatelo una volta, o schiuma di tutti i ribaldi Lidii, Frigii ed Assirii, che io non
cesserò; e dovunque anderete, io vi seguiterò molestandovi, scanzonandovi e beffandovi.
Creso. E non è questa uningiuria?
Menippo. Questo no: era ingiuria quel che facevate voi, voler essere adorati, insultare agli uomini
liberi, senza pur darvi un pensiero di dover morire. Piangete ora, che siete dispogliati di ogni cosa.
Creso. Di molte e grandi ricchezze!
Mida. Ed io, di quantoro!
Sardanapalo. Ed io, di quante morbidezze!
Menippo. Ora sta bene: così dovete fare. Piangete voi, ed io vi ripeterò spesso in canzone quel
Conosci te stesso. A cotesti pianti saccorda bene questa canzone.
3.
Menippo, Anfiloco, e Trofonio.
Menippo. Ora che voi siete morti, o Trofonio ed Anfiloco, io non so come voi siete tenuti profeti e
degni di avere templi, e come quegli sciocchi degli uomini si son persuasi che voi siete Dei.
Anfiloco. E che colpa ci abbiam noi, se essi per ignoranza credono queste cose dei morti?
Menippo. Ma non le crederiano, se voi, quanderavate vivi, non foste stati impostori, spacciando di
conoscere il futuro, e di poterlo predire a chi ve ne richiedeva.
Trofonio. O Menippo, questo Anfiloco risponda per sè quel che gli pare: per me io ti dico chi sono
un eroe, e rendo oracoli a chi viene da me. Tu parmi che non se stato mai in Livadia: chè non saresti
così incredulo.
Menippo. Che di tu? Se io non vado in Livadia, se io non mi vesto di lino in modo ridicolo, e con
una focaccia in mano io non entro carponi per la stretta buca nella spelonca, io non posso conoscere
che tu non sei altro che un morto, come tutti noi altri, della impostura in fuori? Ma, deh, pel tuo
oracolo, dimmi che cosa è leroe? chè io nol so.
Trofonio. Un composto di uomo e di Dio.
Menippo. Vuoi dire che non è nè uomo nè Dio, ed è tuttadue? E quella tua metà chera dio, dove lhai
lasciata ora?
Trofonio. A rendere oracoli in Beozia, o Menippo.
Menippo. Io non so tu che diamine dici, o Trofonio: tu sei tutto morto, ed io lo vedo benissimo.
4.
Mercurio e Caronte.
Mercurio. Facciamo un po il conto di quel che mi devi, o navicellaio, affinchè dipoi non sabbia a
contendere.
Caronte. Facciamolo, o Mercurio: chè è meglio chiarirlo, e non pensarvi più.
Mercurio. Mi hai commesso láncora, lho portata per cinque dramme.
Caronte. È troppo.
Mercurio. Per Plutone, cinque ne ho snocciolate; e due oboli per un volgitoio di remo.
Caronte. Metti cinque dramme e due oboli.
Mercurio. Per un ago da risarcire la vela cinque oboli.
Caronte. Mettivi anche questi.
Mercurio. La cera per turar le fessure del battello, i chiovi, e la funicella di cui tu hai fatto la scotta,
due dramme in tutto.
Caronte. Bene: questo è a buon mercato.
Mercurio. Questo è tutto. Se pur non mè sfuggito qualche cosa nel conto. Or quando mi darai i
quattrini?
Caronte. Ora è impossibile, o Mercurio mio. Se una peste o una guerra ci manderà un po di folla,
allora potrò raspare qualche guadagno sovra i conti del nolo.
Mercurio. E debbo io desiderare il male altrui per esser rimborsato duna miseria?
Caronte. E non cè altro modo, o Mercurio. Ora ci cápitano pochi, come tu vedi: chè per tutto è pace.
Mercurio. Meglio così; e non importa se tu non mi paghi subito. Ma quegli antichi, o Caronte, ti
ricordi che omaccioni erano! tutti robusti, pieni di sangue, e tutti morti di ferite! Ora chi muore
avvelenato dal figliuolo o dalla moglie, chi per intemperanza ci porta tanto di pancia e di piedi
gonfi: tutti scialbi, frollati, e ben diversi da quelli. Molti ci vengono a cagione delle ricchezze, per le
quali sogliono farsi mille insidie tra loro.
Caronte. Queste ricchezze sono assai desiderate.
Mercurio. Però neppure io crederei di far male a chiederti quel che mi devi.
5.
Plutone e Mercurio.
Plutone. Conosci tu quel vecchio, quel gran vecchione, dico, quel ricco Eucrate, che non ha
figliuoli, ed ha attorno almeno cinquantamila che uccellano alla sua eredità?
Mercurio. Sì: tu di quel di Sicione: ma perchè?
Plutone. Lascialo vivere, o Mercurio, oltre i novantanni che ha, altrettanti, e, se è possibile, anche di
più. E quei suoi adulatori, il giovane Carino, e Damone, e gli altri, afferrameli tutti ad uno ad uno.
Mercurio. Questa parrebbe una cosa strana.
Plutone. Ma giustissima. Perchè essi desiderargli la morte, o agognarne le ricchezze non essendogli
parenti? E la maggiore malvagità loro è che, mentre gli desiderano questo, gli fan carezze in
pubblico: se egli è ammalato, mostrano a tutti il pensiero che se ne danno; e si botano per farlo
ristabilire; e trovan sempre nuove maniere di adulazioni. Onde egli non muoia; e coloro se ne
vadano prima di lui con questo nodo in gola.
Mercurio. Lavranno a patir curiosa quei furfanti. Egli li pasce di grandi parole e di speranze; e par
che sempre voglia morire, e sta meglio dei giovanotti. Essi già simmaginano di spartir fra loro
leredità, e di far vita grassa e lieta.
Plutone. E però egli svecchiando, come Jolao, ringiovanisca; ed essi nel bello delle speranze,
lasciando la sognata ricchezza, vengano qui i tristi con trista morte.
Mercurio. Non dubitare: te li menerò ad uno ad uno tutti e sette, quanti credo che sono.
Plutone. Scopali: ed egli ad uno ad uno li accompagnerà al sepolcro, tutto ringalluzzito per
gioventù.
6.
Tersione e Plutone.
Tersione. E questo è giusto, o Plutone, che io muoia a trenta anni, e che quel vecchiardo di Tucrito,
che nha oltre i novanta, viva ancora?
Plutone. Giustissimo, o Tersione: perchè egli vive non desiderando la morte a nessuno degli amici:
e tu per tutto il tempo tuo, volevi che egli crepasse, aspettandone leredità.
Tersione. E non doveva egli, che è vecchio e non può più usare delle ricchezze, uscir di vita e darvi
luogo ai giovani?
Plutone. Tu fai nuova legge, o Tersione; che chi non può usar più delle ricchezze per i piaceri,
muoia; ma ben altramente il fato e la natura ordinarono.
Tersione. E questo ordine io biasimo. Bisognava fosse altro, e di grado in grado; prima i più vecchi,
poi ciascuno secondo sua età: e non invertire la cosa, non farci vivere un vecchionissimo con tre
denti in bocca, mogio, portato in braccia da quattro servi, col naso che gli gocciola, con gli occhi
cisposi, tutto spiacevole a vedersi, animato sepolcro, deriso dai giovani; e poi far morire bellissimi
giovanetti nel fior della salute: chè questa è come fiume che scorre in su. Almeno si dovria sapere
quando muore il vecchio per non perder le spese e le carezze che gli si fanno. Ma ora è come dice il
proverbio: il carro tira i buoi.
Plutone. Queste cose, o Tersione, accadono con più senno che tu non credi: E voi perchè siete sì
ghiotti della roba altrui, e vi fate adottare dai vecchi che non hanno figliuoli? Ben vi meritate che si
rida di voi, che vi andate a seppellire prima di loro: e tutto il mondo ha gusto a vedere che quanto
più voi desiderate chessi muoiano, tanto più voi morite prima di loro. Avete trovata unarte novella,
far gli spasimati dei vecchi e delle vecchie, massime di quelli che non han figliuoli; chè chi ha
figliuoli non ha spasimati. Ma molti di questi vostri innamorati, accortisi della malizia che è
nellamor vostro, se per caso han figliuoli, fan le viste di odiarli, per aver anchessi lo spasimato.
Quando poi si è allaprir del testamento, il figliuolo e la natura, come è giusto, riprendono ogni cosa,
e gli spasimati rimangono sciocchi, arruotano i denti, e scoppiano di dispetto.
Tersione. È vero quel che tu dici. Quanto del mio sha mangiato Tucrito, che mi pareva sempre
dovesse morire: e quandio lo vedeva, ci gemeva e pigolava come pulcino che esce delluovo: e io, i
mi pensava di metterlo in bara allora allora, e gli mandavo gran doni, per non farmi vincere a
carezze dai miei rivali. Per questi pensieri io perdei il sonno, facevo sempre conti e disegni: e
questo fu anche una causa a farmi morire, la veglia e i pensieri: ed egli, inghiottitasi tutta lesca chio
gli diedi, venne ieri a sepellirmi ridendo.
Plutone. Bene, o Tucrito: vivi lunghissimamente, sempre ricco, sempre ridendoti di costoro: nè
prima morrai che non tavrai mandati innanzi tutti gli adulatori tuoi.
Tersione. Questo piace anche a me, o Plutone; purchè Cariade muoia prima di Tucrito.
Plutone. Stà certo, o Tersione: e Fedone e Melanto e tutti ci verran prima di lui per que medesimi
tuoi pensieri.
Tersione. Così va bene. Or vivi lunghissimamente, o Tucrito.
7.
Zenofante e Callidemide.
Zenofante. E tu, o Callidemide, come se morto? Io, chero parassito di Dinia, empiendomi il sacco
sino alla gola, affogai: tu il sai, che eri presente quandio morii.
Callidemide. Vero, o Zenofante. Ma il fatto mio è assai strano. Hai conosciuto anche tu il vecchio
Tiodoro?
Zenofante. Quel ricco che non ha figliuoli, e al quale tu ti eri cucito a fianco?
Callidemide. Lui: e gli facevo carezze, su la promessa che a morte sua mi farebbe erede. Ma poichè
la cosa andava per le lunghe, e il vecchio viveva più di Titone, trovai una certa scorciatoia per
venire alleredità: comperai un veleno, e persuasi un suo coppiere, come prima Tiodoro cercherebbe
da bere quel vinetto con cui egli suole sempre rinfrescarsi, di tener pronto il veleno, gettarlo nella
tazza, e porgergliela. E gli promisi, se facesse questo, di dargli la libertà.
Zenofante. E che avvenne? Tu dici cosa molto strana.
Callidemide. Quando noi tornammo dal bagno, il garzone teneva pronte due coppe, luna avvelenata
per Tiodoro, laltra per me: ma non so come scambiandole, diede lavvelenata a me, e laltra a
Tiodoro: ei bevve, e pro: io tosto caddi, ed eccomi morto in vece sua. Ma che? tu ridi, o Zenofante?
Sconviene deridere così un compagno.
Zenofante. Rido, che ti fu fatta una galanteria, o Callidemide. E il vecchio che fece?
Callidemide. Prima si turbò del caso subitano: poi capì, credo, come era andata, e rise anchegli del
tiro del suo coppiere.
Zenofante. Ma tu non dovevi prendere la scorciatoia: per la via grande ci saresti venuto più sicuro,
benchè un poco più adagio.
8.
Cnemone e Damnippo.
Cnemone. Questo è il caso di quel proverbio: II cerviatto la fa al leone.
Damnippo. Perchè se sdegnato, o Cnemone?
Cnemone. E mi dimandi perchè sono sdegnato? È stato un inganno crudele: a mio marcio dispetto
ho lasciato uno erede: io maspettava il suo, e gli ho lasciato il mio.
Damnippo. Come è avvenuto?
Cnemone. Io facevo carezze ad Ermolao, gran ricco, senza figliuoli, e presso a morire; ed egli le
accoglieva con piacere. Mi parve di fare una gran pensata a pubblicare il mio testamento, nel quale
gli lasciava tutto il mio; acciocchè egli per cortesia facesse altrettanto a me.
Damnippo. E la fece egli?
Cnemone. Quel che scrisse nel suo testamento non so: io morii di subito, per un tegolo che mi
cadde sul capo. Ed ora Ermolao ha il mio; come un pesce cane, ha inghiottita lesca e lamo.
Damnippo. E il pescatore, aggiungivi. Linganno è cascato su lingannatore.
Cnemone. Lo so: e però piango.
9.
Similo e Polistrato.
Similo. Infine anche tu, o Polistrato, se venuto tra noi, dopo di aver vissuto un centanni, credo.
Polistrato. Novantotto, o Similo.
Similo. E come hai vissuto i trenta dopo di me? io ti lasciai di un settanta.
Polistrato. Assai piacevolmente: benchè ti parrà maraviglia.
Similo. Maraviglia sì: eri vecchio, malsano, anche senza figliuoli, che dolcezze potevi gustar nella
vita?
Polistrato. Io poteva tutto: io avevo molti e leggiadri fanciulli, io bellissime donne, e unguenti, e
vini fragranti, e mense altro che le siciliane.
Similo. Oh, questa è nuova, io ti sapevo molto parco.
Polistrato. Ma tutto questo fiume di beni mi veniva dagli altri, o caro mio. La mattina per
tempissimo innanzi alla mia porta era gran folla, e mi portavano varii e bellissimi doni dogni parte
della terra.
Similo. Diventasti tiranno, o Polistrato, dopo la mia morte?
Polistrato. No: ma ebbi mille amadori.
Similo. Canzoni: amadori tu così vecchio e con quattro denti in bocca?
Polistrato. Altro: e di quelli che sono il fiore della città. Tutto che vecchio e calvo, come mi vedi, e
cisposo ancora, e pieno di catarri, essi mi facevan le più liete carezze; e chi tra loro aveva pure un
mio sguardo, si teneva beato.
Similo. Forse anche tu, come Faone, menasti da Chio qualche Venere, la quale a tue preghiere ti
fece tornar giovane e bello ed amabile?
Polistrato. No, io ero come ero, e mi desideravano.
Similo. Tu parli con enigmi.
Polistrato. E pure è conosciuto il grande amore che si mostra ai vecchi senza prole e ricchi.
Similo. Capisco ora qual era la tua bellezza: avevi Venere doro.
Polistrato. Eppure, o Similo, io non ho goduto poco per quegli amadori, che quasi madoravano: io
spesso per capriccio mi mostravo ingrognato, ne scacciavo alcuni, ed essi gareggiavano e facevano
a chi più mi dovesse stare in grazia.
Similo. Infine come disponesti del tuo?
Polistrato. A ciascuno io dicevo e promettevo di lasciarlo mio erede: e quei credevalo, e cresceva
doni e carezze: ma nel mio vero testamento li mandai tutti alla malora, e scrissi che dovessero
piangere.
Similo. Dopo che tu moristi chi fu tuo erede? forse qualche tuo congionto?
Polistrato. No, per Giove, ma un leggiadro garzonetto frigio.
Similo. Che età aveva costui?
Polistrato. Quasi intorno a ventanni.
Similo. Ora capisco i doni chegli ti faceva.
Polistrato. Ma più di loro egli meritava leredità, quantunque barbaro e cattivo. Egli dunque fu mio
erede: e già i principali cittadini gli van roteando intorno: ora è già annoverato tra i patrizi; e con le
gote rase, e parlando barbaro, già si tiene più nobile di Codro, più bello di Nireo, più sennato di
Ulisse.
Similo. Non mimporta se anche ei comandasse la Grecia; purchè quelli non abbian toccata leredità.
10.
Caronte, Mercurio, e diversi morti.
Caronte. Udite, lè cosa che ci riguarda. Noi abbiamo, come vedete, un po di battelletto, che sotto è
marcio e fa acqua, e se poco inclinerà da una banda, anderà sossopra. Voi venite a folla, ciascuno
con molte cose addosso. Se centrate con questo peso, temo che non farete senno tardi, specialmente
voi altri che non sapete nuotare.
I morti. Come dunque faremo per avere buon tragitto?
Caronte. Ve lo dirò io. Dovete entrar nudi, lasciando su la riva tutti cotesti impacci: chè anche così
appena capirete nel battello. Tu poi, o Mercurio, baderai a non metter dentro alcuno di loro che non
sia leggiero, ed abbia, come ho detto, gettato ognimpaccio. Mettiti in capo alla scala, fà un po di
ricerca a ciascuno, e ricevili, costringendoli ad entrar nudi.
Mercurio. Ben dici, e così faremo. Tu che ti fai innanzi, chi sei?
Menippo. Son Menippo io. Eccoti, o Mercurio, bisaccia e bastone gettati nel palude: feci bene a
neppure portarmi il mantello.
Mercurio. Entra, o Menippo, fiore degli uomini, ed abbi il primo posto presso al nocchiero lassù,
acciocchè riguardi tutti. E questo bello chi è?
Carmolao. Carmolao, quel di Megara, quel tanto amato, il cui bacio valeva due talenti.
Mercurio. Spògliati adunque della bellezza, e delle labbra con tutti i baci, e delle lunghe chiome, e
dellincarnato delle gote, e di tutta la pelle. Bene così: or se leggiero: monta. E tu con quella porpora,
quel diadema, e quel fiero piglio, chi se tu?
Lampico. Lampico, re de Geloi.
Mercurio. E ti presenti, o Lampico, con tutta questa roba indosso?
Lampico. E che, o Mercurio? un re doveva venir nudo?
Mercurio. Qui non cè re, ma ben morti: deponila.
Lampico. Ecco, ho gittata la ricchezza.
Mercurio. Getta anche la grandigia, o Lampico, e la superbia: chè la barca naffonderebbe.
Lampico. Almeno chio mabbia il diadema e il paludamento.
Mercurio. Niente: giù anche questo.
Lampico. Sia. Che più? Ho lasciato ogni cosa, come vedi.
Mercurio. E la crudeltà, e la stoltezza, e la violenza, e il furore, tutto questo devi lasciare.
Lampico. Eccomi spoglio di tutto.
Mercurio. Ora entra. E tu ben tarchiato e carnuto chi se?
Damasia. Damasia latleta.
Mercurio. Ben mi parevi: mi sovviene daverti veduto spesso nelle palestre.
Damasia. Sì, o Mercurio: e ricevimi, che son nudo.
Mercurio. Nudo no, o caro mio, con tante carni addosso: però deponile, chè faresti andar giù la
barca se vi mettessi pure lun de piedi, ma getta coteste corone e i bandi delle tue vittorie.
Damasia. Vedimi, or sono veramente nudo, e di tanto peso quanto gli altri morti.
Mercurio. Così leggiero sta bene. E tu, o Cratone, che hai gettato via le ricchezze, le morbidezze ed
il lusso, non portare la veste in cui ti han sepolto, nè le dignità degli antenati: lascia e nobiltà e
gloria e onori avuti dai cittadini, e iscrizioni poste alle tue statue, e il vanto di avere un gran
sepolcro: chè tutte queste cose pesano anche a ricordarle.
Cratone. Con dolore, ma le getto; come posso altramente?
Mercurio. Caspita! e tu così armato che vuoi? a che porti cotesto trofeo?
Soldato. Fui vincitore in battaglia, o Mercurio; millustrai, e la città mi diede questo onore.
Mercurio. Lascialo sulla terra il trofeo: quaggiù è pace, e non bisogna armi. E costui grave al
vestimento, questo superbo, questo accigliato e pensoso, chi è egli, con sì gran barba sciorinata sul
petto?
Menippo. Qualche filosofo, o Mercurio; o piuttosto qualche ciurmadore pieno dimposture. Fà che si
spogli, e vedrai molte cose ridicole nascoste sotto il mantello.
Mercurio. A te: deponi prima il vestimento; e poi tutto il resto. O Giove! quanta iattanza ei porta
sotto, quanta ignoranza e contese e vanagloria: quante quistioni strane, discorsi spinosi, pensieri
ravviluppati! quanti studii vani, ed inezie, e sciocchezze, e paroluzze. E questo altro? sì, è oro,
amorazzi, impudenza, iracondia, e lusso, e mollezza. Non nascondere, chè io vedo tutto. Deponi
ancora la bugia, lorgoglio, la presunzione. Se vi entri con tutto questo, ci vorria una nave di
cinquanta remi per portarti.
Filosofo. Depongo tutto, giacchè così mimponi.
Menippo. Deponga quella barba ancora, o Mercurio: vedi come è pesante ed irsuta: son cinque
mine di peli almanco.
Mercurio. Dici bene: deponila.
Filosofo. E chi me la raderà?
Mercurio. Questo Menippo: prenderà la scure della nave, e te la taglierà sopra la scala, che gli sarà
come ceppo.
Menippo. No, o Mercurio: dammi una sega, chè saran le risa più grandi.
Mercurio. La scure basta. Or bene: via, mhai fatto un po di viso da uomo, e senti meno del caprone.
Menippo. Vuoi che gli mozzi un po delle sopracciglia?
Mercurio. Sì: ei le alza fin sopra la fronte, gonfiandosi non so perchè. Ma che è? Tu piangi, o
vigliacco? la morte ti fa paura? Entra pure.
Menippo. Bada: ha unaltra cosa assai pesante sotto lascella.
Mercurio. E quale, o Menippo?
Menippo. Ladulazione, o Mercurio, che nella vita gli valse tantoro.
Filosofo. E tu, o Menippo, anche tu deponi la parlantina, la franchezza, il buon umore, il motto, il
riso: chè solo tu ridi fra tutti gli altri.
Mercurio. No: ritienile queste cose: le son vuote, leggiere, e buone pel navigare. E, tu, o Retore,
deponi tanti paroloni, e contrapposti, e cadenze eguali, e periodi, e barbarismi, e le altre pesantezze
del discorso.
Retore. Ecco, le lascio.
Mercurio. Ora va bene. Sciogli la gomena, tiriam su la scala, leviamo láncora, apri la vela, dirizza il
timone, o nocchiero, e andiamo. Perchè piangete, o sciocchi? massime tu, o filosofo, testè
sbarbazzato?
Filosofo. Perchè credevo, o Mercurio, lanima essere immortale.
Menippo. Ei mente per la gola: ben altro lo accora.
Mercurio. E che cosa?
Menippo. Che non isguazzerà più ne sontuosi banchetti, non più uscirà di notte tutto incappucciato
per non farsi conoscere, a girar pe bordelli; nè più la mattina ingannerà i giovani vendendo la
sapienza a danari. Questo lo accora.
Filosofo. E a te, o Menippo, non dispiace che sei morto?
Menippo. Che dispiacere? io andai incontro alla morte che non mi chiamava. Ma mentre parliamo
non udite voi un rumore come di gente che grida su la terra?
Mercurio. Sì, o Menippo, e non viene da un luogo solo. Alcuni convengono in parlamento e si
rallegrano della morte di Lampico, mentre la moglie è afferrata dalle donne ed i figlioletti sono
accoppati co sassi dai fanciulli. Altri in Sicione lodano il retore Diofante che bela il panegirico di
questo Cratone. E la madre di Damasia dolorosa comincia con le donne il piagnisteo sopra il
figliuolo. Tu non se pianto da nessuno, o Menippo: ma te ne stai zitto e solo.
Menippo. Altro! or ora udirai che latrar di cani sovra di me, e che svolazzar di corvi, che verranno a
seppellirmi.
Mercurio. Sei generoso, o Menippo. Ma già siamo arrivati: voi andatevene al tribunale, camminate
diritti per questa via. Io e il nocchiero tragitteremo altri.
Menippo. Buon viaggio, o Mercurio. Avviamoci noi. A che restate? Volere o non volere, si
devesser giudicati: e dicono che le pene sono gravi assai, ruote, avoltoi, pietre. A ciascuno sarà fatto
strettissimo il conto della vita.
11.
Crate e Diogene.
Crate. Conoscevi, o Diogene, il ricco Mirico, quel gran ricco di Corinto, che aveva in mare molte
navi mercantili; e il suo cugino Aristea, ricco anchegli, il quale soleva ripetere quel detto di Omero:
O tu levi me, o io te?
Diogene. E perchè, o Crate?
Crate. Si facevano carezze tra loro, ciascuno sperando leredità dellaltro, chè erano di una età: e
pubblicarono i loro testamenti, nei quali, Mirico, se moriva prima di Aristea, gli lasciava tutto il
suo; e così Aristea a Mirico, se trapassava prima. Questera lo scritto: e le carezze e i complimenti
erano inestimabili. Gli indovini, gli astrolaghi, i disfinitori dei sogni, i Caldei, ed Apollo stesso ora
facevano prevalere Aristea, ora Mirico: ed i talenti ora in questa, ora in quella coppa della bilancia
traboccavano.
Diogene. Ma il fine qual fu, o Crate? egli è da udire.
Crate. Ambedue morirono in un giorno: e le due eredità vennero ad Eunomio e Trasiclea, due loro
congionti ai quali non era stata mai predetta questa buona ventura. Navigando essi da Sicione a
Cirra, a mezzo del cammino dieder di traverso nel Japigio, e travolsero giù.
Diogene. E loro stette bene. Noi, quando eravamo in vita, non pensammo mai a siffatte cose tra noi:
nè io mai desiderai la morte ad Antistene per ereditarne il bastone, che era di fortissimo oleastro; nè
pensomi che tu, o Crate, desiderasti mai chio morissi per ereditare la mia ricchezza, la botte, e la
bisaccia con entro due misure di lupini.
Crate. Io non avevo bisogno di questo, e neppure tu, o Diogene. Quello di che avevamo bisogno, tu
lereditasti da Antistene, ed io da te; e lè cosa più grande e più preziosa del regno dei Persi.
Diogene. Quale dici?
Crate. Sapienza, frugalità, verità, libertà, franco parlare.
Diogene. Sì, per Giove, mi ricorda che questa ricchezza io ricevetti da Antistene, laccrebbi, e la
lasciai a te.
Crate. Ma di questa gli altri non si curano, nessuno ci faceva carezze per ereditarla da noi: alloro
riguardavano tutti.
Diogene. E con ragione. Se lavessero da noi ricevuta non avrebbero potuto contenerla, perchè
colano per ogni parte e son fradici, come ceste imputridite. Se vuoi versare in essi un po di
sapienza, di franchezza, di verità, tosto cade e scorre, chè il fondo non può sostenerlo; e fai come le
figliuole di Danao che versano acqua in una botte forata. Loro poi coi denti, con le unghie, con ogni
sforzo lo tenevano afferrato.
Crate. Dunque noi avremo anche qui la ricchezza nostra: ed essi porteranno qui solo un obolo, che
pur lasceranno al navicellaio.(55)
12.
Alessandro, Annibale, Minosse e Scipione.
Alessandro. Io debbo essere preferito a te, o Libio; chè io sono migliore.
Annibale. No, io.
Alessandro. Dunque Minosse giudichi.
Minosse. Chi siete voi?
Alessandro. Questi è Annibale cartaginese, io Alessandro di Filippo.
Minosse. Gloriosi entrambi: ma di che contendete?
Alessandro. Del primato: costui dice dessere stato miglior capitano di me: io, e tutto il mondo lo sa,
affermo che in opere di guerra superai non pure lui, ma quasi tutti gli altri che furono prima di me.
Minosse. Ciascuno dica sue ragioni: comincia tu, o Libio.
Annibale. Questa sola utilità, o Minosse, io avrò tratta imparando qui a favellar greco, chè
nemmeno in ciò costui avrà vantaggio sovra di me. Io dico che degni di gran lode son quelli che da
prima essendo niente, giungono a grandezza dalla propria virtù sollevati e fatti meritevoli dimperio.
Io adunque lanciatomi con pochi nella Spagna; ed essendo primamente luogotenente di mio fratello,
fui stimato degno di più gran cose, e giudicato primo fra tutti: e divenuto capitano vinsi i Celtiberi,
domai i Galati doccidente, e valicati altissimi monti, scorsi tutte le regioni intorno al Po, rovinai
tante città, signoreggiai le pianure dItalia, venni sino alle mura di Roma, ed in un sol dì uccisi tanti
nemici, da misurarne gli anelli a staia, e far ponti su i fiumi coi loro cadaveri. Queste imprese io
feci non chiamandomi figliuolo di Giove, non facendomi Dio, nè raccontando i sogni di mia madre,
ma dicendo di essere uomo, avendo per avversari capitani espertissimi, combattendo con soldati
agguerritissimi; ben altri dai Medi e dagli Armeni, che danno le spalle prima di venire alle mani, e
lascian la vittoria a chi pure ardisce di volerla. Alessandro ebbe il regno dal padre, ed egli lo
accrebbe e di molto lo dilargò col favore della fortuna. Ma poichè vinse quello sciagurato di Dario
ad Isso e ad Arbela, lasciati i patrii costumi, si fece adorare, prese vesti ed usanze dai Medi, e nei
conviti si macchiò del sangue degli amici, e li fe prendere e menare a morte. Io fui egualmente
principe nella mia patria: e quandella mi chiamò, perchè una gran flotta minacciava la Libia, subito
ubbidii; e tornai privato, e poi che fui condannato, il sopportai con civile moderazione. Questo feci
io, ed ero un barbaro, un rozzo della cultura greca: e non cantavo Omero, come costui, non fui
ammaestrato dal sapiente Aristotele, ma mi guidavo con la sola buona natura. Ecco le ragioni
perchè io dico che sono maggiore di Alessandro. Egli cinse il capo di diadema, e forse pare più
bello ai Macedoni, usati ad ammirar queste cose: ma non per questo egli sarà stimato migliore di un
prode capitano il quale usò più lingegno che la fortuna.
Minosse. Ha parlato di sè non ignobilmente, nè secondo Libio. E tu, o Alessandro, che rispondi a
questo?
Alessandro. Io non dovrei rispondere, o Minosse, a questo temerario: che la fama basta ad
insegnarti qual re era io, e qual ladrone costui: ma pure vedi sio di leggieri lo superai. Ancor
giovanetto venni al regno, e trovatolo sconvolto, lo ricomposi, e punii gli uccisori di mio padre:
dipoi avendo atterriti i Greci con la rovina di Tebe, ed eletto da essi a loro capitano, non istetti
contento a difendere il regno de Macedoni, e a serbar quello che maveva lasciato mio padre, ma
avvisando col pensiero a tutta la terra, e non avendo posa sio non la conquistassi tutta, con pochi
prodi entrai in Asia. Sul Granico vinsi grande battaglia: mi vennero a mano la Lidia, la Ionia, la
Panfilia, e camminando sempre e vincendo giunsi su lIsso, dove Dario maspettava con un esercito
di molte migliaia. Ed allora, o Minosse, voi sapete quanti morti io vi mandai in quel giorno solo: il
nocchiero dice che allora non bastò la barca per essi, e che molti composero certe zattere e
passarono. E tutte queste imprese io feci mettendomi ai maggiori pericoli, e ricevendo anche ferite.
Non ti dirò quel che feci a Tiro e ad Arbela; ma che giunsi sino aglIndi, feci lOceano confine del
mio impero, presi elefanti, superai Poro, e valicato il Tanai, vinsi in equestre battaglia gli Sciti
guerrieri formidabili: beneficai gli amici, fui terrore ai nemici. Se gli uomini mi credettero iddio,
non è a maravigliarsene, perchè mi videro far cose grandi e mirabili. Infine io morii da re, e costui
da profugo presso Prusia di Bitinia, e come conveniva al furbo e spergiuro che egli era. Non dirò
con quali arti egli vinse glItaliani: non col valore, ma con la malvagità, la perfidia, glinganni, senza
scerner sacro da profano. A me rimprovera la dissolutezza, ed ha dimenticato quel che egli fece in
Capua, dove tra i sollazzi delle cortigiane questo mirabil capitano perdè le migliori occasioni di
guerra. Io mi volsi alloriente, non perchè credessi piccolo loccidente, ma perchè, che avrei fatto di
grande a prender lItalia senza versar sangue, e soggettare la Libia, e tutto il paese sino a Gade? Non
mi parvero degne di guerra quelle regioni già domate e soggette ad un padrone. Ho detto. Or
giudica, o Minosse: Basti questo poco del molto che avrei potuto dirti.
Scipione. Non prima che avrai udito anche me.
Minosse. E chi se tu, o prode, e donde?
Scipione. Io sono litaliano Scipione, capitano, vincitore di questo Cartaginese, e domatore della
Libia in grandi battaglie.
Minosse. Che di tu adunque?
Scipione. Che io son minore di Alessandro, ma maggiore di Annibale, perchè io lo vinsi e lo
costrinsi a fuggir vergognosamente. Come dunque costui non si vergogna di venire al paragone con
Alessandro, al quale neppur io Scipione, che ho vinto lui, ardisco di paragonarmi?
Minosse. Tu parli con senno, o Scipione. Io giudico che Alessandro sia primo, tu dopo di lui, e, se
vi pare, sia terzo Annibale, chè infine non è da spregiare.
13.
Diogene ed Alessandro.
Diogene. Come va, o Alessandro? sei morto anche tu, come tutti noi?
Alessandro. Tu il vedi, o Diogene: ma che maraviglia, sero uomo e son morto?
Diogene. Dunque Ammone era un bugiardo, dicendo che tu eri figliuol suo, e tu eri di Filippo.
Alessandro. Di Filippo certamente: non sarei morto, se fossi stato di Ammone.
Diogene. Ed eran bugie quelle che si contavan di Olimpia, che ella si giacque con un dragone, e che
le fu veduto nel letto, e che così nascesti tu; e che il povero Filippo singannava a credere che egli ti
era padre.
Alessandro. Dicevano, ed anchio ludii, come tu: ma ora vedo che non parlavan da senno nè mia
madre, nè i profeti di Ammone.
Diogene. Ma quelle loro bugie valsero assai pe fatti tuoi, o Alessandro: chè molti si sottomisero a te
credendoti un Dio. Ma dimmi, quel tuo grande impero a chi lhai lasciato?
Alessandro. Non so, o Diogene, chè non pensai a provvedervi: solamente so che morendo diedi
lanello a Perdicca. Ma tu perchè ridi, o Diogene?
Diogene. Perchè mi ricorda quante adulazioni ti fece la Grecia quando tu salisti sul trono, che ti
elessero protettore e capitano contro i barbari; alcuni ti messero fra i dodici Dei, ti rizzarono templi,
e ti offeriron sacrifizi come al figliuolo del drago. Ma dimmi, dove ti seppellirono i Macedoni?
Alessandro. Sono tre giorni oggi che giaccio ancora in Babilonia; ma Tolomeo mio scudiere
promette, come sarà cessato un po quel tafferuglio che vè ora, di portarmi in Egitto, e colà
seppellirmi, affinchè io diventi uno degli Dei egiziani.
Diogene. E non debbo ridere, o Alessandro, vedendo che anche quaggiù tu se sì pazzo che speri
diventare Anubi o Osiride? Cotesto non lo sperare, o divinissimo: chè non è permesso tornar su a
chi una volta ha valicato il palude ed è entrato per la buca; chè vi sta Eaco con tanto di occhi, e
Cerbero terribile. Ma io vorrei proprio sapere da te che ti senti, quando ripensi che felicità lasciasti
su la terra, guardie, scudieri, satrapi, ricchezze inestimabili, popoli che tadoravano, e Babilonia, e
Battro, e grandi elefanti, e gli onori, e la gloria, e il pompeggiare nelle cavalcate col capo cinto di
bianche bende e con la porpora succinta. Non ti addolori quando ti vengono a mente queste cose?
Ma perchè piangi, o sciocco? E non tinsegnò il sapiente Aristotele a non credere stabile quel che
viene da fortuna?
Alessandro. Sapiente? egli che era il più scaltrito di tutti gli adulatori? Conosco io Aristotele, so io
quel che egli chiese da me, e che lettere mi scrisse per guastarmi, carezzando la mia letteraria
ambizione, e lodando ora la bellezza, come fosse un bene, ed ora le mie azioni e la mia ricchezza.
Anzi, egli stimava essere un bene anche la ricchezza, e non si vergognava di riceverla. Sai, o
Diogene, che frutto ho io cavato dalla sapienza di quellimpostore ed istrione? addolorarmi, come se
fossero gran beni quelli che tu testè annoveravi.
Diogene. Sai che vuoi fare? Ti darò io un rimedio per cotesto dolore. Giacchè qui non nasce
elleboro, bevi a lunghe sorsate lacqua di Lete, e ribevine molto volte. Così forse cesserai di
addolorarti pei beni di Aristotile. Ma oh, vedo Clito, e Callistene, e molti altri che vengono
arrovellati per farti a pezzi, e vendicarsi di quello che tu facesti a loro. Và, vattene per questaltra
via: e bevi e ribevi come tho detto.
14.
Alessandro e Filippo.
Filippo. Ora, o Alessandro, non dirai più che non mi sei figliuolo: chè non saresti morto, se fossi
nato dAmmone.
Alessandro. Ben sapevo io, o padre, chio son figliuolo di Filippo di Aminta: ma mi valsi
delloracolo, perchè lo credetti utile al fatto mio.
Filippo. Come dici? credesti utile di lasciarti ingannar dai profeti?
Alessandro. Questo no: ma i barbari mi riguardavano con istupore, e nessuno più mi resisteva,
credendo di combattere contro un dio, e così li soggiogai facilmente.
Filippo. Ma quali prodi tu soggiogasti, se combattesti sempre con timidi omiciattoli, armati di
archetti e di scudetti di vimini? Insignorirsi degli Elleni era valore, dei Beoti, de Focesi, degli
Ateniesi; superare i fanti dArcadia, i cavalli Tessali, gli arcieri Eliesi, gli scudati di Mantinea, e i
Traci, e glIllirii, ed i Peoni, questa era prodezza grande. I Medi, i Persi, i Caldei, uomini cascanti
doro e di mollezza, ben ti ricorda, come furono sbaragliati, prima di te, da quei diecimila che si
ritirarono con Clearco, e come non aspettaron neppure la mischia, e senza scagliare i dardi,
spulezzarono.
Alessandro. Ma gli Sciti, o padre, e gli elefanti deglIndiani non eran da pigliare a gabbo. E poi io
non me ne feci signore seminando discordie, e comperando vittorie con tradimenti; non ispergiurai,
non mentii alle promesse, nè commisi perfidie per vincere. Gli Elleni poi, li recai al mio potere
senza versar sangue, e forse sai come punii i Tebani.
Filippo. So tutto; chè me lo narrò Clito, che da te fu trafitto di lancia ed ucciso in un convito perchè
ardì di lodare le imprese mie più delle tue. Tu, deposta la clamide macedone, vestito, come mi
dicono, del robone de Persi e con la tiara diritta in capo, ti facesti adorare dai Macedoni, dagli
uomini liberi; e per colmo di ridicolo, imitasti tutte le costume dei vinti. Taccio delle altre opere tue,
chiuder coi leoni gli uomini più còlti, far quelle nozze, spasimar tanto per Efestione. Una cosa lodai,
quando ludii, che rispettasti la moglie di Dario, la quale era bella, ed avesti cura della madre di lui,
e delle figliuole: questo fu da re.
Alessandro. E non lodi, o padre, lo spregiar pericoli, e il saltar primo entro le mura degli
Ossidrachi, e il ricever tante ferite?
Filippo. Non lodo questo, o Alessandro, non perchè io non creda bello per un re lesser ferito
talvolta, e combattere in prima linea, ma perchè questo a te non conveniva affatto. Tu che volevi
parer dio, quando eri ferito, e ti vedevano portar fuori della pugna tutto insanguinato e dolente per
la ferita, facevi rider la gente, e rimaner bugiardo Ammone ed i suoi profeti. Oh, chi non avria riso,
a vedere il figliuolo di Giove patire uno sfinimento, ed aver bisogno dellaiuto de medici? Ed ora che
tu se morto, non pensi che molti ti beffano di quella tua finzione, vedendo il cadavere dun dio steso
nel cataletto, più fetente ed enfiato dei corpi di tutti gli altri? E da altra parte questo che tu, o
Alessandro, dicevi utile a farti vincere facilmente, toglieva molto di gloria alle tue imprese: perchè
ogni cosa pareva poca, quando pareva fatta da un dio.
Alessandro. Gli uomini non la pensan così di me, ma mi fanno emulo di Bacco e di Ercole. Eppure
quellAorno(56) che non fu preso da nessuno di questi due, io solo superai.
Filippo. Ve che parli come figliuolo dAmmone, pareggiandoti ad Ercole e a Bacco? E non ti
vergogni, o Alessandro? e non la smetti cotesta boria? non riconosci te stesso, e vedi che ora sei
unombra?
15.
Achille ed Antiloco.
Antiloco. Che hai detto testò ad Ulisse intorno alla morte, o Achille; che parole ignobili ed indegne
delluno e laltro tuo maestro, Chirone e Fenice! Tho udito quando dicevi voler piuttosto esser
lavoratore e garzone di poveri contadini, al quale Non basti il cibo a sostentar la vita, che esser re di
tutti i morti. Questa vigliaccheria forse stava bene a dirla un Frigio timido e troppo amante della
vita; ma il figliuol di Peleo, il più coraggioso degli eroi, pensare sì bassamente di sè, è una
vergogna, è un contraddire a quello che tu hai operato nella vita; tu che potendo regnar inglorioso
per lungo tempo nella Ftiotide, volesti meglio la morte con bella gloria.
Achille. O figliuolo di Nestore, io allora ignoravo come stesser le cose quaggiù, e non sapendo il
meglio, scelsi la misera glorietta della vita: ma ora capisco come essa è inutile, e che quanto se ne
dice da quei di lassù, son canzoni. I morti son tutti pari: quella bellezza, quella forza non cè più, o
Antiloco: tutti siamo nello stesso buio, tutti simili, e luno in nulla differente dallaltro: nè le ombre
de Troiani mi temono, nè quelle degli Achei mi onorano; ma perfetta eguaglianza, tutti morti duna
fatta e i malvagi ed i buoni. Ciò mi pesa, e duolmi di non vivere, anche facendo il garzone.
Antiloco. E che ci vuoi fare, o Achille? La natura ordinò per tutti il morire: bisogna obbedirne le
leggi, e non addolorarsi de suoi destinati. E poi vedi quanti tuoi amici siamo qui presso di te: tra
breve ci verrà anche Ulisse per sempre. È gran conforto la comunanza della sventura. Vedi Ercole,
Meleagro, e tanti altri mirabili uomini, i quali credo che non vorrebbero tornare in vita a patto che
uno li facesse garzoni di poveri campagnuoli che non han da mangiare.
Achille. Tu, come amico, vuoi consolarmi; ma io, non so come, mi addoloro quando mi ricordo
della vita: e credo che così anche voi: e se dite di no, voi state peggio di me, perchè lo stesso patite,
e nol dite.
Antiloco. No, stiamo meglio, o Achille: perchè vediamo che il parlarne non giova. Abbiamo
imparato tacere, sopportare, patire, affinchè non si rida anche di noi, come di te, per siffatti
desiderii.
16.
Diogene ed Ercole.
Diogene. Non è questi Ercole? È proprio desso; larco, la clava, la pelle del leone, la persona, tutto
dErcole. Ed è morto egli figliuolo di Giove? Dimmi, o gran vincitore, se tu un morto? Io tofferiva
sagrifizi su la terra come ad un dio.
Ercole. E bene li offerivi. Ercole sta in cielo tra gli Dei, ed è marito dEbe piè-leggiadra: io sono
lombra sua.
Diogene. Come dici? ombra del dio? Ed è possibile che uno sia metà iddio, e metà morto?
Ercole. Sì: perchè non morì egli, ma io, immagine sua.
Diogene. Capisco; in suo scambio egli diede te a Plutone, e tu ora sei morto in vece sua.
Ercole. Appunto.
Diogene. Ma come Eaco, che è sì attento, non si accorse che tu non eri colui, ed accolse un Ercole
scambiato che gli si presentò innanzi?
Ercole. La simiglianza era perfetta.
Diogene. Ben dici: sì perfetta da esser tu egli. Ma bada che non sia il contrario, che tu sei Ercole, e
che lombra tua sposò Ebe fra gli Dei.
Ercole. Sei un temerario e linguacciuto: e se non cessi di motteggiarmi, ti farò vedere di qual dio
son lombra io.
Diogene. Tu sfoderi ed appronti larco: oh che? vuoi far paura ad un morto? Ma via dimmi un po del
tuo Ercole: quando egli viveva, stavi tu con lui, ed eri ombra anche allora? o pure eravate uno in
vita: e quando moriste vi separaste, egli volossene tra gli Dei, e tu ombra venisti in inferno come
dovevi?
Ercole. I non dovrei rispondere ad uno che cerca appiccagnoli per beffare; ma ti voglio dire anche
questo. Ciò che in Ercole era di Anfitrione, morì, e son io tutto: ciò che era di Giove sta in cielo con
gli Dei.
Diogene. Ora capisco bene: due Ercoli, tu dici, partorì Alcmena ad un punto, quel dAnfitrione, e
quel di Giove: onde voi vi scambiaste essendo gemelli similissimi.
Ercole. No, o sciocco: entrambi eravam lui.
Diogene. Oh questo non mè facile a capire: due Ercoli mescolati in uno, salvo che non eravate come
un centauro, uomo e Dio in una sola natura.
Ercole. Ma ciascuno degli uomini non è composto di due, anima e corpo? Perchè dunque non
credere che lanima sia in cielo, perchè apparteneva a Giove, ed io che son mortale fra i morti?
Diogene. Diresti bene, o caro Anfitrioniade, se tu fossi corpo: ma tu ora sei ombra incorporea; onde
tu corri pericolo di aver fatto tre Ercoli.
Ercole. Come tre?
Diogene. Ecco qui: uno è in cielo, tu ombra fra noi, e il corpo che già diventò polvere su lOeta. Ma
bada di trovarti un terzo padre del corpo.
Ercole. Tu devi essere un audace sofista. Chi se tu?
Diogene. Lombra di Diogene Sinopeo: che non abito fra glimmortali Iddii, ma mi sto tra questi
morti dabbene, e mi rido di queste fredde baie.
17.
Menippo e Tantalo.
Menippo. Perchè piangi, o Tantalo? perchè meni tante smanie stando presso al palude?
Tantalo. Perchè, o Menippo, i muoio di sete.
Menippo. E tincresce tanto di curvarti per bere, o attignere col cavo della mano?
Tantalo. È indarno se mi curvo, chè lacqua mi fugge come mi sente vicino: e se ne prendo una
giumella e lappresso alla bocca, non giungo a bagnarne lestremità del labbro, chè scorremi tra le
dita non so come, lasciandomi la mano asciutta.
Menippo. Strana pena è cotesta, o Tantalo. Ma dimmi, che bisogno hai tu di bere? Tu non hai corpo,
ma sta sepolto in Lidia; quello poteva aver fame e sete: saresti tu uno spirito affamato ed assetato?
Tantalo. E in questo sta il tormento, che lo spirito ha sete come fosse corpo.
Menippo. Io lo crederò perchè lo dici tu che sei punito con la sete. Ma che hai tu a temere? forse di
morire per manco di bevanda? Io non so che ci sia un altro inferno, nè che qui si muoia e si vada
altrove.
Tantalo. Tu dici bene: ma questo è parte della pena, desiderar bere senza averne bisogno.
Menippo. Tu se matto, o Tantalo; e par che davvero hai bisogno di bere una buona dose delleboro;
chè patisci il contrario dei morsicati dai cani arrabbiati; non temi lacqua ma la sete.
Tantalo. Neppure lelleboro i rifiuterei bere, o Menippo, purchè lavessi.
Menippo. Stà certo, o Tantalo, che nè tu nè alcuno de morti beve, perchè è impossibile: eppure non
tutti, come te, sono condannati ad aver sete dellacqua che sfugge da loro.
18.
Menippo e Mercurio.
Menippo. Dove sono i belli e le belle, o Mercurio. Menami a loro, chio ci son nuovo qui.
Mercurio. I non ho tempo, o Menippo: ma riguarda costà a destra, che vè Jacinto, Narcisso, Nireo,
Achille, e Tiro, ed Elena, e Leda, e insomma tutte le bellezze antiche.
Menippo. Io vedo solo ossa e cranii scarnati, quasi tutti simiglianti fra loro.
Mercurio. Ed ecco quello di che tutti i poeti cantano le maraviglie, le ossa, che tu mostri di
spregiare.
Menippo. Almeno additami Elena: chè da me non la potrei discernere.
Mercurio. Questo cranio è Elena.
Menippo. E per questo mille navi sciolsero da tutta la Grecia, tanti Greci caddero e tanti barbari, e
tante città rovinarono?
Mercurio. Ma tu non la vedesti viva, o Menippo, questa donna: avresti detto anche tu che
meritamente
Per cotal donna fu sofferto tanto.
Se uno vede fiori secchi e scoloriti, certo gli paion brutti: ma quando han vita e colore ei sono
bellissimi.
Menippo. E di questo io mi maraviglio, o Mercurio; come gli Achei non capirono che si
affaticavano per cosa che sì breve dura, e presto sfiorisce.
Mercurio. Io non ho tempo di filosofar teco, o Menippo. Onde scegliti qual luogo più taggrada, e vi
ti adagia: io vado a tragittar altri morti.
19.
Eaco, Protesilao, Menelao e Paride.
Eaco. Perchè ti scagli addosso ad Elena e vuoi soffocarla, o Protesilao?
Protesilao. Perchè per costei, o Eaco, io morii, lasciando la casa fatta a mezzo, e vedova la mia
novella sposa.
Eaco. Incolpane Menelao, il quale per cotal donna vi menò a Troia.
Protesilao. Ben dici: deve pagarmela egli.
Menelao. Non io, ma più giustamente Paride; il quale ospitato da me, contro ogni diritto rapì mia
moglie, e fuggissene. Egli meriteria dessere strangolato non solo da te, ma da tutti i Greci ed i
Barbari, essendo stato egli la cagione della morte di tanta gente.
Protesilao. Sì, è meglio così. Tu dunque, o malvagio Paride, non mi fuggirai dalle mani.
Paride. Tu se ingiusto, o Protesilao, e volerla contro uno che fa larte tua, chè i sono innamorato
come te, e sono soggetto allo stesso Dio. Tu sai che amore è cosa senza volere: un Dio ci mena
dove egli vuole, ed è impossibile contrastargli.
Protesilao. Dici bene. Oh! se fosse qui Amore per pigliarmela con lui.
Eaco. Ti risponderò io per Amore una cosa giusta. Egli dirà , che dellamor di Paride forse fu egli
cagione, ma della morte tua navesti colpa tu stesso, o Protesilao, il quale dimenticando la tua
novella sposa, quando arrivaste alla Troade, ti gettasti nel primo sbaraglio per vaghezza di acquistar
gloria, e però moristi il primo nello sbarcare.
Protesilao. E ti risponderò io per me una cosa anche più giusta, o Eaco. Di questo non ho colpa io,
ma il fato, che da prima aveva così stabilito.
Eaco. Or bene: e perchè te la pigli con costoro?
20.
Menippo, Eaco, ed alcuni filosofi.
Menippo. Deh, per Plutone, dimostrami, o Eaco, tutte le cose dellinferno.
Eaco. Tutte, è difficile, o Menippo: ma le principali eccole. Questo è Cerbero, ed il sai. Il nocchiero
che ti tragittò, il palude, Piriflegetonte, lhai veduti quando sei entrato.
Menippo. So questo cose: ho veduto te, che se portinaio, ho veduto il re, e le Erini, ma additami gli
uomini antichi, specialmente i più illustri.
Eaco. Ecco: questi è Agamennone, questi Achille, questaltro vicino è Idomeneo, poi Ulisse,
appresso Aiace, e Diomede, e tutto il fiore dei Greci.
Menippo. Capperi, o Omero, quanti di questi fiori de tuoi poemi sono già sfiorati, appassiti, gettati,
spregiati, e non rendono più odor di vero al naso di nessuno!(57) E questi, o Eaco, chi è?
Eaco. È Ciro: e questi è Creso; e questi che gli sta vicino, è Sardanapalo: di sopra gli è Mida: e
quegli è Serse.
Menippo. Oh, se tu, o malvagio, che désti quella battisoffia alla Grecia, congiungesti lEllesponto, e
volevi far mare doveran monti? Oh come è divenuto Creso! A Sardanapalo vorrei dar proprio una
ceffata: me lo permetti, o Eaco?
Eaco. No, statti: gli spezzeresti quella testolina di donna.
Menippo. Vo gittargli proprio una sputacchiata a questo bagascione.
Eaco. Vuoi chiio ti mostri i sapienti?
Menippo. Sì, per Giove.
Eaco. Ecco, questo primo è Pitagora.
Menippo. Salve, o Euforbo, o Apollo, o chi vuoi tu.
Pitagora. Salve anche tu, o Menippo.
Menippo. Hai più quella tua gamba doro?
Pitagora. No. Ma fammi vedere se hai cosa da mangiare nella bisaccia.
Menippo. Fave, o caro: non è cibo per te.
Pitagora. Dammele qui: tra morti altre dottrine. Ho imparato che qui non han che fare le fave con le
teste dei genitori.(58)
Eaco. Questi è Solone di Esecestide, e quegli è Talete, con loro è Pittaco, e gli altri: son tutti e sette,
come vedi.
Menippo. Sereni e lieti son questi soli fra tutti, o Eaco. E colui, che è tutto pieno di cenere, come
focaccia cotta sotto la bragia, ed è tutto fiorito di scottature, chi è?
Eaco. È Empedocle, che ci è venuto così mezzo abbrustolato dallEtna.
Menippo. O valentuomo col piè di bronzo, e perchè ti gettasti nel cratere del fuoco?
Empedocle. Per una malinconia, o Menippo.
Menippo. No, per Giove: ma per una pazzia, una vanagloria, una stoltezza grande: queste fecer
carbone di te e delle scarpette, e meritamente. Ma ti facesti il conto senza loste: fosti veduto quando
morivi. E Socrate, o Eaco, dovè?
Eaco. Suole piacevoleggiare con Nestore e Palamede.
Menippo. Vorrei vederlo, se è qui.
Eaco. Vedi quel calvo?
Menippo. Tutti son calvi: questo segno non distingue nessuno.
Eaco. Quel nasetto dico.
Menippo. E torni? qui non ci ha nasi affatto.
Socrate. Cerchi me, o Menippo?
Menippo. Sì, o Socrate.
Socrate. Che nuove dAtene?
Menippo. Molti de giovani dicono di filosofare: e a riguardar le vesti e landare ei ci sarien di gran
filosofi assai.
Socrate. Assai di questi io ne vidi.
Menippo. Vedesti, pensomi, come ti sono venuti qui Aristippo tutto spirante odore dunguento, e
Platone ammaestrato in Sicilia a carezzar tiranni.
Socrate. E di me che pensano?
Menippo. Per questo tu sei il più fortunato uomo del mondo. Tutti credono che tu fosti un miracolo
duomo, che sapevi tutte le cose, quando (ora si può dire la verità, credo) tu non sapevi niente.
Socrate. Io lo dicevo questo a tutti: e quei credevano chio lo dicessi per ironia.
Menippo. Chi son cotestoro che hai vicino?
Socrate. Carmide, Fedro, ed il figliuolo di Clinia.
Menippo. Bene, o Socrate: anche qui con larte tua, anche qui sei tra be garzoni.
Socrate. E che potrei fare di più piacevole? Ma adágiati vicino a noi, se ti aggrada.
Menippo. Io men vo da Creso e da Sardanapalo, per allogarmi vicino ad essi. Io soglio farmi le più
grosse risa quando gli odo piangere.
Eaco. Ed anchio me ne vado: se no qualcuno di voi altri morti se ne scappa. Unaltra volta vedrai il
resto, o Menippo.
Menippo. Vattene, o Eaco: chè questo mi basta.
21.
Menippo e Cerbero.
Menippo. O Cerbero, io son della tua razza, perchè son cane anchio: dimmi, per Stige, qual ti parve
Socrate quando discese tra voi. Tu, come Dio, devi saper non pure latrare, ma parlare ancora a
guisa umana, quando vuoi.
Cerbero. Da lontano, o Menippo, a tutti parve chegli ci venisse con intrepido volto, e che andasse
egli incontro alla morte: belle lustre per parer valente a quelli che sono di là dalla buca. Ma come
saffacciò alla voragine, e vide il buio dellorco, e mentre si stava peritoso, io lo addentai ad un piede
e il trassi giù; si mise a piangere come un fanciullo, chiamava figliuoli, e pareva un altro.
Menippo. Dunque egli era un sofista, e non disprezzava veramente la morte?
Cerbero. No: ma come la vide inevitabile, la prese con certa boria, come se patisse volentieri quel
che per necessità doveva patire, per farsi ammirare da chi lo vedeva. E di tutti cotestoro io potrei
dirti che sino alla buca sono arditi e forti; ma qui dentro, qui sia la pruova vera.
Menippo. Ed io qual ti parvi quando ci discesi?
Cerbero. Degno della razza tu solo, o Menippo; e Diogene prima di te: perchè voi non ci entraste nè
costretti nè spinti, ma vogliosi, ridenti, e dicendo corna di tutti.
22.
Caronte, Menippo e Mercurio.
Caronte. Paga il nolo, o malvagio.
Menippo. Grida come ti piace, o Caronte.
Caronte. Pagami, ti dico; io tho tragittato.
Menippo. Non ti può dare chi non ha.
Caronte. E cè chi non ha un obolo?
Menippo. Se ci sia non so; ma io non lho.
Caronte. Or io, per Plutone, ti strangolerò, so tu non mi paghi, o scellerato.
Menippo. Ed io con questo bastone ti farò il capo in due.
Caronte. Ed avrai fatto gratuitamente un tragitto sì lungo?
Menippo. Ti paghi Mercurio per me, chè egli mi ti ha consegnato.
Mercurio. Per Giove, saria un bellaffare pagare anche i debiti dei morti.
Caronte. Io non ti lascerò.
Menippo. Anzi tira la barca a terra, e rimanti. Ma quel che io non ho, come io posso dartelo?
Caronte. E non sapevi che dovevi portarlo teco?
Menippo. Sapevo, ma non avevo. E che? per questo io doveva non poter morire?
Caronte. Dunque tu solo ti vanterai di esser passato a ufo?
Menippo. A ufo no: io ho aggottato, tho aiutato a remare, e fra tutti i passeggieri io solo ho pianto.
Caronte. Questo non ha che fare col nolo. Tu mi devi dare lobolo: e non si può altramente.
Menippo. Tornami unaltra volta nella vita.
Caronte. Bel trovato: per farmi toccar quattro busse da Eaco.
Menippo. Dunque mhai fradicio ora.
Caronte. Mostra qui che hai nella bisaccia.
Menippo. Lupini, se ne vuoi, e rimasugli duna cena di Ecate.
Caronte. Donde ci hai menato questo cane, o Mercurio? che ha detto durante il tragitto? che beffe,
che motti a tutti i passeggieri, i quali piangevano, ed ei solo cantava?
Mercurio. Non sai, o Caronte, chi hai tragittato? Luomo veramente libero, che non si cura di nulla.
Questi è Menippo.
Caronte. Se mai ti colgo.....
Menippo. Bravo, se mi cogli; ma due volte non mi coglierai.
23.
Protesilao, Plutone e Proserpina.
Protesilao. O signore, o re, o nostro Giove, e tu, o figlia di Cerere, non isdegnate una preghiera
damore.
Plutone. Che domandi da noi? e chi se tu?
Protesilao. I son Protesilao, figliuolo dIficlo, Filacio, uno de guerrieri Achei, e il primo che morii
presso Ilio. Vi prego che mi lasciate tornare in vita per brevissimo tempo.
Plutone. Cotesta dimanda, o Protesilao, la fanno tutti i morti: ma nessuno lotterria.
Protesilao. Io non dimando di vivere, o Plutone, ma di rivedere la sposa mia, che nuova nuova io
lasciai nel talamo, e mi misi in mare: e poi quando sbarcai, misero me, fui ucciso da Ettore. Io mi
struggo damore per lei; io, o Signore, vorrei rivederla pure un momento, e tornarmene.
Plutone. Non bevesti lacqua di Lete, o Protesilao?
Protesilao. Sì, o signore; ma la passione è troppa.
Plutone. Bene, aspetta: ci verrà ella a suo tempo, e non accade che tu vada sopra.
Protesilao. Ma laspettare mi crucia assai, o Plutone. Deh, tu fosti innamorato, e sai che cosa è
amore.
Plutone. Ma che ti gioverebbe rivivere un solo giorno, e poi tornare alle stesse smanie?
Protesilao. Io la persuaderei a venirsene con me: e tu, invece di uno, riavresti due morti.
Plutone. Non è lecita questa cosa, e non è mai avvenuto.
Protesilao. Ricòrdati bene, o Plutone. Ad Orfeo per la stessa cagione voi concedeste Euridice, e
deste la mia congiunta Alceste ad Ercole graziosamente.
Plutone. E vuoi così con cotesto teschio nudo e brutto comparire innanzi a quella tua bella sposa? E
come ella ti si farà vicino, se non potrà riconoscerti? Ti dico che ella avrà paura, e fuggirà: e tu
avrai fatto indarno tanta via.
Proserpina. A questo, o marito mio, tu puoi rimediare: comanda a Mercurio, che, come Protesilao
giunge alla luce, lo tocchi con la verga, e lo rifaccia bel giovane come era quando entrava nel
talamo.
Plutone. Giacchè così piace anche a Proserpina, sia costui rimenato su, e rifatto sposo novello. Ma
ve, ricòrdati, non più di un sol giorno.
24.
Diogene e Mausolo.
Diogene. O quanta boria! E su che la fondi, o Cario, che vuoi essere onorato da tutti noi?
Mausolo. Sul regno, o Sinopeo; io fui re di tutta la Caria, signoreggiai gran parte della Lidia,
sottomisi molte isole, e soggiogai molti paesi della Jonia sino a Mileto: ero bello, aitante della
persona, prode in guerra: e, quel che più è, in Alicarnasso ho sopra di me un sepolcro grandissimo,
e tale che nessun morto ha il simile per bellezza, ornato di maravigliose statue di cavalli e di
uomini, fatto di bellissimi marmi; sì che neppure un tempio si troveria sì magnifico. Non ti pare che
sia ben fondata la mia boria?
Diogene. Cioè sul regno, su la bellezza, e su la pesantezza del sepolcro?
Mausolo. Su questo, sì per Giove.
Diogene. Ma, o bel Mausolo, quella tua vigoria e quella tua leggiadria or non lhai più. Se scegliamo
un giudice tra la bellezza tua e la mia, io non so perchè dovrebbe lodare il teschio tuo più del mio:
gli abbiam calvi entrambi, e spolpati: entrambi abbiamo i denti digrignati a un modo, e le occhiaie
vuote, e il naso scavato. Quel sepolcro e quei marmi preziosi forse giovano agli Alicarnassii, i quali
ne fan mostra ai forestieri, e si pregiano di possedere un gran monumento: ma tu, io non vedo tu che
ne godi: se pur tu non dici questo, che più di noi tieni un gran peso addosso e sei schiacciato da
tante pietre.
Mausolo. Dunque tutto questo non mi giova; e meriterà eguale onore Mausolo e Diogene?
Diogene. Eguale no, o prode, no. Perchè Mausolo piangerà ricordandosi dei beni della terra nei
quali si credeva felice; e Diogene si riderà di lui. Egli dirà che in Alicarnasso gli fu innalzato un
sepolcro da Artemisia sua moglie e sorella; e Diogene non sa se il corpo suo ha avuto una sepoltura,
nè se ne briga, ma lasciò fama di sè tra i buoni, e la vita che egli visse da uomo è più sublime del
monumento tuo, o vilissimo de Carii, e fondata sovra fondamenta più salde.
25.
Nireo, Tersite e Menippo.
Nireo. Ecco qui, Menippo deciderà chi di noi due è più ben fatto. Di, o Menippo, non ti paio più
bello io?
Menippo. Chi siete voi? Pensomi che prima debbo saperlo.
Nireo. Nireo, e Tersite.
Menippo. Ma chi è Nireo, e chi è Tersite? chè io non vi distinguo.
Tersite. Questo solo mi basta, chio sono simile a te, e non ci è tra noi quella gran differenza che
dice quel cieco di Omero, il quale ti lodò come il più bello fra tutti; ed io col capo aguzzo e pelato
non son paruto differente da te al giudice. Rimiraci ora, o Menippo, e di chi tra noi due è più bello.
Nireo. Io sono; io figliuol dAglaia e di Caropo,
Ero il più bel che venne sotto Troia.
Menippo. Ma non venisti il più bello sotto terra, pensomi. Lossame lavete simile, e duna cosa il
cranio tuo si distingue da quel di Tersite, che il tuo è molle e fragile, e non punto di uomo.
Nireo. Dimanda Omero, e saprai chi ero io allora che combattevo fra i Greci.
Ajenippo. Mi conti sogni: io vedo quel che sei ora: quel dallora lo sanno quelli.
Nireo. Ed io ora non sono il più bello, o Menippo?
Menippo. Nè tu, nè altri è bello: lOrco agguaglia tutti, fa tutti simili.
Tersite. A me questo mi basta.
26.
Menippo e Chirone.
Menippo. Mhan detto che tu, o Chirone, tutto che Dio, hai voluto morire.
Chirone. Than detto il vero, o Menippo: e son morto, come vedi, potendo essere immortale.
Menippo. E che bene trovasti nella morte, nella quale molti trovano tanto male?
Chirone. Lo dico a te che non sei sciocco. Io non aveva più piacere a godere dellimmortalità.
Menippo. Non avevi piacere a vivere e veder la luce?
Chirone. No, o Menippo. Per me il piacere sta nel vario e nel diverso: io vivevo e godevo sempre
delle stesse cose, del sole, della luce, del cibo; le ore, i giorni, le stagioni, tutte le cose luna dopo
laltra con lo stesso ordine e modo. Infine ne fui stucco: perchè il piacere stava non nellaver sempre
lo stesso, ma nel variare.
Menippo. Dici bene, o Chirone: ma, e come ti trovi ora nellinferno, dove hai preferito di venire?
Chirone. Non male, o Menippo: qui è uguaglianza perfetta, e non cè differenza tra lo star nella luce,
o nel buio. E poi non cè bisogno nè di mangiare nè di bere, come lassù, e siam liberi di tutte queste
noie.
Menippo. Ma vedi, o Chirone, che tu ti contraddici, e le tue parole stanno contro di te.
Chirone. E come?
Menippo. Se tu tannoiasti della vita perchè cera sempre lo stesso, tannoierai anche qui dove cè
anche sempre lo stesso; e dovrai cercare un mutamento anche da questa in unaltra vita: il che penso
sia impossibile.
Chirone. E che dunque avrei potuto fare o Menippo?
Menippo. Dicono che chi ha senno sa contentarsi del presente, accomodarvisi, e sopportar tutto con
pazienza.
27.
Diogene, Antistene e Crate.
Diogene. O Antistene, o Crate, noi siamo scioperati, perchè non andiamo passeggiando verso
lentrata, per vedere quelli che scendono, chi sono, e che fanno ciascuno?
Antistene. Andiamo, o Diogene, chè pur sarà piacevole a vedere alcuni che piangono, alcuni che
pregano di esser lasciati, altri che non vogliono proprio scendere, e Mercurio che li tiene pel collo
mentre essi resistono e superbamente si dibattono, senza alcun pro.
Crate. Ed io vi racconterò quel che vidi per via quando io ci discesi.
Diogene. Raccontaci, o Crate, chè dovesti veder cose molto ridicole.
Crate. Fummo tanti e tanti in quella discesa; ma fra gli altri si distinguevano il nostro ricco
Ismenodoro, Arsace governatore della Media, ed Orite lArmeno. Ismenodoro (che era stato ucciso
dai ladri presso il Citerone, andando, come credo, ad Eleusi) lamentavasi, si teneva la ferita con le
mani, chiamava i suoi figlioletti che aveva lasciati, e biasimava sè stesso che dovendo passare il
Citerone ed i dintorni di Eleutera che son luoghi devastati dalla guerra, e nidi di ladri, si avesse
menato seco soltanto due servitori, e poi portando cinque patere e quattro tazze doro. Arsace già
vecchio e donorevole aspetto con un cotal piglio barbaresco mal sofferiva di camminare a piedi, e
pretendeva che gli fosse menato il cavallo; chè anche il cavallo era morto con lui, trafitti entrambi
dun sol colpo da un fantaccino Trace n una mischia sullArasse contro i Cappadoci. Arsace sera
spinto, comei narrava, molto più innanzi degli altri: il Trace copertosi con lo scudo lo affronta, svia
la lancia di Arsace, pone la sarissa in resta, e trapassa lui ed il cavallo.
Antistene. Come è possibile, o Crate, dun sol colpo far questo?
Crate. È facile, o Antistene. Ei cavalcava agitando una lancia di venti cubiti; il Trace poichè con lo
scudo si parò il colpo, e deviò la punta, piegando il ginocchio, presenta la sarissa al cavallo, il quale
nella foga e nellempito vi si getta sopra col petto; il ferro gli entra, e trapassa anche Arsace
nellinguine sino al lombo. Ecco come fu: più colpa del cavallo che del cavaliero. Egli adunque non
poteva patire di andar confuso con gli altri, e voleva scendere a cavallo. Orite stava come un
balordo, aveva i piedi sì molli che non poteva nè stare a terra nè camminare, come son tutti i Medi, i
quali quando scavalcano, camminano a stenti sulle punte de piedi, come se andasser su le spine.
Sera gettato per terra, e non cera verso che si volesse levare, ma il buon Mercurio lo levò di peso e
lo portò sino alla barca. Io me ne ridevo.
Antistene. Ed io quando discesi non mi mescolai agli altri, ma lasciandoli piangere corsi alla barca,
e mi allogai nel miglior sito. Nel tragitto essi lagrimavano e vomitavano: ed io mi compiaceva a
mirarli.
Diogene. Voi trovaste per via questi compagni: con me discesero Blepsia lusuraio del Pireo,
Lampide dAcarnania condottiero di soldati, e Damide quel ricco di Corinto. Damide era morto
avvelenato dal figliuolo, Lampide per amore della cortigiana Mirtia sera ucciso da sè stesso, e
Blepsia dicevasi esser morto miseramente stecchito di fame, e ben pareva, chè era pallido e
magrissimo. Io, comè uso, dimandava a ciascuno in che modo era morto; ed a Damide che ne dava
la colpa al figliuolo, io dissi: Ti sta bene: avevi mille talenti e tutti i piaceri per te che eri di
novantanni, e ad un giovane di diciotto non davi quattroboli a portarli in tasca. E tu, o Acarnano
(anchegli dolevasi, e mandava maledizioni a Mirtia), a che incolpi amore, e non te? tu che non
temesti mai nemici, ma coraggioso combattevi innanzi agli altri, ti lasciasti prendere dalle finte
lagrimette e dai sospiri duna sgualdrinella. Ma Blepsia, prima chio dicessi, biasimava la sua pazzia
a serbar tanta ricchezza per un erede che non gli apparteneva, e a credere scioccamente che dovesse
vivere sempre. A me poi diedero molto diletto quei loro lamenti. Ma già siam presso allentrata: or
bisogna riguardare ed osservare quelli che vengono. Caspita, o quanti, e diversi! tutti piangono,
salvo questi fanciulletti che non parlano. Ma anche i vecchi si lamentano. Oh, che è cotesto? che
incantesimo ha per essi la vita? Voglio dimandar questo vecchione. Perchè piangi tu che sei morto
di tantanni? Che ti dispiace di aver lasciato, essendo sì vecchio? Forse eri re?
Un povero. No.
Diogene. Eri satrapo?
Povero. Neppure.
Diogene. Certo eri un ricco, e ti duole desser morto lasciando agi e morbidezze?
Povero. Niente di questo. Avevo circa novantanni, sostentavo una misera vita con lamo e la canna,
ero poverissimo, senza figliuoli, e zoppo, e poco ci vedeva.
Diogene. E con tutto questo volevi vivere ancora?
Povero. Sì: bella era la luce: la morte è terribile ed abborrita.
Diogene. O vecchio, tu sei impazzato e rinfantocciato presso alla morte, eppure hai gli anni di
Caronte. E che si dovrà dire dei giovani, quando aman tanto la vita costoro che pur dovrebbero
cercar la morte come unico rimedio ai mali della vecchiaia? Ma andiamocene, affinchè alcuno non
sospetti che vogliamo fuggire, vedendoci così vicino allentrata.
28.
Menippo e Tiresia.
Menippo. O Tiresia, se tu se cieco ancora non si può conoscere più, perchè tutti egualmente
abbiamo le occhiaie vuote, e non si potria dire chi è Fineo e chi Linceo. Ma mi ricorda di aver udito
dai poeti che tu eri indovino, e fosti dambo i sessi, e maschio e femmina. Or dimmi, per gli Dei, in
quale vita provasti più piaceri, quando eri maschio, o quando eri femmina?
Tiresia. Più quandero femmina, o Menippo, perchè avevo meno faccende. Le donne comandano ai
mariti, non debbono andare alla guerra, non fare le scelte, non parteggiare nei parlamenti, non
impacciarsi ne giudizi.
Menippo. E non hai udito la Medea di Euripide, che compiange la condizione delle donne, come
elle son misere, e soggetto alla insopportabile fatica del parto? Ma a proposito (i giambi della
Medea me ne fan ricordare) partoristi mai, o Tiresia, quando eri femmina; o in quella vita rimanesti
sterile e senza figliuoli?
Tiresia. Perchè mi dimandi questo, o Menippo?
Menippo. Non per male, o Tiresia. Rispondimi, se puoi.
Tiresia. Non ero sterile, e non partorii.
Menippo. Sta bene: ma vorrei sapere ancora se tu avevi la matrice.
Tiresia. Lavevo certamente.
Menippo. E a poco a poco la matrice svanì, la fonticella si chiuse, le mammelle si ritrassero, e
mettesti il tallo e la barba? o a un tratto di femmina diventasti maschio?
Tiresia. Non vedo dove vai a parare con questa dimanda. Ma pare che non mi credi che così fu la
cosa.
Menippo. E che, o Tiresia? non si dee dubitare, ma beversi queste cose senza cercare neppure se
sono possibili, o no?
Tiresia. Tu dunque neppur crederai che alcune, di femmine che erano, diventarono uccelli, alberi, e
belve, come Filomela, Dafne, e la figliuola di Licaone.
Menippo. Se mai le incontrerò, crederò quel che se ne dice. Ma tu, quanderi femmina, profetavi
allora, come dipoi: o imparasti ad esser uomo e profeta insieme?
Tiresia. Vedi? tu non sai nulla de fatti miei, come io decisi una certa lite nata fra gli Dei, e come
Giunone mi fe quello storpio della vista: e poi Giove per consolarmi di quella disgrazia mi fe dono
della profezia.
Menippo. Ed ancor con le bugie, o Tiresia? Già tu non puoi mancare alla natura deglindovini: voi
non usate parlar mai da maledetto senno.
29.
Aiace ed Agamennone.
Agamennone. O Aiace, se tu per furore uccidesti te stesso, ed eri per fare lo stesso giuoco a tutti noi
altri, perchè te la pigli con Ulisse, e ieri non lo guardasti neppure in viso, quando discese quaggiù
per cercare un oracolo, e non facesti motto ad un compagno darmi e ad un amico, ma superbamente
ti allontanasti a gran passi?
Aiace. Con ragione, o Agamennone: perchè egli fu causa del mio furore, egli solo contese con me
per le armi.
Agamennone. E volevi che nessuno te le avesse contese, e pigliartele tutte tu?
Aiace. Sì bene, perchè quellarmatura era roba di casa mia, apparteneva ad un mio cugino. E tutti
voi, che eravate uomini daltro valore, voi non veniste meco a contesa, non entraste in lizza con me.
Ma il figliuol di Laerte, al quale tante volte io salvai la vita che stava per essere accoppato dai Frigi,
si tenne più prode, e più degno di avere quelle armi.
Agamennone. Dunque la colpa è di Teti, o valoroso; la quale doveva dar quelle armi a te cheri
parente ed erede, ed ella le portò e le depose in mezzo a noi tutti.
Aiace. No: ma di Ulisse: egli solo stette contro di me.
Agamennone. È perdonabile, o Aiace, era uomo, ed amava la gloria, cosa dolcissima, e per la quale
ciascuno di noi ha durate tante fatiche; e poi ti superò, ed innanzi ai Troiani che vi giudicarono.
Aiace. Ricordo chi giudicò contro di me: ma non bisogna sparlar degli Dei. Rappattumarmi con
Ulisse, no, o Agamennone, non potrei mai; neppure se me lo comandasse la stessa Minerva.
30.
Minosse e Sostrato.
Minosse. Questo ladro Sostrato sia gettato nel fuoco di Flegetonte; il sacrilego sia squartato dalla
chimera, ed il tiranno, o Mercurio, sia disteso vicino a Tizio, ed abbia anchegli il fegato sbranato
dagli avoltoi. Voi, o buoni, andate tosto nel prato dellEliso nellisole dei beati, perchè avete operato
il giusto nella vita vostra.
Sostrato. Odi, o Minosse, se è giusto quel che voglio dire.
Minosse. Udirti anche di più? E non sei stato convinto, o Sostrato, che tu sei uno scellerato e un
gran micidiale?
Sostrato. Sono stato convinto, sì: ma vedi se sarò punito giustamente.
Minosse. Stà a vedere non sarà giusto pagarne il fio.
Sostrato. Ma rispondimi, o Minosse, ad una breve domanda.
Minosse. Di pure, ma breve; chè debbo giudicar altri.
Sostrato. Quel che ho fatto nella vita mia, lho fatto da me, o per destinato della Parca?
Minosse. Certamente per destinato della Parca.
Sostrato. Dunque tutti i buoni, e noi altri tenuti malvagi, serviamo a lei quando operiamo.
Minosse. Sì, a Cloto; la quale stabilì a ciascuno che è nato quello che deve fare.
Sostrato. E se uno sforzato da altrui uccidesse un uomo, e non potesse opporsi a chi ve lo sforza,
come è il carnefice o il satellite che ubbidisce al giudice o al tiranno; chi avrebbe colpa
delluccisione?
Minosse. Il giudice o il tiranno: e neppure la spada, che è un istrumento, e serve a chi comanda, il
quale ha la vera colpa.
Sostrato. Bene, o Minosse: tu mi chiarisci meglio il paragone. E se uno, mandato dal suo signore,
porta doni doro e dargento, a chi si deve avere obbligazione, chi sarà tenuto benefattore?
Minosse. Chi ha mandati i doni, o Sostrato: chè chi lha portati era un ministro.
Sostrato. Dunque vedi quanta ingiustizia fai a punir noi, che siamo servi e facciamo quel che Cloto
ci comanda, e a premiar questi che sono portatori delle buone opere altrui. E nessuno mai diria che
era possibile opporsi alla necessità del fato.
Minosse. O Sostrato, tu vedresti altre molte cose irragionevoli se vi pensassi un po sopra. Ma della
tua dimanda tu caverai questo frutto, che mi sembri dessere non pure ladro, ma anche sofista.
Discioglilo, o Mercurio, e non più abbia pena. Ma tu bada, ve, di non insegnare agli altri morti a
fare di cotali dimande.
XI.
IL MENIPPO,
o
LA NEGROMANZIA.
Menippo e Filonide.
Menippo.
O mia magione, o mio portico, salve!
Quanto mi piace rivederti or chio
Alla luce ritorno!(59)
Filonide. Non è questi Menippo, il cinico? È lui, se io non ho le traveggole; egli è Menippo. E
che vuol dire egli in abito così strano, col cappello, la lira, e la pelle di leone? Vo andargli incontro.
Salve, o Menippo: donde ne vieni? Da molto tempo non ti se fatto vedere in città.
Menippo.
Vengo dal regno della morta gente,
Lascio le scure porte, dove lOrco
Abita solitario.
Filonide. Davvero non sapevam che Menippo era morto; ed ora ci è risuscitato.
Menippo.
No: senza morte andai pe morti regni.
Filonide. E perchè questo nuovo e strano viaggio?
Menippo.
Ardir mi spinse, e giovanil consiglio.
Filonide. Smetti, caro: lascia la tragedia e i versi; e dimmi così in prosa che abito è cotesto, e che
bisogno ti mosse ad andare laggiù. La via non è facile nè piacevole.
Menippo.
Non fu senza ragion landare al cupo,
A consultar lo spirto del tebano
Vate Tiresia.
Filonide. Oh! tu se davvero impazzato? Non risponderesti così in versi ad un amico.
Menippo. Non maravigliarti, o amico mio. Sono stato testè con Euripide e con Omero, che mi han
pieno il capo dei loro versi, ed ora i versi mi vengono spontanei su la bocca, Orsù, dimmi: come va
il mondo, e che si fa nella città?
Filonide. Niente di nuovo, tutto è vecchio: si ruba, si spergiura, si fa usura, si scortica a dismisura.
Menippo. Poveri sciocchi! e non sanno che si è fatto pocanzi da quei di laggiù, che si è stabilito a
pieni suffragi contro i ricchi. E per Cerbero, questa volta non la potranno sfuggire, no.
Filonide. Che dici? Che di nuovo si è stabilito da quei di laggiù per questi di qui?
Menippo. Cosa grande: ma non si può dirla a tutti, nè divulgare il segreto: se no, ci daranno una
querela come empi, innanzi a Radamanto.
Filonide. Di me, o Menippo, puoi fidarti, chè ti sono amico io, e so tacere, e sono anche iniziato.
Menippo. Vuoi saper proprio quello che non si può sapere, ma per amor tuo lo farò. Sè fatta
adunque una legge che questi ricconi, questi danarosi che tengono loro chiuso a chiave come
Danae....
Filonide. Prima di dirmi la legge, contami unaltra cosa, che ho più voglia di udire: come ti venne il
pensiero di scender laggiù, e chi ti fu guida; dipoi quello che vi hai veduto e vi hai udito. Tu, che se
savio, certamente non ti sei fatto sfuggire niente.
Menippo. Vo contentarti anche di questo. Come dire di no, quando un amico ti sforza? E prima ti
dirò come mi venne questo pensiero, e donde mi nacque il desiderio di scender laggiù. Io fin da che
ero fanciullo, e udivo Omero ed Esiodo narrare le guerre e le discordie non pure de Semidei, ma
degli Dei ancora, e i loro adulterii, le violenze, le rapine, le liti, e scacciare il padre, e sposare la
sorella, credevo tutte queste essere belle cose, e un po me ne dilettavo anchio. Ma come crebbi e fui
uomo, udii che le leggi comandano tutto il contrario di quel che dicono i poeti: non fare adulterii,
non far sedizioni, non rubare. Sicchè io ero in gran dubbio, e non sapevo che farmi. Non mai gli Dei
avrebber fatto adulterii e sedizioni, credevo io, se non avesser saputo che le son cose oneste; nè i
legislatori avrebbero stabilito il contrario, se non lavessero reputato utile. Stando così sospeso, mi
deliberai dandarmene da questi chiamati filosofi, mettermi in mano a loro, e pregarli di fare di me
ogni loro piacere, e di mostrarmi qualche via semplice e sicura per condurci la vita. Vandai con
questa intenzione, senza sapere che cadeva, come si dice, dalla padella nella bragia: chè fra essi
specialmente trovai, allo stringer del sacco, maggiore ignoranza e dubbiezza: e subito mi accorsi
che la vita deglignoranti è un oro. Infatti chi di essi consigliavami di seguir solo il piacere, di
cercarlo con ogni modo, perchè esso è la felicità: un altro per contrario, affannarmi sempre,
affaticarmi, storpiarmi il corpo, bruttarlo, insozzarlo, spiacere a tutti, sparlare di tutti, e mi ricantava
continuamente quelle rifritte parole dEsiodo intorno alla virtù, al sudare, e salire in cima allalto
colle. Chi mesortava a spregiar le ricchezze, e credere cosa indifferente il possederle: e chi
allopposto dimostrava che la ricchezza è anche essa un bene. E le cose che dicevano di questo
mondo, chi te le può contare? Ogni giorno mempievano didee, dincorporei, di atomi, di vuoto, e di
tanti altri maladetti nomi, che mi facevan venire la nausea. La maggiore stranezza era che ciascuno
parlando di cose oppostissime tra loro, te ne dava ragioni forti e persuasive: sicchè a chi ti diceva la
cosa è calda, e a chi ti diceva la è fredda, tu non avevi che rispondere, benchè sapessi benissimo che
una cosa non può essere calda e fredda nello stesso tempo. Onde io chinava il capo come quei che
sonnecchiano, ed ora accennava di sì, ed ora di no. E ci scòrsi unaltra stranezza maggiore di questa,
che in costoro io trovavo i detti rovescio dei fatti: chi predicava spregiar le ricchezze, le teneva
afferrate coi denti, litigava per usure, insegnava a prezzo, ogni cosa faceva per danari: chi spregiava
la gloria, si sbracciava per acquistarla: quasi tutti biasimavano pubblicamente il piacere, ed in
privato non si attaccavano che al solo piacere. Perduta adunque anche questa speranza, me ne stavo
di assai mala voglia, benchè mi consolassi un po a pensare di non esser solo, ma essere con tanti e
tanti uomini sapienti e famosi per dottrina, anchio alloscuro e non sapere la verità. Una notte, non
potendoci dormire, pensai di andare a Babilonia, e chiedere laiuto di un di quei maghi, discepoli e
successori di Zoroastro, avendo udito a dire che essi con certe magie ed incantesimi aprono le porte
dellinferno, vi conducono chi vuole andarvi, senza pericolo, e lo rimenano su. Il miglior partito
adunque mi parve questo, con un po di danaro prendermi uno di essi a guida, e discendere da
Tiresia, il Beoto, per saper da lui, che fu indovino e sapiente, quale è la migliore vita che deve
scegliere un uomo prudente. E così salto di letto, e diritto a Babilonia; dove giunto, trovo un Caldeo
che era un gran savio, un uomo divino nellarte sua, un vecchione bianco con una barba venerabile,
chiamato Mitrobarzane. Lo pregai molto e ripregai, ed a fatica ottenni da lui, per quel prezzo che ei
volle, di guidarmi per la via. Il mago adunque per ventinove giorni, cominciando con la luna nuova,
mi lavò, conducendomi per tempissimo ogni mattina su la riva dellEufrate; e rivolto alloriente
recitava una lunga canzone, della quale io non intendeva molto, perchè, come fanno questi asini di
banditori nei giuochi, ei rappallottolava e confondeva le parole: se non che mi pareva che egli
invocasse alcuni spiriti. Dopo la canzone mi sputava tre volte in faccia: ed io al ritorno non
guardavo in faccia nessuno di quelli che incontravo. Nostro cibo erano le coccole degli alberi,
bevanda il latte, lidromele, e lacqua del Coaspe,(60) il letto allo scoperto su lerba. Fatti questi
preparamenti, verso la mezza notte mi menò sul Tigri, e quivi mi purificò, mi nettò, mi mondò,
girandomi intorno con teda, scilla, ed altre cose, e mormorando quella sua canzone: e poi che
mebbe tutto incantato ed aggirato, mi rimenò a casa facendomi camminare a ritroso, per non farmi
offendere dalle fantasime. Dipoi ci preparammo a navigare. Egli si mise indosso un robone magico,
simile a quello che usano i Medi, e per me mi provvide di questo cappello, della pelle del lione, e
della lira: e mi ammonì che se uno mi dimandasse del mio nome, non rispondessi Menippo, ma
Ercole, o Ulisse, o Orfeo.
Filonide. E perchè, questo, o Menippo? Non comprendo la cagione di questo abito e di questi nomi.
Menippo. Eppure lè chiara, e non cè mistero. Giacchè questi prima di noi discesero vivi nellinferno,
se io prendessi una simiglianza a loro, facilmente ingannerei la vigilanza di Eaco, e passerei senza
impedimento, come uno già solito, e che labito mi faria pigliare per un eroe. Rompeva lalba
adunque quando noi, discesi al fiume, ci accingemmo a partire: egli aveva già preparato il battello,
le vittime, lidromele, e le altre cose necessarie allincantesimo. Ponemmo ogni cosa nel battello, e
ventrammo anche noi
Con basso viso e lacrimose gote.
Per alquanto tempo andammo a seconda, dipoi ci mettemmo in un lago o palude, in cui lEufrate si
perde. Tragittato questo, giungemmo in un luogo deserto, selvaggio, e senza sole: quivi, discesi
dove volle Mitrobarzane, cavammo una fossa, e scannate le pecore, in essa facemmo le libazioni del
sangue. Il mago intanto tenendo in mano una face accesa, non più con dimessa voce, ma con la più
alta e sonora, evocava tutti gli Spiriti, e le Pene, e le Erinni, e la notturna Ecate, e la terribil
Proserpina, mescolandovi certi lunghi ed ignoti paroloni barbari. Subito la terra tremò; a quelle
parole il suolo spalancossi; sudì latrar Cerbero da lontano: era un terrore grande;
Ne temette anche il re de morti Pluto.
Apparivano già molte cose, il palude, il fiume del fuoco, e la reggia di Plutone. E noi discendendo
per quella voragine aperta, trovammo Radamanto mezzo morto della paura: Cerbero baiò un poco e
si mosse, ma io toccai la lira, e al suono subito si racchetò. Venuti al palude, quasi quasi non
passavamo, chè la scafa era già piena, e zeppa di lamenti: era un passaggio di feriti, chi con una
gamba rotta, chi col capo spaccato, chi con altro membro forato; mi pareva venissero da una
battaglia. Ma il buon Caronte come vide la pelle del leone, credendo che io fossi Ercole, mi accolse
e mi tragittò volentieri, e allo scendere ne additò anche il sentiero. Camminando per le tenebre,
Mitrobarzane innanzi, io dietrogli tenendolo ai panni, infine giungemmo ad un grandissimo prato
dasfodillo, dove ci svolazzavano intorno le pigolanti ombre dei morti. Progredendo un po, venimmo
al tribunale di Minosse. Era questi seduto sovra un alto trono, e gli stavano intorno le Pene, le
Vendette, le Furie: da una parte gli erano menate innanzi le grosse funate degli adulteri, ruffiani,
pubblicani, adulatori, calunniatori, e simile canaglia rotta ad ogni ribalderia: dallaltra si
presentavano i ricchi e gli usurai gialli, panciuti, podagrosi, ciascuno con un collare al collo ed una
catena pesantissima. Fermatici a vedere che si faceva, udimmo come si difendevano, ed una nuova
specie di strani accusatori.
Filonide. E quali? oh, dimmelo.
Menippo. Sai le ombre che i corpi gettano al sole?
Filonide. Sì.
Menippo. Ebbene quelle, poichè siam morti, sono gli accusatori, i testimoni, le pruove di ciò che
abbiamo fatto in vita; e ad alcune di esse si dà piena fede, perchè sono sempre con noi e non
abbandonano mai i corpi. Minosse adunque attento esaminava, e mandava ciascuno nel luogo degli
empj a patirvi la pena dovuta ai suoi misfatti. E più acerbo era contro questi superbi delle loro
ricchezze e signorie, che quasi si fanno adorare; detestando la loro superbia, che han tanto fumo e
boria per cose di poca durata, e non rammentano che sono mortali e possessori di cose mortali. E
quelli, spogliati di tutte le loro grandezze, della nobiltà, della potenza, nudi, con gli occhi bassi gli
stavano innanzi, reputando come un sogno la felicità goduta tra noi. Io ne godevo: e se ne
riconoscevo qualcuno, me gli avvicinavo, e, ti ricordi, gli dicevo, che eri in vita, e che orgoglio
avevi? quanta gente stava la mattina innanzi la tua porta ad aspettare che tu uscissi, ed era
strapazzata e scacciata dai tuoi servi? Ti ricordi quando tu uscivi in veste di porpora, o ricamata
doro, o di vari colori? fortunato allora cui tu gettavi uno sguardo, cui porgevi la mano a baciare o il
petto! Ed a cotali parole quelli sentivano più trafiggersi. Una sola sentenza Minosse profferì con
certo favore. Il siciliano Dionigi era accusato di molte scelleraggini e nefandezze da Dione, e
lombra sua ne era testimone: ma si fece innanzi Aristippo di Cirene (che è molto riputato e potente
laggiù), e lo levò quasi dalle branche della Chimera, e lo fece assolvere, dicendo, che quegli era
stato largo di danaro a molti uomini dotti. Partiti dal tribunale, venimmo al luogo dei supplizi. E
quivi, o amico mio, era una gran pietà a udire e vedere. Sudiva insieme il suono de flagelli, e i
pianti di quelli che erano bruciati dal fuoco, e rumore di catene, di ceppi, di ruote: la Chimera li
lacerava, Cerbero li squartava, ed eran tutti confusi e misti re e servi, satrapi e poveri, ricchi e
mendichi; e tutti maladivano ciò che avevano fatto. Guatando riconobbi alcuni che già merano noti,
e morti da poco: si nascondevano e voltavano la faccia; e se mi guardavano mi volgevano certi
sguardi abietti e supplichevoli, essi che erano stati sì superbi e sprezzanti nella vita loro.
Nondimeno ai poveri era rimessa metà della pena: avevano alquanto posa, e poi di nuovo al castigo.
Ci vidi ancora quelli delle favole, ed Issione, e Sisifo, e il frigio Tantalo che era proprio male
arrivato, e Tizio figliuolo della terra, che, oh quanto era! giaceva immenso sopra grande spazio.
Trapassati oltre, entrammo nel campo Acherusio, e quivi trovammo i semidei, e le eroine, e laltra
turba de morti, distinti per popoli e per tribù; alcuni vecchi, intarlati, e, come dice Omero, vanenti;
altri ancor freschi ed interi, specialmente gli egiziani, perchè bene insalati. Discernere ciascuno non
era cosa facile, perchè tutti simili tra loro, tutti ossa spolpate: pure dopo molto riguardare ne
riconobbi alcuni. Era una folta di oscuri, ignoti, senza nessun segno dellantica bellezza: e a veder
tanti scheletri in tanti gruppi, e tutti simili, che con le vuote occhiaie terribilmente guardavano, e
mostravano i denti sgrignuti, io mi confondevo a che riconoscere Tersite dal bel Nireo, il mendico
Iro dal re dei Feaci, il cuoco Pirria da Agamennone; perchè non serbavano più alcun segno per
essere riconosciuti, ma tutti erano ossa nude, e senza nome; e nessuno più avria potuto distinguerli.
A riguardare quello spettacolo, io ripensavo alla vita umana, che parmi come una lunga
processione. Fortuna è il ceremoniere che ordina e distribuisce gli uffici e le vesti: ti piglia uno che
le viene innanzi, lo veste da re, gli mette la tiara in capo, lo circonda di guardie, lo corona dun
diadema: sovra un altro getta una tonacella di servo: a chi dà un aspetto bello, a chi uno brutto e
ridicolo, perchè lo spettacolo devessere variato. Spesso nel mezzo della processione muta gli ordini,
e fa scambiar vesti a taluni; spoglia Creso, e gli fa prendere abito di servo e di prigioniero; e
Meandro, che era vestito da servo, ella lo riveste de regali paramenti di Policrate, e glieli fa portare
per qualche tempo. Finita la processione, ciascuno restituisce gli ornamenti, e si spoglia delle vesti e
del corpo; e tutti ritornano come erano prima, luno indifferente dallaltro. Alcuni sciocchi quando
fortuna si presenta a richiedere gli ornamenti, lhanno a male e se ne sdegnano, come se fossero
spogliati di roba loro, e non di roba prestata per poco tempo. Hai veduto molte volte su la scena,
credio, gli attori, che, come vuole il dramma, diventano ora Creonti, ora Priami, ora Agamennoni;
e, se oscorre, colui che poco innanzi rappresentava il grave personaggio di Cecrope o di Eretteo,
poco dipoi esce vestito da servo, perchè così comanda il poeta. Alla fine del dramma ciascun di loro
depone il vestone di broccato, la maschera, ed i coturni, e se ne va povero e tapino; non è più
Agamennone dAtreo, o Creonte di Meneceo, ma si chiama col suo nome Polo di Caricle da Sunio, o
Satiro di Teogitone da Maratona. Così sono anche le cose umane, come mi parvero allora che vidi
quello spettacolo.
Filonide. E dimmi, o Menippo, quei che hanno magnifici e grandi sepolcri su la terra, e colonne, e
statue, ed iscrizioni, non sono laggiù onorati più degli altri morti?
Menippo. Bah! se avessi visto Mausolo (quel di Caria, che è tanto famoso pel suo sepolcro), non
avresti finito di ridere: miseramente gettato in un angolo, e nascosto nella turba degli altri morti,
aveva tanto piacere, credo io, del suo monumento, quanto era il peso che si sentiva gravar di sopra.
Chè, o amico mio, quando Eaco ha misurato a ciascuno il suo luogo (che al più è dun piede) si deve
rimanere lì alla misura assegnata. E avresti riso molto di più se avessi visto quelli che fra noi sono
re e satrapi, esser mendichi laggiù, e fare i salumai per bisogno,(61 o insegnare a leggere, e
chiunque glingiuria e gli schiaffeggia come omicciattoli da nulla. Quando vidi Filippo il Macedone,
non potevo tenermi dal ridere di lui, che mi fu additato in un angolo, che rattoppava ciabatte. Ed era
a vedere molti altri re in su le vie, che cercavano limosina, e Serse, e Dario, e Policrate.(62
Filonide. Mi conti cose strane dei re, e quasi incredibili. E Socrate che fa, e Diogene, e qualche altro
sapiente?
Menippo. Socrate anche lì passeggia e dice il motto a tutti: stassene con Palamede, e Ulisse, e
Nestore, e qualche altro morto ciarliero; ed ha le gambe ancora gonfie pel veleno bevuto. Il buon
Diogene sè allogato vicino a Sardanapalo dAssiria, a Mida di Frigia, e ad altri ricconi; e quando li
ode piangere e rammentare lantica fortuna, ei ride e sciala, e sdraiato a terra, canta con un gran
vocione che copre i loro lamenti: onde essi se ne sdegnano, e pensano di sloggiare di lì, non
potendo sopportare Diogene.
Filonide. Basti di questo. Che è il decreto che da prima mi dicevi fatto contro i ricchi?
Menippo. Hai fatto bene a ricordarmene. Volevo parlarti di questo, e non so come mi si è tanto
svagato il discorso. Mentre io ero laggiù, i Pritani intimarono unadunanza per affari di utilità
comune. Vedendo concorrervi molti, mi mescolai tra i morti, ed andai nelladunanza. Furono trattate
varie faccende, infine anche questa dei ricchi. Erano questi accusati di molte e gravi colpe, di
violenza, di arroganza, di superbia, dingiustizia: onde si levò un capopopolo, e lesse questo decreto:
Decreto. «Attesochè i ricchi commettono molto ingiustizie nella vita con le rapine, le prepotenze,
ed ogni maniera di dispregi verso i poveri, il Senato ed il Popolo decreta che quando essi muoiono, i
corpi loro patiscano pena come gli altri malvagi, ma le anime ritornino su ed entrino in corpo agli
asini, e vi staranno per dugento cinquantamila anni, nascendo asini da asini, portando pesi, ed
essendo menati e picchiati dai poveri: dopo questo termine potranno morire.» Disse questo parere
Cranio figliuolo di Scheletrino, della città Defuntana, della tribù dei Morticini. Letto questo decreto,
i magistrati diedero il loro voto, il popolo levò le mani e lapprovò, Ecate ululò, Cerbero abbaiò, e
così rimase rato e fermo. Ed eccoti ciò che fu stabilito nel parlamento. Ora io mi avvicinai a Tiresia,
essendo disceso a posta per questo, e, narratogli ogni cosa, strettamente lo pregai di dirmi quale egli
credeva la miglior vita. Ed ei sorridendo, chè è un vecchietto cieco, pallido, e con una vociolina
sottile, risposemi: O figliuolo, io so la cagione del tuo dubbio, la ti viene dai sapienti, che sono
discordi fra di loro: ma io non posso dirtelo, chè è vietato da Radamanto. - No, padre mio caro,
risposi: deh dimmelo, e sappi che io vo più cieco di te camminando nella vita. - Egli allora mi trasse
in disparte molto lunge dagli altri, e fattomisi allorecchio, pianamente mi disse: La vita
dellignorante è la migliore e la più saggia: onde lascia di spiare il cielo, di strolagare su i principii e
i fini delle cose: manda alla malora i filosofi e i loro sillogismi, chè le son tutte baie; ed attendi solo
a questo, usar bene del presente, passar ridendo sopra molte cose, non dare importanza a nulla.
Così dicendo ritornò veloce
Sul prato dasfodillo.
Essendo già lora tarda, Su via, o Mitrobarzane, io dissi, che più indugiamo? perchè non ritorniamo
sul mondo? Ed egli: Sta lieto, o Menippo, disse, che ti mostrerò un breve e facile tragetto. E
menatomi in un cantuccio più scuro degli altri, mi mostrò un certo barlume che entrava come per
una finestrella. Questo, mi disse, è il tempio di Trofonio: per qui si scende dalla Beozia: entravi, e
tosto sarai in Grecia. A queste parole io tutto lieto saluto il mago, mi ficco e mi arrampico per
quella buca, ed eccomi non so come in Livadia.(63
XII.
CARONTE,
o
GLI OSSERVATORI.
Mercurio e Caronte.
Mercurio. Oh! perchè ridi, o Caronte? Come hai lasciato il battello, e sei salito su la terra? quassù tu
non ci suoli aver faccende.
Caronte. Avevo gran voglia, o Mercurio, di vedere che cè nella vita, che vi fanno gli uomini, e che
piangono daver perduto quando discendon tra noi; chè nessuno trapassa senza pianto. Però anchio,
come il giovane tessalo,(64 ho chiesto a Plutone licenza di lasciare la barca per un sol dì, e son
venuto alla luce del sole. Ora tho incontrato proprio a punto; chè io ci son nuovo, e spero che tu mi
guiderai e mostrerai ogni cosa, chè ci sei pratico.
Mercurio. Non ho tempo, o barcaiuolo mio: vado per una faccenda commessami lassù da Giove per
la terra. Egli è collerico, e temo, se io ritardo, che ei non mi dia il castigo di rimaner sempre tra voi
al buio, o non mi faccia il giuoco che già fece a Vulcano, mi pigli per un piè e mi getti giù dalle
case celesti, sicchè zoppicando farei anchio ridere gli Dei servendoli da coppiere.(65
Caronte. Ed avrai cuore di vedermi errare alla ventura su la terra, tu che mi sei amico e compagno,
e tragittiamo insieme le anime? Eppure, o figliuolo di Maia, dovresti ricordarti che io non tho fatto
mai nè aggottare nè vogare; che tu ti sdrai su la coperta, e russi, quantunque abbi un bel paio di
spalle; o se trovi qualche morto chiacchierino, te la chiacchieri per tutta la traversata; ed io, tutto
che vecchio, co due remi in mano, i vogo io solo. Deh, per quanto ami tuo padre, o Mercurietto
mio, non mi lasciare; mostrami quel che si fa nella vita, non farmene tornar con le pive nel sacco
senza aver niente veduto. Se tu mabbandoni io sarò come un orbo, che al buio e senza guida,
inciampa ad ogni passo: così la luce mi abbaglia. Fammi questo favore, o Cillenio, ed io te ne sarò
sempre obbligato.
Mercurio. Questa faccenda mi farà aver dello busse: già vedo che per compenso di averti guidato
non mi mancherà qualche cazzotto. Pure ti vo contentare: per un amico si fa tutto. Ma vedere ogni
cosa per punto non è possibile, o navicellaio mio; chè ci vorrieno anni assai. E poi io sarei messo al
bando da Giove, come fuggitivo; e tu non potendo fare luffizio che la Morte tha dato, recheresti
danno al regno di Plutone, non tragittando i morti per molto tempo: ed Eaco il portinaio si
sdegnerebbe non buscando neppure un obolo. Onde io penso di mostrarti così sopra sopra le cose
che ci sono.
Caronte. Pensa tu il meglio, o Mercurio; io non ho veduto mai niente della terra, e ci son forestiero.
Mercurio. Insomma, o Caronte, bisogna trovare unaltura, donde tu vegga giù ogni cosa. Se tu
potessi salir meco in cielo, non avrei questa briga ora: di là scorgeresti tutto: ma giacchè non è
permesso a chi sta sempre fra le ombre di montare nella reggia di Giove, dobbiamo adocchiare
qualche alta montagna.
Caronte. Ti ricordi, o Mercurio, ciò che soglio dirvi io quando navighiamo? Se il vento gagliardo dà
di traverso nella vela, e londa si solleva, voi, che non sapete, mi dite: ammaina la vela, allenta la
scotta, abbandónati al vento: ed io che vi rispondo? Zitti, so io che debbo fare. Così tu, fa quello che
tu credi meglio, chè ora se tu il piloto: ed io, come si conviene ai passeggieri, debbo tacere ed
ubbidire ai tuoi comandi.
Mercurio. Dici bene: saprò anchio che fare, e troverò qualche alta cima che farà per noi. Saria
buono il Caucaso; no, il Parnaso è più alto: lOlimpo più di tuttadue. Oh, a riguardar lOlimpo mi
viene una buona idea: ma tu devi aiutarmi.
Caronte. Di pure: ed io taiuterò come posso.
Mercurio. Il poeta Omero dice che i figliuoli dAloeo, che erano anche due e fanciulli ancora, una
volta vollero sradicare il monte Ossa, e lo posero sovra lOlimpo, e più sovra il Pelio, credendo così
di farsi una bella scala per montare al cielo. Quei fanciulli eran due temerarii, ed ebbero una buona
castigatoia; ma noi, che non vogliamo far male agli Dei, perchè anche noi non rotoliamo e poniamo
montagne sopra montagne per farci una vedetta più alta?
Caronte. E potremo, o Mercurio, noi due prendere e sollevare Ossa e Pelio?
Mercurio. Perchè no, o Caronte? e credi che noi possiamo meno di quei due fanciulli, noi che siamo
dii?
Caronte. No: ma parmi cosa impossibile, e di fatica immensa.
Mercurio. Va, sei un ignorante, o Caronte, e non hai estro poetico. Quel valente uomo dOmero in
due versi ci fa salire in cielo, ammucchiando agevolmente le montagne. Oh, ti pare cosa incredibile;
eppure tu certamente sai che Atlante porta il mondo su le spalle, ed egli solo ci sostiene tutti quanti.
E forse hai udito ancora che Ercole mio fratello, per far riposare un poco il povero Atlante, una
volta si pose egli quel peso addosso.
Caronte. Lho udito cotesto: ma se è vero, o no, lo sai tu ed i poeti.
Mercurio. Verissimo, o Caronte. E per qual cagione uomini sapienti direbbono una bugia? Via,
facciamo un po di leva a monte Ossa prima, come ci dicon le parole del nostro architetto Omero:
E poni Ossa sul Pelio frondoso.
Vedi come riusciam nellopera facilmente e poeticamente? Ora vi salgo, per vedere se basta così, o
se dobbiamo sovrapporvi altro. Bah! siamo ancor giù appiè del cielo; a levante appena pare la Jonia
e la Lidia; a ponente non più che lItalia e la Sicilia; a settentrione le sole contrade sino allIstro; e a
mezzodì, Creta pare e non pare. Dobbiam trasportarvi, o barcaiuolo, anche lOeta, e forse anche il
Parnaso.
Caronte. Sia pure: ma bada che la macchina non sia troppo fragile, alzandola ad unaltezza
smisurata; e che noi cadendo con essa non facciamo cattiva pruova dellarchitettura dOmero,
rompendoci il capo.
Mercurio. Non temere: tutto sarà saldissimo. Trasportiamo lOeta, rotoliamo il Parnaso. Ecco, io
risalgo: ora va bene: vedo tutto; sali anche tu.
Caronte. Stendimi la mano; non è poco per me salire su questa gran macchina.
Mercurio. Tu volevi vedere il mondo, o Caronte: ma non si può tutto vedere, e niente patire. Tienti
fermo alla mia mano, e bada di non mettere il piè su qualche sdrucciolo. Oh, se sopra anche tu: e
giacchè il Parnaso ha due cime, sediamo tu sovra una, io sovra unaltra. Or gira gli occhi intorno, e
mira ogni cosa.
Caronte. I vedo molta terra, e un gran lago che la circonda, e montagne, e fiumi maggiori di Cocito
e di Piriflegetonte, e gli uomini molto piccoli, e certe loro topaie.
Mercurio. Sono città quelle che tu prendi per topaie.
Caronte. Sai, o Mercurio mio, che abbiam fatto un buco nellacqua a trasportar qui il Parnaso con
tutto il fonte Castalio, e lOeta, e le altre montagne?
Mercurio. E come?
Caronte. Io non distinguo niente da questa altezza. Non volevo vedere io le città solamente e le
montagne, come in una pittura, ma gli uomini e ciò che fanno e ciò che dicono, come facevo testè
quando mi hai incontrato che ridevo, e mi hai dimandato perchè ridevo. Avevo udito una cosa
piacevole assai.
Mercurio. E quale?
Caronte. Uno invitato a cena da un amico pel dimani, Verrò senza meno, disse: e mentre parlava, un
tegolo, non so come, staccasi dal tetto, gli cade in capo, e lammazza. Io ridevo perchè colui non
poteva adempiere alla sua promessa. Parmi dunque chio debba discendere per meglio vedere e
udire.
Mercurio. Sta cheto: ci rimedierò io, e ti darò subito una vista acutissima con alcune parole
incantate dOmero. E quando avrò recitato le parole, ricòrdati che devi sbirciar tutto bene e chiaro.
Caronte. Di pure.
Mercurio. La caligin che gli occhi ti copriva
Io la disperdo, acciò tu ben conosca
E i numi ed i mortali.
Che è? vedi ora?
Caronte. Maravigliosamente. Linceo è cieco rispetto a me. Ora spiegami ogni cosa, e rispondi alle
mie dimande. Ma vuoi chio ti dimandi co versi dOmero, per mostrarti che Omero lo so anchio?
Mercurio. E donde lhai appreso tu povero barcaiuolo?
Caronte. Oh, non parlar male dellarte mia. Chè io quando lo tragittai dopo la sua morte, ludii cantar
molti versi, e dalcuni me ne ricordo ancora. Che burrasca allora patimmo! Egli si mise a cantare una
canzone infausta ai naviganti, onde Nettuno adunò le nubi, sconvolse il mare agitandolo col tridente
come con una mestola, suscitò tutte le procelle: il mare gorgogliava sotto le parole: le ondate, e
loscurità eran sì grandi che per poco la nave non ci andò sossopra: egli si mareggiò e vomitò molti
versi con tutta Scilla, Cariddi, e il Ciclope. Era naturale adunque che di quel gran vomito mi fosse
restato qualche cosa. Ma dimmi
Chi è quel grande, sì membruto e forte,
Che tanto sovra gli uomini sinnalza
Di tutto il capo e delle late spalle.(66
Mercurio. È Milone, latleta di Crotone: i Greci lo applaudiscono perchè sha levato in collo un toro,
e lo porta per mezzo lo stadio.
Caronte. Quanto più giustamente applaudirebbero me, che tra poco tafferrerò Milone e te lo getterò
nel battello, quando ei verrà tra noi atterrato dalla Morte, invincibile atleta che gli darà un gambetto
quando ei meno se lattende? Piangerà egli allora ricordando queste corone e questi applausi: ora va
superbo perchè porta in collo un toro. Ma che? pensa egli che dovrà morire?
Mercurio. Come pensare ora alla morte egli sì giovane e sì vigoroso?
Caronte. Lasciamolo stare: riderem di lui quando farà il tragitto, e non avrà forza di sollevare non
che un toro, un moscherino. Ma dimmi ancora: Chi è questaltro daspetto sì grave? alle vesti non par
greco.
Mercurio. È Ciro figliuol di Cambise, che ha tolto limpero ai Medi e lha dato ai Persi: testè ha
domato gli Assirii, sè insignorito di Babilonia; ed ora si prepara contro la Lidia, acciocchè, vinto
Creso, diventi signore del mondo.
Caronte. E Creso dovè?
Mercurio. Riguarda lì, in quella gran fortezza di triplice muraglia, quella è Sardi: e ve Creso
sdraiato sovra un letto doro, che ragiona con lateniese Solone. Vuoi udire che dicono?
Caronte. Oh, sì.
Creso. «O forestiero ateniese, tu hai veduto le ricchezze che io ho, e i tesori, e il vasellame doro, e
tutte laltre grandezze mie: or dimmi, chi credi tu che sia il più felice tra gli uomini?»
Caronte. Che risponderà Solone?
Mercurio. Non dubitare: risponderà nobilmente.
Solone. «O Creso, ben pochi sono i felici; io, fra quanti ne so, stimo che furono felicissimi Cleobi e
Bitone, i figliuoli della sacerdotessa dArgo.»
Mercurio. Parla di quei due giovani morti ultimamente, poi che si aggiogarono sotto il cocchio della
madre, e la trassero sino al tempio.
Creso. «Bene: abbiano questi la prima felicità: chi sarà secondo?»
Solone. «Tello ateniese, che visse puro, e morì per la patria.»
Creso. «Ed io, o insolente, io non ti sembro felice?»
Solone. «Non lo so ancora, o Creso, se non giungi al fine della vita, perchè la sola morte ci può far
giudicare se uno è vissuto felice sino al suo termine.»
Caronte. Bravissimo, o Solone, che non ti se dimenticato di noi, e credi che solo presso alla mia
barca si debba giudicare di questo. Ma quei messi, dove li manda Creso? e che portano su le spalle?
Mercurio. Son mattoni doro che ei manda in dono ad Apollo Pitio, per certi oracoli che tra breve lo
rovineranno: egli è pazzo degli oracoli.
Caronte. Oh, quello è loro, che splende, che luccica, che ha quel color giallo ardente? Ora lo vedo la
prima volta, avendone udito sempre parlare.
Mercurio. Quello, o Caronte, di che tanto si parla, e che tanto si cerca.
Caronte. Eppure io non vedo a che è buono, se non a pesare su le spalle di chi lo porta.
Mercurio. Non sai quante guerre per esso, ed insidie, e furti, e spergiuri, e uccisioni, e lunghe
navigazioni, e traffichi, e catene, e servitù.
Caronte. Per esso, che non è molto differente dal rame? Io conosco il rame, perchè sai, o Mercurio,
chio riscuoto lobolo da ciascuno che tragitto.
Mercurio. Sì, ma il rame se ne trova molto, e però è men ricercato: loro è raro, e lo cavano a molta
profondità: ma anche esso è dalla terra, come il piombo e gli altri metalli.
Caronte. Che grande sciocchezza è questa degli uomini, amare tanto una cosa gialla e pesante.
Mercurio. Almeno Solone pare che non lami, come tu vedi; e si ride di Creso e delle sue barbare
spampanate: ma parmi che voglia dirgli qualche cosa: ascoltiamolo.
Solone. «Dimmi, o Creso, credi tu che Apollo abbia bisogno di cotesti tuoi mattoni doro?»
Creso. «Altro! In Delfo ei non ha offerta come questa.»
Solone. «Dunque tu credi che il dio sarà lietissimo di avere tra gli altri doni, anche mattoni doro?»
Creso. «Come no?»
Solone. «O Creso, tu fai il cielo molto povero se ci si dovrà mandar loro dalla Lidia, quando gli Dei
ne vorranno.»
Creso. «E dove ci saria tantoro quanto nè tra noi?»
Solone. «Dimmi: e ferro ve nè in Lidia?»
Creso. «Poco.»
Solone. «E vi manca il meglio.»
Creso. «Come! meglio il ferro delloro?»
Solone. «Se mi rispondi senzandare in collera, lo vedrai.»
Creso. «Dimanda, o Solone.»
Solone. «Chi è da più, chi custodisce o chi è custodito?»
Creso. «Certo chi custodisce.»
Solone. «Dunque se Ciro, come alcuni dicono, verrà contro la Lidia, tu farai doro le spade ai
soldati, o ti bisognerà il ferro allora?»
Creso. «Il ferro.»
Solone. «E se non te ne provvederai, loro tuo verrà in mano dei Persiani.»
Creso. «Ehi tu, parla bene.»
Solone. «Non sia mai questo: ma tu devi riconoscere che il ferro è migliore delloro.»
Creso. «E mi consigli di offerire a Dio mattoni di ferro, e far ritornare quelli doro?»
Solone. «Ei non ha bisogno neppure del ferro: ma o rame, o oro, o altro che gli mandi, sarà un
giorno una bella preda, e un buon guadagno per altri; pei Focesi, pei Beozii, pei Delfi stessi, per un
tiranno, o per un ladro; chè il Dio si briga poco delle ricchezze tue.»
Creso. «Tu sempre fai guerra alle mie ricchezze, e me le invidii.»
Mercurio. O Caronte, il Lidio non sa acconciarsi alla verità e a quel libero parlare: e gli pare una
cosa strana che un uomo povero non abbia paura di dirgli franco il suo sentimento. Eppure tra breve
si ricorderà di Solone, quando fatto prigioniero da Ciro, dovrà montar su la pira. Poco fa ho udito
Cloto leggere i destinati di ciascuno, e in essi era scritto che Creso sarà prigione di Ciro, e Ciro
morrà per mano di quella Messageta lì. Vedi quella donna scita, montata sovra quel cavallo bianco?
Caronte. Sì.
Mercurio. Ella è Tomiri, che troncherà la tosta a Ciro, e la metterà in un otre pieno di sangue. Vedi
pure quel giovanetto figliuolo di Ciro? Egli è Cambise, che regnerà dopo suo padre, e disfatto molte
volte ed errante in Libia e in Etiopia, infine morirà pazzo, dopo di avere ucciso il dio Api.
Caronte. Oh, davvero è da ridere! Ed ora chi ardiria di guardar pure in viso a costoro che si tengono
tanto superiori agli altri? chi crederia che tra poco uno sarà prigione, e un altro avrà il capo in un
otre di sangue? E chi è colui, o Mercurio, che va vestito di porpora e cinto del diadema, ed a cui il
cuoco restituisce lanello trovato in corpo ad un pesce? Oh, anche egli Dun isola signor, tra i re
simbranca?
Mercurio. Hai fatta una bella parodia, o Caronte. Tu vedi Policrate tiranno di Samo, che ora si tiene
beatissimo: ma anche costui dal suo furbo servitore Meandro sarà dato in mano il Satrapo Oreta,
che lo farà crocifiggere: e così in un attimo, da questa felicità piomberà nellultima miseria. Anche
questo lho udito da Cloto.
Caronte. Bene, o Cloto, da brava: crocifiggili, troncane le teste, acciocchè veggano che sono
uomini: ma fa che sinnalzino molto, affinchè caschino da più alto con più dolore. Io poi riderò
allora squadrandoli ad uno ad uno nudi nel battello, senza porpora, senza tiara, senza letto doro.
Mercurio. E questo è il fine di costoro. Guarda ora la moltitudine, o Caronte: chi naviga, chi
guerreggia, chi litiga, chi coltiva la terra, chi presta ad usura, chi accatta.
Caronte. Io vedo un diverso affaccendarsi e un affannarsi grande: le città come alveari; ciascuno
vha il suo pungiglione, e punge chi gli sta vicino: pochi, come vespe, menano e rubano i più deboli.
Ma questo sciame invisibile agli uomini, che vola sovra di loro, che è?
Mercurio. Sono, o Caronte, le speranze, i timori, le sciocchezze, i piaceri, le avarizie, le ire, gli odii,
ed altre passioni. Tra queste la sciocchezza si mescola con essi, ed è come loro cittadina: stanno
anche in mezzo a loro lo sdegno, e lodio, e la gelosia, e lignoranza, e la diffidenza, e lavarizia. Il
timore e le speranze volano più su: il timore talvolta piombando su di loro, li percuote e li
sommette, le speranze van roteando su i loro capi, e quanduno crede proprio dafferrarle, se ne
volano e lo lasciano a bocca aperta, come Tantalo laggiù che si vede fuggir lacqua. E se aguzzi gli
occhi, vedrai più su le Parche che filano a ciascuno il suo fuso, dal quale tutti pendono per
sottilissimi fili. Li vedi quei fili come di ragno, pe quali tutti sono sospesi ai fusi?
Caronte. Veggo sovra ciascuno un sottil filo, ma spesso aggroppato questo con quello, e quello con
un altro.
Mercurio. Appunto, o nocchiero: perchè è destinato che questi sia ucciso da quello, e quello da un
altro; che costui sia erede di colui che ha il filo più corto, ed un altro di costui: questo vogliono
significare quei groppi. Vedi adunque come tutti pendono da un debile filo: costui tratto tanto in su,
tra poco cadrà, spezzandosi il filo che non può più tenere il peso, e farà giù un gran tonfo: ma
questaltro sollevato poco dalla terra, se cadrà, non farà rumore, e appena chi gli sta vicino si
accorgerà della sua caduta.
Caronte. Oh che cose ridicole, o Mercurio.
Mercurio. Eppure tu non sai a mezzo quanto sono ridicole, o Caronte: massime quando gli uomini
sono in gran faccende, nel bello delle speranze, e viene Mona Morte e li scopa. Ella manda molti
messi ed ambasciatori, il freddo, la febbre, la tisi, la pulmonia, il coltello, i ladri, la cicuta, i giudici,
i tiranni: ma nessuno di questi è ricevuto dagli uomini quando stanno bene: quando poi cadono,
allora gli ahi, ahi! uh, uh! ohimè, ohimene! Se pensassero chei sono mortali, e che passano in breve
tempo, lascerebbon la terra, come si lascia un sogno, ci vivrebbono con più senno, morrebbono con
meno affanni. Ma perchè sperano che il bene presente abbia sempre a durare, quando viene il messo
e li chiama, e li strascina legati con una febbre e con una tisi, si dibattono e non vogliono andare,
perchè non saspettavano dessere schiantati così. Che non farebbe egli colui che fabbricandosi
accuratamente la casa, e dando fretta agli operai, venisse a sapere che egli non la vedrà compiuta, e
che appena postovi il tetto, se ne anderà, lasciandola ad un erede che se la goderà, ed egli non vi
avrà fatto nemmeno un desinare? E costui, che è tutto lieto perchè sua moglie ha partorito un
figliuol maschio, ed invita gli amici alla festa, e pone al bimbo il nome del padre, se sapesse che
questo bimbo a settanni gli morirà, credi tu che avrebbe tanta gioia ora che gli è nato? La gioia è
perchè ei guarda ad uno felice pel figliuol suo, al padre dellatleta vincitore in Olimpia; ma il suo
vicino che accompagna il figliuolo al sepolcro, ei nol vede; e però non pensa a che debil filo è
sospeso il suo. Quei che litigano pe confini dun podere, vedi quanti sono, e quanti ammassano
ricchezze; poi, prima di goderle, son chiamati da quei messi ed ambasciatori che tho detto.
Caronte. Vedo ogni cosa, e tra me penso: che dolcezza trovano questi nella vita? e di qual bene son
privati che la rimpiangono tanto? Se si pon mente ai re, che son tenuti essi i più felici (lasciamo da
banda linstabilità ed il capriccio della fortuna), si troverà che essi hanno assai più di amarezze, che
di dolcezze, e sono sempre in mezzo a timori, agitazioni, odii, insidie, sdegni, adulazioni; fuori de
dolori, delle malattie, delle passioni che regnano sovressi come su gli altri. E se la condizion loro è
sì trista, figúrati quella dei privati. Io voglio dirti, o Mercurio, a che mi paiono simili gli uomini, e
tutta la vita loro. Hai veduto mai le bolle che si levan nellacqua sotto la cascata dun torrente? quelle
bollicine che compongono la schiuma? Alcune di esse son piccine e subito si rompono e vaniscono,
ed alcune durano un poco più, confondendosi con altre crescono e gonfiano molto, e infine
scoppiano anchesse, chè nessuna può durare. Così è la vita degli uomini. Fortuna soffia, e tutti si
levano, qual più, qual meno; chi per poco serba quel breve gonfiore, chi come si leva, si posa: tutti
debbono rompersi e svanire.
Mercurio. Mhai fatto un paragone, o Caronte, non inferiore a quello che fa Omero tra gli uomini e
le foglie.
Caronte. Eppure, o Mercurio, vedi che fanno, e come contendono tra loro per aver signorie, e onori
e possessioni, e tante altre cose che pur dovranno lasciare, e scendere tra noi non portando seco
altro che un obolo. Vuoi tu, giacchè siamo su questaltura, chio gridando a gran voci li ammonisca di
cessare da fatiche vane, e di vivere avendo sempre la morte innanzi agli occhi, dicendo: O stolti, a
che vaffaticate tanto? smettete, chè la vita è breve, e niente di quello che ora tanto vi piace è eterno,
niente porta seco chi muore, ma ci vien nudo: la casa, il campo, loro è tutta roba altrui, e muta
sempre padrone. Se io gridassi loro così, non credi tu chio farei gran pro agli uomini, e che
diventeriano più sennati?
Mercurio. O mio Caronte dabbene, tu non sai come lignoranza e lerrore li hanno ridotti. Neppur con
un succhiello foreresti loro le orecchie, chè lhanno turate con la cera, come fece Ulisse ai compagni
per timore che udissero il canto delle Sirene. Come potrebbono ascoltarti, se anche gridassi a
scoppiarne? Quel che Lete fa ai morti, lignoranza fa ai vivi. Ben pochi sono quelli che non hanno la
cera negli orecchi, che si piegano alla verità, che veggon chiare le cose e conoscono quali esse sono.
Caronte. E se gridassi a costoro?
Mercurio. Per dir che? ciò che già sanno? è soverchio. Li vedi come vanno solitarii, come ridono
delle cose umane, e infastiditi di esse, si sono già deliberati di fuggir la vita, e venirsene tra noi?
Sono odiati perchè riprendono laltrui stoltezza.
Caronte. Fatevi cuore, o generosi. Ma sono ben pochi, o Mercurio.
Mercurio. Anche pochi bastano. Ma discendiamo ora.
Caronte. Deh, dimmi unaltra cosa sola, o Mercurio; e poi mi avrai detto e mostrato tutto: fammi
vedere i luoghi dove ripongono i morti per sepellirli.
Mercurio. Li chiamano sepolcri, tombe, avelli. Vedi innanzi alle città quei rialti, quelle colonne,
quelle piramidi? colà depongono i morti e serbano i cadaveri.
Caronte. Oh, e perchè quelli coronan di fiori le pietre, e le spargono dunguento? perchè quegli altri,
innalzato il rogo innanzi al rialto e cavata una fossa, bruciano tante vivande, e nella fossa versano
vino, e acqua melata ancora, come mi pare?
Mercurio. Non so, o navicellaio, che giovi questo a quei di laggiù: ma gli uomini credono che le
anime ritornino sulla terra, e che faccian quasi un banchetto volando intorno al fumo odoroso delle
vivande, e che bevano lacquamelata che è nelle fosse.
Caronte. Come, come? bere e banchettare quei teschi spolpati? Bah! ma sono sciocco io che dico
questo a te che ogni giorno ne conduci tanti: tu lo sai se chi scende sotterra può più risalire. Oh saria
il bello spasso, o Mercurio, per me che ho tante faccende, se dovessi non solo menarli laggiù, ma
rimenarli ancora su quando avesser voglia di bere. O sciocchi che siete, a non sapere da quale
barriera son separati i morti dai vivi, quai leggi sono tra noi, e come
Sepolti ed insepolti sono eguali.
Iro mendico, e il regnatore Atride;
Tersite, e il figlio della bella Teti
Tutti son morti, dispolpati teschi.
Nudi e digiuni vanno insieme errando
Su prati dasfodillo.(67
Mercurio. Per Ercole! tu me lo sverti tutto Omero. Ma giacchè me ne fai sovvenire, voglio mostrarti
la tomba dAchille. La vedi là sul mare? quello è il Sigeo troiano. Quella dAiace è di rimpetto su la
proda del Reteo.
Caronte. Non sono grandi queste tombe, o Mercurio. Ma mostrami quelle città famose, di cui ho
udito tanto parlare laggiù, Ninive di Sardanapalo, e Babilonia, e Micene, e Cleona, e specialmente
Troia: chè mi ricorda di averne tragittati tanti che venivan da Troia, che per dieci anni non tirai a
riva la barca nè la racconciai.
Mercurio. Ninive, o barcaiuolo mio, è distrutta, non ne resta vestigio, non si sapria dire dovera.
Babilonia è quella, la turrita, con la cerchia delle grandi mura, e tra poco anchessa sarà invano
cercata come Ninive. Micene poi e Cleona mi vergognerei a mostrartele, e specialmente Troia; chè
tu forse ammazzeresti Omero, ricordandoti con che pompose parole ei le descrive. Fiorirono un
tempo, ed ora son morte anchesse; perchè, o navicellaio, le città muoiono come gli uomini; e quel
che è più mirabile, muoiono glinteri fiumi: in Argo non rimane neppure il letto del fiume Inaco.
Caronte. Oh! perchè, o Omero, davi quegli epiteti sperticati, il sacro Ilio dalle larghe piazze, la ben
costrutta Cleona? Oh, chi son quelli che mentre noi parliamo, fanno guerra? e perchè sammazzano
fra loro?
Mercurio. Sono Argivi e Lacedemoni: e quel mezzo morto è Otriade capitano di Sparta, che sovra
un trofeo scrive col suo sangue la vittoria.
Caronte. E perchè, o Mercurio, si fanno guerra?
Mercurio. Per quel campo sul quale combattono.
Caronte. Folli! che non sanno che se anche ciascuno di loro possedesse tutto il Peloponneso, appena
otterrebbe da Eaco un piede di luogo. Un tempo altri lavoreranno questo campo, e dalla profonda
terra solleveranno con laratro anche le rovine del trofeo.
Mercurio. E questo è il mondo. Ma discendiamo ora, e riponiamo le montagne ai luoghi loro, e
torniamo io per la mia commissione, tu alla barca. Tosto ci rivedremo, e ti menerò i morti.
Caronte. Tu mhai fatto un gran bene, o Mercurio, ed io me lo scriverò nel cuore: per te ho cavato
qualche frutto da questa mia peregrinazione. O poveri uomini, e di questo voccupate voi? Re,
mattoni doro, ecatombe, battaglie; e a Caronte non pensa nessuno.
XIII.
DEI SACRIFIZI.
A considerare ciò che fanno gli sciocchi nei sacrifizi, nelle feste, e nelle pubbliche solennità; quali
preghiere e quali voti fanno, e che concetto hanno degli Dei, io non so se si trovi uomo, per tristo e
maninconioso che sia, a cui non venga voglia di ridere di tali scempiezze. Ma prima di riderne,
forse saria bene ricercare se si deve chiamar religiosi, o per contrario nemici degli Dei questi
sciagurati che si formarono sì bassa e vile idea della Divinità, da credere che essa abbia bisogno
degli uomini, che si compiaccia dessere adulata, e si sdegni se è trascurata. I guai dei poveri Etoli,
le calamità dei Calcedoni, tante morti, ed il disfacimento di Meleagro, tutto fu opera, dicono essi, di
Diana corrucciata contro Oineo, che non laveva invitata ad un sacrifizio. Sì profondamente fitto nel
cuore della Dea stava loltraggio di non avere avuto una vittima. E già mi pare di vederla in cielo
tutta sola, essendo già andati gli altri Dei in casa dOineo, rodersi dira e di sdegno per non essere a
così gran festa. Ma gli Etiopi, essi dicono, sono beati e felicissimi, perchè Giove si sdebita con loro
di quel gran banchetto che gli fecero nel principio del poema dOmero, quando per dodici giorni
continui diedero mangiare a lui ed agli altri Dei che si menò appresso. Sicchè pare che gli Dei non
faccian niente per niente, ma vendano agli uomini i beni, e che si possa comperare da essi lo star
sano, per un giovenco; larricchire, per quattro buoi; il regnare, per unecatombe; il tornar salvo da
Ilio a Pilo, per nove tori; lo scioglier dAulide per Ilio, per una vergine reale. Ed Ecuba una volta
non fece prendere Troia pagando a Alinerva dodici buoi ed un peplo. Si dee credere che essi
tengano in serbo molte altre coserelle, le quali si possono comperare con un gallo, una ghirlanda, o
un po dincenso. Coteste cose, pensomi, ben le sapeva Crise, vecchio sacerdote e gran dottore in
divinità, il quale tornandosi da Agamennone con le trombe nel sacco, si volge ad Apollo, e con
lardire di un creditore gli ridomanda ciò che gli ha dato, e per poco non gli dice villania: O
fortissimo Apollo, gli dice, io ti ho adornato di corone il tempio, che da tanto tempo nessuno più
ladornava; io ti ho bruciate sovra lara tante belle cosce di tori e di capre, e tu non ti curi di
questoltraggio che mè fatto, e non vendichi il tuo benefattore? E con questo rabuffo fecelo
vergognare tanto, che il Dio, dato di piglio allarco e disceso su le navi, saettò la peste tra gli Achei,
e su i poveri muli e su i cani. Ma poichè ho ricordato dApollo, vo dire anche unaltra cosa che i
saccenti narrano di lui; non le sue sventure in amore, la morte di Jacinto, e il disprezzo di Dafne, ma
come fu condannato per la uccisione dei Ciclopi; e però bandito con ostracismo dal cielo, mandato
giù su la terra, e ridotto alla condizione di povero omicciattolo, si acconciò per garzone con Admeto
in Tessaglia, e con Laomedonte in Frigia. E non egli solo, ma Nettuno ancora, ed entrambi per
bisogno si messero a fare i fornaciai, e fabbricare le mura di Troia: e neppure tutta la mercede
pattuita ebbero da quel Frigio, ed è fama che avanzino ancora più di trenta dramme troiane.
Oh, queste cose non le dicono con la maggiore gravità del mondo i poeti, e più divine di queste
intorno a Vulcano, a Prometeo, a Saturno, a Rea, e a quasi tutta la casa di Giove? E non invocano
essi le Muse nel principio dei loro poemi? Dalle quali ispirati, come si dee credere, contano che
Saturno poi chebbe castrato suo padre Urano, simpadronì della signoria del mondo, e divorava i
figliuoli, come largivo Tieste: che Giove nascosto da Rea, che pose una pietra in cambio del
bambino, ed esposto in Creta, fu nutrito da una capra, come Telefo da una cerva, o lantico Ciro
persiano da una cagna: che poi, cacciato il padre, e gettatolo in carcere, diventò egli re, sposò molte
femmine, e infine Giunone sua sorella, seguendo in questo le usanze dei Persi e degli Assiri. Ma
essendo portatissimo allamore e gran femminiere, tosto riempì il cielo di figliuoli, alcuni procreati
con le celesti sue pari, ed altri bastardi con le donne mortali, per le quali egli diventò ed oro, e toro,
e cigno, ed aquila, e prese più forme dello stesso Proteo. La sola Minerva egli partorì del suo
proprio capo, avendola a caso concepita nel suo cervello. E dicono, che ei trasse Bacco mezzo
formato dal ventre della madre percossa dal fulmine, e se lo chiuse in una coscia, e lo portò, e infine
si fece un taglio quando sentì i dolori del parto. E di Giunone cantano una cosa simile, che senza
mescolarsi con alcuno, e come fecondata da un vento, procreò Vulcano, nato con la mala ventura,
artigiano e fabbro tutta sua vita, affumicato, bruciato da scintille, e senza neppure i piè sani; che ei
divenne zoppo per la caduta quando Giove lo gittò dal cielo; e se quella buona gente di Lenno non
lo avessero raccolto mentre ei ruzzolava giù, ei ci saria morto Vulcano, come Astianatte precipitato
dalla torre. Eppure i guai di Vulcano son niente verso quelli del povero Prometeo. Chi non conosce
ciò che questi patì per avere amato di troppo gli uomini? Giove lo trascinò nella Scizia, lo crocifisse
sul Caucaso, e sovra gli pose unaquila che ogni giorno gli rodeva il fegato. Questa fiera pena ebbe
quel disgraziato. E Rea (oh! si può dire anche questo!) che pazzie, che vergogne non fa, e benchè
vecchia, e decrepita, e madre di tanti Dei, pure pazza damore e di gelosia, conduce seco sul carro
tirato dai leoni il suo Ati che non può più soddisfarla? Or dopo questo esempio chi potria biasimare
Venere di tante fusa torte che fa, e la Luna che spesso discende a trovare Endimione, lasciando a
mezzo il suo corso?
Ma lasciamo questo discorso e montiamo al cielo con una volata poetica per la via dOmero e
dEsiodo, e vediamo come stanno le cose lassù. Le mura sono tutto bronzo: lha detto Omero da tanti
anni. Come uno sale, e leva un po il capo, e savvicina alla volta celeste, la luce apparisce più
splendida, il sole più puro, le stelle più lucenti, il pavimento doro, ed ogni cosa è una dolcezza. In
su lentrata abitano le Ore, che sono le portinaie: poi Iride e Mercurio, che sono corrieri e procaccini
di Giove: appresso è la bottega di Vulcano piena di tante belle opere della sua arte; e poi le case
degli Dei, e la reggia di Giove, costruite ed ornate mirabilmente per man di Vulcano. GlIddii
seggendo intorno a Giove (giacchè siam tanto su, bisogna sollevare lo stile) tengono gli occhi alla
terra, e sbirciano per ogni parte se veggono fuoco acceso, che sollevi pingue odore su vorticoso
fumo. E se uno fa sacrifizio, tutti essi scialano, a bocca aperta ingoiano quel fumo, e bevono il
sangue delle vittime, caduto intorno allare, come fanno le mosche. Se poi mangiano in casa loro, il
banchetto è di néttare e di ambrosia. Una volta anche alcuni uomini mangiavano e bevevano con
loro, Issione e Tantalo; ma perchè furono insolenti e chiacchieroni, ebbero lo sfratto ed una pena
che ancora dura: e da allora in poi il cielo fu chiuso ai mortali, e non vi si può più entrare.
Questa è la vita degli Dei. E però gli uomini si accordano bene a queste cose nel culto che prestano.
Primamente hanno consacrato loro le selve, i monti, gli uccelli, e ciascuna pianta ad un dio: poi se li
hanno spartiti, ciascuno adora il suo, e lo tiene come suo cittadino: i Delfi e i Delii tengono Apollo,
gli Ateniesi Atena (la simiglianza del nome prova la cittadinanza), gli Argivi Giunone, i Migdonii
Rea, i Pafii Venere. I Cretesi poi dicono che Giove non solo è nato ed allevato tra essi, ma ne
mostrano anche la tomba: onde noi ci siamo ingannati per tanto tempo a credere che Giove tuona, e
piove, e governa il mondo, e non sapevam che da un pezzo egli è morto e sepolto in Creta. Dipoi gli
uomini rizzarono i templi, certo affinchè gli Dei non fossero senza casa e senza ricetto; e ne fecero
fare le statue da Prassitele, da Policleto, da Fidia; i quali io non so dove li hanno veduti, che fanno
Giove barbato, Apollo sempre garzone, Mercurio con un po di caluggine sul labbro, Nettuno con la
chioma azzurra, Minerva con gli occhi cilestri. Intanto coloro che vanno nei templi non credono di
vedere una statua fatta davorio dIndia, e doro cavato dalle miniere di Tracia, ma proprio il figliuolo
di Saturno e di Rea, da Fidia fatto discendere su la terra, e posto a guardia della solitudine di Pisa, e
che protegge chi ogni cinque anni a caso gli fa un sacrifizio in Olimpia.
Posti gli altari, stabilite le preghiere da farsi, e i vasi lustrali da adoperarsi, menano le vittime al
sacrifizio; lagricoltore il bue che arava, il pastore lagnella, il capraio la capra; chi porta incenso, chi
focaccia, e il povero si rende benigno il dio pure baciandogli la mano destra. I sacrificatori (ai quali
ritorno),(68 coronata la vittima, e prima riguardatala bene se è perfetta, per non uccidere una bestia
inutile, lavvicinano allara, e innanzi a gli occhi del Dio scannano il povero animale che mesce
lamentevoli muggiti ai suoni de flauti ed alle parole di buon augurio. Oh! chi non crederebbe che gli
Dei hanno un gran piacere a veder questo spettacolo? Leditto vieta di entrare in sagro a chiunque
non ha le mani pure, e il sacerdote non vi sta tutto sozzo di sangue, come il ciclope, trincia la carne,
toglie i visceri, strappa il cuore, versa il sangue su lara, e compie ogni impurissimo uffizio? Infine
accende il fuoco, e vi pone su o la capra ravvolta nella sua pelle, o la pecora nel suo vello: e il sacro
fumo sale in alto, e lentamente va sperdendosi nellaere.
Lo Scita sdegnando ed avendo a vile ogni altra vittima, offre gli uomini stessi in sacrifizio a Diana,
e così si rende propizia la Dea. E tutto questo passi pure; come ancora ciò che fanno gli Assirii, i
Frigii, i Lidii. Ma se vai in Egitto, allora, oh! allora vedrai molte cose venerabili e veramente degne
del cielo: Giove col capo di montone, il povero Mercurio con una testa di cane, Pane tutto caprone,
e quale dio è un ibi, quale un coccodrillo, quale una scimmia.
Se lo mperchè vorrai saperne a fondo,
udirai quei loro sapientoni, quei loro scribi, quei loro profeti con la zucca rasa che ti contano (dopo
di aver detto secondo lusanza: Uscite delle porte, o profani), che per la gran guerra e la rivolta dei
giganti, gli Dei sbigottiti vennero in Egitto, per nascondersi dai loro nemici; e quivi per la gran
paura entrarono chi in corpo ad una capra, chi ad un montone, altri divenne fiera, altri uccello: e
però serbano ancora quelle forme che allora presero: e che tutte queste cose punto per punto stanno
scritte nei santuari de loro templi da più di diecimila anni. I loro sacrifizi sono come i nostri: se non
che mentre la vittima manda gli ultimi lamenti, ei le stanno intorno e si picchiano il petto: e dopo di
averla uccisa, senzaltro la sepelliscono. Ma se muore Api, che è il loro più grande iddio, non vè
zerbino che coltivi chioma, il quale non se la rada e non mostri il suo dolore su la zucca rasa,
vavesse anche il riccio porporino di Niso. Ma un altro Api è tratto dalla mandra, e diviene dio
invece del morto: è scelto il più bello ed il più grave daspetto fra tutti i buoi suoi pari.
Tutte queste sciocche superstizioni credute dal volgo non hanno bisogno di chi le biasimi; ma, a
creder mio, o di un Democrito che rida, o di un Eraclito che pianga della stoltezza degli uomini.
XIV.
UNA VENDITA DI VITE ALLINCANTO.
Giove. Tu, disponi gli scanni e prepara il luogo agli avventori: tu presenterai ad una ad una le vite
che abbiamo a vendere; ma ripuliscile prima, affinchè abbiano buona apparenza ed attirino gente
assai. E tu, o Mercurio, fa il bando, e chiama col buono augurio i compratori ad entrare in bottega.
Per ora metteremo allincanto queste vite qui, questi filosofi dogni specie e dogni setta. Chi non ha
contanti da sborsare subito, darà mallevadoria, e pagherà lanno venturo.
Mercurio. È già venuta la folla: bisogna sbrigarci, e non indugiarla.
Giove. Dunque vendiamo.
Mercurio. Chi vuoi che esponiamo prima?
Giove. Quel Giono dai lunghi capelli, che mha un venerabile aspetto.
Mercurio. Ehi tu, o Pitagora, vieni innanzi, e fatti vedere da questa gente.
Giove. Da il bando.
Mercurio. Io vendo la vita ottima, la vita santa: chi la compera? chi vuol essere più che uomo? chi
vuol conoscere larmonia delluniverso, e dopo che è morto risuscitare?
Compratore. Non mha cattiva cera: che sa bene egli?
Mercurio. Aritmetica, astronomia, magia, geometria, musica, furfanteria: tu vedi un valentissimo
strologo.
Compratore. È lecito dinterrogarlo?
Mercurio. Interrogalo pure.
Compratore. Donde se tu?
Pitagora. Di Samo.
Compratore. E dove imparasti?
Pitagora. In Egitto, da quei sapienti.
Compratore. Orbè, sio ti compero, che cosa minsegnerai?
Pitagora. Niente tinsegnerò, ma ti farò ricordare.
Compratore. Come mi farai ricordare?
Pitagora. Rendendoti pura lanima, e mondandola dogni sozzura.
Compratore. Fa conto chio sia già puro, come io mi ricorderò?
Pitagora. Primamente con un silenzio lungo, col non aprir bocca nè formare parola per cinque anni
interi.
Compratore. Va ad ammaestrare il figliuolo di Creso: chio voglio chiacchierare, io, e non essere
statua. E dopo quel silenzio, e quei cinque anni?
Pitagora. Ti eserciterai nella musica e nella geometria.
Compratore. Tu canzoni: ei bisogna prima diventar citarista, e poi sapiente?
Pitagora. Dopo di queste saprai laritmetica.
Compratore. Io la so ora laritmetica.
Pitagora. E come conti?
Compratore. Uno, due, tre, quattro.
Pitagora. Vedi? quel che a te par quattro è dieci, il triangolo perfetto, il nostro giuramento.(69)
Compratore. Egli è un gran giuramento per quattro! io non ho udito mai discorsi più divini e più
sacri.
Pitagora. Dipoi, o forestiero, tu saprai che cosa sono la terra, laria, lacqua, ed il fuoco; e che forma
hanno, e come si muovono.
Compratore. Han forma il fuoco, laria, e lacqua?
Pitagora. E molto visibile: perchè senza forma e senza figura non avrebbero la qualità di muoversi.
Ed appresso di questo conoscerai che la Divinità è un numero ed unarmonia.
Compratore. Tu mi dici cose mirabili.
Pitagora. E dopo di queste tu saprai che tu stesso che sembri uno, tu altro sembri, ed altro sei.
Compratore. Che dici? io sono un altro? io non parlo io ora con te?
Pitagora. Ora se tu: ma una volta tu comparisti in altro corpo e con altro nome: e col tempo di
nuovo ti muterai in altro.
Compratore. Vuoi tu dire che io sarò immortale cangiando parecchie forme? Ma basti di questo,
veniamo al tuo modo di vivere, qualè?
Pitagora. Io non mangio alcun cibo animale: gli altri sì, eccetto le fave.
Compratore. E perchè? forse hai a schifo le fave?
Pitagora. No: ma le sono sacre, ed hanno mirabile natura. Primamente esse sono il gran generatore:
e se sgusci una fava fresca, vedrai che lha una figura simile ai genitali delluomo. Se le fai bollire, e
poi le lasci alla luna per certo numero di notti, ne farai sangue. Ma la ragione maggiore è, che gli
Ateniesi sogliono con le fave eleggere i loro magistrati.
Compratore. Che belle cose mhai dette, che riposta dottrina! Ma spògliati: chè ti vo vedere anche
nudo. O Ercole! egli ha una coscia doro. Costui pare un dio, non un mortale: vo comperarlo
senzaltro. Che prezzo gli hai messo?
Mercurio. Dieci mine.(70)
Compratore. Lo compero io: ei ci vale.
Giove. Scrivi il nome del compratore, e donde è.
Mercurio. Parmi, o Giove, che sia un Italiano, di quelli di Crotone, di Taranto, di quella Grecia lì. E
non è solo, son quasi trecento che lhan comperato in comune.
Giove. Se lo conducano via. Esponiamo un altro.
Mercurio. Vuoi quel tutto lordo, quello del Ponto?
Giove. Sì, lui.
Mercurio. O tu che porti la bisaccia, e la tunica senza maniche, vieni, e gira un po intorno
alladunanza. Vendo una vita maschia, una vita ottima e coraggiosa, una vita libera: chi la compera?
Compratore. O banditore, che dici? tu vendi un libero?
Mercurio. Io sì.
Compratore. E non temi che ti accusi di venderlo come schiavo, e ti citi innanzi lAreopago?
Mercurio. Non glimporta niente desser venduto: perchè crede che in ogni modo egli è libero.
Compratore. E che si potria fare di uno così sozzo e misero e lacero? appena fargli zappar la terra o
portare acqua.
Mercurio. Potria fare anche il portinaio, assai più fedelmente dei cani. Sta certo: egli ha tutto del
cane, anche il nome.(71)
Compratore. Di che paese egli è? e che dice di sapere?
Mercurio. Dimandane lui; chè è meglio così.
Compratore. Quella cera scura e severa mi fa temere che sio me gli avvicino, non abbai e non mi
morda. Vedi come solleva il bastone, aggrotta le sopracciglia, e guarda in torto e minaccioso?
Mercurio. Non temere: è cane domestico.
Compratore. Dimmi prima, o dabben uomo, di che paese tu se?
Diogene. Dogni paese.
Compratore. Che intendi dire?
Diogene. Che son cittadino del mondo.
Compratore. Di chi sei seguace?
Diogene. DErcole.
Compratore. E perchè non vesti anche la pelle del leone? La clava lhai come lui.
Diogene. Questo mantello è per me pelle di lione. Come Ercole fo guerra ai piaceri; e non per
comando, come lui, ma da me, ho preso luffizio di purgare la vita umana.
Compratore. Belluffizio: ma che sai particolarmente? che arte hai?
Diogene. Io sono il liberatore degli uomini, il medico delle loro passioni: in somma io sono il
profeta della verità e della franchezza.
Compratore. Orbè, o profeta: e se io ti compero, in che modo tu mi ammaestrerai?
Diogene. Se io ti prendo a discepolo, ti svesto della mollezza, ti chiudo nella povertà, e in questo
mantello. Ti obbligherò a faticare, stancarti, dormire a terra, bere acqua, nutrirti dogni cibo a caso.
Se avrai ricchezze, e vorrai ascoltar me, le getterai in mare. Di moglie, di figliuoli, di patria non ti
darai un pensiero, saran niente per te: e lasciando la casa paterna, abiterai un sepolcro, una torre
abbandonata, o anche una botte. Porterai la bisaccia piena di lupini e di scartafacci zeppi di
scrittura: e in questo arnese dirai desser più felice del gran re. Se ti frustano o ti collano dirai che
non è dolore.
Compratore. Che dici? le frustate non fan dolore? io non ho la pelle come il guscio della testuggine
o del granchio.
Diogene. Seguirai la massima di Euripide, con leggiero mutamento.
Compratore. Qual massima?
Diogene. Il cuore soffre, sì; la lingua dice, no.(72) Le qualità che devi avere, son queste: esser
sfrontato ed arrogante, insultar tutti egualmente, senza aver rispetto a re o a privati: e così tutti ti
ammireranno e ti terranno per coraggioso. Devi avere un parlare barbaro, una voce stridente come
un cane, un viso arcigno, un andare strano, ogni cosa della bestia selvaggia: nè pudore, nè dolcezza,
nè moderazione, nè punto di rossore in faccia. Va nei luoghi più frequentati, e quivi rimanti solo,
disdegna tutti, fuggi lamicizia e lospitalità, che manderebbero in rovina quel tuo regno. Fa in
pubblico quello che altri arrossirebbe di fare in privato, le più ridicole e sozze lascivie. Infine,
quando te ne viene la voglia, muori mangiando un polpo crudo o una seppia.(73) Questa è la felicità
che io ti prometto.
Compratore. Va via, son cose sozze e da bestia.
Diogene. Ma sono facili, e tutti possono metterle in pratica: non hai bisogno dammaestramenti, di
discorsi, e di altre sciocchezze, ma così per una scorciatoia giungi alla gloria. E se anche sei un
dappoco, un ciabattino, un salumaio, un fabbro, un gabelliere, tu diventerai un uom dassai se ti
mostri audace ed impudente, e sai insultare bravamente.
Compratore. Va, non ho bisogno di te: ma forse potresti fare il navalestro, o talvolta lortolano. Se ti
voglion rilasciare al più per due oboli....
Mercurio. Prendilo: ce ne sbrigherem con piacere: costui strilla, insulta, sermoneggia, mette
scompiglio in tutti, ed ha il fistolo in corpo.
Giove. Chiama un altro, quel di Cirene, quellornato di porpora e di corone.
Mercurio. Zitti, attenti tutti: questo è fior di roba, e ci vuole un ricco a comperarlo. Questa è vita
dolcissima, è vita beatissima. Chi desidera la delicatezza? chi compera tutte le morbidezze?
Compratore. Fàtti qui, e dimmi che sai fare, chè ti compererò io, se sei da qualche cosa.
Mercurio. Non molestarlo, o buon uomo, non dimandarlo: è ubbriaco, e non ti risponderebbe, chè,
come vedi, la lingua gli casca fuori.
Compratore. E qual uomo di senno vorria comperare uno schiavo sì fradicio e rotto? come odora
dunguenti! come balena, e tentenna su le gambe. Dimmi tu, o Mercurio, labilità sua, ed in che è
versato.
Mercurio. È buon compagnone, trincatore valente, balla a suon di flauto nei conviti; e varria tantoro
per un padrone perduto damori e di lascivie: e poi sa la scienza dei savori e delle delicature, larte di
fare i dolci migliori, ed è il più compiuto maestro delle voluttà. Allevato in Atene, fu servo de
tiranni in Sicilia, ai quali piacque assai. Il principio della sua setta è sprezzare tutto, godere di tutto,
raccoglier la voluttà da ogni cosa.
Compratore. Adocchia qualcuno di questi ricchi e sfarzosi, chè non fa per me comperare una vita
voluttuosa.
Mercurio. Pare, o Giove, che costui non abbia compratori, e rimane a noi.
Giove. Menalo dentro, e fa che esca un altro: no, è meglio quei due, quel baione di Abdera, e quel
piagnone dEfeso. Gli voglio vendere a paio.
Mercurio. Venite in mezzo tuttaddue. Vendo un paio di vite inestimabili, un paio di sapienti perfetti.
Compratore. O Giove! che contrasto! Questi non finisce di ridere, e quegli par che pianga qualcuno.
Oh, ei piange davvero. E tu, che vuol dir questo? Perchè ridi?
Democrito. Mel dimandi? perchè mi par tutto ridicolo, le opere vostre, e voi stessi.
Compratore. Come dici? Ti ridi di tutti noi, e tieni per niente le opere nostre?
Democrito. Così è: non cè niente di serio in esse: tutto è vuoto, concorso di atomi, immensità.
Compratore. Vuoto se tu, e immensamente sciocco. Oh, mi dài la baia, e non cessi di ridere? E tu
perchè piangi, o caro? Credo che con te potrò parlare.
Eraclito. O forestiero, io credo che tutte le cose umane sono triste e deplorabili, e tutte sono
soggette alla morte: però sento pietà di voi, e piango. Il presente non mi par bello; il futuro mi
scuora assai, e vi dico che il mondo anderà in fiamme ed in rovine. Io piango che niente è stabile,
tutto si rimescola e si confonde: il piacere diventa dispiacere; la scienza, ignoranza; la grandezza,
piccolezza; tutto va sossopra, e gira, e cangia nel giuoco del secolo.(74)
Compratore. E che cosa è il secolo?
Eraclito. Un fanciullo che scherza, che giuoca a dama, che va allimpazzata.
Compratore. E che cosa son gli uomini?
Eraclito. Dei mortali.
Compratore. E gli Dei?
Eraclito. Uomini immortali.
Compratore. Tu parli con enigmi ed indovinelli: pari loracolo, tabbindoli, e non dici niente.
Eraclito. I non mi curo di voi.
Compratore. E nessun uomo di senno ti compererà.
Eraclito. Ed io vi dico, piangete tutti come fanciulli, compratori e non compratori.
Compratore. Questo poveretto è pazzo malinconico. Per me non vo comperare nè luno nè laltro.
Mercurio. Ed anche questi rimangono a noi.
Giove. Mettine al bando un altro.
Mercurio. Vuoi quellateniese, quel ciarliero?
Giove. Quello sì.
Mercurio. Vieni qua tu. Noi mettiamo al bando una vita buona e sennata: chi compera questo santo?
Compratore. Dimmi, che conosci tu specialmente?
Socrate. Io sono amatore di giovanetti, e dottissimo nellarte di amare.
Compratore. E come io ti compererò? Io avrei bisogno dun precettore per un mio figliuolo, che è
bel giovanetto.
Socrate. Io sarei il caso per un bel giovanetto. I non amo la bellezza del corpo, ma quella dellanima.
Non temere: nessuno di quelli che giacciono meco sotto lo stesso coltrone ti direbbe cosa disonesta
di me.
Compratore. Pare incredibile: tu che ami i giovani, non ti curi più in là dellanima loro: e li hai in tua
balía, e sotto lo stesso coltrone.
Socrate. Oh, te lo giuro pel cane e pel platano: così è.
Compratore. Per Ercole! che nuova razza di Dei.
Socrate. Che dici tu? E non tieni per dio il cane? E non sai che dio è Anubi agli Egiziani? e Sirio in
cielo, e Cerbero in inferno?
Compratore. Hai ragione: ho sbagliato io. Ma in che modo tu vivi?
Socrate. Abito una città che mho fabbricata io stesso, dove serbo usanze nuove, e vivo secondo
leggi fatte da me.
Compratore. Vorrei saper una di coteste leggi.
Socrate. Eccoti la principale chio ho fatta intorno alle donne: nessuna è di nessuno particolare, ma
di chiunque vorrà mescolarsi con lei.
Compratore. Che diamine dici? abolir le leggi sulladulterio?
Socrate. Sì, per Giove: e tutte le inezie di simil fatta.
Compratore. E dei giovanetti?
Socrate. Anchessi con un loro bacio daranno premio agli uomini più chiari e più valorosi.
Compratore. Cappita, che premio! Ma quale è il punto principale della tua sapienza?
Socrate. Le idee, e gli esemplari di tutti gli enti. Tutto quello che vedi, la terra, quanto è su la terra,
il cielo, il mare, tutte queste cose hanno loro esemplari o immagini invisibili, che son fuori
luniverso.
Compratore. E dove stanno?
Socrate. In nessuna parte: perchè se esistessero in qualche luogo, non sarebbero.
Compratore. Ma io non vedo cotesti esemplari, che tu di.
Socrate. E non puoi, perchè sei cieco degli occhi dellanima. Ma io vedo le immagini di tutte le cose,
un te invisibile, ed un altro me: insomma tutto a doppio.
Compratore. Quandè così meriti desser comperato, perchè se savio, ed hai vista acuta. Dimmi tu,
quanto vuoi di costui?
Mercurio. Dammi due talenti.
Compratore. Lo compero per tanto: ma il danaro lo pagherò unaltra volta.
Mercurio. Che nome hai?
Compratore. Dione, di Siracusa.
Mercurio. Prendilo col buon augurio. O Epicuro, sì, chiamo te. Chi compera costui? è discepolo del
baione e dellubbriaco, che testè abbiam messi allincanto. Una cosa egli sa più di essi, che ci crede
un tantino di meno: per altro è di buona pasta, e sta su tutti i punti della gola.
Compratore. Che prezzo fa?
Mercurio. Due mine.
Compratore. Eccole, ma, così per sapere un po, di che è ghiotto egli?
Mercurio. Ei mangia chicche, zuccherini, melate, e massime fichi secchi.
Compratore. Oh, è niente. Gli comprerò i pani di fichi secchi di Caria.
Giove. Chiama un altro; quella zucca rasa, quel viso scuro, quel colui che viene dal portico.
Mercurio. Dici bene. La maggior parte della gente venuta alla vendita pareva che lattendessero. I
vendo la virtù stessa, la vita perfettissima. Chi vuole egli solo conoscere ogni cosa?
Compratore. Come? che vuoi dire?
Mercurio. Che egli solo è sapiente, egli solo è bello, egli solo è giusto, e forte, e re, ed eloquente, e
ricco, e legislatore, e tutto.
Compratore. Dunque egli solo è anche cuoco, è coiaio, è ferraio, ed altro?
Mercurio. Pare.
Compratore. Vieni qui, tu, e dimmi, chè io ti voglio comperare, chi sei tu? e primamente se non ti
spiace che sei venduto, e che sei schiavo?
Crisippo. Niente affatto: perchè le non son cose che sono in poter nostro: e quel che non è in poter
nostro è indifferente.
Compratore. Non so quel che dici.
Crisippo. Come? Non sai che vi son cose proposte, e cose posposte?
Compratore. Non lo so nemmeno ora.
Crisippo. Eh, sì: tu non sei usato ai nostri nomi, nè hai fantasia comprensiva: ma chi ha bene
imparata la dottrina logica, non solo conosce queste cose, ma ancora laccidente, e laccidente
dellaccidente, e quanto differiscono tra loro.
Compratore. Deh, per la filosofia, non tincresca dirmi che è laccidente, e laccidente dellaccidente:
chè coteste parole mempiono lorecchio di non so quale armonia.
Crisippo. Che increscere! ecco qui. Se un zoppo offende col piè zoppo in una pietra, e a caso si fa
una ferita, il zoppicare è laccidente, la ferita è laccidente dellaccidente.
Compratore. Che acutezza di mente. Ma che ti vanti più di sapere?
Crisippo. I so fare una rete di parole nella quale ravviluppo chi si mette a disputare con me, lo
stringo, lo fo tacere, gli metto un morso: e questarme potente è il famoso sillogismo.
Compratore. Uh! sarà unarma terribile cotesta.
Crisippo. Vedila un po. Hai tu un figliuolo?
Compratore. Perchè mel dimandi?
Crisippo. Se un coccodrillo te lo prendesse mentre egli passeggia su la sponda di un fiume; e poi ti
promettesse di rendertelo, se tu gli dimostri netto se ha o non ha risoluto di rendertelo: tu che
diresti? ha o non ha risoluto?
Compratore. Non so rispondere a questa dimanda: non so dir sì, nè no per riaverlo. Ma deh, per
Giove, rispondigli tu per me, salvami il figliuol mio, ma presto, chè ei se linghiotte.
Crisippo. Non temere: ma io te ne insegnerò anche di più maravigliosi.
Compratore. E quali?
Crisippo. Il Mietitore, il Dominatore, e sopra tutti lElettra ed il Velato.
Compratore. Che sono cotesto Velato e cotesto Elettra?
Crisippo. Elettra è quella famosa figliuola di Agamennone, la quale nello stesso tempo sa e non sa
la stessa cosa. Quando Oreste le sta innanzi ancora sconosciuto, ella sa che Oreste è suo fratello, ma
non sa che quegli è Oreste. Il Velato poi è più maraviglioso: odilo. Dimmi, tu conosci tuo padre?
Compratore. Certamente.
Crisippo. E se ti presento uno velato, e ti dimando: conosci costui? tu che risponderai?
Compratore. Che nol conosco.
Crisippo. Ma questi è tuo padre: onde se tu non conosci costui, è chiaro che non conosci tuo padre.
Compratore. Ma no: gli tolgo il velo, e vedrò bene il vero. Infine che scopo ha cotesta tua filosofia?
e che farai quando sarai giunto sulla cima della virtù?
Crisippo. Allora io giungerò a godere i beni maggiori della vita, ricchezza, buona salute, ed
altrettali. Ma prima bisogna durar fatiche molte, perdere gli occhi su libri di minuta scrittura,
raccoglier comenti, riempirsi un sacco di solecismi e di parole viete e strane. Ma il punto è che non
si può divenir filosofo, se per tre volte di seguito non hai bevuto lelleboro.
Compratore. Son belle e generose parole coteste. Ma essere un avaro e un usuraio (come io vedo
che sei tu) ti pare che stia bene ad un uomo che ha bevuto lelleboro, e che è perfetto nella virtù?
Crisippo. Sta benissimo, perchè al solo sapiente convien prestare ad usura. Egli solo sa ragionare:
prestare ad usura è ragionar glinteressi: ragionar glinteressi è ragionare: dunque a lui solo sta anche
il prestare ad usura. E siccome non si ferma ad una conseguenza, così non prende un solo interesse
come fan gli altri, ma linteresse dellinteresse. Non sai tu forse che ci sono i primi interessi, ed i
secondi che son quasi figliuoli di quello. Or eccoti il sillogismo: se egli prenderà il primo interesse,
prenderà anche il secondo: ma prenderà il primo, dunque prenderà il secondo.
Compratore. Dunque direm lo stesso anche dei salari che tu prendi dai giovani ai quali insogni
filosofia; ed è chiaro che il solo sapiente può prendere un salario per la sua virtù.
Crisippo. Lhai capito. Io prendo non per me, ma per far un piacere a chi mi dà. Poichè cè chi versa
e chi raccoglie; io mi esercito a raccogliere, il discepolo impara a versare.
Compratore. Ma tu dicevi il contrario, che il discepolo raccoglieva, e tu, come il solo ricco, versavi.
Crisippo. O tu, motteggi, tu? ma guárdati che io non ti scocchi un indimostrabil sillogismo.(75)
Compratore. E che male mi farai con questarme?
Crisippo. Ti sconfonderò, ti farò tacere, ti farò perdere il senno. Se voglio, in un attimo ti mostrerò
che tu se pietra.
Compratore. Come pietra? Non mi pare che tu hai lo scudo di Perseo.
Crisippo. Ed ecco come. La pietra è corpo?
Compratore. Sì.
Crisippo. E un animale è corpo?
Compratore. Sì.
Crisippo. Tu sei un animale?
Compratore. Mi pare.
Crisippo. Dunque essendo corpo, tu sei pietra.
Compratore. Niente affatto. Deh rifammi, ritornami uomo.
Crisippo. Cosa da nulla; ritorna uomo. Dimmi: ogni corpo è animale?
Compratore. No.
Crisippo. E la pietra è animale?
Compratore. No.
Crisippo. E tu se corpo?
Compratore. Sì.
Crisippo. Ed essendo corpo, se tu animale?
Compratore. Sì.
Crisippo. Dunque non sei pietra, essendo animale.
Compratore. Mhai risuscitato! già mi si freddavano e intirizzivano le gambe, come quelle di Niobe.
Però voglio comperarti. Quanto debbo dar per costui?
Mercurio. Dodici mine.
Compratore. To, eccole.
Mercurio. Lhai comperato tu solo?
Compratore. No: ma con tutti questi che vedi.
Mercurio. Siete molti, e con buone spalle tutti, e proprio degni del Mietitore.
Giove. Sbrighiamoci: chiama un altro, il Peripatetico.
Mercurio. Dico a te ora, o bello, o ricco, vieni. Su via, comperate il gran senno, il sapiente
universale.
Compratore. Che qualità ha egli?
Mercurio. È moderato, facile, pieghevole, ma specialmente è doppio.
Compratore. Come doppio?
Mercurio. Di fuori egli pare uno, e di dentro ei pare un altro, onde se lo comperi ricordati di
chiamarlo ed esoterico, ed essoterico.(76)
Compratore. Che conosce egli specialmente?
Mercurio. Che vi sono tre sorte di beni, quelli che sono nellanima, nel corpo, e nelle cose fuori di
noi.
Compratore. La pensa da uomo. Che prezzo fa?
Mercurio. Venti mine.
Compratore. È troppo.
Mercurio. No, o caro: egli ha anche dei quattrini, come pare: onde non te lo fare sfuggire,
comperalo. Egli poi tinsegnerà di grandi cose, quanto vive un moscherino, fino a qual profondità
giungono nel mare i raggi del sole, e di che natura è lanima delle conchiglie.
Compratore. Cappita! che scienza sottile!
Mercurio. Eh! e che dirai udendolo ragionare di cose più sottili, della generazione, del feto, e della
formazione dellembrione nellutero? e dire che luomo solo ride, e lasino non ride, non fabbrica, non
naviga?
Compratore. Questo è sapere mirabile ed utile! Lo compererò per venti mine.
Mercurio. Sia. Chi altro ci resta? Oh, lo scettico. Vien qui, o Pirria,(77) ti vogliam vendere tosto.
Già se ne son iti molti; pochi compratori rimangono. Nondimeno chi compra costui?
Compratore. Io. Ma prima dimmi tu quel che sai.
Il Filosofo. Niente.
Compratore. Come niente?
Il Filosofo. Perchè mi pare che niente esiste.
Compratore. E noi, non esistiam noi?
Il Filosofo. Neppure lo so.
Compratore. Neppure se tu esisti?
Il Filosofo. Molto meno conosco questo.
Compratore. O che incertezza! E che fai con coteste bilance?
Il Filosofo. Peso in esse le ragioni, e le ragguaglio: e poichè le vedo perfettamente simili e di egual
peso, allora sì, allora non so qual è la più vera.
Compratore. E daltro che sai far bene?
Il Filosofo. Tutto, tranne che seguitare un fuggitivo.(78)
Compratore. E perchè non puoi far questo?
Il Filosofo. Perchè nol potrei raggiungere.
Compratore. È vero: chè sembri un omaccio tardo e balordo. Ma quale è il fine della tua dottrina?
Il Filosofo. Lignoranza; e il non udire, e non vedere.
Compratore. Dunque sei anche e sordo e cieco?
Il Filosofo. E di più; non giudico, non sento, e son poco diverso da un verme.
Compratore. E però sei da comperare. Che prezzo vuoi per costui?
Mercurio. Una mina attica.
Compratore. Eccola. E tu, che dici? tho comperato?
Il Filosofo. Non è certo.
Compratore. Certissimo: tho comperato, e sborsato il danaro.
Il Filosofo. I non laffermo, e ne dubito.
Compratore. Per ora seguimi, perchè sei mio schiavo.
Il Filosofo. E chi sa se tu dici il vero?
Compratore. Lo sa il banditore, la mina, e quanti son qui presenti.
Il Filosofo. E qui sono alcuni presenti?
Compratore. Or ti menerò al mulino, e con un argomento inferiore e manesco ti persuaderò che hai
un padrone.
Il Filosofo. Non decidere la quistione.
Compratore. Oh, per Giove, lho già decisa.
Mercurio. Non ostinarti, e segui chi tha comperato. Voi altri sarete richiamati dimani, chè
venderemo altre vite allincanto, glignoranti filosofastri, i facchini della scienza, i disputatori di
piazza.
Correzioni apportate
la ferita è llaccidente dellaccidente = la ferita è laccidente dellaccidente
Eh, si: tu non sei usato ai nostri nomi = Eh, sì: tu non sei usato ai nostri nomi
dunque non siei pietra = dunque non sei pietra
XV.
IL PESCATORE,
o
I RISUSCITATI.
Socrate. Dàgli, dàgli a questo ribaldo! scagliate sassi, dategli con piote, dategli con cocci:
accoppatelo coi bastoni questo scellerato: non lo fate sfuggire. A te, o Platone, dàgli: e tu, o
Crisippo, anche tu. Assaltiamolo tutti: serriamo gli scudi: Le bisacce stringiamo alle bisacce, e i
bastoni ai bastoni: è nemico comune; ci ha offesi tutti. E tu, o Diogene, mena la tua brava mazza,
come una volta: non dare indietro: facciamogli pagar la pena delle sue calunnie. E che? voi vi
ristate, o Epicuro, o Aristippo? questo sconviene:
Siate prodi, o sapienti, e ricordate
Della vostrira impetuosa.
Stringilo più da presso, o Aristotele. Bene: è presa la belva. Ci sei capitato, o malvagio! or ora
saprai chi son quelli che hai offesi. In che modo ora lo puniremo? Inventiamo una morte lunga,
affinchè tutti ce ne possiam saziare: ei meriterebbe che ciascuno di noi gli desse sette volte la morte.
Platone. Per me, io dico crocifiggiamolo.
Un filosofo. Sì, e prima flagelliamolo.
Altro filosofo. Caviamogli tuttaddue gli occhi.
Terzo filosofo. Innanzi tutto strappiamogli la lingua.
Socrate. E tu, che ne dici, o Empedocle?
Empedocle. Precipitiamolo nei crateri dellEtna, e così impari a non oltraggiare chi è da più di lui.
Platone. Saria meglio che, come Orfeo o Penteo,
Perisca sotto i sassi minuzzato,
e ciascuno di noi se ne prendesse un pezzo.
Luciano. No, no: deh, per Giove dio de supplicanti, non muccidete.
Socrate. È deciso: non ci scapperai più. Sai tu come dice Omero?
Non vè patto tra gli uomini e i lioni.
Luciano. Ed io vi supplicherò con Omero. Forse voi rispetterete i suoi versi che io vi reciterò, e non
mi ucciderete.(79)
Salvatemi la vita, io non son tristo,
E vi darò riscatto prezïoso,
E rame, ed oro, che anche ai saggi piace.
Platone. E noi ti possiamo rispondere anche con versi di Omero. Odi:
Dacchè a man ci venisti, o detrattore,
Non pensare a fuggir, nè far promesse.
Luciano. Ohimè, misero! non mi giova Omero, che era mia maggiore speranza. Ricorro ad
Euripide: mi salvasse egli!
Deh non muccider, chè nefanda cosa
È tor la vita a un supplicante.
Platone. E questo non è anche dEuripide?
Non è mal che mal soffra chi mal fece.
Luciano. Dunque ora per vane parole mi uccidete?
Platone. Sì, per Giove, egli stesso dice:
Le lingue che sfringuellano,
E che le leggi sprezzano
Han fine deplorabile.
Luciano. Or bene, giacchè ad ogni modo volete uccidermi, ed io non trovo alcuna via di scampo,
deh, ditemi almeno chi siete voi, e che grande offesa io vi ho fatta, chè voi siete sì fieramente
sdegnati con me, e mi menate a morte?
Platone. Che offesa hai fatta a noi? dimandane a te stesso, o malvagio, ed a quel tuo bello scritto,
nel quale calunnii la filosofia, e fai tanti dispregi a noi, mettendo allincanto, come in un mercato,
uomini sapienti, e, quel che più è, liberi. Però sdegnati, siamo venuti su a punirti (avendone chiesto
permesso a Plutone) Crisippo che è questi, ed Epicuro, ed io Platone, e quegli Aristotile, e Pitagora
che è colui che si tace, e Diogene, e tutti quelli che tu hai lacerati in quella tua scrittura.
Luciano. Respiro: voi non mi ucciderete più se saprete chi sono stato io per voi. Gettate via i sassi:
ma no, riteneteli; li userete contro chi merita desser lapidato.
Platone. Tu la pigli a gabbo: tu oggi devi morire, e fra poco
Per il mal che facesti tu sarai
Dun guarnello di sassi rivestito.
Luciano. Eppure, o carissimi filosofi, io più di tutti gli altri meriterei lodi da voi, perchè io mi sono
educato nelle vostre scuole, sono a voi affezionato, son vostro ammiratore, e, se posso dirlo, sono lo
strombettatore delle vostre dottrine:(80) e se mucciderete, sappiate che voi ucciderete uno che sè
tanto sbracciato per voi. Badate dunque di non fare come i filosofi presenti, di non parere ingrati,
irosi, sconoscenti verso chi vi ha fatto bene.
Platone. O impudenza! Dobbiamo anche ringraziarti delle ingiurie? Forse credi di parlare a servi, e
di darci a intendere che son benefizi e favori queglinsulti che tu ci fai in quella briaca scrittura?
Luciano. Ma dove, ma quando io vi ho insultati? insultarvi io, che sempre ho ammirata la filosofia,
ho lodato a cielo voi, e tengo sempre fra mani le opere che ci avete lasciate? Queste stesse cose chio
dico, donde, se non da voi, io le ho prese, cogliendo, come ape, il più bel fiore vostro? Gli uomini
che le ascoltano e le lodano riconoscono ciascun fiore, da chi e come io lho colto: pare che lodino
me che nho fatto un mazzolino, ma il vero è che lodano voi, che siete un giardino di svariati e
bellissimi fiori, per chi sa coglierli, sceglierli, e acconciamente disporli insieme. Ed uno che ha
ricevuto sì gran bene da voi, potria mai parlar male di voi che lo avete beneficato, e lo fate essere
quello che egli è? Saria più ingrato di Tomiri che sfidò al canto le Muse che gli avevano insegnato a
cantare, e di Eurito che contese il vanto del saettare ad Apollo che gli aveva messo larco in mano.
Platone. Ecco stile di oratore! Egli è tutto il contrario, e tu più ti scopri non pure malvagio sfacciato,
ma ingrato ancora: perchè avendo ricevuto da noi quel tuo arco, tu lo rivolgi contro di noi; noi
siamo il solo bersaglio delle tue saette, e di mille ingiurie che ci scagli addosso. Questo merito
abbiamo da te, perchè ti abbiamo aperto quel giardino, e ti abbiam lasciato cogliere i fiori, ed
empirtene il seno. Onde specialmente per questo tu sei degnissimo di morire.
Luciano. Vedete? la collera vi fa dimenticar la giustizia. Eppure io non avrei mai creduto che un
Platone, un Crisippo, un Aristotele e tutti voi altri veniste a tanta collera, anzi mi pareva che voi soli
ne doveste esser lontani. Ma almeno, o bravi filosofi, non mi uccidete senza giudizio e senza difesa.
Questa era massima vostra, che non si deve usare la forza e la violenza, ma con la giustizia
sciogliere le differenze, dando a ciascuno il diritto di dir sue ragioni. Scegliete un giudice,
accusatemi o tutti, o chi tra voi vorrete: ed io mi difenderò dalle colpe che mi date. E poi se sarò
chiarito colpevole, ed il giudice mi condannerà, mi torrò la pena meritata, e voi non farete alcuna
violenza: ma se dopo che avrò reso stretto conto di me, sarò trovato innocente ed irreprensibile, e i
giudici mi rimanderanno assoluto; voi volgerete la collera vostra contro chi vha ingannati ed aizzati
contro di me.
Platone. Sì: il cavallo vuole il piano:(81) affinchè tu imbrogli i giudici, e te la svigni: chè tu sei
oratore, ed avvocato, e scaltrito in tutte le trappolerie del fòro. E chi vuoi per giudice? a chi, se non
con doni, come voi usate di fare, persuaderai di dare uningiusta sentenza in tuo favore!
Luciano. Non vi date pensiero per questo. Nè io vorrei un giudice sospetto e dubbio, e che mi
vendesse il suffragio. Vedete: io fo mio giudice la Filosofia stessa, e voi stessi.
Platone. E chi ti accuserà, se noi giudicheremo?
Luciano. Voi stessi sarete e accusatori e giudici: niente, neppure questo io temo: chè ho ragioni da
vendere, e difesa ricchissima.
Platone. O Pitagora, o Socrate, che faremo? Pare che costui non dimandi cosa ingiusta, volendo
essere giudicato.
Socrate. Non possiamo altro che incamminarci pel tribunale, e, presa la Filosofia con noi, ascoltare
le costui discolpe. Veramente noi non dobbiamo negar la difesa, come fan gli uomini bestiali e
feroci che si fanno il diritto con le mani loro. Daremmo buono in mano ai nostri calunniatori, se noi,
che vantiam tanto la giustizia, facessimo morire un uomo senza lasciarlo parlare. E che potrò dire io
di Anito e di Melito miei accusatori, e di quei giudici, se costui morirà senza che per lui sia scorsa
una gocciola dacqua nellampolla?
Platone. Parli da savio, o Socrate: andiam dalla Filosofia: ella giudicherà, e noi staremo al suo
giudizio.
Luciano. Così va bene, o sapientissimi: questo è secondo le leggi. Intanto serbate i sassi, come vho
detto, che serviranno dopo la sentenza. Ma dove troverem la Filosofia? Io non so dove ella abiti.
Eppure sono andato su e giù tanto tempo cercandone la casa, per poterle parlare. Incontravo certuni
ravvolti in mantelli e con lunghe barbe, che dicevano di tornare appunto da lei; io li credevo, e,
dovè, dove non è? essi non ne sapevano più di me: e, o non mi rispondevano per non chiarirsi
bugiardi, o mindicavano una porta per unaltra: onde finora mè stato impossibile di trovar quella
casa benedetta. Spesso andando da me a caso, o, come son forestiero, seguendo una guida, io giunsi
innanzi a certe porte, e credei di averla proprio trovata, argomentandone da una gran folla che
entrava ed usciva, tutta di uomini gravi, composti, e cogitabondi allaspetto. Cacciatomi tra costoro,
entrai anchio, e vidi una donnetta che non maveva laria schietta, benchè savesse acconciata la
persona alla semplice e senza ornamenti: maccòrsi subito che non le stavan tanto male quei capelli
che parevan negletti, nè le pieghe della veste erano tutte a caso; e che quella sua trascuratezza era
fina accortezza per comparire bella. Le si vedeva in volto un po di belletto, aveva parole e fare di
cortigiana: agli amatori che la lodavano per bellezza, sorrideva; se le offerivan doni, subito li
prendeva: se eran ricchi, se li faceva seder vicino; se poveri, neppur li guardava. Spesso mentrella
sbadatamente si discopriva, io le vidi collane e monili doro massiccio. Vedendo tutto questo, subito
me ne tornai, compiangendo quei miseri che si fan tirare da lei non pel naso ma per la barba, e,
come Issione, abbracciano una nube invece di Giunone.
Platone. Hai detto il vero: non è facile trovar la sua porta, nè tutti la conoscono. Ma non è mestieri
andar noi a casa sua: laspetteremo qui nel Ceramico, quando ella ci verrà tornando dallAccademia,
per passeggiar nel Pecile.(82) Questa è usanza sua ogni dì: anzi, eccola che viene. Vedi quella
donna di modesto portamento, quella degli occhi soavi, quella che va piano perchè va pensosa?
Luciano. Ne vedo molte simili al portamento, allandare, alle vesti. Eppure una tra esse devesser la
vera Filosofia.
Platone. Ben dici, ella si mostrerà al parlare.
La Filosofia. Oh, che è ciò! come quassù Platone, Crisippo, Aristotele, e tutti gli altri, proprio i capi
delle mie dottrine? Perchè di nuovo in vita? Vi si è fatto qualche male laggiù? Mi parete sdegnati. E
chi è cotestui che menate preso? forse un violatore di sepolcri, un omicida, un sacrilego?
Platone. Sì, il più empio di tutti i sacrileghi; il quale ha osato parlar male di te, o santissima
Filosofia, e di tutti quanti noi, che abbiamo lasciato ai nostri posteri quello che imparammo da te.
La Filosofia. E voi vaccendete in tanto sdegno che uno sparli di voi? Voi sapete quante ne ha dette a
me la Commedia nelle feste di Bacco: eppure io le voglio bene, e la tengo per amica, e non mai lho
accusata in giudizio, nè sono andata a rimproverarla, ma lho lasciata scherzare a suo modo, e come
è usanza in quelle feste. Io so che per beffe nessuna cosa scema di suo pregio; anzi per contrario,
quel che è bello, come loro che esce di sotto al bulino, splende più vivo e più lucente. Or voi come
siete divenuti così irosi e intolleranti? e perchè tenete costui alla gola?
Platone. Abbiam chiesto permesso di questo solo giorno, e siam venuti a punir costui di quel che ha
fatto. Ci sono stati contati tutti i vituperii che egli ha detti di noi pubblicamente.
La Filosofia. E però volete farlo morire così senza difesa? Pare chegli voglia dir qualche cosa.
Platone. Così no: ma ce ne rimettiamo a te in tutto: e tu, se vuoi, finirai questo piato.
La Filosofia. E tu che ne dici?
Luciano. Non desidero altro, o regina Filosofia, perchè tu sola potrai chiarir la verità. Quanto ho
detto e pregato per farmi giudicare da te!
Platone. Ora, o malvagio, la chiami regina, ora; e poco fa ne hai fatto uno straccio di questa
Filosofia, mettendola allincanto sovra un teatro, e vendendone le sètte due oboli luna.
La Filosofia. Badate che forse costui non ha sparlato della Filosofia, ma di quei ciurmadori che
prendendo il nostro nome, fanno molte ribalderie.
Luciano. Lo saprai tosto, se vorrai udire la mia difesa.
La Filosofia. Andiam su lAreopago, o meglio su la rôcca stessa, chè di lassù scoprirem largamente
tutto quello che accade nella città. Voi intanto, o amiche, passeggiate nel Pecile: tornerò a voi,
decisa la lite.
Luciano. Chi sono esse, o Filosofia? anchesse paiono molto modeste.
La Filosofia. Quella robusta è la Virtù, quellaltra è la Temperanza con la Giustizia: innanzi ad esse
cammina la Scienza: e quella che mezzo si asconde, e pare e non pare, è la Verità.
Luciano. Non vedo costei.
La Filosofia. Quella bellissima, non la vedi? quella nuda, che sempre sfugge e sguizza?
Luciano. La vedo ora appena. Ma perchè non meni anche queste affinchè sia più pieno e intero il
consesso? Io voglio che la Verità monti in ringhiera, e sia lavvocata mia.
La Filosofia. Sì. Seguiteci anche voi altre. Non vincresca di giudicare una sola causa.(83) In essa si
tratterà del fatto nostro.
La Verità. Andate voi, chè io non ho bisogno di udir niente: già so come sta la cosa.
La Filosofia. Ma, importa a noi, o Verità, che tu venga a giudicare con noi, affinchè ci spieghi ogni
cosa.
La Verità. Ed io ci verrò con queste due ancelle a me affezionatissime.
La Filosofia. Queste, e quante altre vuoi.
La Verità. Venite con noi, o Libertà e Franchezza: vediamo di salvare questo poveretto, che ci ama
tanto, e che per uningiusta cagione corre grave pericolo. Tu poi, o Convinzione, rimanti qui.
Luciano. Deh no, o regina. Venga ed essa ed altre ancora. Io non ho a combattere con belve, ma con
uomini superbi, difficili a convincere, e che nelle argomentazioni trovan sempre pronte le
scappatoie: onde la Convinzione è necessaria.
La Filosofia. Necessarissima adunque: ed è meglio se prendi anche la Dimostrazione.
La Verità. Seguiteci tutte: giacchè pare che tutte siete necessarie nel giudizio.
Aristotele. Vedi, o Filosofia: ei cerca di farsi amica la Verità contro di noi.
La Filosofia. O Platone, o Crisippo, o Aristotele, temete forse che per lui la Verità dica una bugia?
Platone. Non questo: ma egli è astuto assai ed entrante, e potrebbe persuaderla del falso.
La Filosofia. Non temete: uningiustizia non si farà, essendo qui la Giustizia stessa. Adunque
andiamo. Ma dimmi tu, che nome hai?
Luciano. Io? Parlachiaro, figliuol di Parlavero, della tribù de Persuasori.(84)
La Filosofia. E di che patria?
Luciano. Siro, o Filosofia, di quelle parti presso lEufrate. Ma ciò che monta? Io so che molti di
questi miei avversarii, per patria non sono men barbari di me; ma lingegno e la scienza loro non
eran cose di Soli, di Cipro, di Babilonia, o di Stagira.(85) E poi per te non dovria esser da meno chi
è barbaro per lingua, purchè ti paia di aver mente dritta e giusta.
La Filosofia. Dici bene: abbi dunque per non fatta la dimanda. Ma quale è la tua arte? questo debbo
saperlo.
Luciano. Io sono odiatore deglimpostori, dei furfanti, dei bugiardi, dei superbi; odiatore di tutta la
razza dei malvagi, che son moltissimi, come sai.
La Filosofia. Per Ercole! tu hai per mano unarte molto odiosa.
Luciano. Dici bene: e vedi quanti nemici ho, e quanti pericoli per cagion sua. Ma io so anche
benissimo larte contraria a questa, dico quella che ha il principio dellamore. Io sono amatore del
vero, del bello, del semplice, e dogni cosa che merita amore. Ma per pochissimi io trovo ad
esercitar questarte, e la contraria per moltissimi: onde corro pericolo di disimparar luna per manco
desercizio, e di riuscir troppo nellaltra.
La Filosofia. Eppure non devi: perchè uno è il principio e di questa e di quella arte: onde non le
dividere; giacchè è una, e pare che sieno due.
Luciano. Tu la intendi meglio di me, o Filosofia: pure io sono così fatto che odio i malvagi, ed amo
e lodo i buoni.
La Filosofia. Oh, eccoci giunti: qui sotto questo portico del tempio di Minerva faremo il giudizio. O
Sacerdotessa, preparaci i seggi, intanto che noi adoreremo la Dea.
Luciano. O Minerva signora della città, aiutami da questi superbi che io combatto: ricórdati dei loro
spergiuri che tu odi ogni dì, e delle cose che fanno, e che tu sola vedi abitando su questa rôcca. Ora
è tempo di farne vendetta. Se mai tu mi vedessi sopraffatto dal numero maggiore delle fave nere,
gitta la tua nellurna, e salvami.
La Filosofia. Eccoci seduti, e pronti ad ascoltare i vostri ragionamenti. Voi scegliete tra voi uno che
vi parrà migliore a farla da accusatore: raccogliete tutti i capi daccusa e le pruove: perchè non
potete parlar tutti insieme. Tu, o Parlachiaro, dirai le tue ragioni dipoi.
I Risuscitati. Chi dunque sarà il più atto fra noi a questaccusa?
Crisippo. Tu, o Platone, perchè tu, sia di pensieri mirabili e di bel parlare tutto attico, grazioso o
persuasivo, sia dintelletto e daccorgimento per convincere con opportune dimostrazioni, tu di ogni
cosa hai dovizia: onde prendi la difesa di questa causa, e parla per tutti noi. Ricórdati ora, e raccogli
quanto mai dicesti contro Gorgia, e Polo, e Prodico, ed Ippia, chè costui è più pericoloso di quelli.
Spargivi le tue ironie, e quelle calzanti e frequenti interrogazioni: e, se vi cape, mettivi ancora che il
gran Giove agitando pel cielo lalato suo cocchio, sdegnerebbesi se costui non fosse punito.(86)
Platone. No: scegliamo piuttosto un parlatore veemente, o questo Diogene, o Antistene, o Crate, o
pure te stesso, o Crisippo. Or non è tempo di bello stile e forbito, ma di quegli argomenti che
stringono, e che susan nel fòro: perchè Parlachiaro è avvocato.
Diogene. Bene, laccuserò io; e non credo dover parlare molto a lungo. E poi io sono stato offeso più
di tutti, chè ieri fui venduto per due oboli.
Platone. O Filosofia, Diogene parlerà per tutti. E tu o valoroso, ricórdati che in questaccusa sei
nostro rappresentante, e dèi riguardare non pure a te, ma a tutti noi. Se abbiam qualche differenza
nelle nostre dottrine, tu non parlarne ora, nè dire qual dottrina è più vera; ma solamente ti muova a
sdegno quel che ha patito la Filosofia tanto ingiuriata e diffamata nelle scritture di Parlachiaro.
Lascia le sètte e le differenze che sono fra noi: siam tutti filosofi; e per questo carattere comune or
devi combattere. Pensa che noi abbiam commesso a te solo ogni cosa, ed a te sta il farci o rispettare,
o credere quali ci ha mostrati costui.
Diogene. Non dubitate: non tralascerò nulla, parlerò per tutti. E se anche la Filosofia si lasciasse
svolgere alle costui parole, e con quellindole sua dolce e mite volesse rimandarlo assoluto, ci
penserò io: gli mostrerò che non indarno noi portiamo il bastone.
La Filosofia. Bastone no: convincerlo col ragionamento, sì. Ma sbrí gati: lacqua è già versata per te;
e tutto il tribunale ti riguarda attentamente.
Luciano. Gli altri seggano, o Filosofia, e sieno giudici insieme con voi: Diogene solo mi accusi.
La Filosofia. E non temi tu il suffragio di tali giudici?
Luciano. No: io voglio vincere con tanti più suffragi.
La Filosofia. Da magnanimo. Sedete voi: e tu, o Diogene, parla.
Diogene. Quali uomini fummo noi nella vita nostra, tu il sai molto bene, o Filosofia, e non accade
parlarne: chè, per tacere di me stesso, chi mai non conosce cotesto Pitagora, e Platone, ed
Aristotele, e Crisippo, e quanto bene essi hanno fatto al mondo? E tutto che siamo stati tali, questo
scelleratissimo Parlachiaro che offese ci ha fatto ora vi dirò. Questi che in sua prima età si diede al
mestier davvocato, come ei dice, lasciati i tribunali e certa gloria acquistata nel fòro, tutta la
sottigliezza dellingegno aguzzato nelle aringhe ha rivolta contro di noi, e non rifina dinsultarci,
chiamandoci impostori e furfanti, e persuadendo la gente a deriderci e sprezzarci come dappochi.
Anzi già egli ha fatto odiare da molti e noi e te, o Filosofia, mettendo in canzone le tue dottrine
come baie ed inezie, e recitando con riso beffardo i più santi precetti che tu ci hai insegnati: onde gli
ascoltatori gli batton le mani e lo lodano, e noi ne siam vituperati. Così fatto è il popolo: applaude a
chi lo fa ridere con le beffe e con gli scherni, massime quando ne vanno in pezzi le cose che paion
più sacre: così un tempo applaudiva ad Aristofane ed Eupolide, che per derisione misero questo
Socrate su la scena, e gli fabbricarono addosso le più strane commedie. Almeno costoro contro un
solo uomo si presero questo ardire, e nei Baccanali, quando vè certa licenza, e pare che gli scherzi
ed i motti faccian parte della festa, e piacciano al Dio chè amico del riso. Ma costui, invitate molte
elette persone, con in mano un suo grosso libro lungamente meditato, preparato, e pieno di
bestemmie, legge a gran voce le più brutte calunnie contro Platone, Pitagora, Aristotele, Crisippo,
contro me, contro tutti, senza che vi sia la licenza duna festa, senza aver ricevuto da noi male
alcuno; perchè gli si potria pur perdonare se lo facesse per vendetta e provocato da noi. E quello che
più ci cuoce è che egli, facendo questo, copresi del tuo nome, o Filosofia; ha tirato dalla sua il
Dialogo, che era già amico nostro, ed ora gli tiene il lazzo contro di noi: ha carrucolato anche
Menippo nostro compagno a far le scene con lui, e darci spesso la baia: onde questi solo non è con
noi, e non lo accusa, ed è traditore della causa comune. Per tutti questi fatti egli ben merita una
pena. E che potrà egli rispondere, avendo lacerato le cose più sante innanzi a tanti testimoni? I quali
saria bene che lo vedessero anche punito, affinchè a nessuno venga più la voglia di spregiar la
Filosofia. Tacere e tenersi queste ingiurie non saria moderazione, ma viltà somma e dappocaggine.
E questultimo smacco che ci ha fatto come si può sopportare? A guisa di schiavi ci espone in
vendita in una bottega, ci fa strombettare dal banditore, ci vende alcuni a caro prezzo, alcuni per
una mina attica, e me, vedi lo scelleratissimo! me per due oboli: e quanti ludirono se ne risero.
Questo ha colmo il sacco: e noi siamo risuscitati, e da te vogliamo vendetta di queste bruttissime
offese.
I Risuscitati. Benissimo, o Diogene. Hai parlato per tutti: hai detto tutto, e come andava detto.
La Filosofia. Cessate dagli applausi. Si versi lacqua per laccusato. Or tocca a te, o Parlachiaro: or
lacqua scorre per te: incomincia.
Parlachiaro. Eppure non di tutte le colpe Diogene mi ha accusato, o Filosofia, ma non so perchè ne
ha tralasciate molte e le più gravi. Tanto io temo di negare quello che ho detto, o di scendere a
giustificarmene, che, se vè qualche cosa che egli ha taciuta e che io non ho detta prima, voglio dirla
ora per giunta: chè così saprai chi sono quelli chio ho messi allincanto, ed ho offesi chiamandoli
impostori e furfanti. Badate solamente a questo, se io dirò il vero di essi. Che se le mie parole avran
sapore di forte e di agro, non è giusto di biasimar me che scopro un male, ma quelli che lo fanno.
Non sì tosto io mi fui accorto di tutte le magagne che stanno necessariamente con gli oratori,
deglinganni, delle menzogne, dellimpudenza, degli schiamazzi, delle contese e di mille altre loro
sozzure, che io volsi loro le spalle, e corsi a cercare i beni che tu prometti, o Filosofia; credendomi,
come da tempestoso pelago, entrare in tranquillo porto, e poter vivere sotto la tua protezione il
rimanente dei giorni miei. E poichè pure assaggiai le vostre dottrine, fui compreso di dovuta
ammirazione per te, e per tutti quei filosofi che sono legislatori della vita ottima, e porgono la mano
a chi vuol giungere ad essa, ammonendolo delle cose più belle e più utili, affinchè non isvii e non
cada nellerrore, ma fiso riguardando alle regole stabilite da voi, secondo esse moderi e conformi la
sua vita: la qual cosa oh quanti pochi tra noi oggi fanno! Ma vedendo molti presi non da amore di
sapere, ma sol da boria di parere sapienti, far le viste dessere uomini dabbene, serbando certe
pubbliche apparenze che son facili a tutti ad imitare, la barba dico, landare, e il mantello; e con la
vita poi e con le opere contraddire allabito che indossano, fare tutto il contrario di quello che voi
facevate, e disonorare la dignità di filosofi, io me ne sdegnai grandemente. Questo parvemi come se
un molle ed infemminito istrione facesse in una tragedia la parte di Achille, di Teseo, o di Ercole, e
invece di camminare o parlar da eroe facesse lo svenevole sotto sì nobil maschera. Neppure ad
Elena o a Polissena potrebbe piacere costui, benchè similissimo a loro: or che sdegno ne avrebbe
Ercole, il gran vincitore? pensomi che a vedersi fatto una femminella da costui, stritolerebbe a colpi
di clava listrione e la maschera. Simili oltraggi io vidi fatti a voi da questi istrioni, e non potetti
patire tanta vergogna, che queste scimmie ardissero mettersi la maschera degli eroi; o imitassero
lasino di Cuma, il quale coverto della pelle dun lione, e credendosi divenuto lione, con un gran
menare di ragghi spauriva i Cumani che nol conoscevano: finchè un forestiere, che conosceva bene
e gli asini ed i leoni, lo scopri e lo cacciò con buone bastonate. Ma quel che più mi sdegnava, o
Filosofia, era che quando gli uomini vedevano un malvagio di questi far qualche turpitudine o
ribalderia, tutti senzaltro ne incolpavan la Filosofia, e Crisippo, e Platone, e Pitagora, o altro, di cui
il vero colpevole spacciava il nome e la dottrina; e dalla rea vita di costui si faceva reo giudizio
anche di voi, che eravate morti da tanto tempo. Nessuno ricordava più che uomini eravate stati in
vita, ma vedevano bene quel malvagio darla per mezzo a tutte le lascivie e le ribalderie; onde vi
mettevano in un fascio con lui, vi laceravano, vi condannavano, e nessuno vi difendeva. Questo io
non potetti patire, smascherai queglimpostori, e li mostrai ben diversi da voi. E voi che però
dovreste onorarmi, voi mi trascinate innanzi a un tribunale! Dunque se io vedo un iniziato con le
parole o coi gesti svelare i misteri delle Dee, ed io me ne sdegno e lo riprendo, son io per voi un
malvagio? No, certamente. Gli Agonoteti(87) sogliono far flagellare listrione che vestito da
Minerva, da Nettuno, o da Giove, non rappresenta bene e convenientemente questi iddii; i quali non
si sdegnano punto che uno, che sha messa la maschera loro e va vestito delle insegne loro, sia dato a
mano dei frustatori, anzi credo che debbano aver piacere a vederlo frustato, dappoichè non
rappresentar bene la parte di un servo o di un nunzio, non è gran fallo; ma abbassare la dignità di
Giove o di Ercole innanzi agli spettatori, è cosa tanto abbominabile quanto è turpe. E questa è
unaltra cosa stranissima, che molti di costoro conoscono esattamente le vostre dottrine, ma pare che
le studino e le imparino per fare puntualmente il contrario nella vita loro. Tutte quelle massime che
essi ripetono, doversi spregiar le ricchezze e la gloria, stimar utile il solo onesto, non lasciarsi
vincere dallira, non curarsi dei ricchi e parlar loro come ad eguali; tutte queste massime son belle e
sagge, e molto mirabili; ma costoro le insegnano a prezzo, innanzi ai ricchi allibiscono, innanzi
alloro apron tanto di bocca, son più ringhiosi dei botoli, più paurosi dei lepri, più lusinghieri delle
scimmie, più lussuriosi degli asini, più rapaci dei gatti, più schiamazzatori dei galli. Meritamente
adunque sono derisi, perchè fanno il contrario di quello che dicono: saffollano e si pigiano innanzi
le porte dei ricchi; cercano i conviti dove è più gente, e quivi sfrontatamente adulano,
sconvenevolmente sempiono il sacco, paion sempre scontenti della loro porzione, e fanno stomaco
tra i bicchieri filosofando a sproposito, e rigettando tutto il vino. Intanto gli sciocchi che stanno a
tavola se ne ridono, e sputano la filosofia che alleva questa razza immonda. Con una fronte
invetriata, ciascun dessi dice non aver bisogno di nulla, grida che il solo ricco è il sapiente: e indi a
poco viene, e ti chiede, e sdegnasi se non gli dài: come se uno vestito da re con la tiara ed il
diadema in capo, e con tutte le altre insegne regali, cercasse la limosina dai più poveri di lui.
Quando costoro hanno bisogno, ti sciorinano una diceria che tutto debbesser comune, che la
ricchezza è cosa indifferente: che è loro e largento? non differisce dai ciottoli che stanno sul lido:
ma quando un antico compagno o un amico intimo va da loro per un bisogno a chiedere un picciolo
aiuto, ammutiscono, non hanno, non sanno, ritrattano il loro detto: e tutte quelle belle parole su
lamicizia, su la virtù, su lonesto se ne vanno non so dove, se ne volano, veramente volubili parole,
che ogni mattina dicono nelle scuole per combattere con le ombre. Ti sono amici sino ad un punto,
sino a che non ci va di mezzo la borsa: se si mostra loro un obolo, è rotta la pace, finita per sempre
ogni pratica, i libri dimenticati, sparita la virtù: paiono un branco di cani, tra quali se getti un osso,
vi si lanciano tutti, si mordon tra loro, e a chi lha rapito prima tutti abbaiano dietro. Si dice che una
volta un re dEgitto insegnò a certe scimmie ballare la danza pirrica: e questi animali, che sanno
imitare benissimo le azioni degli uomini, presto impararono, e covertate di porpora e mascherate
diedero lo spettacolo della danza; il quale piacque per qualche tempo, finchè uno spettatore
ghiribizzoso avendo in seno alcune noci, le gittò in mezzo ad esse: le scimmie, come le videro,
scordaron la danza, e tornate scimmie, ruppero le maschere, e squarciaron le vesti azzuffandosi tra
loro per le noci: la danza fu disordinata, e il teatro si smascellò dalle risa. Così fanno anche costoro:
queste scimmie io ho frustate, e non cesserò mai di frustare, togliendo loro la maschera e mettendo
la mitera. A voi poi, ed a quelli che son simili a voi (chè ci sono, sì, ci sono alcuni che veramente
amano la filosofia, e serbano le vostre leggi), io non sarei sì pazzo da dire a voi minima ingiuria o
villania. E che potrei dirvi io? Siete vissuti voi forse come questa canaglia nemica degli Dei, e
meritevole dessere scopata? E voi, o Pitagora, o Crisippo, o Platone, o Aristotele, ditemi, che han
che fare questi con voi? in che la vita vostra è simigliante alla loro? In fede mia, la scimmia imita
Ercole. Forse perchè portano barbe, perchè spacciano filosofia, perchè hanno il volto arcigno, però
dobbiamo assomigliarli a voi? Saria meno male se avessero un po di garbo nellimitarvi: ma
piuttosto lavoltoio imiterà il rosignuolo, che costoro i filosofi. Ho detto in mia difesa le cose che
dovevo: e tu, o Verità, sii testimone ai giudici se esse son vere.
La Filosofia. Allontánati, o Parlachiaro: anche più in là. Che farem noi? Che vi pare di quel che ha
detto questuomo?
La Verità. Per me, o Filosofia, mentregli parlava avrei voluto star nascosta sotterra: tanto son vere
le cose che ha dette. Nelludirlo annoverar tutte quelle vergogne, io riconoscevo quelli che le fanno,
e pensavo: Questo conviene al tale, il tale ha fatto questo, il tale altro ha fatto questaltro. Li ha
mostrati quali sono, li ha dipinti al vivo, ne ha ritratti non pure i corpi, ma le anime al naturale.
La Temperanza. Ed io, quanto mi sono arrossita, o Virtù?
La Filosofia. E voi, che ne dite?
I Risuscitati. Che altro, se non scioglierlo dallaccusa, e scriverlo nel novero de nostri amici e
benefattori? A noi è intervenuto come ai Trojani, i quali sforzarono un cantore a cantare, e quei
cantò loro la rovina di Troia. Canti egli adunque, e canzoni questi nemici degli Dei.
Diogene. Ed io, o Filosofia, lodo questo uomo dabbene, ritratto le accuse che gli ho date, e lo voglio
per amico.
La Filosofia. Sta bene. Avvicínati, o Parlachiaro. Ti assolviamo dallaccusa a pieni suffragi; e sappi
che da ora innanzi sei nostro.
Parlachiaro. Ho vinto la prima: or farò la seconda preghiera in istile tragico e più conveniente.
O grande, alma Vittoria,
Questa mia vita io toffero,
E tu sempre incoronami.(88)
La Virtù. Versiamo la seconda tazza agli Dei: citiamo a comparir qui anche quelli, affinchè abbiano
pena deglinsulti che ci fanno. E Parlachiaro li accuserà.
Parlachiaro. Ben dicesti, o Virtù. Onde tu, o Sillogismo figliuol mio, affácciati su la città, e fa
lappello dei filosofi.
Sillogismo. Udite, zitti. Che i filosofi montino su la cittadella a render conto di sè innanzi la Virtù,
la Filosofia, e la Giustizia.
Parlachiaro. Vedi? Pochi ci convengono, avendo capito il bando. Temono la Giustizia, ma la
maggior parte non hanno tempo, e stanno attorno ai ricchi. Se vuoi che vengano tutti, fa il bando
così, o Sillogismo.
La Filosofia. No: fallo tu, o Parlachiaro, come vuoi tu.
Parlachiaro. Son pronto. Udite, silenzio. Tutti quelli che dicono desser filosofi, e quelli che credono
di meritar questo nome, vengano su la cittadella dove si fa un donativo. Si daranno a ciascuno due
mine, e una schiacciata di giuggiolena. Chi ci porterà una gran barba avrà per giunta un pane di
fichi secchi. Nessuno ci porti nè modestia, nè giustizia, nè temperanza; chè le non son necessarie se
non ci sono. Ma cinque sillogismi sono indispensabili, chè senza sillogismi non ci è filosofi.
E stanno in mezzo due talenti doro,
Che si daranno a chi fra tutti il vanto
Del più valente battaglier riporti.
Oh, oh! che folla monta a furia, poichè han pure udito le due mine. Quelli pel Pelasgico, questi pel
tempio di Esculapio, molti per lAreopago, altri salgono pel sepolcro di Talo, ed alcuni mettono le
scale al tempio di Castore e Polluce. Come sarrampicano! che ronzio! come saggroppano a guisa di
sciame dapi, per dirla con Omero: di qua sono assai molti, e di là
Nessun li conteria, che sono quante
Le foglie e i fior che primavera adduce.
In un attimo sè piena la cittadella! che rombazzo fanno per chi siede i primi: dapertutto bisacce,
barbe, adulazione, impudenza, bastoni, ghiottornia, avarizia, sillogismi. Quei pochi venutici al
primo bando sono spariti e confusi nella gran folla, e non si posson distinguere per la simiglianza
comune dellaspetto. Questo sta male assai, o Filosofia, e taluno si potria lagnare di te, che non hai
posto loro un segno che li distingua; chè questi impostori la sanno più lunga, e spesso passano per
veri filosofi.
La Filosofia. Attendi un altro poco. Per ora riceviam costoro.
I Platonici. A noi Platonici tocca prima il donativo.
I Pitagorici. No: a noi Pitagorici, chè Pitagora fu prima.
Gli Stoici. Voi scherzate: i primi noi che siamo della Stoa.
I Peripatetici. Niente affatto: quando cè danari, siamo innanzi a tutti, noi del Peripato.
Gli Epicurei. A noi Epicurei dateci le schiacciate ed i fichi secchi: e per le due mine aspetteremo
ultimi di tutti.
Gli Accademici. Dove sono i due talenti? Spettano a noi Accademici che siamo i più battaglieri fra
tutti.
Gli Stoici. Non quando vi stiamo a fronte noi Stoici.
La Filosofia. Cessate le dispute, e voi, o Cinici, non urtate gli altri, ponete giù i bastoni. Sappiate
che per altro siete stati chiamati: io che son la Filosofia, costei che è la Virtù, e questa la Verità,
giudicheremo ora chi sono i veri filosofi. Quelli che nella vita loro saran trovati conformi alle nostre
dottrine, avranno la felicità in dono, e saran riconosciuti per ottimi: ma glimpostori, che non han
punto che fare con noi, avran la pena che si addice ai malvagi ed ai guastamestieri che fanno quello
che non sanno. Ma che? voi fuggite a rompicollo per la china? La cittadella è spazzata: vi sono
rimasti pochi che non temono il nostro giudizio. Raccogliete, o servi, quella bisaccia che un cinico
ha gittata nel fuggire. Vediam che ve dentro: forse lupini, qualche libro, e pan di crusca.
Parlachiaro. No: ma vedi, oro, unguenti, uno specchio, e i dadi.
La Filosofia. Bravo, o valentuomo: questi erano gli strumenti dei tuoi studii? con questi credevi
potere sparlare di tutti, e fare il maestro agli altri?
Parlachiaro. E tutti così. Ma voi ci dovete trovare un modo per far cessare questa incertezza, e far
distinguere, quando sincontran costoro, chi sono i buoni e chi i cattivi. E questo spetta a te, o Verità,
a trovarlo, per non farti accoppar dalla Bugia, e nella tua semplicità non lasciarti ingannar da ribaldi
vestiti da dabbenuomini.
La Verità. Se vi pare, darem questo ufficio a Parlachiaro, che abbiam conosciuto per dabbenuomo,
affezionato nostro, e tuo grande ammiratore, o Filosofia. Egli prenderà a compagna la Convinzione,
ed anderanno da tutti quelli che si dicon filosofi; chi sarà trovato legittimo e vero figliuolo della
Filosofia, sia coronato dulivo e chiamato nel Pritaneo:(89) se sabbatterà in un furfante di questi (e
son tanti) mascherato da filosofo, gli strappi il mantello, gli rada la barba sino alla pelle con le
cesoie con cui si tondono i becchi, glimprima un marchio su la fronte, o con un ferro rovente gli
stampi fra le due sopracciglia la figura di una volpe o duna scimmia.
La Filosofia. Bene, o Verità. La prova, o Parlachiaro, sia come quella che fa laquila dei suoi
aquilotti al sole: non già, provare anche costoro facendoli riguardar nel sole, ma metti innanzi ad
essi oro, gloria, piaceri: chi li guarda con disprezzo e senza commoversi, egli è desso, coronalo
dulivo: chi vi tien locchio fiso, e stende la mano alloro, bruciagli la fronte, rasa prima la barba,
come sè detto.
Parlachiaro. Cosi farò, o Filosofia: e tu vedrai tosto moltissimi marchiati della volpe o della
scimmia, e pochi coronati. Intanto, se voi volete, io ricondurrò qui alcuni di quelli.
La Filosofia. Come? ricondurrai quei che son fuggiti?
Parlachiaro. Sì: purchè la Sacerdotessa voglia prestarmi per poco la lenza e lamo, che il pescator del
Pireo appese in voto.
La Sacerdotessa. To, ed anche la canna, acciocchè tu abbi tutto.
Parlachiaro. Fammi il favore intero, o Sacerdotessa: dammi dei fichi secchi, e un pochetto doro.
La Sacerdotessa. Prendi.
La Filosofia. Che pensa di fare costui?
La Sacerdotessa. Ha inescato lamo coi fichi e con loro, e sedutosi su lorlo della rôcca, lha gettato a
pescar nella città.
La Filosofia. Che fai, o Parlachiaro? vuoi tu pescar le pietre nel Pelasgico?
Parlachiaro. Taci, o Filosofia, e aspetta la pésca. O Nettuno, re dei pescatori, e tu, o bella Anfitride,
mandateci molti pesci. Ma zitti, vedo un gran lupo marino, o piuttosto unorata.
La Convinzione. No, è un pesce gatto, che viene allamo con la bocca aperta. Fiuta loro, savvicina,
lha morso, è preso: tiriamo.
Parlachiaro. Aiutami anche tu, o Convinzione, a tirar la lenza. È sopra. Or dimmi, chi sei tu, o
bellissimo tra i pesci. È un pesce cane questo.(90) Caspita, e che denti! E come? sei stato preso al
lecco intorno a questi scogli dove speravi di rimbucarti? Ma ora tenendoti sospeso dalle branchie, ti
mostrerò a tutti. Caviamogli lesca e lamo. Allamo non cè più nulla: i fichi secchi e loro se lha già
inghiottiti.
Diogene. Faglieli vomitare, per Giove! affinchè adeschiamo gli altri.
Parlachiaro. Sta bene. Ma dimmi, o Diogene, conosci chi è costui? è de tuoi egli?
Diogene. Niente affatto.
Parlachiaro. Be: e di che prezzo lo fai? Io testè lo stimai due oboli.
Diogene. È troppo. Non saria chi mangiarlo, è brutto, ha la carne tigliosa, non val nulla. Gittalo a
rompersi il collo su i scogli. Tirane un altro, getta lamo. Ma bada, o Parlachiaro, che la canna non si
pieghi troppo e si spezzi.
Parlachiaro, Non temere, o Diogene, non pesano, e son leggieri più delle acciughe.(91)
Diogene. Son ciuchi, per Giove! Tira su.
Parlachiaro. Ve, vedi questaltro piattone,(92) come un pesce spaccato a mezzo, come una sogliola!
corre allamo con tanto di bocca: lha ingoiato, è preso; venga su.
La Convinzione. Chi è egli?
Diogene. Ei dice che è di Platone.
Platone. Anche tu, o ribaldo, corri alloro?
Parlachiaro. E che ne faremo, o Platone?
Platone. Su i scogli anchesso.
Diogene. Gitta lamo per un altro.
Parlachiaro. Ne vedo venire uno bellissimo, per quanto discerno nel fondo, con la pelle screziata e il
dorso listato di colori doro. Lo vedi, o Convinzione? quello che mha laria di Aristotele, quello è.
Sera avvicinato, ed ora se ne va roteando. Si guarda intorno; ritorna; apre la bocca; è preso:
tiriamolo.
Aristotele. Non mi dimandar di lui, o Parlachiaro: io non so chi sia.
Parlachiaro. Dunque anchesso giù su i scogli, o Aristotele. Ma vedo una torma di pesci, tutti dun
colore, spinosi, bruttissimi daspetto, e più aspri a toccare dei ricci. Ci vorria proprio una rete, ma
non cè. Basterebbe se ne prendessimo uno: eh, il più ardito darà certo nellamo.
La Convinzione. Gitta la lenza; ma se credi, assicúravi bene lamo, affinchè non la rompa coi denti
ingoiando loro.
Parlachiaro. È giù. O Nettuno, mandami tosto una buona pésca. Caspita! si azzuffano per lesca:
alcuni stanno a rodere intorno al fico, ed altri si sono attaccati alloro. Bene: ne abbiamo uncinato
uno grosso. Or dimmi tu, che nome hai? Ma che sciocco son io, a voler far parlare un pesce, che son
tutti muti! Dimmi tu, o Convinzione, chi sarebbe il maestro di costui.
La Convinzione. Crisippo.
Parlachiaro. Capisco ora perchè correva alloro.(93) O Crisippo, dimmi, per Minerva, conosci tu
costoro? insegnasti tu a loro di fare quello che fanno?
Crisippo. Con questa dimanda tu mi offendi, o Parlachiaro, che credi che questo canagliume
appartenga a me.
Parlachiaro. Tu se generoso, o Crisippo. Questo anderà giù con gli altri; è pieno di lische, e cè paura
che, mangiandolo, qualcuna si possa attraversar nella gola.
La Filosofia. Basta di questa pésca, o Parlachiaro: chè tra tanti qualcuno potrebbe portarsi via loro e
lamo; e tu dovresti pagarlo alla Sacerdotessa. Onde noi andiamo a passeggiare: voi altri è tempo
dandarvene, per non trapassare il giorno concessovi. Voi due poi, o Convinzione e Parlachiaro,
andate un po attorno, e coronate e marchiate costoro, come vho detto.
Parlachiaro. Così faremo, o Filosofia. Io vi saluto, o i migliori degli uomini. Noi, o Convinzione,
scendiamo giù, ed eseguiamo quello che ci è stato commesso. Ma dove ci converrà andar prima?
comincerem dallAccademia, o dalla Stoa?
La Convinzione. Cominciam dal Liceo.
Parlachiaro. È tuttuno: ti so dire che dovunque anderemo, poche fronti avremo a coronare, molte a
marchiare.
Correzioni apportate al testo
Nota 7: soloikomos = soloikismos
XVI.
IL TRAGITTO,
o
IL TIRANNO.
___
Caronte, Cloto, Mercurio, un Cinico, Megapente, Micillo, alcuni Morti, Tesifone, Radamanto.
Caronte. Ecco qui, o Cloto, la barca è pronta da gran tempo e in ordine per salpare: già la sentina è
votata, drizzato lalbero, spiegata la vela, i remi alle sponde; e non rimane per me di non levar
láncora e sciogliere. Ma Mercurio non viene, e dovrebbe esser qui da un pezzo. Intanto ve, la barca
è vuota di passeggieri, e finora avremmo potuto fare tre viaggi: è quasi vespro, e non abbiamo
ancora buscato un obolo. E poi Plutone mi crede svogliato del dover mio, e non è mia la colpa. Ma
questo bello, questo buon conduttore de morti, forse ha bevuto con essi lacqua di Lete, e sè
dimenticato di tornare: forse si spassa a lottare co giovani, o a sonare la cetera, o a recitar qualche
diceria per far pompa della sua parlantina, o gli è venuto fatto di rubacchiar qualche cosa per via,
chè anche questarte la sa bene egli. Ah! ma si piglia troppa libertà con noi! la mezza giornata egli
deve stare qui.
Cloto. Che sai, o Caronte, se non gli è sopravvenuta qualche faccenda, se Giove non lo ha trattenuto
molto per qualche cosa lassù? Giove gli è pure padrone.
Caronte. Ma non per questo, o Cloto, se ne deve impadronire di troppo: appartiene anche a noi egli;
e quando deve tornarsene non labbiam mai indugiato. La so ben io la cagione: fra noi vè solamente
asfodillo, libazioni funebri, focacce, e qualche altra offerta sepolcrale, il resto tutto è tenebre,
caligine, buio: in cielo per contrario tutto è luce; lambrosia e il néttare non mancano mai, e però gli
piace lo starvi. Quando deve tornarci viene di male gambe catellon catellone.
Cloto. Non ti crucciare più, o Caronte. Eccolo che viene, e ne mena molti, anzi come una mandra se
li caccia innanzi con la verga. Ma che è questo? Uno de morti è legato, un altro ride, ed un altro con
la bisaccia in collo e un bastone in mano con un piglio bieco affretta gli altri a levar le calcagna.
Non vedi anche Mercurio tutto sudato, co piedi impolverati, affannato ed anelante con la bocca
aperta? Che è questo, o Mercurio? perchè tanta fretta? Tu sembri turbato.
Mercurio. E che vuol essere, o Cloto? Per correr dietro a questo scellerato che se nera fuggito, poco
è mancato chio non ci venissi affatto tra voi oggi.
Cloto. Chi è costui? e perchè voleva fuggire?
Mercurio. Il perchè è chiaro, voleva vivere di più. È un re, o un tiranno a quanto lho udito lamentare
o guaiolare, dicendo di aver perduto una grande felicità.
Cloto. E lo stolto fuggiva, come se avesse potuto rivivere, dimenticando che il suo filo era già rotto?
Mercurio. Fuggiva dici? Se questo buon uomo col bastone non mavesse aiutato a prenderlo e
legarlo, forse ci saria scappato. Dacchè Atropo me lha consegnato, ei per tutta la via non ha fatto
altro che resistere, riluttare, pontare i piedi a terra, e proprio non si lasciava menare; e talvolta mi
pregava anche e mi scongiurava che lo dovessi lasciare un momento, e mi faceva grandi promesse:
ma io, come capisci bene, ero sordo, sapendo che non potevo lasciarlo. Quando siam giunti alla
bocca dinferno, mentrio, secondo il solito, annoverava i morti ad Eaco, ed egli ne verificava il conto
su la tessera mandatagli da tua sorella, questo ribaldaccio non so come diamine se lha svignata.
Però mancava un morto al conto; ed Eaco con un viso brusco mha detto: Non fare il ladro anche
qui, o Mercurio: ti basti far questi giuochi in cielo; tra morti si fa conti esatti, e non ci ha nulla da
nascondere. Vedi, mille e quattro sono scritti su la tessera, e tu nhai condotto uno di meno: se pur
non dici che lo sbaglio lha fatto Atropo. Io arrossito a questo rabuffo, tosto mi ricordo dellaccaduto
per via, do uno sguardo intorno, non vedo costui, capisco che se lha battuta, gli corro dietro a furia
per la via che mena alla luce. Mha seguito da sè questuomo dabbene, ed entrambi correndo come
atleti che al segno si spiccano, te lo acchiappiamo vicino al Tenaro: poco è stato che non ci è
fuggito.
Cloto. E noi, o Caronte, dicevamo che Mercurio è uno stracurato.
Caronte. Che più indugiamo? come se non avessimo perduto tempo abbastanza?
Cloto. Dici bene: simbarchino. Io col libro in mano sederò in capo alla scala, e al solito, come
salgono, ricercherò da ciascuno chi è, e donde, e in qual modo è morto. Tu prendili, stívali, e
disponili come puoi. Tu poi, o Mercurio, imbarca prima questi fanciulli: che potrebbero essi
rispondermi?
Mercurio. Eccoli, o barcaiuolo: son trecento, coi trovatelli.
Caronte. Oh, buona preda! Son grappoli dagresto questi morticini.
Mercurio. Vuoi, o Cloto, che dopo questi imbarchiamo glillacrimati?
Cloto. I vecchi dici: sì. Or che debbo dimandare a costoro? ciò che si faceva prima dEuclide?(94)
Voi che passate sessantanni, fatevi qua. Oh, non mi odono: sono insorditi per la vecchiaja. Si dovrà
pigliar di peso anchessi, e metterli dentro.
Mercurio. E questi che dovevano cadere son pure trecento novantotto, tutti molli e maturi, e cotti al
tempo loro.
Cloto. Altro, per Giove. Son grappoli duva passa. Appresso conduci, o Mercurio, i morti di ferite: e
voi ditemi per qual maniera di morte siete venuti qui? Ma no, vi chiamerò a rassegna secondo lo
scritto. Ottantaquattro guerrieri dovevano morir ieri nella Misia, fra i quali Gobare figliuolo di
Ossiarte.
Mercurio. Sono qui.
Cloto. Sette uccidersi per amore, e il filosofo Teagene per una cortigiana di Megara.
Mercurio. Ti stanno vicino.
Cloto. E dove sono quelli che per un regno si sono sgozzati tra loro?
Mercurio. Eccoli qui.
Cloto. E colui che è stato ucciso dalla moglie e dalladultero?
Mercurio. Eccolo.
Cloto. Menaci i giustiziati, dico i flagellati, e i crocefissi. I sedici assassinati dai ladri dove sono, o
Mercurio?
Mercurio. Qui: e vedine le ferite. Vuoi che conduca anche le donne?
Cloto. Sì: e i naufraghi ancora, perchè son morti tuttinsieme, e a un modo. Ed i morti di febbre
anche insieme, ed il medico Agatocle con essi. Ma dovè il filosofo Cinico che doveva mangiare una
cena dEcate, un uovo lustrale,(95) una seppia cruda, e morire?
Il Cinico. Egli è un pezzo chio son qui, o buona Cloto. Che male feci io che mhai lasciato su per
tanto tempo? Hai filato per me quasi tutto il fuso: spesso ho provato di rompere il filo e venirmene,
ma non mi è riuscito mai di spezzarlo.
Cloto. I ti lasciava perchè tu fossi il censore e il medico dei falli degli uomini. Entra ora con la
buona fortuna.
Il Cinico. Sì: ma non prima che abbiamo fatto entrare costui che è legato: perchè temo che non te ne
dica tante egli che tinfinocchi.
Cloto. Chi è costui?
Mercurio. Il tiranno Megapente, figliuolo di Lacide.
Cloto. Sali tu.
Megapente. Deh no, o Cloto regina: lascia chio risalga per poco su la terra: io tornerò da me senza
chiamata.
Cloto. E per qual cagione vuoi tu risalire?
Megapente. Permettimi chio finisca prima il mio palagio, che ho lasciato a mezzo.
Cloto. Tu scherzi: via, imbárcati.
Megapente. Non ti chiedo assai tempo, o Parca: un giorno solo per dir qualche cosa a mia moglie
delle ricchezze mie, dove nho infossato un gran tesoro.
Cloto. Bah! non è possibile.
Megapente. E tantoro sarà perduto?
Cloto. Perduto no; non dubitare di questo. Megacle tuo cugino se lo torrà.
Megapente. Oh dispetto! il nemico mio chio per sciocchezza non uccisi?
Cloto. Egli: e vivrà dopo te quarantanni e più, e si goderà le donne tue, e le vesti, e tutti i tesori tuoi.
Megapente. O ingiusta Cloto, che dài le ricchezze mie ai più nemici miei.
Cloto. E tu non le togliesti a Cidimaco, tu, e luccidesti, dopo di avergli sgozzati i figliuoli innanzi
agli occhi?
Megapente. Ma ora erano mie.
Cloto. Il tempo di goderne era passato per te.
Megapente. Odimi, o Cloto; voglio dirti una cosa in disparte: allontanatevi per poco voi. Se mi lasci
fuggire i ti prometto di darti oggi mille talenti doro coniato.
Cloto. O stolto, ed ancora pensi alloro ed ai talenti?
Megapente. Vaggiungerò, se vuoi, due crateri, quelli che presi quando uccisi Cleocrito, chè pesano
ciascuno cento talenti doro fine.
Cloto. Strascinatelo, che costui pare non si voglia imbarcare.
Megapente. Deh, vi scongiuro, mi resta a compiere larsenale e un muro: lavrei fatto se fossi vissuto
soli cinque altri giorni.
Cloto. Non pensarvi: altri murerà.
Megapente. Almeno questo concedimi che è ragionevole.
Cloto. Che?
Megapente. Rivivere quanto mi basti a soggiogare i Pisidi, imporre un tributo ai Lidii, e rizzarmi un
gran monumento, sul quale scrivere le cose grandi e guerresche chio feci mentre vissi.
Cloto. Oh, adesso non chiedi più un giorno, ma un ventanni.
Megapente. Son pronto a darvi anche mallevadore pel mio presto ritorno: se volete, vi darò in
ostaggio per me il mio figliuolo diletto.
Cloto. Oh, scellerato! quel figliuolo che desideravi tanto di lasciare dopo di te su la terra?
Megapente. Una volta desideravo questo, ora penso al mio meglio.
Cloto. Verrà con te anchegli fra poco, ucciso dal novello re.
Megapente. Almeno una cosa sola non mi negare, o Parca.
Cloto. Quale?
Megapente. Vorrei sapere dopo di me che cosa succederà.
Cloto. Odilo, acciocchè più te ne dolga. Mida tuo servo si piglierà tua moglie, con la quale già
trescava.
Megapente. Lo scellerato, che io affrancai a preghiere di lei!
Cloto. La tua figliuola sarà tra le concubine del novello tiranno: le immagini o le statue che che città
ti ha rizzate, saranno rovesciate e derise da quanti le vedranno.
Megapente. Dimmi, e nessuno de miei amici si sdegnerà per questinsulti?
Cloto. E chi tera amico? e per qual cagione uno poteva esserti amico? Non sai che tutti coloro che
tadoravano e lodavano tutti i detti e i fatti tuoi, lo facevano per timore o per isperanza, amavano il
potere e si accomodavano ai tempi?
Megapente. Eppure nelle libazioni che facevano nei banchetti a gran voce mi pregavano ogni bene,
ciascuno si offeriva di morire per me, e giuravano nel mio nome.
Cloto. E ieri cenando in casa di uno di essi tu moristi. Lultima tazza che ti fu pôrta a bere, quella ti
mandò quaggiù.
Megapente. Però vi sentivo un certo amarore: ma perchè mi fece questo?
Cloto. Or vuoi saperne troppe: dovresti già essere in barca.
Megapente. Una cosa mi tormenta assai, o Cloto, per la quale vorrei riveder la luce, fossanche per
un momento.
Cloto. E qual è? pare che sia una cosa grande.
Megapente. Carione mio servo, come mi vide morto iersera, montò nella camera dove io ero steso
nel cataletto, e non essendovi nessuno che mi guardasse, egli vi menò Glicerina mia concubina, con
la quale già se la doveva intendere prima, e serrata la porta, se la godette, come se lì dentro non ci
fosse stato nessuno. E poichè si fu sollazzato abbastanza, voltosi a me: E tu, dice, o pezzo di
scellerato, mhai fatto dare tante nerbate ingiustamente. E così dicendo mi strappava la barba, mi
percoteva tutto il volto, e in fine tirandosi uno sputacchio dal profondo del petto me lo sputò in
faccia, e, Vattene a casa de dannati, disse, e se nandò. Io ardevo di sdegno, ma non avevo che fargli,
essendo lì freddo e stecchito. La malvagia donna come al romore saccòrse che veniva qualcuno,
ungesi gli occhi con la saliva, e facendo le viste di piangere, di gemere, e di chiamare il nome mio,
andossene. Oh, se li avessi in mano....!
Cloto. Smetti dalle minacce, e monta. È tempo di presentarti al tribunale.
Megapente. E da chi potrà esser giudicato un tiranno?
Cloto. Un tiranno da nessuno, ma un morto da Radamanto: e tosto vedrai come egli è giusto, e come
dà a ciascuno la pena secondo il merito. Ma orsù, sbrígati.
Megapente. Fammi anche privato, o Parca, fammi mendico, fammi anche servo, di re chio ero; ma
lasciami tornare in vita.
Cloto. Dovè colui col bastone? Pigliatelo pe piedi, o Mercurio, e strascinatelo dentro: chè da sè non
ci verrà.
Mercurio. Vieni qui, o malvagio fuggitivo. Afferra, o Caronte, questo ribaldo, e per maggior
cautela....
Caronte. Non pensarci: lo legherò allalbero.
Megapente. Almen debbo sedere al primo posto io.
Cloto. E perchè?
Megapente. Perchè, per Giove! ero re io; e avevo mille guardie intorno a me.
Cinico. E non aveva ragione Carione di strapparti la barba? stolto! Ti farò ora re di bastoni quando
avrai provato questo.
Megapente. E un cane di Cinico ardirà di levar la mazza sopra di me? E tu non ricordi, o Cinico,
che pel tuo ardito ed insolente parlare poco mancò chio non ti facessi impalare?
Cloto. Ed ora statti legato tu al palo.
Micillo. Di, o Cloto, e a me non si bada, eh? Forse perchè son povero, però debbo imbarcarmi
lultimo.
Cloto. E chi sei tu?
Micillo. Il ciabattino Micillo.
Cloto. E sì forte ti spiace il ritardo? Non vedi quante promesse fa questo tiranno per ritornare per
poco in vita? Mi maraviglio che hai tanta fretta.
Micillo. Odimi, o buona Parca. Non troppo mi vanno a sangue a me i doni del Ciclope, e quella
promessa, allultimo io mangerò Nessuno: chè o primo o ultimo quei denti mi aspettano. E poi tra
me e i ricchi non cè nessuna somiglianza; la vita mia è il rovescio della loro. Questo tiranno che si
teneva felice nella vita sua, e da tutti era temuto e riverito, lasciando tantoro, e argento, e vesti, e
cavalli, e banchetti, e zanzeri, e belle donne, ragionevolmente saddolora e non può sopportare
desserne strappato. Chè lanima sattacca a queste cose, come ad un vischio, e non se ne vuole
staccare facilmente, come quella che vè incollata da molto tempo: anzi coloro che hanno un sì dolce
legame, credono che non se ne scioglieranno mai, e quando ne sono disvelti per forza, piangono e
pregano, non sono più superbi, e li trovi tutti vigliacchi nello scendere la via dellinferno. Onde si
volgono indietro, come gli amanti disperati, e da lunge riguardano le cose che sono nella luce, come
faceva questo sciocco che per la via se nè fuggito, ed ora ti noiava con tante preghiere. Ma io che
non aveva niente di buono nella vita, nè campi, nè case, nè oro, nè arnesi, nè gloria, nè immagini,
naturalmente io ero pronto a lasciarla: e ad un sol cenno di Atropo, ho gettato allegramente la lesina
e lo spago (chè aveva per mano una scarpetta), e saltando così scalzo come mi trovavo e senza
neppur lavarmi la faccia, io lho seguita, anzi lho preceduta, guardandomi sempre innanzi, perchè
dietro niente mi richiamava nè mi faceva rivolgere. Per Giove! io vedo che tra voi si sta meglio
assai. Lesser tutti eguali, e nessuno differire da un altro, parmi una consolazione grande. E credo
che nessuno cè perseguitato per debiti, e non si paga imposte: e il meglio è che non si sente freddo,
non si cade malato, non si è battuto dai prepotenti. Che pace, che felicità! rovescio di quel
mondaccio: qui noi poveri diavoli ci ridiamo, e i ricchi ci piangono.
Cloto. Infatti da molto tempo io tho veduto ridere, o Micillo: che cosa ti moveva il riso?
Micillo. Dirottelo, o mia veneratissima dea. Lassù abitando io vicino al tiranno, e rimirando tutto
ciò che gli era intorno, io lo credevo essere eguale ad un dio. Beato lui, dicevo, vedendolo vestito
del fior della porpora, seguito da tante genti, in palazzo sfoggiato doro, con vasellame tempestato di
gioie, con letti co piè dargento: lodore delle vivande apprestate pe suoi banchetti mi faceva venir
lacquolina: ondei mi pareva un uomo sovrumano e strafelicissimo, e quasi più bello e più alto degli
altri un buon cubito: levato in alto dalla fortuna, camminava superbo, pettoreggiavasi, metteva
paura e reverenza in tutti. Ma poi che morì, oh! quanto mi parve ridicolo, dispogliato di quello
sfarzo! anzi quanto risi di me stesso che allibivo innanzi a questo verme, giudicandolo felice dal
fumo delle sue vivande, e dalle sue vesti tinte nel sangue delle conchiglie del mar di Laconia. E
ridevo non solo per costui, ma per lusuraio Guifone vedendolo piangere e pentirsi che non si ha
goduto le sue ricchezze, e senza neppur toccarle se nè morto, lasciando tutto il suo allo scapestrato
Rodocare, che gli era il più stretto parente e dalla legge chiamato a succedergli. Nè posso finire le
risa, specialmente quando mi ricordo come egli era giallo e lurido, e sempre pensava e strolagava,
ricco alle sole dita, con le quali contava i talenti e le miriadi, raccogliendo a poco a poco una
ricchezza, che in breve il fortunato Rodocare dovrà sparpagliare. Ma perchè non si parte, noi? Nel
tragitto avremo altro da ridere udendo lamentar costoro.
Cloto. Imbárcati: acciocchè il navicellaio levi láncora.
Caronte. Dove vai tu? La barca è già piena. Rimanti costà: dimani per tempo ti passerò.
Micillo. Questa è uningiustizia, o Caronte, lasciar qui un morto di ieri che già pute: io taccuserò a
Radamanto. Misero me! se ne vanno, ed io rimango solo qui. E perchè non mi gitto a nuoto
appresso a loro? Che posso farmi? affogare per istanchezza, sio son morto? E poi i non ho neppure
lobolo pel nolo.
Cloto. Che fai? Aspetta, o Micillo: non è lecito che tu passi così.
Micillo. Oh, io forse arriverò prima di voi.
Cloto. No, no: avviciniamoci noi, prendiamolo: e tu, o Mercurio, tiralo su.
Caronte. Dove si mette ora? Vedete che ogni cosa è pieno.
Mercurio. Su le spalle del tiranno.
Cloto. Mercurio lha pensata bene.
Caronte. Sali, dunque, e metti i piè sul collo di questo scellerato. Andiamo col buon viaggio.
Il Cinico. O Caronte, i debbo dirti il vero. Io non ho lobolo pel nolo: non posseggo altro che questa
bisaccia e questa mazza, ma se vuoi che taiuti ad aggottare son pronto, e anche vogare, e se mi dài
un buon remo non sarai scontento di me.
Caronte. Remiga: mi basta averne questo da te.
Il Cinico. E si può dire una canzoncina allegra?
Caronte Sì, per Giove, se ne sai alcuna marinaresca.
Il Cinico. Ne so tante, o Caronte. Ma odi questi piagnoni che cantano in altro tuono, e ci
guasterebbono il canzoncino nostro.
Un morto. Ohimè, le possessioni mie!
Un altro. Ohimè, i campi miei!
Un altro. Povero me! che bella casa ho lasciata!
Un altro. Uh! quanti talenti saranno dispersi dal mio erede!
Un altro. Ahimè, ahimè! poveri figliuoletti miei!
Un altro. Chi vendemmierà la vigna mia, chio piantai lanno passato?
Mercurio. E tu, o Micillo, non piangi? Non è permesso ad alcuno trapassar senza piangere.
Micillo. Bah!, io non ho cagione di piangere: il tragitto è sì bello!
Mercurio. Ma via, un tantino: è uso, e si dee osservare.
Micillo. Tu il vuoi, ed io piango. Oh, i miei correggiuoli! uh, le ciabatte vecchie! uh, le scarpe rotte!
Misero me, che non sto più digiuno da mane a sera; e dinverno non vado più per le vie scalzo e
mezzo nudo, e battendo i denti pel freddo. Chi si piglierà la mia lesina, e il mio trincetto?
Mercurio. Cessate i pianti: già siamo a riva.
Caronte. Su via, pagatemi prima il nolo: anche tu. Orbè: ciascuno ha pagato: dammi lobolo anche
tu, o Micillo.
Micillo. Tu scherzi, o Caronte: tu scrivi su lacqua se aspetti lobolo da Micillo: io non ho saputo mai
se lobolo è tondo o quadro.
Caronte. Bel tragitto e lucroso oggi! Ma smontate: io vado a prendere cavalli, buoi, cani, ed altri
animali che debbono anchessi passare.
Cloto. Conduci costoro, o Mercurio: io torno allaltra sponda per menar via Indopatre ed Eramitre
Sericani, scannatisi tra loro combattendo pei confini de loro paesi.
Mercurio. Andiamo innanzi, voi altri: anzi seguitemi tutti quanti.
Micillo. O Ercole, e che scuro! Dove è ora il bel Megillo? E come distinguere se Frine è più bella di
Simmiche? Qui tutti hanno una faccia ed un colore, e non ci ha belli e non belli. Questo mio
mantellaccio, che già mi pareva così brutto, è come la porpora del re: tuttaddue non si vedono, e
stanno al buio. Dove se tu, o Cinico?
Il Cinico. Son qui, o Micillo: andiamo insieme, se vuoi.
Micillo. Sì: e dammi la mano. Dimmi (chè tu se stato iniziato, o Cinico) tutto questo non ti pare
simile a quello che si fa lì?
Il Cinico. Dici bene: ed ecco venire una donna con una face in mano e con occhi terribili e
minacciosi: fossella unErinni?
Micillo. Pare allaspetto.
Mercurio. Prenditi costoro, o Tisifone: son mille e quattro.
Tisifone. Da molto tempo Radamanto vaspetta.
Radamanto. Conducili qui, o Erinni. E tu, o Mercurio, fa il banditore, e chiamali ad uno ad uno.
Il Cinico. O Radamanto, ti prego per tuo padre, esamina me prima.
Radamanto. E perchè?
Il Cinico. Voglio accusare uno, che so le malvagità che ha fatto nella vita sua. I non sarei degno di
fede se prima non si chiarisse chi son io, e come vissuto.
Radamanto. E chi se tu?
Il Cinico. Un filosofo Cinico.
Radamanto. Vieni qui, e sii primo alla disamina. Tu, o Mercurio, chiama tu gli accusatori.
Mercurio. Chi vuole accusar questo Cinico, si presenti.
Radamanto. Nessuno si presenta. Ma questo non basta, o Cinico: spógliati, acciocchè io tosservi i
marchi.
Il Cinico. E quando mai sono stato marchiato io?
Radamanto. Quante malvagità ciascuno di voi commette nella vita, tanti marchi invisibili egli porta
su lanima.
Il Cinico. Eccomiti nudo: ricerca cotesti marchi che tu di.
Radamanto. Sei tutto mondo, eccetto questi tre o quattro piccioli e quasi invisibili marchi. Ma che è
questo? Son tracce e segni di fuoco: i non so come lhai scancellate e rase. Come va questo, o
Cinico; e come se tornato sì mondo?
Il Cinico. Dirottelo. Un tempo io ero cattivo per ignoranza, e mi acquistai di molti marchi, ma
subito che cominciai a filosofare, a poco a poco mi lavai lanima da ogni macchia.
Radamanto. Hai adoperato un buono ed efficace rimedio. Vattene ora nelle isole de beati in
compagnia de buoni, dopo di aver accusato questo tiranno. Chiama gli altri tu.
Micillo. Sbrígati anche di me, o Radamanto: non ci vuol disamina troppo lunga. Io già son nudo:
riguardami.
Radamanto. Chi sei?
Micillo. Il ciabattino Micillo.
Radamanto. Bravo, o Micillo: tu se purissimo e senza una macola: vattene anche tu con questo
Cinico. Chiama ora il tiranno.
Mercurio. Megapente figliuolo di Lacide venga innanzi. Dove vai? Vieni qui. A te dico, o tiranno.
Radamanto. Afferralo pel collo, o Tisifone, e menalo qui a forza. Accusalo, e convincilo, o Cinico:
eccolo qui costui.
Il Cinico. I non dovrei dire neppure una parola, perchè tu saprai tosto chi è costui guardandogli i
marchi; ma pure a svelarti e a mostrarti più chiaro che uomo fu egli, gioverà un po di discorso.
Lascio stare ciò che fece questo scelleratissimo quandera privato: ma poi che si fu accerchiato di
arditi cagnotti e di satelliti, e si fu levato contro la città, e fattosene tiranno, uccise senza giudizio
più di diecimila cittadini per rapirsi i loro averi; e pervenuto alla più alta fortuna, si disfrenò a tutte
le ribalderie: crudele e ingiurioso contro i miseri cittadini, sforzava le vergini, svergognava i
garzoni, teneva coi sudditi i modi dun ubbriaco. Della sua superbia, della sua insolenza, della sua
ferocia contro chiunque gli veniva innanzi, non potrebbe averne pena bastante: più facilmente si
saria guardato nel sole senza batter palpebra, che in faccia a costui. E chi potria contarti i nuovi e
crudeli tormenti che egli inventava, e che non risparmiava neppure ai suoi parenti? E che io non
dica contro di lui una vuota calunnia, potrai conoscerlo tosto se chiamerai coloro che egli ha uccisi:
ma senza chiamarli, eccoli che gli stanno intorno, e vorrebbono strangolarlo. Tutti costoro, o
Radamanto, morirono per mano di questo sozzo ribaldo; caduti in insidie chi perchè aveva bella
moglie, chi perchè non voleva prostituirgli i figliuoli, chi perchè era ricco, chi perchè era savio ed
onesto e non approvava quelle infamie.
Radamanto. A questo che rispondi, o scellerato.
Megapente. Le uccisioni che egli dice, le ho fatte: ma tutte le altre cose, gli adulterii, gli stupri, gli
sverginamenti, sono tutte bugie che il Cinico dice per accusarmi.
Il Cinico. Ed anche di questi, o Radamanto, io ti darò testimoni.
Radamanto. Quali testimoni?
Il Cinico. Chiamami, o Mercurio, il Letto suo e la Lucerna. Verranno essi a far testimonianza di ciò
che gli hanno veduto fare.
Mercurio. Il Letto e la Lucerna di Megapente vengano qui. Eccoli che ci sono.
Radamanto. Diteci dunque voi ciò che sapete di Megapente: parla tu prima, o Letto.
Il Letto. Son tutte vere le accuse del Cinico. Se lho a dire io, o Radamanto, i me ne vergogno: assai
brutte cose furono fatte sovra di me.
Radamanto. Tu dici troppo chiaro ciò che ti vergogni di dire. Rendi ora, o Lucerna, la testimonianza
tua.
La Lucerna. Io non ho veduto ciò che è stato di giorno, perchè non cero: ma di notte ciò che egli ha
fatto ed ha patito io non ardisco dirlo. Ho veduto assai cose, e nefande, e che passano ogni orrore.
Spesso volevo spegnermi da me, e bevendo poco olio facevo picciol lume, ed egli mi avvicinava
alle sue brutture, e in ogni modo contaminava la mia luce.
Radamanto. Basta di questi testimoni. Spógliati la porpora affinchè vediamo il numero de marchi.
Oh, questo è tutto livido e dipinto, anzi tutto nero di marchi. E qual pena è da lui? Tuffarlo nella
fiumana del fuoco, o darlo a sbranare a Cerbero?
Il Cinico, No: ma se vuoi ti proporrò io una nuova pena che gli starà bene.
Radamanto. Di pure, chio te ne saprò grado.
Il Cinico. È uso che tutti i morti bevano lacqua di Lete?
Radamanto. Tutti.
Il Cinico. Dunque egli solo non ne beva.
Radamanto. E perchè?
Il Cinico. Così avrà una pena terribile, ricordandosi chi era egli e quanto poteva lassù, e ripensando
sempre ai piaceri perduti.
Radamanto. Ben dici: sabbia questa pena. Sia menato vicino a Tantalo costui, sia legato, e ricordi
sempre ciò che ha fatto nella vita.
XVII.
DI QUEI CHE STANNO COI SIGNORI.
Donde cominciare, e dove finire, o amico mio, per contarti quante cose convien fare e patire a quelli
che stanno a mercede, e cercano l'amicizia di questi grandi signori, se amicizia deve chiamarsi la
loro servitù? Io conosco gran parte, anzi quasi la maggior parte delle cose che loro intervengono,
non per averle provate io (chè non ebbi mai questa necessità, e prego gl'Iddii di non averla
giammai), ma perchè molti caduti in questa mala vita me l'hanno raccontate: alcuni, essendovi
ancor dentro, mi narravano deplorando quali e quante cose pativano; ed altri, come scappati da un
carcere, non senza piacere ricordavano ciò che avevano sofferto, rallegrandosi a ripensare donde
s'erano liberati. Più degni di fede erano costoro, passati, per così dire, per tutti i gradi di questi
misteri, e veduto ogni cosa dal principio alla fine. Onde io non senza curiosità ed attenzione li
ascoltavo narrarmi come un loro naufragio, ed un impensato salvamento, a guisa di quelli che
innanzi ai templi, con la testa rasa, ci raccontano i gran cavalloni, e le tempeste, e i scogli, e il
gettito delle robe, e gli alberi fiaccati, e i timoni schiantati, e infine l'apparizione dei Dioscuri (chè il
miracolo non può mancare) o di qualche altro iddio, che si poggia sulla gabbia, o siede al timone, e
dirizza la nave ad un lido molle, dove urtando nell'arena sfasciasi a poco a poco, ed essi sbarcano
salvi per grazia e benignità del Dio. E con la voce o coi gesti aggrandiscono queste cose per il
bisogno che hanno, per buscare da più persone, sembrando di essere non pure sfortunati, ma gente
timorata e buona. Così anche quelli mi narravano le burrasche, e i cavalli, e cavalloni, che sono
nelle case dei grandi: e come, quando s'imbarcarono, il mare pareva in bonaccia; e poi quanti
travagli sostennero per tutta la navigazione, e sete, e vomito, e il fiotto che soverchiava e non si
poteva aggottare; ed infine come ad uno scoglio sott'acqua, o ad una roccia sporgente ruppesi la
misera navicella, ed i poveretti appena si salvarono a nuoto nudi e mendichi. Eppure in questo
racconto parevami che essi per vergogna mi nascondessero molte cose, e volessero proprio
dimenticarsene; ma io, e queste ed alcune altre raccogliendone dai loro stessi discorsi, conosco bene
i mali che sono in questo stato, e tutti voglio narrarteli, o mio buon Timocle; perchè credo di aver
capito che tu da molto tempo vai pensando di darti a questa vita. Già quando cadeva il discorso su
questi tali, e alcuno della brigata ne lodava la condizione, dicendo: che felicità è quella! avere per
amici i più grandi signori romani, cenar cene suntuose e a macco, abitare bei palazzi, viaggiare con
tutta comodità e piacere, e sdraiato in una carrozza tirata da cavalli bianchi, e di più per
quest'amicizia e per queste dolcezze avere una mercede non piccola! veramente per costoro la terra
senza arare e senza seminare produce tutti i beni! quando adunque tu udivi di siffatti discorsi, ti
vedevo venir l'acquolina, e stare con la bocca aperta per pigliar l'esca. Affinchè un giorno tu non
abbi ad incolparne me, e a dire, che vedendoti imboccare quest'amo inescato io non ti ho trattenuto,
nè prima che linghiottissi te l'ho cavato, nè ti ho ammonito innanzi, ma sono rimasto a vedere che
ficcatosi ed appiccatosi ti tirasse e trascinasse necessariamente, standomi a compiangerti senza pro:
acciocchè un giorno tu non possa dir questo, che sarebbe ragionevole se tu me lo dicessi, ed a cui
non avrei che rispondere se non ti avessi avvertito prima, ascolta da principio ogni cosa. Questa
rete, questa nassa senza uscita, prima che vi t'impigli dentro, riguardala bene di fuori come è fatta: e
quest'amo uncinato, con questi raffi rivolti in su, con queste tre punte aguzze,(96) piglialo in mano,
e tenta di avvicinartelo all'aperta mascella: se non senti che queste punte sono acute, inevitabili,
dolorose, che ti lacerano e ti tirano senza potervi fare difesa, dammi del vile, e però del miserabile;
e tu fa' cuore a te stesso, scágliati pure alla preda, come laro, che a bocca spalancata inghiotta tutta
l'esca.
È scritto questo discorso principalmente per te: pure potrà essere utile non solamente a voi altri che
filosofate, ed a quei che coltivano gravi studi, ma ai grammatici ancora, ai retori, ai musici, a quanti
insomma per un loro sapere affiancano i grandi e ne ricevono mercede. Ed avvenendo quasi le
stesse cose a tutti, è chiaro che non diversa ma più vergognosa è la condizione dei filosofi, se essi si
mettono in una riga con gli altri; e se i signori non li trattano punto meglio. Però qualunque
spiacevolezza mi verrà detta in questo discorso ne avrà colpa prima chi la fa, poi chi se la soffre,
non io, se pure la verità e la franchezza non merita pena. Per l'altra turba dei frustamestieri, degli
adulatori, degli omiciattoli di poco animo e poco conoscere, non vale la pena di sprecar tempo a
persuaderli, chè non si persuaderiano mai; e neppure sta bene biasimarli che non lasciano chi li
prezzola, ancorchè ne ricevano grandissime ingiurie, perchè essi sono fatti a posta per questo, sono
degni di questa condizione, nè saprebbero mostrar valore in altro, e se li togli da questo, non han
che fare e sono soverchi al mondo. Non è dunque una vergogna per loro, non è un offesa per essi, se
i signori pisciano in un orinale, come si dice; ché per essere adoperati a questa vergogna essi
entrarono in casa i signori, e larte loro è portare e tenersi ogni cosa. Conviene dolersi per quegli
uomini istruiti, di che ho detto innanzi, e tentare quanto è possibile di svolgerli e tornarli a libertà.
Or io credo che farò bene, se prima esaminate le cagioni che muovono costoro ad abbracciar questa
vita, mostrerò che le non sono nè forti nè necessarie: così sarà tolto loro ogni appicco a difesa, e il
primo argomento per iscusare la loro volontaria servitù. Molti mettendo innanzi la povertà ed il
bisogno del necessario, credono di potere con questo velo ricoprire la loro viltà che li fa rifuggire a
questa vita; stimano che lor basti il dire che fanno una cosa scusabile cercando di fuggire dal più
grave di tutt'i mali, la povertà: e subito citano quei versi di Teognide:
L'uom che di povertà sente le strette....(97)
e quante altre vigliaccherie ignobilissimi poeti spacciarono intorno alla povertà. Se io vedessi che
trovano veramente uno scampo dalla povertà allogandosi a mercede, alzerei la mano e non parlerei
di libertà con loro; ma giacchè quella miseria che ricevono è (come dice il grande oratore) simile al
cibo che si dà agli ammalati, che non li risana né li fa morire; come non si accorgono che ei sono
ingannati, rimanendo sempre la stessa la condizione della loro vita? Povertà sempre, sempre
necessità di ricevere, niente poter riporre, niente di risparmio nel salvadanaio, ma quel che ti si dà,
se pur ti si dà, se pur lo ricevessi a puntino, tutto vassene pe' tuoi bisogni, e non resta un obolo.
Bisognerebbe escogitare un mezzo non che facesse rimanere la povertà, medicandola solamente un
po', ma che la sradicasse: e per questo forse converrebbe, o Teognide mio, precipitarsi, come tu
dici, in un mar pieno di mostri, e dalla cima d'un aereo scoglio. Ma se uno sempre povero, sempre
bisognoso, sempre alla mercede altrui, crede così di sfuggire la povertà, io non so come ei non
s'avvede che canzona sè stesso.
Altri dicono che essi non temerebbono nè si spaurirebbono della povertà, se potessero lavorare
come tutti gli altri e procacciarsi il vitto; ma trovandosi col corpo travagliato dalla vecchiaia o dai
malanni, si acconciano a questa vita che è più facile per loro, e ci hanno un soldo. Vediamo un po'
se dicono il vero, se la è più facile, e se per quel soldo non faticano molto, e più degli altri. Saria
una bella cosa senza fatica e senza affanni pigliarsi i bezzi pronti e sonanti: ma non è neppure a
dire: e tante fatiche ed affanni ci ha in questo stato, che però specialmente bisogna più valida salute,
perchè sono infiniti, e logorano il corpo ogni giorno, e riducono all'ultima disperazione. Io ne
parlerò più opportunamente appresso, dove dirò delle altre loro molestie. Per ora mi basta l'avere
accennato che neppure quelli che dicono di essersi venduti per questa cagione, dicono il vero. Il
verissimo è quello che essi non dicono affatto, che il piacere li tira, che molte e grandi speranze li
fanno ficcare nelle case dei signori, che ammirano la gran copia dell'oro e dell'argento, che
ripongono la felicità nei banchetti e nelle morbidezze, che vorrebbero torsi una gran satolla di
quell'oro, senza che nessuno lor turasse la bocca. Questo li muove, e di liberi li fa servi; non il
bisogno del necessario, che essi dicono, ma il desiderio del non necessario, e la passione di quelle
grandezze. Onde costoro sono come un mal gradito e sfortunato amatore che cápita a mano d'un
zanzero scaltrito e mariuolo, il quale gli favella superbo, e solamente per tenerlo sempre acceso gli
fa qualche carezza, ma compiacerlo no, neppure d'un bacio, perchè sa che godimento spegne amore:
e in questo sta sempre sul niego e tiene il fermo; pure gli dà qualche speranza, perchè teme che la
disperazione non gli faccia passare il desiderio e l'amore, gli sorride, gli promette sempre che farà,
lo contenterà, lo compenserà generosamente. Così senza avvedersene entrambi invecchiano, e passa
stagione l'uno di amare, e l'altro di dare: sicchè in tutta la loro vita non hanno fatto niente più in là
di sperare. Sofferire ogni cosa per amor del piacere forse non è del tutto da biasimare, ma da
compatire se uno gode del piacere, e lo va cercando con ogni mezzo per conseguirlo: quantunque
sia cosa turpe e servile il vendersi per questo, chè molto più dolce è il piacere della libertà, pure gli
si abbia una certa indulgenza, se ei l'ottiene. Ma per la sola speranza del piacere sofferire molte
amarezze parmi una cosa ridicola e matta; mentre si vede che le fatiche sono chiare, manifeste,
necessarie, e quella speranza, quella dolcezza non si è gustata mai in tanto tempo, e a farci bene i
conti pare che non si gusterà giammai. I compagni di Ulisse avendo mangiato di un dolce loto, si
scordarono d'ogni altra cosa, e per l'attuale dolcezza spregiarono onestà; eppure non è del tutto
irragionevole il loro obblio, essendo l'anima attaccata a quel dolce. Ma che uno affamato stia vicino
ad un altro che s'empie del loto e non gliene dà briciola, che rimanga lì impalato per la sola
speranza di gustarne pure una volta, ed intanto si dimentichi del giusto e dell'onesto, l'è cosa matta e
veramente degna delle bastonate omeriche.
Queste, o simili a queste, sono le cagioni che muovono costoro a mettersi ai capricci de' ricchi; se
pur non si vuole che io faccia menzione di altri che per sola boria, affiancano magnati e porporati: e
sì, ci ha di quelli che han questo fumo per parere da più degli altri. Io per me non vorrei stare
neppur con l'Imperatore nè farmegli vedere a fianco, se non ne avessi a godere alcun bene.
Ma meniamolo buono questo motivo, e vediamo ora fra noi che sopportano costoro prima d'essere
ammessi a tanta fortuna, che patiscono quando l'hanno ottenuta, ed in ultimo come va a finire il loro
dramma. Non è a dire: è una cosa così di niun conto, dunque conseguibile, e di non molta fatica:
basta pur volere, e tutto è fatto. Altro! Molto devi andare e venire, e star di sentinella innanzi la
porta del Signore, levandoti per tempissimo, e tollerare le spinte di un portinaio, che ti sbatte la
porta in faccia, e talvolta ti dice mezzo in siro, che sei uno sfacciato, e l'hai fradicio; e déi
raccomandarti ad un nomenclatore libico, e dargli un sottomano acciocchè si ricordi del nome tuo.
Ti bisogna pensare ad una veste, che le tue forze non ponno, conveniente al signore che corteggi; e
scegliere un colore che a lui piaccia per non far dissonanza e parer brutto se ei ti guarda: affannarti
a seguirlo o piuttosto a precederlo tra le pigiate e gli spintoni d'una processione di familiari. Egli
neppure ti getta uno sguardo per molti giorni: ma se una volta avrai l'alta ventura che egli ti guardi,
e ti chiami, e ti dimandi così d'una baia, allora, oh allora i gran sudori, il continuo capogiro, un
maladetto tremito, e le risate degli astanti per la tua confusione: e spesso ei ti dimanda: chi era il re
degli Achei? e tu rispondi: erano mille navi. Questo i buoni chiamano vergogna, gli arditi
timidezza, i maligni ignoranza. Tu dunque avendo fatto questo primo e pericoloso esperimento
della sua bontà, te ne vai condannando te stesso che ti se' tanto smarrito. Ma poichè
Avrai vegliate molte notti insonni,
E sanguinosi giorni
avrai passati, non per Elena nè per Troia di Priamo, ma per la speranza di cinque oboli; ed un
qualche iddio che ti voglia bene ti avrà raccomandato, ecco allora un esame se conosci la scienza.
Questa occupazione non dispiace al ricco, che v'è lodato e piaggiato: a te pare che ti sia proposta
proprio la questione dell'anima e della vita universale; perchè ti viene naturalmente il pensiero che
non sarai ricevuto neppure da altri, essendo riprovato dal primo e tenuto per non buono. Eccoti
mille palpiti, invidiare a quelli che si esaminano con te (poni che abbi de' competitori), credere che
manchi qualcosa a ciò che dici, temere, sperare, guardare in faccia a lui, e, se egli disapprova una
parola, tenerti perduto; se ascolta sorridente, stare lieto e con buone speranze. È facile che ci sieno
molti che ti vanno contra, che mettano innanzi un altro in vece tua, e ciascuno di costoro sta come
in agguato per coglierti. Immagina poi un uomo con lunga barba e capelli canuti esaminato se ei sa
qualche cosa di buono, e chi crede che ei sa, e chi no. Intanto passa altro tempo, si pigliano esatte
informazioni su tutta la tua vita passata: e se qualche tuo paesano per invidia, o qualche vicino
offeso per cagionuzze da niente, dimandato di te, dice che tu sei un adultero o un pederasta, egli è
un testimonio degno di fede come una tavola del tempio di Giove; e tutti quanti gli altri che ti
lodano sono sospetti, dubbii, indettati. Ti ci vuole una gran fortuna, e niente andarti contrario; chè
solo così la spunterai.
Ma via, abbila questa fortuna, e maggiore che non la speravi: egli ha lodato il tuo discorso; i suoi
intimi, al cui giudizio in queste cose ei più s'affida, non l'hanno dissuaso: ed ancora la moglie vuole,
e il sopraintendente non s'oppone, nè il maggiordomo; nessuno ha intaccata la tua vita passata, tutto
t'è riuscito felicemente, tutti sono contenti. L'hai vinta adunque, o fortunato; hai avuta la corona di
Olimpia, anzi hai preso Babilonia, o espugnata la cittadella di Sardi; ed avrai il corno d'Amaltea, e
mungerai il latte degli uccelli. Dopo tante fatiche, oh! quanti gran beni devi avere, acciocchè la
corona non sia di sole fronde; stabilito un bel soldo, che ti si snoccioli al punto e senza intoppo;
onorato più degli altri in casa; quell'affacchinarsi, quell'infangarsi, quell'andare e venire, quel
vegliare è finito: puoi startene, come desideravi, disteso lungo lungo nel letto, e fare le sole cose per
le quali ti sei obbligato, e sei pagato. Così dovrebb'essere, o mio Timocle, e forse non saria gran
male piegarsi a portare un giogo sì leggiero, comodo, e ciò che più monta, un giogo d'oro: ma è
altro, anzi il rovescio. Mille cose intollerabili ad un uomo libero deve tollerare chi sta coi signori.
Odile, e vedi tu stesso se potria sopportarle chi ha avuta anche una leggiera tintura di dottrina.
Comincerò dalla prima cena che forse ti si farà, come le donora prima d'entrare in famiglia. Subito
adunque viene ad invitarti a cena un valletto non nuovo di corte, che devi farti amico mettendogli in
mano, per non parere un zotico, almeno tre dramme: e quei facendo le lustre Non ci vuol questo con
me, e ripetendo Oh, non sarà mai, infine si lascia persuadere, ti mostra tutt'i denti con un ghigno, e
vassene. Tu pigli una veste pulita, ti rassetti alla meglio, ti lavi, e t'avvii, temendo di non giungere
prima degli altri, che è rozzezza, come venir l'ultimo è superbia. Cogliendo adunque un tempo
giusto, entri: ti ricevono a grande onore: uno ti piglia, e ti fa adagiare presso al ricco dopo due o tre
vecchi amici. Tu, come se fossi entrato nella reggia di Giove, stai tutto ammirato, e ad ogni cosa
che si fa cadi dalle nuvole. Tutto per te è nuovo e sconosciuto: la servitù ha gli occhi sopra di te,
ciascuno de' convitati attende che farai; il ricco stesso vuole questo, ed ha detto ad alcuni de' suoi
famigli di spiarti se spesso guardi sottecchi la moglie ed i figliuoli. Ed i servitori dei convitati
vedendoti come intronato ed impacciato se la ridono, ed argomentano che non hai cenato mai in
casa d'altri signori, impacciandoti ad usare la salvietta. Come è naturale, devi sudare per lo
smarrimento; aver sete, e non ardire di chieder bere per non sembrare un bevone: di tante vivande
che ti stanno innanzi imbandite, non sapere a quale prima a quale poi stender la mano: e però con la
coda dell'occhio devi guardare il tuo vicino, e fare come egli fa, ed imparare l'ordine della cena. La
mente poi ti gira, ti va sossopra, ti si scompiglia ad ogni cosa che fanno: ed ora tieni beato il ricco
per l'oro, per l'avorio, per tante morbidezze; ora compiangi te stesso che sei un niente e ti credi di
vivere. Talvolta ancora ti viene il pensiero che vivrai una vita invidiabile, sguazzando in tutto quel
bene, ed avendoci la tua parte come gli altri: credi che saran sempre i Saturnali per te; e i bei
donzelli che ti servono e ti sorridono, ti dipingono più dolce il tuo futuro stato. Onde continuamente
ripeti quel d' Omero:
Meritamente
Ed i Troiani e i coturnati Achei
molto s'affaticano e soffrono per cotanta felicità. Dipoi i brindisi: il signore chiede una tazza ben
grande, ne liba, e dice: a te, o Maestro, o ti dà altro nome: tu la pigli, sai dover rispondere, ma non
trovi che, e rimani goffo. Questo brindisi ti tira addosso l'invidia di molti vecchi amici, alcuni dei
quali sono offesi che tu venuto di fresco hai un luogo più onorato di loro servitori provati da
tant'anni. E subito ti tagliano i panni addosso: Quest'altro malanno ci mancava, di essere posposti
all'ultimo che entra in casa. E già, solamente per questi Greci è fatta Roma. Oh, ed in che valgono
essi più di noi? Forse perchè ti sciorinano una diceriuzza, si tengono di sapere una gran cosa? Ed un
altro: Non l'hai veduto come trincava, e come pigliava e diluviava? Zoticone, morto di fame,
neppure in sogno l'ha veduto tanto pan bianco, altro che gallina di Faraone o fagiano, di cui ci ha
lasciato appena il catriosso. Ed un terzo: O sciocchi, non passeran cinque giorni e lo vedrete qui con
noi lamentarsi anche così. Ora, come le scarpe nuove, è preferito, è riguardato: ma poi che sarà ben
bene calpestato e pieno di fango, sarà gettato miseramente sotto il letto a riempirsi di cimici, come
noi. E così levano i pezzi di te, e forse alcuni di loro già ti preparano una calunnia. Quel convito è
fatto a posta per te, e quasi tutti i discorsi sopra di te: tu non avvezzo, avendo più del solito bevuto
d'un vino schietto e razzente, senti muoverti il ventre, e stai male: levarti non è bello, rimanere è
pericolo. Intanto continua il bere, s'appiccano discorsi sopra discorsi, compariscono spettacoli sopra
spettacoli (chè tutte vuol mostrarti egli le sue grandezze), e tu sofferi un supplizio, non vedi ciò che
si fa, non odi che canta e suona la cetra un assai pregiato garzoncello, ma approvi sì per necessità, e
vorresti che un tremuoto subissasse ogni cosa, o si gridasse fuoco, fuoco, acciò finisse una volta il
convito.
Questa, o amico mio, è la prima e per te dolcissima cena; ma non per me, cui è più dolce mangiare
una cipolla con candido sale quando voglio, e a piacer mio liberamente. Lascio stare gli acidi rutti
che vengono dipoi, e il vomito la notte. L'altro giorno dovete convenire della mercede, del quanto,
ed in qual tempo dell'anno dovrai averla. Presenti adunque un due o tre amici, ei ti chiama, ti fa
sedere, e incomincia: «Qual è il nostro modo di vivere l'hai veduto ieri: non c'è lusso, non c'è
sfarzo: ogni cosa alla buona ed alla civile: or tu devi far conto che tutto sarà comune tra noi. Chè
sarebbe ridicolo se io, che ti ho affidato la miglior parte di me, l'anima mia e dei miei figliuoli (se
ha figliuoli da educare), non ti facessi padrone di tutto il resto. Ma giacchè bisogna stabilire una
qualche cosa, io vedo bene che tu sei moderato e contento del tuo stato, e capisco che non per
isperanza di soldo sei venuto in casa nostra, ma pel bene che noi ti vogliamo, e pel rispetto che ci
avrai da tutti: pure si stabilisca qualche cosa. Tu stesso di' ciò che vuoi, ricordandoti, o caro mio, di
ciò che nelle feste ogni anno noi usiamo di dare. Questo non sarà affatto trascurato da noi, sebbene
ora non lo mettiamo tra i patti. E sai che nell'anno ci ha molte occasioni di queste feste. Tu dunque
avendo riguardo a questo, c'imporrai condizioni più moderate: e poi voialtri sapienti dovete essere
superiori al danaro.» Così dicendo, e tutto solleticandoti con le speranze, t'ha fatto una pecora per
lui. E tu, che già sognavi talenti a migliaia, e poderi, e ville, ora intendi un po' la parsimonia: ma pur
levi la coda come il cane alle carezze, e credi che quella promessa, tutto sarà comune tra noi, sarà
ferma e vera, senza sapere che la promessa
Bagna le labbra sì, non il palato:
infine per vergogna ti rimetti a lui. Ei risponde che non dirà niente egli, ma impone ad uno degli
amici presenti di mettersi in mezzo, e dire un tanto che non sia grave a lui che ha tante spese più
necessarie, né vile a chi lo riceve. E quei, che è un vecchio della sua età, nato e cresciuto
nell'adulazione, ti dice: Tra quanti sono nella città nostra tu puoi chiamarti felicissimo per avere
questa fortuna, che molti agognano e non lhanno, dico lonore di essere in questa famiglia, ammesso
alla stessa mensa, e ricevuto in una delle prime case dell'impero romano. Questo è altro che i talenti
di Creso, e le ricchezze di Mida, se sai usarne con moderazione. Conoscendo io molti dei nobili che
vorrebbero, anche spendendoci qualcosa, per sola gloria affiancare quest'uomo e farsi vedere
intorno a lui per sembrargli amici e compagni, io non ho parole per dire quanto tu sei fortunato, che
riceverai anche una mercede per giunta a questa felicità. Credo adunque, se non sei del tutto
disorbitante, che ti basti...... E qui ti dice un tanto che è una miseria, massime verso quelle tue
speranze. Ma conviene contentartene: sei dato nel laccio, e non puoi più fuggire: piglia dunque il
freno, stringi i denti, e trotta: da prima senza strappate di morso, e senza spronate: a poco a poco ti
avvezzerai alla mano. La gente di fuori comincia ad invidiarti, vedendo che a te non si tiene porta,
ed entri ed esci, e sei degl'intimi; ma tu stesso non vedi la cagione perchè ti tengono beato: pure stai
di buona voglia, e ti canzoni da te, e stimi che il meglio verrà dipoi. Ma t'avviene il contrario di quel
che speravi; e, come dice il proverbio, trovi il tesoro di Mandrabulo,(98) che ogni giorno si
rappicciolisce e péggiora. Così a poco a poco, come in barlume, cominci a vedere ed intendere che
quelle tue speranze d'oro non erano altro che vesciche dorate: che pesanti, vere, continue, inevitabili
sono le fatiche. E quali sono? forse mi dirai: chè io non le vedo queste fatiche, nè intendo quali sono
coteste intollerande molestie che tu dici. Odimi adunque, o uomo dabbene, e non chiedere
solamente se ella è faticosa questa condizione, ma ascolta attentamente quanto ella è turpe e
meschina, e del tutto servile.
Primamente ricòrdati che da quel punto non devi più stimarti nè libero nè ingenuo: chè legnaggio,
libertà, genitori, sappi che tutto hai lasciato fuori la via quando sei entrato e ti se venduto schiavo.
Libertà non ha voluto entrare con te, che ti sei messo a così vili e meschini servigi. Sarai servo,
benchè tanto ti cuocerà questo nome, e non di uno ma di molti dovrai esser servo; e a capo chino
tirerai questa carretta da mane a sera per una misera paga: e come quegli che non sei avvezzo da
fanciullo a servire, ma l'hai imparato tardi ed in età già provetta, non sarai un troppo buon servo, nè
in molto pregio al padrone: perchè la libertà ti vizia quando ti torna a mente, e ti fa tirar calci
talvolta, e prestar male i tuoi servigi. O forse credi che ti basta per esser libero che tu non sei
figliuolo d'un Pirria, o d'un Zopirione, nè come un Bitino sei stato venduto a voce di banditore? Ma
quando tu, o bravuomo, alle calende, misto a Pirria ed a Zopirione, stendi la mano come gli altri
famigli, e prendi quel tanto che ti si dà, allora ti vendi: e non bisognava banditore a chi ha bandito
se stesso, e per lungo tempo ha fatto quasi l'amore con un padrone. O pezzo di bestia (direi,
specialmente a chi si dice filosofo), se un nemico in mare o un pirata ti pigliasse e ti vendesse, ti
accoreresti come di una grande sventura: se uno ti gettasse le mani addosso, e ti trascinasse, dicendo
che sei suo servo, che grida, che finimondi faresti invocando cielo e terra? e tu, da te stesso, e per
pochi oboli, e di un'età in cui se fossi nato servo dovresti cercar libertà, ti se' venduto con tutta la
virtù e la sapienza, senza avere un rispetto alle tante parole che il buon Platone, o Crisippo, o
Aristotele hanno sparse a lode della libertà e vituperio della servitù? E non ti vergogni di
paragonarti agli adulatori, ai perdigiorni, ai parassiti; e in quella gran fitta di gente che è in Roma tu
solo andare col pallio forestiero, bruttamente storpiando la lingua romana; e intervenire a quelle
cene tumultuose fra genti piovute d'ogni paese, e la più parte malvagi, e quivi sbracciarti a lodare e
bere sconciamente? La mattina levandoti alla campanella, che ti rompe il sonno più saporito, ti
mescoli nella folla, e corri su e giù, avendo ancora alle gambe il fango del giorno innanzi. Ti
mancavano forse lupini e cavoli nel tuo paese, e non vi scorrono più fonti d'acqua fresca, che tu per
disperato ti sei messo a questo? Ma che acqua, e che lupini! I confetti, i pasticci, il vino odoroso
t'hanno invogliato, e chiappato come luccio all'esca; e meritamente sei stato ferito in quella golaccia
che ti ha tirato a questo. E subito eccoti il premio di questa ghiottornia: come una scimmia col
collare al collo fai ridere gli altri, e tu ti credi di scialare, perchè hai fichisecchi assai da rodere:
libertà poi, natali, compatriotti, compagni, tutto è ito, e neppur te ne resta memoria.
E via, se vi fosse la sola vergogna, di libero parer servo, e non le fatiche che fanno proprio i servi.
Vedi un po' se tu non sei comandato a bacchetta come un Tibio o un Dromone. Il sapere, pel cui
amore si dice che t'ha preso, a lui importa poco: che ha che far l'asino con la lira? Sì, lo vedi come
essi squagliano per la sapienza di Omero, per il nerbo di Demostene, per la magnificenza di
Platone. Se a costoro togli dall'animo i pensieri dell'oro e dell'argento, non vi resta che superbia,
mollezza, piaceri, lussuria, oltracotanza, ed ignoranza. E per queste cose non han bisogno di te: ma
perchè tu hai una bella barba, un aspetto grave, e ti sta bene il mantello greco, e tutti sanno che sei
un grammatico, o un retore, o un filosofo, gli pare bello di avere uno come te, tra quei che gli fanno
largo e codazzo, perchè così parrà vago del sapere e della gentilezza greca: onde v'è paura che tu
invece dei tuoi dotti ragionamenti hai appigionata la barba ed il mantello. Il tuo dovere adunque è di
farti veder sempre a fianco a lui, e non lasciarlo giammai: ma la mattina levarti, presentarti al tuo
ufficio, e non mancare. Egli imponendoti talvolta la mano su la spalla, ti getta un motto, per
mostrare alla gente che neppure per via si scorda delle Muse, ed impiega bene anche l'ozio del
passeggio. E tu meschino ora correndo allatogli, ora lentamente seguitandolo per le molte salite e
discese (che sai così è fatta Roma) sei già tutto molle di sudore e trafelato: e mentre egli entrato in
casa di qualche amico si intrattiene a ragionare, tu non avendo dove sedere rimani impalato; e per
non aver che fare, ti cavi di tasca un libro, e leggi. Passata così la giornata senza mangiare e senza
bere, tardi e male ti lavi, e quasi su la mezza notte vai a cena, dove non hai più onori e riguardi tra
gli altri commensali, ma se sopraggiunge un novello, indietro vai tu; e così cacciato nell'ultimo
cantuccio, ti stai solamente a riguardare le vivande che ti passano innanzi, rodendo, come un cane,
le ossa, se pure giungono sino a te, o mangiando per fame come companatico una costola di malva,
in cui è stata involta qualcosa, se pur gli altri te la lasciano. Nè ti mancano altri dispregi: neppure un
uovo c'è per te (e non è necessario, nè devi esser preferito ai forestieri e sconosciuti, chè saria
sciocchezza questo), nè il pollo tuo è come quello degli altri: ma al ricco un cappone grasso e stiato,
a te un pollastrello spolpato, o un colombo intisichito: e questo è un aperto dispregio ed un'ingiuria.
Spesso, quando tutt'altro manca, sopravvenendo qualcuno all'impensata, il servitore piglia ciò che
sta innanzi a te, e lo mette innanzi a lui, dicendoti sottovoce: tu se' di casa. Se si trincia porchetta
lattante, o tòcco di cervo, devi una delle due, o avere per amico lo scalco, o ti tocca la parte di
Prometeo, ossa coverte di grasso. E quel vedere che un piatto rimane innanzi ad altri finchè ne pigli
e ne ripigli e non ne voglia più, e innanzi a te passa subito, come può essere sopportato da un uomo
libero che abbia bile anche quanto un cervo? E non t'ho detto un'altra cosa; che gli altri bevono vino
dolcissimo e vecchissimo, e tu vernaccia torbida, badando sempre di bere in tazza d'oro o d'argento,
affinchè dal colore del vino non si veda in che dispregio sei tenuto. E potessi pur berne a sazietà!
ma spesso tu chiedi, e il coppiere fa il sordo. Dispiaceri sì, ne avrai molti, e continui, e quasi in ogni
cosa: specialmente quando è più di te favorito un zanzero, un ballerino, o uno sdolcinato canterino
d'Alessandria. E come vuoi tu a tavola gli stessi onori di costoro, che sono ministri di galanterie, e
portano in seno letterine amorose? Però in fondo alla sala rannicchiato per la vergogna, hai ragione
poveretto che ti duoli, e piangi te stesso, ed accusi fortuna che non tha dato neppure uno spruzzo di
grazia. E pensomi che vorresti diventar poeta di canzoncini amorosi, o almeno saperli ben cantare,
perchè vedi che questo piace e si loda: ti metteresti anche a fare il mago o l'indovino, promettere
eredità di molti talenti, e signorie, e ricchezze a sacca. Vedi che costoro fioriscono nelle amicizie,
ed han favori, però vorresti diventar qualcosa simile a loro, per non essere tenuto un uom da nulla e
soverchio. Ma, misero te, neppure a questo sei buono. Onde per necessità, devi scadere, piangere in
segreto, e tacito sofferire il tuo dispregio.
Se poi qualche mala bietta di servitore va a zufolare che tu solo non hai applaudito al paggetto della
padrona che balla e canta su la cetera, è un affare di gran pericolo. Però ti bisogna, a guisa di rana
terrestre, gracidare a gola asciutta, sforzandoti d'intonar primo e più sonoro l'evviva: e spesso
mentre gli altri tacciono, recitare un discorsetto studiato, e pieno zeppo di adulazioni. Bello
veramente uno che ha fame ed ha sete, stare profumato d'unguento e con corona in capo! rassembri
allora una colonna sepolcrale, dove alcuni vanno a far sacrifizi a qualche morto, la spargono
d'unguenti, vi appendono corone, ed essi bevono e mangiano ciò che hanno apparecchiato. E se il
signore è geloso, ed ha leggiadri figliuoli o moglie giovane, e tu non sei del tutto lontano da Venere
o dalle Grazie, la cosa non va così liscia, ed il pericolo è più serio. Un re ha molti orecchi, e molti
occhi che non vedono solamente il vero, ma v'aggiungono sempre qualche cosa di più, per non
parere che sonnecchiavano. Quindi devi stare, come nei conviti di Persia, col viso basso, per paura
che un eunuco non ti veda guardare qualcuna delle concubine; ed un altro eunuco che tiene larco
teso, accorgendosi che guardi dove non dèi, non ti trafigga con un dardo, mentre bevi, la mascella.
Finita la cena, vai a dormire un po': ma svegliandoti al cantare de' galli: «O misero me, dici, o me
disfatto! ho lasciato quelle occupazioni d'una volta, quei compagni, quella vita riposata, quelle
saziate di sonno, quei passeggi liberi, e in quale baratro mi sono gettato! E perchè mai, o Dei
immortali? e che paga sfarzosa è questa? E non potevo io altrimenti procacciarmi di più, ed essere
libero e padrone di me stesso? Ora, come leone legato ad una funicella, sono menato di su e di giù;
e quel che è peggio, so che non ci riesco; e non posso essere gradito: chè io son nuovo di queste
cose, non ci ho garbo, specialmente in paragone di quelli che lo fanno per arte. Non ho grazie, non
ho piacevolezze a tavola, non posso far ridere un po': e m'accorgo che anche la mia vista gli spiace,
se talvolta voglio mostrarmi più dolce del solito, gli sembro increscevole, e non so come
temperarmi con lui. Se mi rimango sul grave, sono il fastidio ed il fistolo; se sorrido e compongo la
faccia al piacevole, tosto ei mi spregia e mi sputa: ed io paio uno che rappresenti una commedia con
indosso un mascherone di tragedia. Insomma quale altra vita io vivrò per me, sciocco che io sono,
se avrò vissuto questa per un altro?» Mentre così parli fra te e te, suona la campanella, e rieccoti
alla stessa vita, al girare intorno, a rimaner impalato: e devi ungerti prima le anguinaie e sotto i
ginocchi se vuoi durare a questo trotto: poi una simile cena prolungata alla stessa ora. Questa vita,
opposta a quella d'una volta, la veglia, il sudore, la fatica, insensibilmente ti scalzano la salute, e ti
fan venire una tisi, o una punta, o una colica, o la bella podagra. Pure tu resisti, e spesso dovresti
stare a letto, e non t'è permesso; perchè la malattia è tenuta una finzione, una scusa per non fare il
tuo dovere. E per tutte queste cagioni sei sempre giallo, e pare che ad ora ad ora te ne muori.
E questo ti tocca in città: se poi si dee viaggiare non ti dico niente. Spesso, mentre piove, tu
venendo l'ultimo (chè questo è il luogo tuo) aspetti per sino i giumenti: finchè non essendovi altra
vettura, ti ficcano col cuoco o col parrucchiere della signora in una carretta, senza stendervi sotto
neppur fieno bastante. E qui voglio contarti ciò che Tesmopoli lo stoico mi contò essere avvenuto a
lui, cosa veramente ridicola, e che facilmente può essere avvenuta anche ad altri. Stava egli con una
ricca signora, e delle più galanti della città. Una volta che dovettero fare un lungo viaggio, n'ebbe a
patir delle belle, e la prima, dissemi, fu questa: che posero a sedere nella carrozza a fianco a lui
filosofo un zanzero con le gambe dipelate e la barba rasa, che la signora si menava dietro per
favore, come s'intende: ed egli ricordava anche il nome del zanzero, che chiamavasi Rondinella.
Bella cosa! accanto ad un uomo grave, vecchio e bianco (e sai che lunga e venerabile barba aveva
Tesmopoli) far sedere un imbellettato, dinoccolato, con gli occhi dipinti, la guardatura languiscente,
altro che rondinella, ma avoltoio, spennacchiato le setole della barba. Ed ei diceva che se non
l'avesse molto pregato, colui si sarebbe rimasto con la cuffia in capo; e che per tutto il viaggio gli
diede infinite molestie, cantava, trillava, e, se egli non lavesse tenuto, forse avria anche ballato nella
carrozza. L'altra fu un comando della signora: la quale lo chiamò, e dissegli: «Deh, Tesmopoli mio,
fammi un gran favore, e non dirmi di no, nè aspettare che te ne preghi un'altra volta. Quegli, come
era conveniente, rispose esser pronto a far tutto. Ed ella: La preghiera è questa: ho veduto che sei
buono, attento, tenero di viscere, deh, prenditi nella carrozza la mia cagnoletta Mirrina, e tiemmila,
e badale che non manchi di niente: la povera cuccia è gravida, e quasi sul partorire: e questi birboni
e scorretti servi, non che di lei, non si danno pensiero neppur di me in viaggio. Pensa che tu mi farai
un favore grande a tenermi la mia cara cuccia, che è l'occhio mio.» Il semplice di Tesmopoli, tanto
ella pregò e quasi pianse, disse di sì. Era da ridere veder la cagnoletta nel mantello del filosofo
sporgere il muso di sotto la barba, talvolta pisciare (questo non me lo disse Tesmopoli, ve') e
baiucolare come fanno i botoli di Malta, e leccar la barba specialmente se v'era rimasto qualche po'
di brodo del giorno innanzi. Il zanzero che gli sedeva a lato, ed a cui talora veniva il bel motto a
tavola frizzando i commensali, quando lanciò il frizzo a Tesmopoli, disse: «Una cosa ho a dire di
Tesmopoli, che di stoico ci è diventato cinico.» Ed io so ancora che la cagnolina partorì nel
mantello di Tesmopoli. Con questi capricci, anzi con questi insulti trattano chi sta con loro, ed a
poco a poco lo rendono mansueto all'ingiurie.
Io ho conosciuto un retore di quei che mostrano i denti a tutti, che invitato a declamare in un
convito, recitò una diceria non affatto rozza, ma di nerbo e ben fatta: lodavanlo tra i bicchieri, ed ei
parlamentava non ad ampollina d'acqua, ma alle anfore del vino: e dicevasi che, per dugento
dramme s'era piegato a questa braveria. Se poi il ricco fa egli il poeta o lo storico, e recita le cose
sue durante il convito, allora si conviene tutto sbracarsi a lodarlo, ed adularlo, e trovar nuove
maniere di palparlo:(99) e se non lodi, anderai subito nelle latomie di Dionisio come per caso di
stato.(100) Chè essi debbono essere sapienti ed eloquenti, e se anche dicono un'asinaggine, la deve
reputarsi un'eleganza attica, una dolcezza d'Imetto, ed esser legge, e dirsi sempre così.
E forse sarieno sopportabili gli uomini; ma le donne hanno anch'esse questa smania di tenere al loro
soldo uomini istruiti che le accompagnino presso alla lettiga; e par loro un'altra galanteria se si dice
che sono dottoresse, e filosofesse, e poetesse, poco meno che Saffo: e però anch'esse si fanno
seguire da retori, da grammatici, da filosofi. Ma quando li ascoltano? mentre o si abbigliano, o si
pettinano, o durante la cena; chè altro tempo non hanno. E spesso mentre il filosofo ragiona, viene
la cameriera, e le porge una letterina del ganzo: il ragionamento su la pudicizia si sospende,
aspettando che ella riscriva al ganzo, e torni ad ascoltare.
Ogni tanto tempo una volta al venir dei Saturnali o delle Panatenee, ti si manda un misero
mantelluccio, o una tunica mezzo logora: e questo deve farsi con gran pompa. Subito un servo, che
n'ha udito una parola in aria dal padrone, corre il primo ad avvisartene: e vuol la mancia per la
novella. La mattina poi ne vengono una dozzina a portarti il dono, e chi ti dice: io ho parlato per te;
chi: io gliel'ho ricordato; chi: io ne ho avuto l'incarico e ti ho scelto il meglio, vedi qua. Devi dare a
tutti, e sei tagliato, perchè dài poco. Il soldo poi ti è sbriciolato a due o quattr'oboli per volta: e se
chiedi, sei molesto e noioso. Per averlo devi pregare e carezzare lui, lisciare anche il maggiordomo,
e trovare il modo di pigliar pel suo verso anche costui, e non trascurare nè il consigliere, nè l'amico.
E quando l'hai avuto già lo dovevi al sartore, al medico, al calzolaio: onde i doni per te non sono
doni nè utili.
Intanto molta invidia, e forse anche qualche calunnia a poco a poco levasi presso il signore, che già
va porgendo l'orecchio a chi gli sparla di te; perchè ti vede già consumato dalle continue fatiche,
zoppo nel servizio, disfatto, spesso con la podagra. Poi che ti ha sfiorato del meglio, ha colto il
frutto, t'ha svigorito e rotto il corpo, e t'ha ridotto un cencio, ora va guardando su qual letamaio
gittarti, e prendersi un altro che possa sostener quelle fatiche. Ed eccoti addosso un'accusa che gli
hai tentato il mignone, o che, vecchio come se', hai sverginata la cameriera della signora, o fatto
altra cosa simile; ed una notte, t'imbavagliano, t'afferrano pel collo, e ti cacciano fuori, abbandonato
da tutti, povero, con la vecchiaia e la podagra addosso. Quel che sapevi se n'è ito in tanto tempo; e
t'è cresciuta la pancia, brutto sacco che non s'empie per preghiere: e la gola ti chiede come prima, e
non vuole disavvezzarsi. Nessun altro ti riceverà, chè già sei frusto, e come i cavalli vecchi, di cui
neppure la pelle è buona; e poi la tua cacciata fa sospettare di gran cose sotto, che tu sia un adultero,
un avvelenatore, e che so io. Chi t'accusa, ancorchè non parli, è degno di fede: tu sei greco,
leggiero, facile ad ogni ribalderia: chè così credono che siamo tutti, e giustamente: ed a me pare di
aver capito la cagione di questo concetto che essi hanno di noi. Molti di costoro che entrano nei
palazzi, non sapendo niente altro di buono, spacciano di saper fare magie, e veleni, e attirare
innamorati, e sprofondar nemici: e mentre fan questo, dicono che ei son dottori, ed hanno indosso il
pallio, ed una barba rispettabile sciorinata sul petto. Giustamente adunque i signori ci hanno tutti
nello stesso concetto, vedendo di che qualità sono costoro che essi credevano ottimi, ed osservando
nelle cene e nell'altro conversare, la loro adulazione, la loro fecciosa e servile avarizia. Scacciatili, a
ragione li abborriscono, e cercano ogni modo di perderli, se possono: perchè pensano che questi
sverteranno molte loro segrete vergogne, come quei che le sanno appuntino, e li hanno veduti nudi.
E questo pensiero li rode: perocchè essi sono simili a quei bellissimi libri che di fuori hanno le
borchie d'oro e la pelle color di porpora; e dentro v'è o Tieste che mangia i figliuoli, o Edipo che si
giace con la madre, o Tereo che sforza due sorelle. Così sono questi ricconi e questi grandi, sotto la
porpora coprono orrori tragici: se apri il loro libro trovi un gran dramma di un Euripide, o d'un
Sofocle: di fuori viva porpora e borchie d'oro. Sapendo adunque ciò che portano sotto, odiano e
perseguitano, se uno che li ha ben conosciuti, partendosi da essi sfringuella e pubblica i fatti loro.
Ora io voglio, come Cebete, dipingerti un quadro di questa vita, acciocchè tu guardando in esso,
veda se ti conviene entrarvi. Ci vorrebbe veramente un Apelle, un Parrasio, un Aezione, un
Eufranore a dipingerlo; ma giacchè ora non si trova un artista di tanto ingegno e valore nell'arte, te
ne farò io alla meglio un po' di schizzo. Si dipinga un vestibolo d'un palagio alto e dorato, non già
nel piano, ma alto da terra sovra un colle: la salita sia lunga, erta, sdrucciolevole, per modo che
spesso chi spera di essere già presso la cima, si fiacchi il collo, sfallendo d'un piè: dentro vi segga
esso Pluto che paia tutto d'oro, e leggiadrissimo, e amabilissimo. L'innamorato salendo a fatica ed
accostandosi alla porta, resti abbagliato mirando nell'oro. Lo pigli per mano la Speranza, bella
anch'essa e in veste variopinta, e lo introduca mentre sta pieno di maraviglia in su l'entrata. E da
questo punto la Speranza sempre lo guidi. Una coppia dipoi lo riceva, l'Inganno e la Servitù, e lo
consegnino alla Fatica. Questa, dopo di averlo molto strapazzato, lo dia in mano alla Vecchiaia, già
mezzo ammalato e mutato di colore: ultima lo afferri l'Ingiuria, e lo trascini alla Disperazione. Qui
la Speranza sen voli e sparisca: egli, non più per la porta d'oro onde entrò, ma per un usciuolo di
dietro, sia cacciato via nudo, panciuto, giallo, vecchio, con una mano coprendosi le vergogne, e con
l'altra strozzandosi: in su l'uscita gli venga incontro il Pentimento, che piange senza pro e finisce di
perdere quel perduto. E così compiesi il quadro. Or tu, o mio Timocle, considera bene ogni cosa, e
pensa se per te è bello entrare per quella porta del quadro, ed essere cacciato sì vergognosamente
per quell'usciuolo. Qualunque cosa farai, ricòrdati del detto del sapiente: Incolpabile è Dio; della
nostra scelta la colpa è nostra.
______
XVIII.
APOLOGIA DI QUEI CHE STANNO COI SIGNORI.
Da un pezzo ripenso tra me, o mio buon Sabino, che cosa tu hai potuto dire leggendo il nostro
libretto intorno a quei che stanno coi signori. Che tu lhai scorso con un po di sorriso, oh, ne sono
ben chiaro; ma ciò che tu hai potuto dire, io voglio accordare con ciò che hai letto. Se dunque io
non sono un cattivo profeta, parmi di udirti dire: E come? chi ha scritto questo, ed ha disteso una sì
grave accusa contro siffatta vita, a un tratto si dimentica dogni cosa, e voltando carta si getta
volontariamente in servitù così manifesta e cospicua? Quanti Midi e Cresi, e interi Pattoli lo hanno
indotto ad abbandonare la cara libertà, in cui è nato e cresciuto, ed ora che è vecchio ed ha quasi un
piè nella barca, farsi menare e tirare come per un collare doro legato al collo, a guisa degli
scimmiotti o dei cagnolini dei ricchi galanti? Che discordanza tra la vita di adesso e quello scritto! è
come a dire che i fiumi corrono in su, il mondo va al rovescio, si ricanta una palinodia in peggio,
non di Elena nè dellimpresa di Troia,(101) ma il fatto ritratta il detto, che da prima pareva bello.
Così fra te stesso probabilmente hai detto: e forse avrai aggiunto per me un cotal tuo consiglio, non
impertinente ma amichevole, da quelluomo dabbene e filosofo che tu sei. Ora se io pigliando il tuo
personaggio rappresenterò bene la tua parte, voglio un bravo, e faremo un sacrifizio al dio
delleloquenza: se no, vaggiungerai tu quel che manca. Ecco adunque cambiata la scena: io debbo
tacere, e sofferire il taglio ed il fuoco ancora se bisogna per la mia salute; tu applicare i rimedii,
avendo il gammautte pronto e il cauterio acceso. Sicchè tu pigliando la tua parte, così mi dici, o
Sabino.
«Una volta, o amico mio, meritamente questo scritto ti acquistò fama, e quando fu recitato in una
grande adunanza, come mi dissero quelli che lascoltarono, e presso i dotti che privatamente vollero
considerarlo e tenerlo tra mani. Chè lartificio del discorso è non dispregevole, molte descrizioni,
perizia dellargomento, ogni cosa detta chiaramente, ed il pregio maggiore è che le cose sono utili a
tutti, massime ai dotti acciocchè per ignoranza non si mettano da sè stessi in servitù. Ma poichè,
mutata opinione, ti parve migliore questa vita, ed hai dato un lungo addio alla libertà, seguendo il
vilissimo consiglio di quel verso,
Se nhai guadagno, servi ancora il diavolo,(102)
bada di non leggere più quello scritto a nessuno, di non darlo più in mano a nessuno di quei che
veggono la tua vita presente; ma fa voto a Mercurio sotterraneo, acciocchè getti una buona
spruzzata di Lete sopra di quelli che lhanno udito: se no, parrà che ti sia avvenuto come a
Bellerofonte nella favola dei Corintii, che hai scritto un libro contro te stesso. Io, per Giove, non ci
vedo una difesa che paia ragionevole: massime se chi taccusa vuoi darti la baia, e lodare lo scritto
come liberissimo, mentre lo scrittore è servo, e volontariamente ha messo il collo sotto il giogo.
Avran ragione a dire, se diranno, che o il libro è dun altro valentuomo e tu sei cornacchia che ti fai
bello delle penne altrui; o se è tuo, tu fai come Saleto,(103) che avendo scritta una severissima
legge pe Crotoniati contro gli adulteri, ed essendone lodato molto, poco di poi fu colto in adulterio
con la moglie del fratello. Ti calza adunque se ti chiaman Saleto. Il quale fu molto più scusabile,
perchè fu vinto dallamore, come egli disse nella sua difesa, e volle da sè gettarsi nel fuoco, benchè i
Crotoniati ne avessero pietà, e gli offerissero di andare in esilio. Ma il fatto tuo è più brutto; chè
avendo descritto minutamente la servilità di cotal vita, e rotto le legna addosso ad un pover uomo,
che capitato in casa dun signore, vè costretto a fare e patire mille cose spiacevoli, tu nellultima
vecchiezza, che quasi batti alle porte, ti sei messo in servitù così vile, e quasi ti pompeggi in essa.
Ma, come dice il proverbio, più bello ti tieni, più ridicolo sembri: cotesta vita è il rovescio del libro.
Sebbene, a che vo cercando io parole contro di te, dopo quel mirabile verso della tragedia,
Sprezzo il savio, che è savio sol per gli altri?
Nè gli accusatori mancheran dargomenti contro di te: e chi ti paragonerà agli attori di tragedia, che
sulla scena ciascuno è Agamennone, o Creonte, o anche Ercole, e fuori poi, deposta la maschera,
diventa o Polo o Aristodemo, mercenarii tragedi, cacciati, fischiati, e talvolta alcuni anche
vergheggiati, se così piace al teatro. Altri diranno che tè intervenuto come allo scimmiotto di
Cleopatra; che ammaestrato a ballare molto acconciamente a suono di musica, destava maraviglia
come faceva il suo personaggio, stava composto, andava a tempo con quei che sonavano e
cantavano un imeneo; ma come ebbe adocchiato non so se mandorle o fichisecchi poco lunge,
dimenticando i suoni, i canti e i balli, li acchiappò e mangiosseli, togliendosi o piuttosto
stracciandosi la maschera. Così anche tu, diranno, non attore, ma poeta de più valenti, e divenuto
legislatore, al veder questo ficosecco, ti se scoperto che sei scimmia, che hai la filosofia in somma
della bocca, ed
Altro nascondi in cuore, ed altro dici;
per modo che a ragione ti dirà qualcuno che le cose che tu dici, e per le quali pretendi desser lodato,
ti bagnarono le labbra sì, ma ti lasciarono secco il palato. Però immantinente nhai pagato la pena: tu
che sì facilmente ti scagliasti contro i bisogni degli uomini, poco dipoi, quasi a suono di banditore,
hai rinnegata la libertà. Ei pare che Adrastea ti stava dietro le spalle quanderi lodato delle accuse
che davi agli altri, e la rideva di te, sapendo benissimo, come Dea che ella è, che tu saresti caduto
nella stessa fossa: e che senza prima sputarti in seno, volevi accusar quei poveretti che per capriccio
di fortuna si piegano a quelle indegnità. Se uno supponesse, così per un dire, che Eschine dopo
laccusa contro Timarco, si fosse tinto di quella medesima pece, immagina tu che risa sarebbono
state a veder Eschine, che lattaccò a Timarco per cosa che questi fece da giovane, ed egli avrebbe
fatta già vecchio. Insomma tu se simile a quello speziale, che strombettava un rimedio per la tosse,
e prometteva di guarirla subito in altri, mentre la tosse rompeva i fianchi a lui.»
Queste cose e molte altre simili potrebbe dire uno che come te maccusasse: ed avrebbe materia
assai, e mille modi di trattarla. Ora io vo pensando una difesa a cui appigliarmi. Non sarebbe meglio
arrendermi, piegar le spalle, non negare il peccato, dire, come tutti dicono, che è stata la Fortuna, la
Parca, il Fato; e pregare chi mi biasima di perdonarmi, e ricordarsi che noi non siam padroni di noi
stessi, ma soggetti ad una potenza maggiore che ci sforza, e che non è affatto in noi nè la volontà nè
la cagione di ciò che diciamo o facciamo? Questa saria troppo plebea, nè tu me la meneresti buona
se io mi appigliassi ad una tale difesa, e prendessi ad avvocato Omero, e ti recitassi quei versi:
Degli uomini nessuno sfugge al Fato;
e
Questo destino gli filò la Parca
Quando la madre partorillo.
Ma se scartando questo discorso come non troppo credibile, io dicessi unaltra cosa, che non per
voglia di ricchezze nè per cotali altre speranze, io mi sono piegato a vivere con costui; ma per la
prudenza, la fortezza, e la magnanimità che ammiro in questuomo, io mi sono invogliato ad
accumunare lufficio con lui: temo che avrei per giunta laccusa di adulatore, mi direbbero che caccio
il chiodo col chiodo, che ne copro una brutta con unaltra più brutta, quale è ladulazione, pessimo e
sozzissimo fra tutti i vizi. Se questo no, quellaltro no, che dunque mi rimane, se non confessare di
non aver che dire? Forse mi rimane la sola áncora della speranza, deplorare i malanni e più di tutto
la povertà, che ci consiglia a fare e sopportare ogni cosa per fuggirla. E qui forse staria bene
invocare la Medea di Euripide acciocchè venga ad aiutarmi, e dire ella per me quei versi, con un po
di parodia:
Conosco sì qual male i son per fare,
Ma povertà mi sforza la ragione.(104)
Quei di Teognide, ancorchè non li dica io, chi non li sa? e quel consiglio di precipitarsi anche in un
mar pieno di mostri, e dalla cima dun aereo scoglio, se così può fuggirsi povertà?
Queste pare sieno le difese che uno ci potrebbe trovare, delle quali nessuna è molto acconcia. Ma tu
non temere, o amico mio, che io mi serva di alcune di queste: non mai Argo avrà tanta fame da
dover seminare anche nel Cillarabi;(105) nè noi siamo così poveri di ragionevole difesa da dover
cercare di cotali sotterfugi contro chi ne accusa. Considera bene che vè grande differenza tra
lentrare a soldo in casa di un ricco, ed ivi servire, e sofferire tutto ciò che dice il mio libro, ed il
trattare una parte delle faccende pubbliche, esercitare un pubblico uffizio, ed averci una provvisione
dallimperatore. Distingui luna cosa dallaltra, poni ciascuna al luogo suo, ed osservando troverai che
luna è superiore allaltra di due ottave, come dicono i musici; e che tanto luna vita è simile allaltra
quanto il piombo allargento, il rame alloro, allanemone la rosa, alluomo la scimmia. E qui e lì vè
mercede, e si sta soggetto ad altri: ma vè una differenza grande, che lì è servitù manifesta, e chi vi si
mette non è molto diverso da uno schiavo venduto; ma coloro che maneggiano i pubblici affari, e
procacciano di far pro alle città ed alle nazioni intere, non possono giustamente essere messi in un
fascio con quelli, e biasimati solo perchè hanno una mercede. Chè così si torrebbe via tutti gli uffizi
pubblici: così quelli che reggono tante nazioni, governano le città, comandano le legioni, e glinteri
eserciti, non farebbono bene, perchè ricevono una mercede allopera loro. Non bisogna rovesciar le
cose e confonderle, nè agguagliare ad un livello tutti gli stipendiati. Insomma io non dissi che tutti
gli stipendiati vivono spregevolmente; ma deplorai coloro, che, sotto pretesto distruire, stanno a
servire nelle case dei grandi. Il fatto nostro è ben altro, o amico mio; chè in privato stiamo alla pari,
in pubblico siamo al governo dun gran regno per la parte che a noi spetta. E se ben riguardi, vedrai
che non è piccola la parte a me affidata in questo governo dellEgitto; proporre i giudizi, darvi
lordine conveniente, registrare ogni cosa che si fa e si dice, regolare le dicerie dei litiganti,
mantenere con somma fede i decreti del principe in tutta la loro chiarezza ed integrità, e farli
pubblicare ed osservare per tutto. Non ho stipendio da un privato, ma provvisione dal principe, e
non piccola, ma di molti talenti, ed infine fondate speranze, se le cose procedono come sono
cominciate, che mi sarà affidata tutta questa nazione, o un altro governo. Or voglio, giacchè ho
buono in mano, attaccarla allaccusa, non rimanermene solamente sulle difese: e ti dico che nessuno
fa niente senza mercede. Nè nominarmi coloro che fanno le grandi imprese, chè ti rispondo, anche
limperatore ha la mercede sua: non dico già le tasse e i tributi che ogni anno gli vengono dalle
province; ma grandissima mercede dellimperatore sono le lodi, la celebrità universale, le adorazioni
che ha pe benefizi che ei spande, e le immagini, e i templi, e gli altari che gli consacrano i sudditi:
questa è la mercede che ei riceve per le cure ed i pensieri che ha di provvedere al bene pubblico e di
accrescerlo. E per paragonare il piccolo al grande, se vuoi cominciare dal capo della scala e
scendere giù per tutti i gradini ad uno ad uno, vedrai che noi siamo tutti o più grandi o più piccoli,
ma una mercede labbiamo tutti.
Se io adunque avessi posto la legge che nessuno deve far niente, avrei la colpa di averla violata; ma
se non dico affatto questo nel mio libro, anzi il contrario, e che un uom dabbene devessere operoso,
che altro di meglio ei può fare che adoperarsi con gli amici nelle belle imprese, e mostrare alla luce
del giorno il suo valore, e con quanta fede, diligenza, ed amore egli tratta gli affari che gli son
confidati, per non essere, come dice Omero, inutile peso alla terra? Ma innanzi tutto bisogna
ricordare a quei che mi biasimano, che essi non biasimano un sapiente (se qualche altro è sapiente
io non so), ma un uomo come tutti gli altri, che per un po di pratica di eloquenza ho avuto qualche
lode, nè mi sono affannato per giungere a quellalta virtù degli archimandriti, nè ho voluto stordirmi
per questo, perchè non ho scontrato mai sapiente che fa le belle cose che ei dice. Se mi biasimassi tu
di questa mia vita presente, io ben ne sarei maravigliato, chè biasimeresti uno che tu da molto
tempo conosci avere avuto per la rettorica pubbliche provvisioni grandissime, quando venisti in
Gallia per vedere loceano occidentale, e ci scontrammo, e allora io ero tra i sofisti largamente
provvisionati.
Queste cose, o amico mio, ho voluto scriverti a mia difesa, quantunque impacciato tra mille
faccende: perchè non fo poco conto di avere da te la palla bianca e piena;(106) agli altri, ancorchè
tutti maccusino, io risponderò come il merlo: Non ti curo, Domine.((107))
NOTE
(1) Storia de costumi dei Romani nei due primi secoli dellera cristiana.
(2) Commodo si faceva chiamare Paulo, nome di famoso gladiatore che egli fece imprimere anche
su le sue monete. Vedi Gibbon, Storia, cap. IV.
(3) Un simile bosco circondava il tempio di Venere in Gnido, ed è descritto negli Amori tra le opere
di Luciano.
(4) Storia Augusta, pag. 245.
(5)
Mercuri facunde, nepos Atlantis,
Qui feros cultus hominum recentum
Voce formasti catus, et decoræ
More palestræ ec.
HOR.
Questo Mercurio, come la poesia dOrazio, è dimitazione greca. Il Mercurio romano, detto da
mercor, era dio de soli guadagni, e delle trappolerie nel mercanteggiare. Il greco Ermete è da ero,
dico, onde nascono molte parole greche che significano parlare, interpretare, eloquenza ec.
(6) Mi ricorda di aver letto una sentenza di Cicerone (forse nel libro De Oratore), che il libretto
delle Dodici Tavole conteneva più sapienza che tutti i libri dei filosofi.
(7) Papiniano ed Ulpiano, i due più grandi giureconsulti, furono prefetti del Pretorio: ed Ulpiano fu
ucciso in una sedizione de soldati.
(8) Vedi Tacito nella Vita di Agricola.
(9) Lelio si vergognò di comparire autore delle commedie che vanno sotto il nome di Terenzio,
africano, e servo. Un forestiero non poteva scrivere con quel sapore di urbanità, nè un servo con
quella gentilezza.
(10) Nil tibi concessit ratio, digitum exsere, peccas. PERSIO.
(11) Vedi le Immagini, cap. V, e gli annotatori di quel dialogo.
(12) Vedi nella Vendita quanto è maltrattato e disprezzato Pirrone.
(13) Vedi Capo III, § 67, dove si esamina particolarmente la Vendita.
(14) Vedi il Centofanti nel citato Discorso.
(15) Vedi le ultime parole del Sogno: hoios de pros ymas epanelelytha, quale a voi sono ritornato.
(16) V. Luciani quæ extant et quæ feruntur ad optimorum librorum lectiones, emendata edidit Car.
Herm. Weise, Lipsiæ, 1847, editio stereotypa. In questa edizione ciascuna opera è preceduta da un
argomento, e spesso da un giudizio scritto dal Weise.
(17) Il gentile Gozzi traducendo questo scritto, lo ha nettato da ogni lordura, e fattolo bello. Così
ancora nettò gli Amori di Dafne e Cloe, tanto insozzati dal Caro, e potè offerirli in dono a una
donzella che andava a marito. Linfedeltà di traduttore è un merito quando è congiunta con tanta
gentilezza e onestà.
(18) V. Tacito negli Annali, cap. 71 del libro XV.
(19) V. Atticus nel Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, edited by William
Smith, London 1849. Mémoire sur la vie dHérode Atticus, par M. de Burigny nel t. XXX delle
Mém. de lAc. des Inscriptions.
(20) Ecco le parole di Weise. «Ceterum utut lepidus videatur dialogus, tamen et in materia et forma
multum inepti deprehenditur. Quis enim sensus inest huic auctioni, aut quomodo philosophos
vendere potest Iupiter tam multo ante mortuos? Deinde modo ipsi principes sectarum producuntur,
modo aliquis ex asseclis eorum. Ex emptoribus autem solus Dion nominatur. Denique meliori sensu
auctio institueretur, si libri forte philosophorum proponerentur, non auctores ipsi (Papæ, Weise, qui
bibliopolam maluisses Iovem!). At si, ut in Piscatore asseritur, scriptor non auctores sectarum, sed
asseclas eorum malos et ineptos vendere voluisset, non præceptorum dogmata, sed discipulorum
vitia commemorari debebant. Quod tamen nuspiam fit. Ergo spurium et ineptum totum scriptum,
cuius summa fortasse ex Nigrino oriunda.» Mi dispiace che nessuna delle ragioni di questo valente
uomo sa persuadermi.
(21) Ecco il giudizio del Weise sul Pescatore. «Quod si superior ergo, hæc quoque scriptio
supposita erit judicanda, quippe cum illis arctissime cohærens Elenchoi notheias quum multi sunt,
tum hic præcipuus, quod ait se non in auctores, sed in asseclas invectum, quum tamen illic ipse
Pythagoras et Socrates et Plato et Diogenes producantur. Alius, quod nihil ab initio commemoratur,
philosophos ex Orco accedere: quæ res, quasi postliminio, infra demum adjicitur. Ipsi quoque
versus, a poetis frequenter intersecti, non Lucianum sed sciolum aliquem doctum scripsisse arguunt.
Et similiter accuratius contemplanti multa alia notheias signa facillime comparebunt.»
(22) Nota una certa attenenza fra i due titoli di questi due dialoghi. Bion prasis, e Anabiountes,
Vendita di vite, o Vendita di vivi e i Redivivi. Il titolo di Pescatore mi pare aggiunto, e si riferisce
allultima parte del dialogo.
(23) «Juliani tempore vixit, ipsique amicus imperatori fuit Lucianus sophista aliquis, ad quem extat
hodienum scripta a Juliano epistola, quæ, quoniam brevissima est et elegantiæ omnis plenissima,
non ingratum lectori facturus videor si talem adscribam: Ioulianos Loukianoi sophistei. Grapho, kai
antitychein axio ton ison: ei de adiko synechos epistellon, antadikethenai deomai ton homoion
pathon. Epist. 32, pag 404. ed. Lips. Io. Matthiæ Gesneri de ætate et auctore dialogi Lucianei qui
Philopatris inscribitur Disputatio.» La lettera di Giuliano può essere così tradotta in italiano:
«Giuliano a Luciano sofista. Scrivo, e desidero mi si renda la pariglia: e se annoio con le continue
lettere, prego di essere annoiato anchio allo stesso modo.» Il Fabricio nel lib. 4 della sua Biblioteca
Greca, in fine del cap. Lucianus, annovera dieci Luciani.
(24) Vedi il Luciano del Weise.
(25) Nel 1857 Eugenio Talbot ne ha pubblicata in Parigi unaltra, che mi pare fatta con buon garbo,
e molto da commendare.
(26) La prima delle opere di Luciano che io mi sappia tradotta in italiano è una Comparatione fatta
tra Alessandro, Hannibale, Scipione Africano appresso a Minos che fu giusto giudice, trasferita di
greco in italiano per M. Giov. Aurispa, che si legge in un Codice della Magliabechiana, XI, Varior.
87, dalla pag. 322 a 330. Nella Laurenziana trovasi lo stesso dialogo tradotto dallAurispa in latino, e
da un ignoto in italiano. Questo Aurispa, di Noto in Sicilia, visse dal 1369 al 1460; dotto in greco,
portò in Italia moltissimi manoscritti da Costantinopoli. In questo dialogo è una diceria di Scipione,
che non trovasi nel testo greco.
Abbiamo una traduzione di molte opere di Luciano fatta nel decimosesto secolo, e così intitolata: I
dilettevoli dialogi, le vere narrationi, le facete epistole di Luciano philosopho greco, in volgare
tradotte da M Niccolò da Lonigo; ed istoriate, e di nuovo accuratamente reviste, et emendate, 1529.
In Vinegia, per Niccolò di Aristotele detto Zoppino. Ed unaltra edizione del 1551 per Giovanni
Padoano, Venezia. Questa traduzione è poco esatta, e non pare fatta sul testo greco. Fra i dialoghi
ve ne ha due, un Dialogo tra la Virtù e Mercurio, ed il Demarato o il Filalete, che non sono di
Luciano; ed insieme ad un altro, intitolato il Palinuro, si trovano in latino nelledizione delle opere di
Luciano fatta in Amsterdam nel 1687.
Nel secolo passato ce ne fu unaltra: Delle opere di Luciano filosofo, tradotte dalla greca nellitaliana
favella, Londra (Venezia) 1764 al 1768 per Spiridione Lusi, 4 vol. Non sono tutte, ma la maggior
parte delle opere di Luciano. Il Lusi non ha tradotte quelle già tradotte così bene dal Gozzi, ma,
come egli dice, lha in qualche luogo ritoccate. Questa traduzione mi pare molto fiacca, e non è
intera.
Ho letta quella del Manzi, e non ho mutato opinione.
Diversi opuscoli di Luciano sono stati a quando a quando tradotti ora da uno, ora da un altro, ma
sono poco noti, ed io non li ho letti. Ultimamente mè capitato tra mani una traduzione di alcuni
opuscoli fatta da un Panaiotti Palli, di Jannina in Epiro, e stampata in Livorno il 1817. Questo
epirota conosceva bene il greco, ma poco litaliano, che a quei tempi anche in Italia era ben
conosciuto da pochi.
(27) V. nel fine del 3° vol. lindice delle Varie lezioni che si propongono al testo di Luciano.
(28) Si crede che Luciano voglia intendere i suoi primi lavori che cominciarono a farlo conoscere, e
dei quali egli più non ricordava, come crebbe di anni e di fama.
(29) Per generare Ercole, Giove di tre notti ne fece una.
(30) NellAnabasi, lib. III, c. I, § 11.
(31) Prometeo vuol dire preveggente.
(32) Ippocentauro, cavaltoro.
(33) Epimeteo significa poiveggente, accorto dopo il fatto. Egli era fratel minore di Prometeo.
(34) Il loto, lotos, era un albero di legno duro e nero, del quale si facevano flauti di dolcissimo
suono. E presso i poeti lotos significa flauto.
(35) Contasi che costui ferito dalla lancia dAchille, fu risanato dalla stessa lancia.
(36) Salmoneo. Dicono che costui fu figliuolo di Eolo, e re di Belvedere. Venuto in grande
superbia, e volendo farsi tenere un dio, fece fabbricare un ponte di bronzo tanto alto che passava
sopra la città, e andandovi sopra con la carretta, e gettando in giù facelle accese, imitava così Giove
che tuona e che fulmina. Dicono ancora che tanta superbia fu punita, e che Salmoneo fu fulminato
davvero da Giove.
(37) Narrasi che un Epimenide dal padre Agisarco mandato a custodire il bestiame, dormì in una
grotta settantacinque anni. Onde presso i Greci nandò in proverbio dormire più di Epimenide.
(38) In Creta era la tomba di Minosse con questa iscrizione: Minoos tou Dios taphos. Scancellata la
prima parola per ingiuria del tempo, restarono le altre; e la tomba di Minosse fu additata come
tomba di Giove. V. lo scoliaste di Callimaco, al verso 8 del primo inno.
(39) Più veloce degli uccelli. Il testo dice: ton orneon okyteron. In altri testi è: ton honeiron
okyteron, più veloce dei sogni. Io ho preferita la prima lezione.
(40) Metafora tolta dai giuochi. Innanzi a coloro che erano postati per correre, era una corda,
chiamata dai greci, hysplenx, la quale, al segno, cadeva, e quelli si slanciavano nel corso.
(41) Versi di Teognide, su la Povertà.
(42) Il prirno verso è di Euripide nel Bellerofonte: il secondo è di Pindaro.
(43) Il danaro dello spettacolo. Egli è risaputo che gli Ateniesi era un popolo sì bizzarro, che per
farlo andare allo spettacolo drammatico, bisognava dare un obolo a ciascuno.
(44) LAcarnia era un borgo dellAttica, che fu assediato nel primo anno della guerra del
Peloponneso.
(45) Vedi nel Discorso la congettura intorno a Timone.
(46) Nove cannelle. Era in Atene una fontana detta enneakrounos, delle nove cannelle.
(47) Il medinno greco conteneva sei modii romani: questo di Egina era misura più piccola.
(48) Fanciullaio. Avrei potuto dir pederaste, e serbare la stessa parola del testo: ma ho voluto usare,
anzi coniar questa, che parmi più conforme allindole della lingua italiana, nella quale abbiamo altre
parole simili. A chi non piace questa parola nuova, vi metta la vecchia greca, o altra, se la sa,
migliore.
(49) Pensomi che qui si alluda alla Menade, che sbranò il figliuolo, il quale beffavasi delle feste di
Bacco.
(50) Tutti sanno che Momo era un Dio motteggiatore, che trovava a ridire in tutto.
(51) Per intendere questo dialogo leggi il IV Canto dellOdissea.
(52) Delo, in greco , è altresì un aggettivo che significa manifesto.
(53) Enipeo è nome di un fiume. Questa favola è narrata nel libro XI dellOdissea. Luciano mette in
canzone questa e molte altre favole narrate da Omero, non perchè ei le stimasse prive di bellezza
poetica, ma perchè il volgo le teneva per vere e le credeva religiosamente.
(54) Allude al dilemma, detto anche argomento cornuto, e ad una specie di sillogismo detto del
coccodrillo, del quale vedi un esempio nella Vendita.
(55) Si poneva lobolo in bocca ai morti per pagare il nolo a Caronte.
(56) Aorno. Q. Curzio parla dellAorno, ròcca altissima delle Indie. Nel dialogo lErmotimo si fa
unaltra volta parola di questo Aorno.
(57) Nel testo è un certo bisticcio, che non avria avuto nè senso nè grazia tradotto in italiano a
parola: onde io ho detta la stessa cosa con altra immagine: e credo di non aver fatto male.
(58) Si sa che Pitagora vietava ai suoi discepoli il mangiar fave: e contano tra le calunnie e le beffe
dette di questo filosofo, che ei dicesse esser tale misfatto il mangiarne, quale sarebbe mangiar la
testa del proprio padre.
(59) Questi versi ed i seguenti che proferisce Menippo, sono parodie dOmero e di Euripide.
(60) Lacqua del Coaspe, per la sua bontà, era bevuta dai re di Persia; ed era anche adoperata
neglincantesimi, come cosa rara ad aversi, e molto pregiata.
(61) Quando muoiono i grandi, i corpi sono imbalsamati: però si dice che fanno i salumai per
bisogno. (Scolio greco.)
(62) Forse sul sepolcro di Filippo pose bottega qualche ciabattino. I principi hanno i sepolcri su le
vie più frequentate per essere, anche dopo morte, ammirati: no, per cercar la limosina, dice il
satirico. (Scolio greco.)
(63) Livadia, città di Beozia, dovera il tempio, anzi lantro di Trofonio.
(64) Questi è Protesilao. Vedi il dialogo 23 de Morti.
(65) Allude ai versi dOmero in fine del primo libro dellIliade.
(66) Con questi versi Priamo additando Aiace ad Elena, le dimanda chi egli sia.
(67) Parodia di vari luoghi dOmero.
(68) Ei pare che queste parole intorno ai sacrifizi dovevano far parte dun discorso, duna lettera o
dun trattatello.
(69) Pitagora somma 1, 2, 3, e 4, che fan dieci. Il triangolo perfetto è il problema del triangolo
equilatero trovato da Pitagora. Il quattro era numero sacro pe Pitagorici: anzi essi designavano le
divinità coi numeri. Però più appresso è detto che la Divinità è un numero e unarmonia.
(70) La mina attica valeva quasi cinquanta lire. Il talento attico era di sessanta mine.
(71) Kyon, significa cane e cinico.
(72) Il verso dEuripide è così tradotto da Cicerone negli Ufficii: Juravi lingua, mentem iniuratam
gero. Diogene lo travolge a suo modo.
(73) Si crede che così morisse Diogene.
(74) Eraclito credeva il tempo finito, e lo chiamava Aion, secolo. Egli poi parlava molto scuro, e lo
chiamavano il tenebroso.
(75) Indimostrabil sillogismo, cioè inoppugnabile, contro di cui non si può fare altra dimostrazione.
(76) Esoterico ed essoterico, interno ed esterno: voci usate anche nella filosofia moderna.
(77) Pirria. Pirrone, detto Pirria per beffa.
(78) Questo fuggitivo è il Vero, che gli scettici non raggiungono mai.
(79) Il lettore ricorderà che molti Ateniesi, prigioni in Sicilia, recitando versi di Omero e di
Euripide, furono liberati.
(80) Strombettatore. Il testo dice: kedemon, che significa curatore, difensore, ed ancora curatore dei
funerali: e con questa parola di doppio senso Luciano lodando morde i fìlosofi. Strombettatore è
anche di doppio senso, perchè si strombetta alcuno e per male e per bene. So che non corrisponde
alla parola del testo: ma io non ho saputo fare altramente.
(81) Proverbio greco che significa: Il nemico ci sfida in quello che per lui è più facile. Il cavallo
corre meglio per la pianura che per lerta.
(82) Il Ceramico, era portico di Atene, coverto di tegoli, che in greco diconsi keramoi, dove erano
lo statue dei cittadini illustri, e dove si andava a passeggiare. Si passeggiava anche nel Pecile, altro
portico ornato di varie dipinture, e dove era per man di Polignoto dipinta la battaglia di Maratona.
(83) I giudici avevano una mercede per ogni causa che giudicavano. Vedi il dialogo intitolato
LAccusato di due accuse.
(84) Gli Ateniesi, a chi li dimandava, dicevano il nome proprio, quello del padre, quello della tribù
o demo cui appartenevano.
(85) Della città di Soli, nella Cilicia, furono Arato, Cratone, e Crisippo: di Cipro fu Zenone;
Diogene lo Stoico fu di Babilonia: Aristotele fu di Stagira. Gli abitanti di Soli parlavano assai
scorrettamente il greco; onde soloikizo e soloikismos, significa io parlo scorrettamente, e
scorrezione o sgrammaticatura.
(86) Parole di Platone nel Fedro.
(87) Agonoteti, magistrati che sovrintendevano ai giuochi.
(88) Versi dEuripide nelle Fenicie e nellOreste.
(89) I più virtuosi cittadini erano nutriti nel Pritaneo a pubbliche spese.
(90) Pesce cane. È un cinico.
(91) Le acciughe eran comuni e vili in Atene. Qui vè un giuoco di parole tra aphnon, delle
acciughe, che dice Parlachiaro, e aphnestatoi, che risponde Diogene, e che significa inettissimi.
(92) Il testo dice platys, alludendo al nome di Platone.
(93) Crisippo è nome composto di due parole, delle quali la prima significa oro.
(94) Ta pro EukleidondProverbio attico, che potria recarsi in italiano: Quando Mona Berta filava.
Scacciati i trenta tiranni, gli Ateniesi crearono arconte Euclide, e fecero una legge damnistia per
tutto il passato. Onde il proverbio.
(95) I ricchi purificavano le loro case al cominciar dogni mese; e per non gettare i cibi che si
trovavano di avere, li esponevano su la via, e i poveri se li mangiavano. Queste purificazioni si
facevano invocando Proserpina o Ecate. La cena di Ecate eran dunque questi cibi lustrali.
(96) Tes triaines tas akmas. Spiegano: le punte del tridente. Io non vedo che ha a fare qui il tridente.
Però credo che qui triaina non significhi il tridente, ma l'amo a tre punte.
(97) Per ben comprendere ciò che qui ed altrove Luciano dice di Teognide, eccone tutto
l'epigramma da me tradotto:
Cirno, la dura povertà tormenta
Sopra di tutti un uom dabbene, e quando
È nella bianca e gelida vecchiezza.
Fuggila, o Cirno mio, dovessi ancora
Precipitarti in mar pieno di mostri,
E dalla cima di un aereo scoglio.
L'uom che di povertà sente le strette
Non può niente più dire, niente fare,
Ha la lingua legata nella bocca.
Onde convien sopra la terra, e sopra
L'ampio dorso del mar andar cercando
Di liberarsi da questa crudele.
Meglio morire un povero infelice,
Meglio, o mio Cirno, che viver di stenti
Da povertà crudele strazïato.
(98) Questo Mandrabulo una volta trovò in Samo una pecora d'oro, e l'offerì a Giunone: l'anno
appresso la trovò d'argento, poi di bronzo. (Scolio greco.)
(99) Nel testo è questaltro concetto. E ce ne ha alcuni ancora che voglion farsi ammirare come belli,
e chiamare Adoni e Iacinti, avendo un palmo di naso. A molti, ed a me, pare che sia un concetto
interposto da qualche scoliaste o copista: e però lho tolto, e messo in nota. Mi pare ancora che il
periodo antecedente che comincia: Io ho conosciuto un retore ec. non sia ben legato con gli altri, e
però sia anche un'interpolazione di copista.
(100) Allude a Filosseno che non lodò Dionisio, e capitò male.
(101) Il poeta Stesicoro biasimò Elena, e per pena divenne cieco: ne ricantò la palinodia, e riebbe la
vista.
(102) Verso dEuripide nelle Fenicie. Se nhai guadagno sposa ancora il diavolo, disse Antigono al
figliuolo Demetrio, che non voleva sposar Fila, vecchia e vedova di Cratero. Plutarco in Demetrio.
Buone genti, tenete a mente questo verso, e la parodia che ne fece Antigono, chè fa per voi.
(103) Forse Zaleuco. Il fatto si narra diversamente. Pose legge che chi fosse còlto in adulterio
avesse cavati tutti e due gli occhi: vi cadde un suo figliuolo: il popolo pregava gli avesse pietà: egli
serbò pietà e giustizia: fece cavare lun occhio al figliuolo, laltro a sè.
(104) Il verso dEuripide dice lo sdegno, ho thymos.
(105) Questo pure è un detto di qualche antico poeta, ora sconosciuto. Il Cillarabi era il ginnasio
dArgo. Aveva tradotto: Non mai Argo avrà tanta sete da torsela con ogni acqua: ed era più chiaro:
ma dipoi ho voluto meglio attenermi al testo.
(106) Il suffragio favorevole si dava con la palla bianca e piena; il contrario con la nera e forata.
(107) Il greco dice: Mi basta rispondere: Non se cura Ipoclide. Credo che il modo italiano sia più
chiaro e facile per noi.
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