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Del materialismo storico.
Antonio Labriola
TITOLO: Del materialismo storico.
Dilucidazione preliminare
AUTORE: Antonio Labriola
TRADUZIONE E NOTE:
NOTE: pubblicato nel 1896
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: Antonio Labriola,
Scritti filosofici e politici,
a cura di Franco Sbarberi,
Einaudi, Torino, 1973, vol. II
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 1 gennaio 1999
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Claudio Ermini, [email protected]
REVISIONE:
Roberto Gagliardi, [email protected]
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Antonio Labriola
Del materialismo storico
Dilucidazione preliminare
Avvertenza alla seconda edizione
La prima edizione di questo lavoro, venuta in luce con la data del 10 marzo 1896, recava la
seguente Avvertenza:
"Il lettore vedrà da sé, fin dalle prime linee di questo scritto, come io entri difilato in argomento,
senza preamboli di sorta.
Mi pare già, che l'altro, ossia il primo saggio che questo precede, offra da solo un sufficiente
istradamento elementare a chi ne abbia bisogno.
In verità, poi, non giova di molto mai all'intendimento schietto delle questioni scientifiche, quel fare
da letterati, che usano alcuni, i quali, mettendosi quasi sopra alle cose, ne ragionano come dal di
fuori. Addentrarsi direttamente nelle cose stesse, per quel modo di discussione, che è tutt'uno con la
esposizione dottrinale; ecco ciò che precipuamente importa in questo genere di trattazioni. Solo per
cotesta via ci è dato d'indurre nelle menti persuasione e convinzione. Per cotesto procedimento
soltanto le difficoltà rimangono positivamente vinte; e le opinioni, che altri possa addurre in
contrario, trovansi da ultimo eliminate in fatto.
Il titolo di dilucidazione preliminare, che adopero, non è espressione, né di cautela, né di modestia.
Esso designa semplicemente l'indole di questo scritto, e ne segna i precisi confini".
In questa ristampa mi sono ristretto a correggere alcune parole e qualche giro di frase. E, in vero, a
voler rispondere partitamente a tutte le critiche e a tutte le obiezioni, che negli ultimi anni furon
mosse alle dottrine qui rappresentate che questo così semplice e scorrevole volumetto diventasse
una ponderosa enciclopedia. E dove se n'andrebbe poi da ultimo il carattere della dilucidazione
preliminare?
Per quei lettori che abbiano vaghezza di conoscere da vicino il tenore circa il materialismo storico,
che son corse negli ultimi tempi, riproduco in fine, come in appendice, un mio articolo apparso
nella "Rivista di Sociologia" del giugno 1899.
Roma, 20 maggio 1902
I.
In questo genere di considerazioni, come in tanti altri, ma in questo più che in ogni altro, è di non
piccolo impedimento, anzi torna di fastidioso impaccio, quel vizio delle menti addottrinate coi soli
mezzi letterarii della coltura, che di solito dicesi verbalismo. Si insinua e si espande in ogni campo
di conoscenze cotesto mal vezzo; ma nelle trattazioni che si riferiscono al così detto mondo morale,
e ossia al complesso storico-sociale, accade assai di sovente, che il culto e l'impero delle parole
riescano a corrodervi e a spegnervi il senso vivo e reale delle cose.
Là dove la prolungata osservazione, il reiterato esperimento, il sicuro maneggio di raffinati
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istrumenti, l'applicazione totale o almeno parziale del calcolo, finiron per metter la mente in una
metodica relazione con le cose e con le variazioni loro, come è il caso delle scienze naturali
propriamente dette, ivi il mito ed il culto delle parole rimasero oramai superati e vinti, ed ivi le
questioni terminologiche non hanno in fin delle fini se non il valore subordinato di una mera
convenzione. Nello studio, invece, dei rapporti e delle vicende umane, le passioni, e gl'interessi, e i
pregiudizii di scuola, di setta, di classe, di religione, e poi l'abuso letterario dei mezzi tradizionali
della rappresentanza del pensiero, e poi la scolastica non mai vinta e anzi sempre rinascente, o
fanno velo alle cose effettuali, o inavvertitamente le trasformano in termini, e parole, e modi di dire
astratti e convenzionali.
Di tali difficoltà bisogna che innanzi tutto si renda conto chi mette fuori in pubblico la espressione,
o formula, di concezione materialistica della storia. A molti è parso, pare e parrà sia ovvio e
comodo di ritrarne il senso dalla semplice analisi delle parole che la compongono, anziché dal
contesto di una esposizione, o dallo studio genetico del come la dottrina si è prodotta (1), o dalla
polemica con la quale i sostenitori suoi ribattono le obiezioni degli avversarii. Il verbalismo tende
sempre a rinchiudersi in definizioni puramente formali; porta le menti nell'errore, che sia cosa facile
il ridurre in termini e in espressioni semplici e palpabili l'intricato e immane complesso della natura
e della storia; e induce nella credenza, che sia cosa agevole il vedersi sott'occhi il multiforme e
complicatissimo intreccio delle cause e degli effetti, come in ispettacolo da teatrino; o, a dirla in
modo più spiccio, esso oblitera il senso dei problemi, perché non vede che denominazioni.
Se si dà poi il caso, che il verbalismo trovi sostegno in tali o tali altre supposizioni teoretiche, come
sarebbe questa, che materia voglia dire un qualche cosa che sta di sotto o di contro ad un'altra cosa
più alta o più nobile, che vien chiamata lo spirito; o se si dà il caso, che esso si confonda con l'abito
letterario di contrapporre la parola materialismo, intesa in senso dispregiativo, a tutto ciò che
compendiosamente chiamasi idealismo, cioè all'insieme d'ogni inclinazione e d'ogni atto anti-
egoistico: e allora sì che siamo spacciati. Ed ecco che si sente dire: qui in questa dottrina si tenta di
spiegare tutto l'uomo col solo calcolo degl'interessi materiali, negando qualsiasi valore ad ogni
interesse ideale. A far nascere di tali confusioni non è valso poco la inesperienza, la incapacità e la
frettolosità di certi propugnatori e propagatori di questa dottrina; i quali, per la premura di spiegare
agli altri ciò che essi medesimi non intendevano a pieno, mentre la dottrina stessa non è se non agli
inizii suoi, ed ha bisogno ancora di molto sviluppo, si son data l'aria di applicarla, pur che sia, al
primo caso o fatto storico che loro capitasse fra mani, e l'han quasi ridotta in briciole, esponendola
alla facile critica ed al dileggio degli orecchianti di novità scientifiche, e di altrettali sfaccendati.
Per quanto è lecito qui, in queste prime pagine, di respingere solo preliminarmente cotesti
pregiudizii, e di redarguire le intenzioni e le tendenze che li sorreggono, occorre di ricordare: - che
il senso di questa dottrina va innanzi tutto desunto dalla posizione, che essa assume ed occupa di
fronte a quelle, contro le quali si è effettivamente levata, e segnatamente di fronte alle ideologie di
ogni maniera; - che la riprova del suo valore consiste esclusivamente nella spiegazione più
conveniente e congrua del succedersi delle vicende umane, che da essa stessa deriva; - che questa
dottrina non implica una preferenza soggettiva ad una certa qualità e somma d'interessi umani,
contrapposti ad altri interessi per elezione di arbitrio, ma enuncia soltanto la obiettiva coordinazione
e subordinazione di tutti gli interessi nello sviluppo di ogni società, ed enuncia ciò per via di quel
processo genetico, il quale consiste nell'andare dalle condizioni ai condizionati, dagli elementi della
formazione alla cosa formata.
Almanacchino pure i verbalisti, a posta loro, sul valore della parola materia, in quanto è segno o
ricordo di metafisica escogitazione, o in quanto è espressione dell'ultimo sostrato ipotetico della
esperienza naturalistica. Qui noi non siamo nel campo della fisica, della chimica o della biologia;
ma cerchiamo soltanto le condizioni esplicite del vivere umano, in quanto esso non è più
semplicemente animale. Non si tratta già di indurre o di dedurre nulla dai dati della biologia; ma,
anzi, di riconoscere innanzi ad ogni altra cosa le peculiarità del vivere umano, che si forma e
sviluppa per il succedersi e perfezionarsi delle attività dell'uomo stesso, in date e variabili
condizioni; e di trovare i rapporti di coordinazione e di subordinazione dei bisogni, che sono il
sostrato del volere e dell'operare. Non è una intenzione che si cerchi di scovrire, non è una
valutazione di pregio che si voglia enunciare; ma è la sola necessità di fatto che si vuol mettere in
evidenza.
E come gli uomini, non per elezione ma perché non potrebbero altrimenti, soddisfano prima certi
bisogni elementari, e poi da questi ne sviluppano degli altri, raffinandosi; e, a soddisfare i bisogni
quali che siano, trovano ed usano certi mezzi ed istrumenti, e si consociano in certi determinati
modi, il materialismo della interpretazione storica non è se non il tentativo di rifare nella mente, con
metodo, la genesi e la complicazione del vivere umano sviluppatosi attraverso i secoli. La novità di
tale dottrina non è difforme da quella di tutte le altre dottrine, che, dopo molte peripezie entro i
campi della fantasia, son giunte da ultimo assai faticosamente ad afferrare la prosa della realtà, ed a
fermarsi in essa.
II.
Di una certa affinità, per lo meno nelle apparenze, con cotesto vizio formale del verbalismo è un
altro difetto, che derivasi nelle menti per diverse vie. Guardando in certi suoi effetti più comuni e
popolari, lo dirò fraseologico; sebbene questa parola qui non esprima a pieno la cosa, e non ne
dichiari l'origine.
Da molti secoli si va scrivendo, esponendo, illustrando la storia. I più svariati interessi,
dagl'immediatamente pratici ai puramente estetici, spinsero i diversi scrittori ad ideare ed eseguire
cotesto genere di composizioni; le quali, però, ebbero sempre nascimento nei diversi paesi un pezzo
in qua dalle origini della civiltà, dallo sviluppo dello stato, e dal trapasso della primitiva società
comunistica in questa, diremo in genere nostra, che si regge su le differenze e su le antitesi di
classe. Gli storici, fossero pur essi ingenui quanto fu Erodoto, nacquero e si formarono sempre in
una società punto ingenua, e anzi di molto complicata e complessa, e quando ditale complicazione e
complessione le ragioni erano ignote, e le origini erano state obliate. Cotesta complessità, con tutti i
contrasti che reca in sé, e che poi rivela e fa scoppiare nelle sue svariate vicende, si rizzava di fronte
ai narratori come qualcosa di misterioso, che chieda spiegazione; e, per poco che lo storico volesse
dare un qualche seguito ed un certo nesso alle cose narrate, dovea pur trovare dei complementi di
vedute generali al semplice racconto. Dall'invidia degli dei del padre Erodoto all'ambiente del
signor Taine, un infinito numero di concetti, intesi come mezzi di spiegazione e di complemento
delle cose narrate, si sono imposti ai narratori per le vie naturali del pensiero immediato. Tendenze
di classe, preconcetti religiosi, pregiudizii popolari, influssi o imitazioni di una filosofia corrente,
ripieghi di fantasia, e suggestioni di artistico completamento dei fatti frammentariamente appresi;
tutte coteste ed altrettali cause concorsero a formare il sostrato di quella teoria più o meno ingenua
degli accadimenti, che, o sta implicitamente in fondo al racconto, o è usata se non altro a condirlo e
ad adornano. O che si parli di caso o di fato, o che si rimandi alla direzione provvidenziale delle
cose umane, o che si accentui il nome e il concetto della fortuna - la divinità che sola mezzo mezzo
sopravviva ancora nella rigida e spesso crassa concezione di Machiavelli, - o che si parli, come si fa
ora assai di frequente, della logica delle cose; tutte coteste escogitazioni furono e sono trovate e
ripieghi di un pensiero ingenuo, di un pensiero immediato, di un pensiero che non può giustificare a
se stesso il suo procedimento e i suoi prodotti, né per le vie della critica, né coi mezzi
dell'esperimento. Colmare con dei soggetti convenzionali (p. e. la fortuna), o con una enunciazione
di apparenza teoretica (p. e. il fatale andare delle cose, che alcune volte poi si confonde nelle menti
con la nozione del progresso), le lacune della coscienza circa il modo come le cose siano
effettivamente procedute di loro propria necessità, e fuori del nostro arbitrio e del nostro
gradimento, ecco il motivo e la somma di cotesta filosofia popolare, latente od esplicita negli storici
narratori, la quale per il suo carattere immediato si dilegua non appena sorge la critica della
conoscenza.
In tutti cotesti concetti, e in tutte coteste ideazioni, che alla luce della critica paiono dei semplici
mezzi provvisorii e dei ripieghi di un pensiero immaturo, ma che alla gente colta sembrano spesso il
non plus ultra dell'intelletto, si rivela pure e si riflette una non piccola parte del processo umano; e
per ciò non sono da considerare come gratuite invenzioni, nè come prodotti di momentanea
illusione. Sono parte e momenti del divenire di ciò che chiamiamo spirito umano. Se si dà poi il
caso, che tali concetti ed ideazioni si mescolino e confondano nella communis opinio delle persone
colte, o di quelle che passano per tali, finiscono per costituire come una ingente massa di
pregiudizii, e formano come l'impedimento che l'ignoranza contrappone alla visione chiara e piena
delle cose effettuali. Cotesti pregiudizii ricorrono come derivati fraseologici per le bocche dei
politicanti di mestiere, dei così detti pubblicisti e dei gazzettieri d'ogni sorta e maniera, ed offrono il
fulcro della retorica alla così detta opinione pubblica.
Contrapporre, e poi sostituire, a tale miraggio di ideazioni non critiche, a tali idoli della
immaginazione, a tali ripieghi dell'artificio letterario, a tali convenzionalismi, i soggetti reali, ossia
le forze positivamente operanti, ossia gli uomini nelle varie e circostanziate situazioni sociali
proprie di loro: - ecco l'assunto rivoluzionario e la meta scientifica della nuova dottrina, la quale
obiettivizza e direi quasi naturalizza la spiegazione dei processi storici.
Questo tal popolo, ossia, non una qualunque massa d'individui, ma un plesso di uomini così o così
organati, o per naturali rapporti di consanguineità, o per artificii e consuetudini di parentato e di
affinità, o per ragioni di vicinato stabile; - questo tal popolo, su cotal territorio circoscritto e
limitato, che è così o così ferace, ed è in tale o tale altra maniera produttivo, e fu in determinate
forme acquisito al lavoro continuativo; - questo tal popolo cosi distribuito su tale territorio, e cosi in
sé spartito ed articolato, per effetto di una determinata division del lavoro, la quale abbia, o iniziata
appena, o già iniziata e maturata questa o tale altra divisione di classi, o delle classi ne abbia di già
erose o trasformate parecchie; - questo popolo, che possiede i tali o tali altri istrumenti, dalla pietra
focaia alla luce elettrica, e dall'arco e dalla freccia al fucile a ripetizione, e che produce in un certo
modo, e conforme al modo del produrre conseguentemente spartisce i prodotti; - questo popolo, che
per tutti cotesti rapporti è una società, nella quale, o per abiti di mutua accomodazione, o per
esplicite convenzioni, o per violenze patite e subite, son nati già o stanno per nascere dei legami
giuridico-politici, che poi metton capo nell'assetto dello stato; - questo popolo, nato che sia
l'organamento dello stato, che è il tentativo di fissare, di difendere e di perpetuare le disuguaglianze,
e che, per via delle nuove antitesi che vi reca dentro, rende di continuo instabile l'ordinamento
sociale, si determinano i movimenti e le rivoluzioni politiche, e quindi le ragioni del progresso e del
regresso: - ecco la somma di ciò che sta a fondamento di ogni storia. Ed ecco la vittoria della prosa
realistica sopra ogni combinazione fantastica e ideologica.
Ci vuol certo della rassegnazione a veder le cose come esse sono, oltrepassando i fantasimi che per
secoli ne impedirono la retta visione. Ma questa rivelazione di dottrina realistica non fu, né vuole
essere, la ribellione dell'uomo materiale contro l'uomo ideale. E' stata ed è invece il ritrovamento
dei veri e propri principii e moventi di ogni sviluppo umano, compreso quello di tutto ciò che
chiamiamo ideale, in determinate condizioni positive di fatto, le quali recano in sé le ragioni, e la
legge, e il ritmo del loro proprio divenire.
III.
Se non che sarebbe affatto erroneo il credere, che gli storici narratori, espositori o illustratori
abbiano di capo loro e di loro invenzione messo in essere quella massa non piccola di preconcetti,
di ideazioni e di spiegazioni immature, che con la forza del pregiudizio fecero velo per secoli alla
verità effettuale. Può darsi, e si dà veramente il caso, che alcuni di cotesti preconcetti siano il frutto
ed il portato di personali escogitazioni, o delle correnti letterarie le quali si formano per entro
all'angusta cerchia professionale delle università e delle accademie: - e di ciò il popolo non sa nulla.
Ma il fatto importante è, che la storia cotesti veli se li è messi da sé; e, cioè dire, che gli attori ed
operatori stessi delle vicende storiche, o fossero le grandi masse di popolo, o i ceti e le classi
dirigenti, o i maneggiatori dello stato, o le sètte, o i partiti nel più ristretto senso della parola, fatta
eccezione di qualche momento di lucido intervallo, fin quasi alla fine del secolo passato non ebbero
coscienza dell'opera propria, se non per entro a qualche involucro ideologico, che impediva la
visione delle cause reali. Già nei tempi oscuri, nei quali ebbe luogo il passaggio dalla barbarie alla
civiltà; quando, cioè, coi primi trovati dell'agricoltura, col primo insediamento stabile di una
popolazione sopra di un dato territorio, con la prima divisione del lavoro nella società, e con le
prime alleanze di diverse genti, si stabilirono le condizioni in cui si svolge la proprietà e lo stato, o
per lo meno la città; già nei tempi, in somma, delle primissime rivoluzioni sociali, gli uomini
trasformarono l'opera loro in azioni miracolose d'immaginati iddii ed eroi. In guisa, che operando
essi come potevano e come dovevano per dato, necessità e fatto del loro relativo sviluppo
economico, idearono una spiegazione dell'opera propria, come se di loro stessi essa non fosse.
Cotesto involucro ideologico delle opere umane ha più volte poi cambiato di forme, di apparenze,
di combinazioni e di relazioni nel corso dei secoli, dalla produzione immediata dcgl'ingenui miti,
fino ai complicati sistemi teologici e alla Città di Dio di sant'Agostino, dalla superstiziosa credulità
nei miracoli, fino al mirabolante miracolo dei miracoli metafisici, ossia fino all'1dea, che presso i
decadenti dell'hegelismo genera da sé in se stessa, per propria dirempsione, tutte le più disparate
varietà del vivere umano nel corso della storia.
Ora, precisamente perché l'angolo visuale della interpretazione ideologica non fu definitivamente
superato se non assai di recente, e solo ai giorni nostri l'insieme dei rapporti reali e realmente
operanti fu con chiarezza distinto dai riflessi ingenui del mito, e dai più artificiosi della religione e
della metafisica, la nostra dottrina include un nuovo problema, e reca in sé delle difficoltà non lievi,
per chi voglia renderla atta a comprendere specificatamente la storia del passato.
Il problema consiste in questo: che la nostra dottrina dia occasione ad una nuova critica delle fonti
storiche. Né intendo di dire esclusivamente della critica dei documenti, nel senso proprio ed ovvio
della parola; perché, quanto a questa, possiamo nella più parte contentarci ce la somministrino bella
e fatta i critici, gli eruditi e i filologi di professione. Ma anzi intendo di dire di quella fonte
immediata, che sta più in là dai documenti propriamente detti, e che prima di esprimersi e di fissarsi
in questi, consiste nell'animo e nella forma di consapevolezza, nella quale gli operatori resero conto
a sé dei motivi dell'opera loro propria. Cotesto animo, ossia cotesta consapevolezza, è spesso
incongrua alle cause che noi ora siamo in grado di scovrire e di fissare; in guisa che gli operatori ci
appaiono come involti in un circolo di illusioni. Spogliare i fatti storici di tali involucri, che i fatti
stessi investono mentre essi si svolgono, gli è fare una nuova critica delle fonti, nel senso realistico
della parola, e non in quello formale del documento: gli è, insomma, far reagire sulla notizia delle
condizioni passate la consapevolezza di cui noi ora siamo capaci, per poi ricostruire quelle
nuovamente dal fondo.
Ma cotesta revisione delle fonti direttissime, mentre segna l'estremo limite di autocoscienza storica
cui si possa mai giungere, può essere occasione a cadere in un grave errore. Perché, come noi ci
collochiamo in un punto di vista, che sta di là dalle vedute ideologiche, per virtù delle quali gli
attori della storia ebbero coscienza dell'opera loro, e nelle quali trovarono assai spesso e i moventi e
la giustificazione all'operare, noi potremmo incorrere nella erronea opinione, che quelle vedute
ideologiche fossero una pura parvenza, un semplice artifizio, una mera illusione, nel senso volgare
di questa parola. Martino Lutero, per venire ad un esempio, come gli altri grandi riformatori suoi
contemporanei, non seppe mai, come ora sappiamo noi, che il moto della Riforma fosse uno stadio
del divenire del terzo stato, e una ribellione economica della nazionalità tedesca contro lo
sfruttamento della corte papale. Egli fu quello che fu, come agitatore e come politico, perché fu
tutt'uno con la credenza che gli facea apprendere il moto di classi, che dava impulso all'agitazione,
quale ritorno al vero cristianesimo, e come una divina necessità nel corso volgare delle cose. Lo
studio degli effetti a scadenza non breve, e cioè il corroborarsi della borghesia di città contro i
signori feudali, e il crescere della signoria territoriale dei principii a spese del potere interterritoriale
e sopraterritoriale dell'imperatore e del papa, la violenta repressione del movimento dei contadini e
di quello più esplicitamente proletario degli Anabattisti, ci permettono ora di rifare la storia genuina
delle cause economiche della Riforma; specie in quanto riuscì, il che è la riprova massima. Ma ciò
non vuol dire, che a noi sia dato di distrarre il fatto accaduto dal modo del suo accadimento, e di
discioglierne la integralità circonstanziale per via di una analisi postuma, che riesca affatto
soggettiva e semplicistica. Le cause intime, o, come si direbbe ora, i motivi profani e prosaici della
Riforma ci appariscono più chiari in Francia ove essa per l'appunto non riuscì vittoriosa; e chiari
ancora nei Paesi Bassi, ove, oltre alle differenze di nazionalità, vengono in piena evidenza nella
lotta con la Spagna i contrasti degli interessi economici; e chiarissime infine in Inghilterra, dove la
rinnovazione religiosa, verificatasi per le vie della violenza politica, mette in piena luce il trapasso
in quelle condizioni, che sono per la borghesia moderna i prodromi del capitalismo. Post factum, e a
lunga scadenza di non premeditati effetti, la storia dei moventi effettivi, che furono le cause intime
della Riforma, in gran parte insapute agli attori stessi, apparisce chiara. Ma che il fatto accadesse
come precisamente accadde, che assumesse quelle determinate forme, che si vestisse di quella
veste, che si colorisse di quel colore, che movesse quelle passioni, che si esplicasse in quel
fanatismo: in ciò consiste la specificata circostanzialità sua, che nessuna presunzione di analisi può
fare non fosse quale fu. Solo l'amore del paradosso, inseparabile sempre dallo zelo degli
appassionati divulgatori di una dottrina nuova, può avere indotto alcuni nella credenza, che tanto a
scriver la storia bastasse di mettere in evidenza il solo momento economico (spesso non accertato
ancora, e spesso non accertabile affatto), per poi buttar giù tutto il resto come inutile fardello, di cui
gli uomini si fossero caricati a capriccio; come accessorio, in somma, o come semplice bagattella o
a dirittura come un non-ente.
Per tale avvertenza, che la storia, cioè, bisogna intenderla tutta integralmente, e che in essa nocciolo
e scorza fanno uno, come Goethe diceva delle universe cose, tre illazioni ci si fanno palesi.
In primo luogo è chiaro, che nel campo del determinismo storico-sociale la mediazione dalle cause
agli effetti, dalle condizioni ai condizionati, dai precedenti alle conseguenze, non è mai evidente
alla prima, alla stessa guisa come tutti cotesti rapporti non son mai evidenti alla prima nel
determinismo soggettivo della psicologia individuale. In questo secondo campo fu già da gran
tempo cosa relativamente agevole per la filosofia astratta e formale di ritrovare, passando sopra a
tutte le fole del fatalismo e del libero arbitrio, la evidenza del motivo in ogni volizione, perché,
insomma, tanto è volere quanto è motivata determinazione. Ma più in giù dei motivi e del volere sta
la genesi di quelli e di questo, e a rifare cotesta genesi ci occorre di uscire dal rinchiuso campo della
coscienza per arrivare all'analisi dei semplici bisogni, i quali per un verso derivano dalle condizioni
sociali, e per un altro si perdono nell'oscuro fondo delle disposizioni organiche, fino alla
discendenza e all'atavismo. Non altrimenti accade nel determinismo storico; dove allo stesso modo
si comincia appunto dai motivi, poniamo religiosi, politici, estetici, passionali e cosi via, ma poi
occorre di tali motivi ritrovar le cause nelle condizioni di fatto sottostanti. Ora lo studio di queste
condizioni deve esser tanto specificato, che rimanga da ultimo chiarito, non solo che esse son le
cause, ma per qual mediazione arrivino a quella forma, per la quale si rivelano alla coscienza come
motivi, la cui origine è spesso obliterata.
E per ciò torna evidente questa seconda illazione, che, cioè, nella nostra dottrina non si tratta già di
ritradurre in categorie economiche tutte le complicate manifestazioni della storia, ma si tratta solo
di spiegare in ultima istanza (Engels) ogni fatto storico per via della sottostante struttura economica
(Marx): la qual cosa importa analisi e riduzione, e poi mediazione e composizione.
Resulta da ciò, in terzo luogo, che per procedere dalla sottostante struttura all'insieme configurativo
di una determinata storia, occorre il sussidio di quel complesso di nozioni e di conoscenze, che può
dirsi, in mancanza d'altro termine, psicologia sociale. Né intendo con ciò di alludere alla fantasticata
esistenza di una psiche sociale, né alla escogitazione di un preteso spirito collettivo, che per proprie
leggi, indipendenti dalla coscienza degl'individui e dai loro materiali ed assegnabili rapporti, si
esplichi e manifesti nella vita sociale. Cotesto è misticismo schietto. Né intendo di riferirmi a quei
tentativi di generalizzazione combinatoria, pei quali furono scritti dei trattati di psicologia sociale,
la cui idea è questa: trasferire ed applicare ad un escogitato soggetto, che si chiama la coscienza
sociale, le categorie e le forme accertate della psicologia individuale. E non voglio nemmeno
alludere a quel coacervo di denominazioni semiorganiche e semipsicologiche, per cui l'ente società,
alla maniera dello Schäffle, acquista, e cervello, e midollo spinale, e sensibilità, e sentimento, e
coscienza, e volontà e così via. Ma intendo di parlar di cosa più modesta e prosaica; ossia di quelle
concrete e precise forme di spirito, per cui ci appaiono così fatti com'erano i plebei di Roma di una
determinata epoca, o gli artigiani di Firenze di quando scoppiò il moto dei Ciompi, o quei contadini
di Francia, nei quali s'ingenerò, secondo l'espressione di Taine, l'anarchia spontanea dell'89, quei
contadini, che divenuti poi liberi lavoratori e piccoli proprietarii, o aspiranti alla proprietà, da
vincitori oltre i confini a breve andare si trasformarono in automatici istrumenti della reazione.
Cotesta psicologia sociale, che nessuno può ridurre in astratti canoni, perché nella più parte dei casi
è di sola descrittiva, è ciò che gli storici narratori, e gli oratori e gli artisti, e i romanzieri e gli
ideologi di ogni maniera fino ad ora videro e conobbero come esclusivo oggetto di loro studio e
delle loro invenzioni. A cotesta psicologia, che è la specificata coscienza degli uomini in date
condizioni sociali, si riferiscono e si appellano gli agitatori, gli oratori, i diffonditori di idee. Noi
sappiamo che essa è il portato, il derivato, l'effetto di determinate condizioni di fatto; - questa
determinata classe, in questa determinata situazione per gli ufficii che adempie, per la soggezione in
cui è tenuta, per la padronanza che esercita; - e poi classe, ed ufficii, e soggezione, e padronanza
suppongono questa o quella determinata forma di produzione e di distribuzione dei mezzi
immediati della vita, ossia una specifica struttura economica. Cotesta psicologia sociale, di sua
natura sempre circostanziale, non è l'espressione del processo astratto e generico del così detto
spirito umano. E' sempre formazione specificata di specificate condizioni.
Per noi sta, cioè , indiscusso il principio, che non le forme della coscienza determinano l'essere
dell'uomo, ma il modo d'essere appunto determina la coscienza (Marx). Ma queste forme della
coscienza, come son determinate dalle condizioni di vita, sono anch'esse la storia. Questa non è la
sola anatomia economica, ma tutto quello insiememente, che cotesta anatomia riveste e ricovre, fino
ai riflessi multicolori della fantasia. O, a dirla altrimenti, non c'è fatto della storia che non ripeta la
sua origine dalle condizioni della sottostante struttura economica; ma non c'è fatto della storia che
non sia preceduto, accompagnato e seguito da determinate forme di coscienza, sia questa
superstiziosa o sperimentata, ingenua o riflessa, matura o incongrua, impulsiva o ammaestrata,
fantastica o ragionante.
IV.
Dicevo, qui poco innanzi, che la nostra dottrina obiettivizza, in un certo senso naturalizza la storia,
invertendone la spiegazione dai dati alla prima evidenti delle volontà operanti a disegno, e delle
ideazioni ausiliari all'opera, alle cause e ai moventi del volere e dell'operare, per trovar poi la
coordinazione di tali cause e moventi nei processi elementari della produzione dei mezzi immediati
della vita.
Ora in cotesto termine del naturalizzare si cela per molti una forte seduzione a confondere questo
ordine di problemi con un altro ordine di problemi; e, cioè, ad estendere alla storia le leggi e i modi
del pensiero, che parvero già appropriati e convenienti allo studio ed alla spiegazione del mondo
naturale in genere e del mondo animale in ispecie. E perché il darwinismo è riuscito ad espugnare,
col principio del trasformismo della specie, l'ultima cittadella della fissità metafisica delle cose,
onde poi gli organismi diventan per noi le fasi ed i momenti di una vera e propria storia naturale, è
parso a molti fosse ovvia e semplice impresa quella di assumere a spiegazione del divenire e del
vivere umano storico i concetti, e i principii, e i modi di vedere cui venne subordinata la vita
animale, che per le condizioni immediate della lotta per l'esistenza si svolge negli ambiti topografici
della terra non modificati da opera di lavoro. Il darwinismo politico e sociale ha invaso, a guisa di
epidemia, per non breve corso di anni, le menti di parecchi ricercatori, e assai più degli avvocati e
dei declamatori della sociologia, ed è venuto a riflettersi, quale abito di moda e qual corrente
fraseologica, perfino nel linguaggio cotidiano dei politicanti.
Qualcosa di immediatamente evidente e di intuitivamente plausibile pare, a prima vista, ci sia in
cotesto modo di ragionare; il quale, poi, si contraddistingue principalmente per l'abuso
dell'analogia, e per la fretta del conchiudere. L'uomo è senza dubbio un animale, ed è legato da
rapporti di discendenza e di affinità ad altri animali. Non ha privilegio di origine, nè di struttura
elementare, ed il suo organismo non è, se non un caso particolare della fisiologia generale. Il suo
primo ed immediato terreno fu quello della semplice natura, non modificata da artificio di lavoro; e
da ciò derivarono le condizioni imperiose ed inevitabili della lotta per l'esistenza, con le
conseguenti forme di accomodazione. Di qui ebbero origine le razze, nel vero e genuino senso della
parola, in quanto, cioè, sono determinazioni immediate di neri, di bianchi, di ulotrici, di lissotrici e
cosi via, e non formazioni secondarie storico-sociali, ossia i popoli e le nazioni. Di qui i primitivi
istinti di socialità, e, per entro al modo di vivere in promiscuità, i primi rudimenti della selezione
sessuale.
Ma dell'uomo ferus primaevus, che possiamo ricostruirci in fantasia per combinazione di
congetture, non è dato a noi di avere una empirica intuizione; come non ci è dato di determinare la
genesi di quel hiatus, ossia di quella discontinuità, per la quale l'uman genere s'è trovato come
distaccato dal vivere degli animali, e poi in seguito sempre superiore a questo. Tutti gli uomini, che
ora vivono su la superficie della terra, e tutti quelli che vissutici in passato formarono oggetto di
qualche apprezzabile osservazione, trovansi e trovavansi un buon tratto in qua dal momento in cui il
vivere puramente naturale era cessato. Un qualche abito di convivenza, che sa di costume e
d'istituzione, sia pur quello della forma più elementare a noi ora nota, ossia della tribù australiana,
divisa in classi e col connubio di tutti gli uomini di una classe con tutte le donne di un'altra classe,
distacca a grande intervallo il vivere umano dal vivere animale. A venire più in qua nella
considerazione della gens materna, il cui tipo classico irocchese ha per opera del Morgan
rivoluzionata la preistoria, dandoci al tempo stesso la chiave delle origini della storia propriamente
detta, noi ci troviamo in una forma di società già di molto avanzata per complessità di rapporti. Ora
nel grado di convivenza, che nel giro delle nostre conoscenze ci apparisce come elementarissimo,
ossia nell'australiano, non solo la lingua assai complicata differenzia gli uomini da tutti gli altri
animali (e lingua vuol dire condizione ed istrumento, causa ed effetto di socialità), ma la
specificazione del vivere umano, oltre che per la scoverta del fuoco, è fissata nell'uso di molti altri
mezzi artificiali per provvedere alla vita. Un ambito di terreno acquisito al girovagare di una tribù -
un modo di cacciare - l'uso perfetto di certi istrumenti da difendersi, e da ferire, e il possesso di certi
utensili da conservare le cose acquistate - e poi l'ornamento del corpo, e così via: - cioè, in fondo,
quella vita poggia sopra un terreno artificiale, per quanto elementarissimo, sul quale gli uomini si
provano di fissarsi e di adagiarsi, sopra un terreno che è alla fin fine la condizione di ogni ulteriore
sviluppo. Secondo che questo terreno artificiale è più o meno formato, gli uomini che l'han prodotto
e ci vivon su, si dicon più o meno selvaggi o barbari: e in quella prima formazione consiste ciò che
di solito chiamiamo preistoria.
La storia, secondo l'uso letterario della parola, e cioè quella parte del processo umano che ha
precisa consistenza di tradizione nella memoria, comincia quando il terreno artificiale è già un buon
tratto formato. Ad esempio: la canalizzazione della Mesopotamia, ed eccoti l'antica Babilonide
presemitica; - la derivazione del Nilo a scopo di coltura dei campi, ed eccoti l'antichissimo Egitto
hamitico. Su cotesto terreno artificiale, che apparisce all'estremo orizzonte della storia ricordata,
non vissero come non vivono ora, masse informi d'individui, ma consociazioni organate, che
ripeteano come ripetono ora l'organamento loro da distribuzione di ufficii, ossia di lavoro, e da
conseguenti ragioni e modi di coordinazione e di subordinazione. Tali relazioni, e vincoli, e modi di
vita non resultarono, come non resultano, da ripetizione e fissazione di abiti sotto l'azione
immediata della lotta animale per l'esistenza. Anzi suppongono il ritrovamento di certi istrumenti, e
p. e. l'addomesticazione di certi animali, e la lavorazione dei minerali fino al ferro, l'introduzione
della schiavitù, e così via, istrumenti e modi di economia, che prima differenziarono le comunanze
le une dalle altre, e poi differenziarono nelle comunanze i componenti loro. In altre parole, le opere
degli uomini, in quanto congregati, reagirono su gli uomini stessi. I loro trovati ed invenzioni,
creando modi di vivere supernaturali, produssero non solo abiti e costumanze (vestimento,
mangiare cucinato e simili) ma rapporti e vincoli di coesistenza, proporzionati e congrui al modo di
produrre e di riprodurre i mezzi della vita immediata.
Quando la storia tramandata per memoria incomincia, l'economia è già nel suo funzionamento. Gli
uomini lavorano per l'esistenza sopra di un campo, che fu in gran parte modificato dall'opera loro, e
con istrumenti che sono del tutto opera loro. E da quel punto in poi hanno lottato per la posizione
eminente degli uni su gli altri nell'uso di tali mezzi artificiali; e cioè, hanno lottato fra loro, in
quanto servi e padroni, sudditi e signori, conquistati e conquistatori, sfruttati e sfruttatori; e dove
han progredito, e dove han regredito, e dove si sono arrestati in una forma che non furon più capaci
di superare, ma non son mai più ritornati al vivere animale, con la completa perdita del terreno
artificiale.
Dunque la scienza storica ha per suo primo e principale oggetto la determinazione e la ricerca del
terreno artificiale, e della sua origine e composizione, e del suo alterarsi e trasformarsi. Dire che
tutto ciò non è se non parte e prolungamento della natura, è dir cosa, che per esser troppo astratta e
generica, in fin delle fini conchiude poco.
Il genere umano vive soltanto nelle condizioni telluriche, e non è chi possa supporlo trapiantato
altrove. In tali condizioni esso ha trovato, dalle primissime origini fino ai giorni nostri, i mezzi
immediati allo sviluppo del lavoro, e cioè dire, così al progresso materiale, come alla sua
formazione interiore. Tali condizioni naturali furono e son sempre indispensabili, così alla
sporadica cultura dei nomadi, che coltivano qualche volta la terra per il solo pascolo degli animali,
come ai raffinati prodotti della intensiva orticoltura moderna. Tali condizioni telluriche, come
offersero le varie sorti di pietra atte alla lavorazione delle prime armi, così offrono ora nel carbon
fossile l'alimento della grande industria; come offersero alle prime genti i giunchi ed i vimini da
intessere, così offrono ora tutti i mezzi da cui derivasi la complicata tecnica della elettricità.
Non son però i mezzi naturali, essi stessi, che sian progrediti; anzi son gli uomini soltanto che
progredirono, ritrovando via via nella natura le condizioni per produrre in nuove e sempre più
complesse forme, per via del lavoro accumulato che è l'esperienza. Né questo progresso è quello
solo che intendono i soggettivisti della psicologia, cioè una modificazione interiore, che sarebbe
sviluppo proprio e diretto dell'intelletto, della ragione e del pensiero. Anzi è tale progresso interiore
solo una linea secondaria e derivata, in quanto che c'è già progresso nel terreno artificiale, che è la
somma dei rapporti sociali resultanti dalle forme e spartizioni del lavoro. Sarebbe per ciò vuota di
senso l'affermazione, che tutto ciò non sia se non un semplice prolungamento della natura; se pure
non si vuole usare cotesta parola nel senso tanto generico, da non indicare più nulla di preciso e di
distinto, come è ciò che intendiamo per diverso dal fatto dell'uomo progressivamente operante.
La storia è il fatto dell'uomo, i quanto che l'uomo può creare e perfezionare i suoi istrumenti di
lavoro, e con tali istrumenti può crearsi un ambiente artificiale, il quale poi reagisce nei suoi
complicati effetti sopra di lui, e così com'è, e come via via si modifica, è l'occasione e la condizione
del suo sviluppo. Mancano per ciò tutte le ragioni per ricondurre questo fatto dell'uomo, che è la
storia, alla pura lotta per l'esistenza; la quale, se raffina ed altera gli organi degli animali, e in date
circostanze e in dati modi occasiona il generarsi e lo svolgersi di organi nuovi, non produce però
quel moto continuativo, perfezionativo e tradizionale che è il processo umano. Non c'è luogo qui,
nella nostra dottrina, né a confondersi col darwinismo, né a rievocare la concezione di una
qualunque forma, o mitica, o mistica, o metaforica di fatalismo. Perché, se è vero che la storia
poggia innanzi tutto su lo svolgimento della tecnica; e, cioè dire, se è vero, che per effetto del
successivo ritrovamento degli istrumenti si generarono le successive spartizioni del lavoro, e con
queste poi le disuguaglianze, nel cui concorso più o meno stabile consiste il così detto organismo
sociale, gli è altrettanto vero che il ritrovamento di tali istrumenti è causa ed effetto ad un tempo
stesso di quelle condizioni e forme della vita interiore, che noi, isolandole nella astrazione
psicologica, chiamiamo fantasia, intelletto, ragione, pensiero e cosi via. Producendo
successivamente i vani ambienti sociali, ossia i successivi terreni artificiali, l'uomo ha prodotto in
pari tempo le modificazioni di se stesso; e in ciò consiste il nocciolo serio, la ragione concreta, il
fondamento positivo di ciò che, per varie combinazioni fantastiche e con varia architettura logica,
dà luogo presso gli ideologisti alla nozione del progresso dello spirito umano.
Nondimeno l'espressione del naturalizzare la storia, che intesa in senso troppo lato e generico può
dare occasione agl'indicati equivoci, quando venga invece usata con la debita cautela e in modo
approssimativo, compendia in breve la critica di tutte le vedute ideologiche, le quali nella
interpretazione della storia partono dal presupposto, che opera o attività umana sia la stessa cosa
che arbitrio, elezione e disegno.
Ai teologi tornava facile e comodo di ricondurre il corso delle cose umane ad un piano o disegno,
perché saltavano a piè pari dall'esperienza ad una mente presunta che regoli l'universo. I giuristi,
che ebbero per primi occasione a ritrovare nelle istituzioni che formano oggetto dei loro studii un
certo filo conduttore di forme che si succedono con una qualche evidenza, trasferirono, come
trasferiscono tutt'ora senza grande imbarazzo, la ragion ragionante, che è il loro mestiere, alla
spiegazione di tutta la vasta materia sociale, che è tanto complicata. I politici, i quali piglian
naturalmente le mosse loro dall'esperienza di ciò che i direttori dello stato, o per l'acquiescenza
delle masse soggette, o profittando delle antitesi degl'interessi dei vani gruppi sociali, possono
volere ed eseguire a disegno, di proposito e con intenzione, sono inclinati a vedere nel succedersi
delle cose umane soltanto il variare di tali disegni, propositi ed intenzioni. Ora la nostra concezione,
rivoluzionando nei fondamenti le presupposizioni dei teologi, dei giuristi e dei politici, mette capo
all'assunto, che opera ed attività umana in genere non è sempre una medesima cosa, nel corso della
storia, con la volontà che operi a disegno, con piano preconcetti, e con la libera scelta dei mezzi;
ossia non è una e medesima cosa con la ragion ragionante. Tutto ciò che è accaduto nella storia è
opera dell'uomo; ma non fu né è, se non assai di rado, di elezione critica, e di arbitrio ragionante;
ma anzi fu ed è di necessità, che, determinata dai bisogni e dalle occasioni esterne, genera
esperienza e sviluppo di organi interni e d esterni. Tra questi organi sono anche l'intelletto e la
ragione, resultati e conseguenze anch'essi di esperienza ripetuta ed accumulata. La formazione
integrale dell'uomo, per entro allo sviluppo storico, non è oramai più un dato ipotetico, né una
semplice congettura; ma è una verità intuitiva e palmare. Le condizioni del processo che genera
progresso sono oramai riducibili in serie di spiegazioni; e noi, fino ad un certo punto, abbiamo
come sott'occhi lo schema di tutti gli sviluppi storici morfologicamente intesi. Questa dottrina è la
negazione recisa e definitiva di ogni ideologia, perché è la negazione esplicita d'ogni forma di
razionalismo; intendendosi sotto cotal nome il preconcetto, che le cose nella loro esistenza ed
esplicazione rispondano ad una norma, ad un ideale, ad una stregua, ad un fine in modo esplicito o
implicito che siasi. Tutto il corso delle cose umane è una somma, anzi è tante serie di condizioni,
che gli uomini si son fatte e poste da sé per la esperienza accumulata nella variabile convivenza
sociale; ma non presenta, né l'approssimazione ad una presegnata meta, né la deviazione da un
primo principio di perfezione e di felicità. Il progresso stesso non implica se non la nozione di cosa
empirica e circostanziata, che presentemente piglia chiarezza e precisione nelle nostre menti,
perché, per lo sviluppo finora avveratosi, noi siamo in grado di valutare il passato, e di prevedere,
ossia d'intravedere in un certo senso e in una certa misura, l'avvenire.
V.
Per cotal modo un grave equivoco rimane chiarito, e il pericolo che ne deriva viene ad esser
rimosso. Ragionevole e fondata è la tendenza di coloro i quali mirano a subordinare tutto l'insieme
delle cose umane, considerate nel loro corso, alla rigorosa concezione del determinismo. Priva,
all'incontro, d'ogni fondamento è la identificazione di tale determinismo derivato, riflesso e
complesso, con quello della immediata lotta per l'esistenza, la quale si eserciti e si svolga sopra un
campo non modificato da opera continuativa di lavoro. Legittima e fondata, in modo assoluto, è la
spiegazione storica, la quale proceda invertendo dai presunti voleri a disegno, che avrebbero
regolato di proposito le fasi varie della vita, ai moventi ed alle cause obiettive di ogni volere, che
son da ritrovare nelle condizioni di ambiente, di terreno, di mezzi disponibili, di circostanzialità
della esperienza. Ma è, invece, priva di qualsiasi fondamento quella opinione, la quale mira alla
negazione di ogni volontà, per via di una veduta teoretica, che vorrebbe sostituito al volontarismo
l'automatismo; anzi questa è al postutto una semplice e schietta fatuità.
Dovunque i mezzi tecnici siano sviluppati fino ad un certo punto, dovunque il terreno artificiale
abbia acquistata una certa consistenza e dovunque le differenziazioni sociali e le antitesi che ne
conseguitano abbiano creato, e il bisogno, e la possibilità, e le condizioni di un organamento più o
meno stabile od instabile, ivi sempre e necessariamente spuntan fuori i meditati disegni, i propositi
politici, i piani di condotta, i sistemi di diritto, e poi le massime e i principii generali ed astratti.
Nell'ambito di tali prodotti e di tali sviluppi derivati e complessi, e dirò di secondo grado, nascono
anche le scienze, e le arti, e la filosofia, e la erudizione e la storia come genere letterario di
produzione. Cotesto ambito è quello dei razionalisti ed ideologi, ignorandone i fondamenti reali,
chiamarono e chiamano tuttora, in modo esclusivo, la civiltà. Perché, di fatti, si è dato e si dà il
caso, che alcuni uomini, e soprattutto gli addottrinati di mestiere, fossero essi laici o preti,
trovassero e trovino modo di vivere intellettualmente nella chiusa cerchia dei prodotti riflessi e
secondarii della civiltà, e potessero e possano poi sottoporre tutto il resto alla veduta soggettiva, che
essi in tale situazione si formano: e in ciò è la origine e la spiegazione di ogni ideologia. La nostra
dottrina ha superato in modo definitivo l'angolo visuale di qualsiasi ideologia. I meditati disegni, i
propositi politici, le scienze, i sistemi di diritto e così via, anzi che essere il mezzo e l'istrumento
della spiegazione della storia, sono appunto la cosa che occorre di spiegare; perché derivano da
determinate condizioni e situazioni. Ma ciò non vuol dire che siano mere apparenze, e bolle di
sapone. L'esser quelle delle cose divenute e derivate da altre non implica che non sian cose
effettuali: tanto è che son parse per secoli alla coscienza non scientifica, e alla coscienza scientifica
ancora in via di formazione, le sole che veramente fossero.
Ma con ciò non è detto tutto.
Anche la nostra dottrina può dar luogo alla tentazione del fantasticare, e può offrire occasione ed
argomento ad una nuova ideologia a rovescio. Essa è nata nel campo di battaglia del comunismo.
Suppone l'apparizione del proletariato moderno su l'arena politica, e suppone quella orientazione, su
le origini della società attuale, che ci ha permesso di rifare criticamente tutta la genesi della
borghesia. E' dottrina rivoluzionaria per due rispetti: perché ha trovato le ragioni e i modi di
sviluppo della rivoluzione proletaria, che è in fieri; e perché, di ogni altra rivoluzione sociale
avveratasi in passato, si argomenta di trovare le cause e le condizioni di svolgimento in quei
contrasti di classe, i quali giunsero ad un certo punto critico per la contraddizione tra le forme della
produzione e lo sviluppo delle forze produttive. E c'è poi dell'altro. Alla luce di questa dottrina
l'essenziale della storia consiste per l'appunto in tali momenti critici, e ciò sta di mezzo tra l'uno e
l'altro di cotesti momenti si fa conto, almeno per ora, di abbandonarlo alle erudite cure dei narratori
ed espositori di mestiere. Come dottrina rivoluzionaria è essa innanzi tutto la coscienza intellettuale
del moto proletario presente, nel quale secondo l'assunto nostro, si prepara di lunga mano l'avvento
del comunismo: tanto è, che i decisi avversari del socialismo la respingono come opinione, che,
sotto apparenze di scienza, non faccia che ripetere la ben nota utopia socialistica.
Per tale condizione di cose può darsi bene il caso, e di fatti s'è pur già dato in parte, che la fantasia
degl'inesperti d'ogni arte di ricerca storica, e lo zelo dei fanatici, trovi stimolo ed occasione perfino
nel materialismo storico a foggiare una nuova ideologia, e a trarre da esso una nuova filosofia della
storia sistematica, cioè schematica, ossia a tendenza e a disegno. Né c'è cautela che basti.
L'intelletto nostro raramente s'appaga della ricerca schiettamente critica, ed è sempre propenso a
convertire in elemento di pedanteria ed in novella scolastica qualunque trovato del pensiero. A farla
breve, anche la concezione materialistica può essere convertita in forma di argomentazione a tesi, e
servire a rimettere in nuove fogge pregiudizii antichi; come era quello di una storia dimostrata,
dimostrativa e dedotta.
Perché ciò non accada, e specie perché non riapparisca per vie indirette e per modi dissimulati una
qualunque forma di finalità, su due punti bisogna essere in chiaro: e cioè dire, che le condizioni
storiche a noi note son tutte circostanziate; e che il progresso fu fino ad ora circoscritto da
molteplici impedimenti, e per ciò fu sempre parziale e limitato.
Una parte sola, e fino ai tempi recentissimi una parte non grande del genere umano ha per intero
percorso gli stadii tutti del processo, per effetto del quale le nazioni più progredite son giunte alla
società civile moderna, con le forme di avanzata tecnica fondate su le scoverte della scienza, e con
tutte le conseguenze politiche, intellettuali, morali e così via, che a tale sviluppo sono rispettive e
consentanee. Accanto agl'inglesi - tanto per accennare all'esempio più stridente - che, trasportando
seco nella Nuova Olanda i mezzi europei, vi han creato un centro di produzione, che già tiene un
posto notevole nella concorrenza del mercato mondiale, vivono tuttora come fossili della preistoria
gl'indigeni australiani, capaci solo di estinguersi, ma incapaci di adattarsi alla civiltà, che fu non
sopra di essi ma accanto ad essi importata. Nell'America, e specie in quella del Nord, la serie dei
procedimenti che vi han dato luogo allo sviluppo della società moderna, cominciò con la
importazione dall'Europa delle piante, degli animali e degl'istrumenti dell'agricoltura, il cui uso ab
antico avea ingenerato la secolare civiltà del Mediterraneo: ma tal moto rimase tutto rinchiuso nella
cerchia dei discendenti dei conquistatori e dei coloni, mentre gli indigeni, o si disperdono nella
massa di nuova formazione, per le vie naturali della mistura di razza, o deperiscono e spariscono
affatto. L'Asia anteriore e l'Egitto, che già in tempi antichissimi, come prima culla di tutta la nostra
civiltà, dettero luogo alle grandi formazioni semipolitiche, le quali seguono le prime fasi della storia
accertata e ricordata, ci appaiono da secoli come le cristallizzazioni di forme sociali incapaci di
muoversi da sè per nuove fasi di sviluppo. Sta sopra di loro la secolare pressione del barbarico
accampamento, che è la dominazione turca. In quella massa irrigidita, o s'incunea per dissimulate
vie una amministrazione alquanto ammodernizzata, o in nome esplicito degl'interessi commerciali
s'insinuano la ferrovia ed il telegrafo, avamposti coraggiosi della conquistatrice banca europea.
Tutta quella massa irrigidita non ha speranza di ripigliar vita, calore e movimento, se non per la
rovina della dominazione turca, cui si vada surrogando, nei diversi possibili modi di conquista
diretta o indiretta, la signoria o il protettorato della borghesia europea. Che un processo di
trasformazione dei popoli arretrati, o arrestatisi nel loro cammino, possa avverarsi ed affrettarsi per
esterni influssi, sta lì l'India a provarlo, che già vivace ancora di sua propria vita, sotto l'azione poi
dell'Inghilterra rientra ora con vigore nella circolazione della operosità internazionale, per fino nei
suoi prodotti intellettuali. Né sono questi i soli contrasti nella fisionomia storica dei contemporanei.
Ecco, mentre lì nel Giappone, per un fenomeno acuto e spontaneo di imitazione, si sviluppa in men
di trent'anni una certa relativa assimilazione della civiltà occidentale, che muove già normalmente
le energie proprie del paese stesso, il diritto e l'imposizione della conquista russa trae nella cerchia
della industria moderna, e anzi della grande industria, qualche punto notevole dei paesi oltre il
Caspio. La mole gigantesca della Cina ci è apparsa fino a pochi anni fa quasi immobile
nell'atavistico assetto delle sue istituzioni, tanto vi è lento ogni movimento: mentre, per ragioni
etniche e geografiche, quasi tutta l'Africa rimaneva impermeabile, e, fino agli ultimi tentativi di
conquista e di colonizzazione, pareva non dovesse offrire all'azione della civiltà, che il solo suo
perimetro, come fossimo, non che ai tempi dei portoghesi, a quelli dei greci e dei cartaginesi.
Tali differenziazioni degli uomini, sul cammino della storia e della preistoria, ci paiono
spiegabilissime, quando c'è modo di ricondurle alle condizioni naturali ed immediate, che
impongano limiti allo sviluppo del lavoro. Questo è il caso dell'America, la quale, fino alla
apparizione degli europei, non avea che una sola granaglia, il mais, e un solo animale
addomesticabile ad uso di lavoro, il lama: e noi possiamo rallegrarci, che gli europei, importandovi
con se stessi e coi loro istrumenti il bue, e l'asino, e il cavallo, e il frumento, e il cotone e la canna
da zucchero e il caffè, e da ultimo la vite e l'arancio, v'abbiano creato un nuovo mondo della
gloriosa società che produce le merci, la quale, con inaudita rapidità di moto, vi ha già percorso le
due fasi della più nera schiavitù e del più democratico salariato. Ma là dove c'è stato un vero
arresto, e anzi un documentato regresso, come nell'Asia anteriore, nell'Egitto, nella penisola dei
Balcani e nell'Africa settentrionale, e tale arresto non può attribuirsi al differenziarsi delle
condizioni naturali, ivi noi ci troviamo dinanzi ad un problema, che aspetta la soluzione sua dallo
studio diretto ed esplicito della struttura sociale, guardata così nei modi interni del suo divenire,
come negl'intrecci e nelle complicazioni dei varii popoli, su quel terreno che più ordinariamente
dicesi arena delle lotte storiche.
Questa stessa Europa civile, che per continuità di tradizione presenta lo schema più completo di
processo, tanto che su cotesto modello furono ideati e fino ad ora costruiti tutti i sistemi di filosofia
storica; questa stessa Europa occidentale e mediana, che ha prodotto l'epoca dei borghesi, e tale
forma di società ha cercato e cerca d'imporre a tutto il mondo, con vari modi di conquista diretta o
indiretta, non è tutta uniforme in sé, nel grado di suo sviluppo, e le sue diverse conglomerazioni
nazionali, regionali e politiche appaiono come distribuite sopra di una scala di molto graduata. Da
tali differenze dipendono le condizioni di relativa superiorità od inferiorità di paese a paese, e le
ragioni più o meno vantaggiose o svantaggiose dello scambio economico; e di qui per la più parte
dipesero, come tuttora dipendono, e gli attriti, e le lotte, e i trattati e le guerre, e quanto altro mai,
con maggiore o con minor precisione, seppero narrarci gli storici politici dalla Rinascenza in qua, e
certo con cresciuta evidenza da Luigi XIV e da Colbert in poi.
Questa Europa stessa è assai variopinta. Ecco qui la fioritura massima della produzione industriale e
capitalistica, cioè dire in Inghilterra; e in altri punti vive, o rigoglioso o rachitico, l'artigianato, come
da Parigi a Napoli, tanto per cogliere il fatto nei suoi estremi. Qui la campagna è quasi per intero
industrializzata, com'è di nuovo in Inghilterra; ed ecco che altrove vegeta, in molteplici forme
tradizionali, l'idiotico contadiname, come in Italia ed in Austria, anzi in questo paese più che da noi.
Mentre in un paese l'azienda politica dello stato - come si conviene alla prosaica coscienza di una
borghesia, che sa il fatto suo, perché il posto che tiene se l'è veramente conquistato da sè - viene
esercitata nei modi più sicuri e palesi di un esplicito dominio di classe (non è chi non intenda che
parlo della Francia); altrove, e segnatamente in Germania, le vecchie abitudini feudali, l'ipocrisia
protestante, e la viltà di una borghesia che sfrutta le favorevoli contingenze economiche senza
portarci dentro, né spirito, né coraggio rivoluzionario, mantengono all'ente stato le mentite
apparenze di una missione etica da compiere (- oh zucconi e parrucconi di professori tedeschi, in
quante salse poco appetitose e digeribili avete voi cucinata cotesta etica dello stato, prussiano per
giunta! -). Qua e là la produzione moderna capitalistica s'incunea nei paesi, che per altri rispetti non
entrano nel nostro movimento, e specie in quello della politica, come è il caso della infelice
Polonia; ovvero tal forma s'insinua solo per indiretto, come nella Slavia meridionale.
Ma ecco qui il contrasto più acuto, che pare destinato a metterci come in compendio sott'occhi tutte
le fasi anzi gli estremi della nostra storia. La Russia non ha potuto avviarsi, come ora di fatto si
avvia, alla grande industria, se non pompando dall'Europa occidentale, e specie dal grazioso
sciovinismo francese, quel danaro, che essa invano si sarebbe provata a trarre da se stessa, ossia
dalle condizioni della sua obesa massa territoriale, su la quale, con vecchie forme economiche,
vegetano cinquanta milioni di contadini. Ora la Russia, per diventare una società economicamente
moderna, il che probabilmente vi prepara le condizioni di una rispondente rivoluzione politica, fu
tratta a distruggere gli ultimi avanzi del comunismo agrario, che in essa eransi fino a poco tempo fa
conservati in forme tanto caratteristiche, e in tanta estensione: (né qui importa di decidere se quello
fosse comunismo primitivo, o secondario, come alcuni ritengono). La Russia deve imborghesirsi e,
per far ciò, deve innanzi tutto convertire la terra in merce, che sia capace di produrre merci, e al
tempo stesso trasformare in proletarii e pezzenti gli ex-comunisti della campagna. Ed ecco che,
invece, nell'Europa occidentale e centrale ci troviamo al punto opposto della serie di sviluppo, che
nella Russia comincia appena. Qui da noi, dove la borghesia con varia fortuna, e vincendo
impedimenti tanto diversi, ha percorso già tanti stadii del suo sviluppo, non la memoria del
comunismo primitivo, che a mala pena rivive per erudite combinazioni nelle teste dei dotti, ma la
stessa forma della produzione borghese genera nei proletarii la tendenza al socialismo, che si
presenta nei suoi generali contorni come indizio di una nuova fase della storia, e, cioè, non come la
ripetizione di ciò che fatalmente finisce nella Slavia sotto agli occhi nostri.
Chi è che non veda in cotesta esemplificazione, che io non ho cercata ad arte, e che anzi m'è venuta
quasi a caso e disordinatamente fuori della penna, in cotesta esemplificazione, dico, che può essere
indefinitamente prolungata in un libro di geografia economico-politica del mondo attuale, la prova
evidente del come le condizioni storiche son tutte circostanziate nelle forme di loro sviluppi? Non
solo le razze e i popoli, e le nazioni, e gli stati, ma le parti delle nazioni e le regioni varie degli stati,
e poi i ceti e le classi si trovano come su tanti gradini di una assai lunga scala, o anzi su diversi
punti di una curva a grande e complicato svolgimento. Il tempo storico non è corso uniforme per
tutti gli uomini. Il semplice succedersi delle generazioni non fu mai l'indice della costanza e della
intensità del processo. Il tempo come astratta misura di cronologia, e le generazioni succedentisi in
termini approssimativi di anni, non dànno criterio né recano indicazione di legge o di processo. Gli
sviluppi furono finora varii, perché varie furono le opere compiute in una e medesima unità di
tempo. Fra tali forme varie di sviluppo c'è affinità, anzi c'è similarità di moventi, ossia c'è analogia
di tipo, ossia c'è omologia: tanto che le forme avanzate possono, per semplice contatto, o con la
violenza, accelerare lo svolgimento delle forme arretrate. Ma l'importante è d'intendere, che il
progresso, la cui nozione è non solo empirica, ma sempre circostanziata e per ciò limitata, non istà
sul corso delle cose umane come un destino od un fato, né qual comando di legge. E per ciò la
nostra dottrina non può esser volta a rappresentare tutta la storia dell'uman genere in una veduta
comunque prospettica o unitaria, la quale ripeta, mutatis mutandis, la filosofia storica a disegno
come da sant'Agostino ad Hegel, o anzi, meglio, dal profeta Daniele al signor De Rougemont.
La nostra dottrina non pretende di essere la visione intellettuale di un gran piano o disegno, ma è
soltanto un metodo di ricerca e di concezione. Non a caso Marx parlava della sua scoverta come di
un filo conduttore. E per tal ragione appunto è analoga al darwinismo, che anch'esso è un metodo, e
non è, nè può essere, una ammodernata ripetizione della costruita e costruttiva Naturphilosophie, a
uso Schelling e compagni.
A scorgere nella nozione del progresso la indicazione di qualcosa di circostanziato e di relativo fu
primo il geniale Saint-Simon, che tal suo pensiero contrappose alla dottrina del secolo decimottavo,
in buona parte culminante in Condorcet. A cotesta dottrina, che potrebbe dirsi unitaria, egalitaria,
formale, perché è quella che considera l'uman genere come svolgentesi su di una linea processuale,
Saint-Simon contrappose il concetto delle facoltà e delle attitudini, che si surrogano e si
compensano; e per tal modo rimase ideologo.
A penetrare le ragioni effettive della relatività del progresso occorreva ben altro. Bisognava innanzi
tutto rinunziare a quei pregiudizii, i quali sono impliciti nella credenza, che gl'impedimenti alla
uniformità del divenire umano riposino esclusivamente sopra cause naturali ed immediate. Cotesti
impedimenti naturali, o sono assai problematici, come è il caso delle razze, nessuna delle quali ha in
sé l'ingenito privilegio della storia, o sono, come nel caso delle differenze geografiche, insufficienti
a spiegare lo svolgersi di condizioni storico-sociali affatto difformi sopra uno e medesimo terreno
topografico. E come il moto storico nasce per l'appunto quando gl'impedimenti naturali furono già
in buona parte, o superati, o notevolmente circoscritti per mezzo della creazione di un terreno
artefatto, sul quale fosse dato agli uomini di venirsi ulteriormente sviluppando, gli è chiaro perciò,
che i consecutivi impedimenti alla uniformità del progresso siano da cercare nelle condizioni
proprie ed intrinseche della struttura sociale stessa.
Questa struttura ha messo fino ad ora capo in forme di organamento politico, la cui somma è il
tentativo di tenere in equilibrio le disuguaglianze economiche: il che fa, che cotesto organamento,
come ho più volte detto, sia di continuo instabile. Da che ci è storia ricordata essa è storia della
società che o tende a formare lo stato, o lo stato ha già portato a compimento. E lo stato è la lotta
all'interno, o vivamente e in atto, o da poco vinta, o come che siasi per alcun tempo sopita e sedata.
E lo stato è anche la lotta all'esterno, o per assoggettare altri popoli, o per colonizzare altri paesi, o
per esportare i prodotti sopra altri mercati, o per scaricare la popolazione esuberante, e cosi via. E lo
stato è tale lotta all'interno e all'esterno, perché è innanzi tutto l'organo e l'istrumento di una parte
più o meno grande della società contro tutto il resto della società stessa, in quanto che questa
essenzialmente poggia su la signoria economica degli uomini su gli uomini, in modi più o meno
diretti ed espliciti, secondo che il vario grado di sviluppo della produzione e dei suoi mezzi naturali
e dei suoi istrumenti artificiali esiga, o la schiavitù immediata, o la servitù della gleba, o il libero
salariato. Questa società delle antitesi, che si regge a stato, è sempre, per quanto in varie forme e
modi, la opposizione della città e della campagna, dell'artigiano e del contadino, del proletario e del
padrone, del capitalista e del lavoratore, e così via da non finirla; e mette sempre capo, con varie
complicazioni e modalità, in una gerarchia, o che ciò accada per quadro fisso di privilegio come nel
Medioevo, o che, nelle dissimulate forme del diritto presuntivamente eguale per tutti, ciò si avveri
per l'azione automatica della concorrenza economica, come è ora.
A cotesta gerarchia economica corrisponde in vario modo nei varii paesi, tempi e luoghi, starei per
dire, una gerarchia degli animi, degl'intelletti, degli spiriti. Cioè dire la coltura, nella quale appunto
gli idealisti ripongono la somma del progresso, fu ed è per necessità di fatto assai disugualmente
distribuita. La maggior parte degli uomini, per la qualità delle cure e delle occupazioni cui attende
si trova ad essere come di individui disintegrati, fatti in pezzi, resi incapaci di uno sviluppo
completo e normale. Alla economica delle classi, ed alla gerarchia delle situazioni sociali, risponde
la psicologia delle classi, La relatività del progresso è per noi, dunque, la conseguenza inevitabile
delle antitesi di classe. In queste antitesi sono gl'impedimenti, pei quali rimane spiegata la
possibilità del relativo regresso, fin giù giù alla degenerazione e allo sfacelo di una intera società.
Le macchine, che segnano il trionfo della scienza, divengono, per le condizioni antitetiche della
compagine sociale, gli istrumenti da proletarizzare milioni e milioni di già liberi artigiani e
contadini. I progressi della tecnica, che arricchiscono di comodi le città, rendono più misera ed
abietta la condizione dei contadini, e nelle città stesse più umile la condizione degli umili. I
progressi tutti del sapere servirono fino ad ora a differenziare il ceto degli addottrinati, e a mettere
sempre a maggior distanza dalla coltura le masse, che, intese all'incessante lavoro di tutti i giorni, di
questo alimentano la società tutta intera.
Il progresso fu ed è fino ad ora parziale ed unilaterale. Le minoranze che vi partecipano dicono sia
questo il progresso umano; e i burbanzosi evoluzionisti chiamano ciò natura umana che si svolge.
Tutto cotesto progresso parziale, che si è fino ad ora svolto nella pressione degli uomini su gli
uomini, ha suo fondamento nelle condizioni di opposizione, per cui le antitesi economiche han
generato tutte le antitesi sociali, e dalla relativa libertà di alcuni è nata la servitù di moltissimi; e il
diritto è stato l'auspice della ingiustizia. Il progresso visto così, ed appreso nella sua chiara nozione,
ci appare come il compendio morale ed intellettuale di tutte le umane miserie, e di tutte le materiali
disuguaglianze.
A scovrirvi la inevitabile relatività occorreva che il comunismo, sorto dapprima come moto
istintivo nell'animo degli oppressi, diventasse scienza e politica. E occorreva poi, che la nostra
dottrina desse la misura del valore di tutta la storia passata, scovrendo in ogni forma di
organamento sociale, che fosse di origine e di assetto antitetico, come tutte furono fino ad ora, la
ingenita incapacità a produrre le condizioni di un progresso umano universale ed uniforme;
scovrendovi, cioè, gl'impedimenti i quali fanno sì che il benefizio si converta in malefizio.
VI.
A una domanda noi non possiamo sottrarci, ed è questa; donde ebbe origine la credenza nei fattori
storici? Cotesta espressione ricorre assai di frequente per le menti e per gli scritti di molti eruditi,
scienziati e filosofi, e di quegli espositori, i quali, o ragionando o combinando, si dilungano
alquanto dalla mera narrazione, e di tale opinione si giovano, come di presupposto per orientarsi su
la ingente massa dei fatti umani, che, a prima vista e nella immediata considerazione, appaiono
tanto confusi e irriducibili. Cotesta credenza, cotesta opinione corrente è diventata presso gli
storiografi ragionatori, o a dirittura razionalisti, una semidottrina, che di recente fu più volte
addotta, quale argomento decisivo, contro la teoria unitaria della concezione materialistica. Gli è,
anzi, tanto radicata la credenza, ed è tanto diffusa la opinione, che la storia non si possa intenderla,
se non come incontro ed incidenza di diversi fattori, che molti di quelli i quali parlano di
materialismo sociale, sia in favore o sia contro, credono di cavarsi d'ogni impaccio quando
affermano, che tutta questa dottrina qui consista poi in ultimo nell'attribuire la prevalenza o l'azione
decisiva al fattore economico.
Certo gli è che importa di rendersi conto del come cotesta credenza, o opinione, o semidottrina
abbia avuto origine perché la verace ed effettiva critica consiste principalmente nel riconoscere e
nell'intendere i motivi di ciò che dichiariamo errore. Non basta di respingere una opinione, col
designarla spicciativamente per erronea. L'errore dottrinale è nato sempre da qualche lato male
inteso di una esperienza incompleta, o da qualche imperfezione soggettiva. Non basta respingere
l'errore; bisogna vincerlo, e superarlo, spiegando/o.
Ogni storico, che cominci a narrare, compie, per cosi dire, un atto di astrazione. Innanzi tutto
eseguisce come un taglio in una serie continuativa di avvenimenti; e poi prescinde da molti e
svariati presupposti e precedenti, e anzi spezza e scompone una intricata tela. Per cominciare
bisogna pure che fissi un punto, una linea, un termine, di sua elezione, e dica p. e.: vogliamo
raccontare come ebbe inizio la guerra tra greci e persiani; vediamo come Luigi XVI venne nella
risoluzione di convocare gli Stati Generali. Il narratore si trova, insomma, dinanzi ad un complesso
di fatti accaduti, e di fatti che stanno per accadere, i quali, nel tutt'insieme, appariscono come una
configurazione. In tale suo atteggiamento ha origine il modo d'essere e lo stile di ogni racconto;
perché, ad ordirlo, occorre pigliar le mosse da cose già divenute, per poi vedere come continuino
nel divenire.
E pure in quel complesso bisogna introdurre un certo sentimento di analisi, risolvendolo in varii
gruppi e in varii aspetti di fatti, od in elementi concorrenti, che appariscono poi ad un certo punto
come delle categorie per sé stanti. Ecco: qui è lo stato in una certa forma e con certi poteri; e qui
son le leggi, che determinano, per comando o per proibizione, certi rapporti; e qui son gli abiti e i
costumi, che rivelano tendenze, bisogni, e modi di pensare, di credere, di fantasticare; e nell'insieme
si vede una moltitudine d'uomini conviventi e collaboranti, con spartizione di ufficii e di
occupazioni; e poi si notano i pensieri, le idee, le inclinazioni, le passioni, i desiderii, le aspirazioni,
che da cotesto variopinto modo di coesistenza e dai suoi attriti in determinate maniere si
sprigionano e sviluppano. Avviene una mutazione, e questa si rivela in uno dei lati od aspetti del
complesso empirico, o in tutti essi in maggiore o in minore spazio di tempo: p. e. lo stato slarga i
suoi confini esterni, o altera i suoi limiti interni verso la società, crescendo o diminuendo di poteri e
di attribuzioni, o cambiando di forma nell'esercizio di quelli e di queste; ovvero il diritto muta le
sue disposizioni, o s'esprime ed afferma in nuovi organi; ovvero, da ultimo, dietro al cambiamento
delle abitudini esterne cotidiane, si rivela un cambiamento nei sentimenti, e nei pensieri, e nelle
inclinazioni degli uomini variamente distribuiti nelle diverse classi sociali, le quali si rimescolano,
si alterano, si spostano, si fondono o rinnovano. Ad intendere tutto ciò, in quanto e per il modo
come apparisce alla prima e si disegna alla ordinaria attenzione, bastano le comuni doti della
intelligenza normale, di quella, intendo dire, che non è sussidiata ancora, né corretta o completata
dalla scienza propriamente detta. Chiudere in precisi confini un insieme di tali mutazioni, ecco
l'oggetto vero e proprio della narrazione la quale riesce tanto più perspicua, efficace e plasmata,
quanto è più monografica: p. e. Tucidide nella guerra del Peloponneso.
La società già in un certo modo divenuta, la società già arrivata ad un certo grado di sviluppo, la
società giù tanto complicata da nascondere il sottostrato economico che il resto sorregge, non si è
rivelata ai puri narratori, se non in quegli apici visibili, in quei resultati più appariscenti, in quei
sintomi più significativi, che son le forme politiche, le disposizioni di legge e le passioni di parte. Il
narratore, oltre che per la mancanza di una dottrina teoretica su le fonti vere del movimento storico,
per l'atteggiamento stesso che egli assume di fronte alle cose che coglie nelle apparenze del loro
divenire, non può ridurre questo ad unità, se non nell'aspetto della sola intuizione immediata; e, se è
artista, cotesta intuizione gli si colorisce nell'animo, e vi si trasmuta in azione drammatica. Il suo
ufficio è adempiuto, se egli riesce ad inquadrare un certo numero di fatti e di accadimenti entro
termini e confini, su i quali lo sguardo possa muoversi come su chiara prospettiva; alla stessa guisa,
che il geografo puramente descrittivo ha fatta per intero la parte sua, se racchiude in vivo e
perspicuo disegno la concorrenza delle cause fisiche che determinano l'intuitivo aspetto, poniamo
del golfo di Napoli, senza punto risalire alla genesi di esso.
In cotesto bisogno della configurazione narrativa è la occasione prima, intuitiva, palpabile, e direi
quasi estetica ed artistica, di tutte quelle astrazioni e generalizzazioni, che da ultimo mettono capo
nella semidottrina dei così detti fattori.
Qui sono due uomini insigni, i Gracchi, che vollero arrestare il processo di appropriazione dell'ager
publicus, o impedire l'agglomerazione del latifondo, per cui diminuisce o cessa del tutto di esistere
la classe dei piccoli proprietarii, ossia degli uomini liberi, che son fondamento e condizione della
vita democratica della città antica. Quali furono le cause del loro insuccesso? Il loro disegno è
chiaro: l'animo loro, la loro origine, il loro carattere, il loro eroismo lo illustrano. E stanno contro a
loro altri uomini, con altri interessi e con altro animo. La contesa non si disegna dapprima alla
mente se non come lotta di propositi e di passioni, la quale si svolge e riesce a termine con quei
mezzi che consentono le forme politiche dello stato, e l'uso o l'abuso dei poteri pubblici. Ecco lì
l'ambiente: la città dominatrice in diversi modi, sopra altre città, o sopra territori sforniti d'ogni
carattere di autonomia; e dentro di quella città una avanzata differenziazione di ricchi e di poveri; e
di fronte alla schiera non numerosa dei sopraffacitori e dei prepotenti, immensa la massa dei
proletarii, che stan per perdere o han già perduta la coscienza e la forza politica d'una plebe di
cittadini, la massa che si lascia per ciò ingannare e corrompere, e a breve andare finirà per
imputridire, qual servile accessorio degli sfruttatori di maggior grado. Questa la materia del
narratore, al quale non è dato di rendersi conto del fatto, se non nelle condizioni immediate del fatto
stesso. L'unità intuitiva è la scena su la quale i casi si svolgono, e perché il racconto abbia rilievo,
intreccio e prospettiva, occorrono dei punti di orientazione e dei mezzi di riduzione.
In ciò consiste la origine prima di quelle astrazioni, per cui i lati varii di un determinato complesso
sociale vengono, poco per volta, distratti dalla loro qualità di semplici aspetti di un insieme, e via
via generalizzati menano poi alla dottrina dei presunti fattori.
Questi, in altri termini, intendo dire dei fattori, si originano nella mente, per via della astrazione e
della generalizzazione degli aspetti immediati del movimento apparente, e stanno alla pari con tutti
gli altri concetti empirici, i quali, sorti che siano in ogni altro campo del sapere, vi si mantengono,
finché, o non vengano ridotti ed eliminati per via di nuova esperienza, o non si trovino riassorbiti da
una concezione più generale, che sia genetica, evolutiva, dialettica.
Non era forse necessario, che nell'analisi empirica e nello studio immediato delle cause e degli
effetti di certi determinati fenomeni, p. e. dei calorifici, la mente si fermasse dapprima nella
presunzione e nella persuasione di poterli e di doverli attribuire ad un subietto, che, se non parve
mai a nessun fisico un vero ente sostanziale, parve di certo una forza determinata e specifica, che
sarebbe il calore. Ed ecco che ad un certo punto, per nuova combinazione di esperienza, cotesto
escogitato calore si risolve, a date condizioni, in una certa quantità di moto. E anzi, ora, il pensiero
è su la via di risolvere tanti degli escogitati fattori fisici nel flusso di una universale Energhetica,
nella quale la ipotesi degli atomi, per quanto essa è necessaria e utilizzabile, perde ogni residuo di
sopravvissuta metafisica.
Non era forse inevitabile, come primo stadio della conoscenza rispetto al problema della vita,
l'indugiarsi a lungo nello studio distinto degli organi, e il ridur questi in sistemi? Senza cotesta
anatomia, che pare per fin troppo materiale e grossolana, nessun progresso di studi sarebbe stato
possibile; e intanto, su la ignorata genesi e coordinazione di tale molteplicità analitica, s'aggiravano
incerti e vaghi i concetti generici di vita, di anima e simili. In coteste creazioni mentali si cercò per
ripiego di escogitazione, e per gran tempo, quella unità biologica, che ha da ultimo trovato il suo
riscontro intuitivo nell'inizio certo della cellula, e nel suo processo di immanente moltiplicazione.
Più difficile fu certamente il cammino, che il pensiero dovette percorrere per ridurre ad evidenza di
genesi i dati tutti della vita psichica, dai semplicissimi delle elementari sensazioni fino ai prodotti di
molto derivati e complessi. Non solo per ragioni di difficoltà teoretiche, ma per altri pregiudizii
popolari, l'unità e continuità incessante dei fenomeni psichici apparve fino ad Herbart come spartita
e spezzata in tanti fattori, ossia nelle così dette facoltà dell'anima.
Per le medesime difficoltà è passata la interpretazione dei processi storico-sociali; ed anche essa s'è
dovuta dapprima arrestare nella veduta provvisoria dei fattori. E, perciò, riesce ora a noi cosa
agevole il rintracciare la occasione prima di tale opinione nel bisogno che hanno gli storici narratori
di trovare, nell'atto che raccontano con più o meno di capacità artistica, e con vario intendimento di
ammaestrare, dei punti di orientazione immediata, quali può offrirli lo studio del moto apparente
delle cose umane.
Ma in quel movimento apparente son pure delle indicazioni, che rimandano ad altro.Quei fattori
concorrenti, che l'astrazione escogita e poi si permette di isolare, non furon mai visti ad operare
ciascuno per sé; perché, anzi, operano per un modo di efficacia, che dà luogo al concetto dell'azione
reciproca. Inoltre, quei fattori son pur essi nati una volta, e son poi giunti a quella fisonomia, che
rivelano nella particolare narrazione. Di quel tale stato si sapeva pure che fosse nato una volta. Di
ogni diritto, o si serbava memoria, o si congetturava, che fosse entrato in vigore in tali o tali altre
circostanze. Di tanti costumi si serbava il ricordo, che fossero stati una volta introdotti; e il più
semplice confronto dei fatti accertati, per rispetto a diversi tempi e luoghi, facea vedere, come la
società nel suo insieme, in quanto somma di diverse classi, avesse assunto, ed assumesse di
continuo forme diverse.
Tanto l'azione reciproca dei diversi fattori, senza della quale nemmeno il più semplice racconto
sarebbe mai possibile, quanto le notizie più o meno accertate circa le origini e le variazioni dei
fattori stessi, sollecitavano alla ricerca ed al pensiero, assai più che non facesse la narrazione
configurativa di quei grandi storici, che sono veri e propri artisti. E difatti, i problemi che resultano
spontanei dai dati della storia, quando questi sian combinati con altri elementi teoretici, dettero
luogo alle diverse discipline così dette pratiche, che, con varia rapidità di moto e con vario
successo, si svilupparono dai tempi antichi a venire ai moderni, dall'Etica alla Filosofia del Diritto,
dalla Politica alla Sociologia, dalla Giurisprudenza all'Economia.
Ed ecco che col nascere e col formarsi di tante discipline, per la stessa inevitabile division del
lavoro, si moltiplicarono fuor di misura i punti di vista. Certo è, che alla prima ed immediata analisi
dei multiformi aspetti empirici del complesso sociale, occorreva un lungo lavoro di parziale
astrazione; il che reca sempre con sé l'inevitabile conseguenza del vedere unilaterale. Ciò si è
verificato in modo più acuto e più appariscente, che non in altro campo, in quello della
Giurisprudenza, e nelle sue varie generalizzazioni fino alla Filosofia del Diritto. Per via di cotali
astrazioni, che sono inevitabili nell'analisi parziale ed empirica, e per effetto della divisione del
lavoro, i diversi lati e le diverse manifestazioni del complesso sociale furono, di quando in quando,
fissati ed immobilizzati in concetti generali ed in categorie. Le opere, gli effetti, le emanazioni, gli
efflussi dell'attività umana - diritto, forme economiche, principii di condotta e così via - furono
come tradotti e convertiti in leggi, in imperativi e in principii che stessero al di sopra dell'uomo
stesso. E di quando in quando s'è poi dovuto di nuovo scovrire questa verità semplice; che il solo
fatto permanente e sicuro, ossia il solo dato, da cui muova o a cui si riferisca ogni particolare
disciplina pratica, è questo: gli uomini congregati in una determinata forma sociale, per via di
determinati vincoli. Le varie discipline analitiche, che illustrano i fatti che si svolgono nella storia,
han finito per occasionare da ultimo il bisogno di una comune e generale scienza sociale, che renda
possibile la unificazione dei processi storici. E di tale unificazione la dottrina materialistica segna
appunto l'ultimo termine, e anzi l'apice.
Ma non fu, come non sarà mai tempo perso quello che sia speso nell'analisi preliminare e laterale
dei fatti complessi. Dobbiamo alla metodica division del lavoro la erudizione precisa, ossia la massa
delle conoscenze dichiarate, cribrate, sistemate, senza delle quali ogni storia sociale vagherebbe
sempre nel puramente astratto, nel formale e nel terminologico. Lo studio a parte dei presunti fattori
storico-sociali ha giovato, come giova ogni altro studio empirico che si attenga al moto apparente
delle cose, a raffinare gl'istrumenti della osservazione, e a dar modo di ritrovare nei fatti stessi, che
furono artificiosamente distratti dall'insieme, gli addentellati che al complesso sociale li legano. Le
diverse discipline, che son tenute isolate ed indipendenti per via del presupposto dei fattori
concorrenti nella formazione storica, per il grado di sviluppo che han raggiunto, per il materiale che
han raccolto, e pei metodi che han prodotti, sono ora per noi tutte indispensabili, quando si voglia
ricostruire qualunque parte dei tempi passati. Che ne sarebbe della nostra scienza storica senza la
unilateralità della Filologia, che è il sussidio istrumentale d'ogni ricerca; e dove si sarebbe mai
trovato il bandolo di una storia delle istituzioni giuridiche, che poi a tante altre cose e combinazioni
da se stessa rimanda, senza l'ostinata fede dei romanisti nella eccellenza universale del Diritto
Romano, la quale ha generato, con la Giurisprudenza generalizzata e con la Filosofia del Diritto,
tanti dei problemi in cui germoglia da ultimo la Sociologia?
Così che, al postutto, i fattori storici, che ricorrono per le menti e per gli scritti di tanti, indicano
qualcosa che è molto meno della verità, ma che è molto di più del semplice errore, nel senso
grossolano di abbaglio, di illusione e di inganno. Sono il prodotto necessario di una conoscenza, che
è in via di sviluppo e di formazione. Nascono dal bisogno di orientarsi sopra lo spettacolo confuso,
che le cose umane presentano a chi voglia narrarle; e servono poi, dirò così, di titolo, di categoria,
di indice a quella inevitabile division del lavoro, per entro alla quale fu finora teoreticamente
elaborata la materia storico-sociale. In questo campo di conoscenza, del pari che in quello delle
scienze naturali, la unità di principio reale, e la unità di trattazione formale, non s'incontran mai di
primo acchito, anzi si trovano solo a capo di lungo ed intricato cammino; cosicché, anche per
cotesto rispetto, ci pare calzante l'analogia stabilita da Engels tra il ritrovamento del materialismo
storico e quello della conservazione dell'energia.
La provvisoria orientazione, secondo l'ovvio schema di ciò che dicono fattori, può, in date
circostanze, occorrere anche a noi, che professiamo un principio affatto unitario della
interpretazione storica. Intendo dire, se vogliamo non semplicemente teorizzare, ma se vogliamo,
con propria nostra ricerca, illustrare un determinato periodo di storia. Come in cotesto caso
c'incombe l'obbligo della minuta e diretta ricerca, cosi ci è giuoco forza di attenerci dapprima ai
gruppi difatti che paiono, o prominenti, o indipendenti, o staccati, negli aspetti della immediata
esperienza. Perché non è veramente il caso di credere, che il principio unitario di massima evidenza
e trasparenza, cui siam giunti nella concezione generale della storia, possa, a guisa di talismano,
valer di continuo, e a prima vista, come di mezzo infallibile per risolvere in elementi semplici
l'immane apparato e il complicato ingranaggio della società. La sottostante struttura economica, che
determina tutto il resto, non è un semplice meccanismo, dal quale saltino fuori, a guisa d'immediati
effetti automatici e macchinali, istituzioni, e leggi, e costumi, e pensieri, e sentimenti, e ideologie.
Da quel sottostrato a tutto il resto, il processo di derivazione e di mediazione è assai complicato,
spesso sottile e tortuoso, non sempre decifrabile.
L'organamento sociale è, come già sappiamo, di continuo instabile, sebbene ciò non appaia evidente
a tutti, se non quando la instabilità entra in quel periodo acuto che chiamiamo rivoluzione. Cotesta
instabilità, con le continue lotte nel seno della stessa società organata, esclude sì la possibilità che
gli uomini entrino in una condizione di continuata acquiescenza od accomodazione, per cui
potrebbe accadere che tornassero nel vivere animale. Nell'antitesi è la causa precipua del progresso
(Marx). Ma è altrettanto vero, però, che in cotesto organamento instabile, nel quale è data la forma
inevitabile del dominio e della soggezione, la intelligenza si è sempre sviluppata, non solo
disugualmente, ma assai imperfettamente, incongruamente e parzialmente. Ci fu ed è ancora nella
società come una gerarchia dell'intelletto, e poi dei sentimenti e delle ideazioni. Supporre che gli
uomini, sempre e in tutti i casi, abbiano avuto una coscienza approssimativamente chiara della
propria situazione, e di quello che convenisse loro più ragionevolmente di fare gli è supporre
l'inverosimile, anzi l'insussistente.
Forme di diritto, e azioni politiche e tentativi di ordinamento sociale, furono, come sono tuttora, a
volte cose indovinate, a volte cose sbagliate, cioè sproporzionate e incongrue al caso. La storia è
piena di errori; il che vuoi dire, che se tutto vi fu necessario, data la intelligenza relativa di quelli
che avessero a risolvere una difficoltà , o a trovare una soluzione a un dato problema e così via, se
tutto v'ebbe la sua ragion sufficiente, non tutto vi fu ragionevole, secondo il senso che dànno a
questa parola gli ottimisti che raziocinano. A lungo andare le cause determinanti alle mutazioni, e
ossia le cambiate condizioni economiche, finirono e finiscono per far trovare, fosse pur per vie assai
tortuose, le occorrenti forme di diritto, gli ordini politici adattati, e le maniere più o meno
convenienti della accomodazione sociale. Ma non è però da credere, che la istintiva sapienza
dell'animale ragionevole si manifestasse, o si manifesti, sic et simpliciter, nella piena e chiara
intelligenza di ogni situazione; e che a noi non tocchi ora se non di rifare semplicisticamente il
cammino deduttivo dalla situazione economica a tutto il resto. L'ignoranza - la quale alla sua volta
può anch'essa essere spiegata - è cagione non piccola del modo come la storia è proceduta; e
all'ignoranza bisogna aggiungere la bestialità non mai interamente vinta, e tutte le passioni e le
nequizie, e le svariate forme di corruzione, che furono e sono il portato necessario di una società
così organata che il dominio dell'uomo su l'uomo vi è inevitabile, e da tale dominio la bugia,
l'ipocrisia, la prepotenza e la viltà furono e sono inseparabili. Noi possiamo, senza essere utopisti,
ma solo in quanto siamo comunisti critici, prevedere, come di fatti prevediamo, l'avvento di una
società, che svolgendosi dalla presente, e anzi dai suoi contrasti, per le leggi immanenti del divenire
storico, metta capo in una associazione senza antitesi di classe: il che porta seco, che la regolata
produzione eliminerebbe l'aleatorio dalla vita, che nella storia si rivela finora come multiforme
intreccio di accidenti e d'incidenze. Ma ciò è l'avvenire, e non è, né il presente, né il passato. Se noi
invece ci proponiamo di penetrare nelle vicende storiche svoltesi fino ad ora, assumendo, come
assumiamo, a filo conduttore il variare delle forme della sottostante struttura economica, fino al
dato più semplice del variare degl'istrumenti, noi dobbiamo aver piena coscienza della difficoltà del
problema che ci proponiamo; perché qui non si tratta già di aprir gli occhi e di vedere, ma di uno
sforzo massimo del pensiero, che è diretto a vincere il multiforme spettacolo della esperienza
immediata, per ridurne gli elementi in una serie genetica. E per ciò, dicevo, che nella ricerca
particolare tocca anche a noi di pigliar le mosse da quei gruppi di fatti apparentemente isolati, e da
quel variopinto intreccio, dallo studio empirico, insomma, dal quale è nata la credenza nei fattori,
che poi si è svolta in una semidottrina.
Né vale di contrapporre a queste difficoltà di fatto la presunzione alquanto metaforica, spesso
equivoca, e al postutto di un valore puramente analogico, del così detto organismo sociale. Anche
per cotesto supposito, diventato poi in così breve tempo una mera e volgare fraseologia, bisognava
pure che il pensiero passasse. Perché esso adombra la comprensione del movimento storico, come
nascente dalle leggi immanenti alla società stessa, ed esclude con ciò l'arbitrario, il trascendente e
l'irrazionale. Ma più in là di così la metafora non regge; e la ricerca specificata, critica e
circostanziata dei fatti storici è la sola fonte di quel sapere concreto e positivo, che occorre allo
sviluppo completo del materialismo economico.
VII.
Le idee non cascano dal cielo; né noi riceviamo il ben di dio in sogno.
La mutazione nei modi del pensiero, che da ultimo ha prodotta la dottrina storica, della quale si fa
qui l'esame e la esposizione preliminare, s'è venuta svolgendo, prima con lentezza e poscia con
cresciuta rapidità, appunto in questo periodo del divenire umano, in cui s'avverarono le grandi
rivoluzioni politico-economiche; ossia in questa epoca, che guardata nelle forme politiche dicesi
liberale, ma che guardata nel suo fondo, per effetto del dominio del capitale su la massa proletaria, è
l'epoca della produzione anarchica. La mutazione delle idee, fino alla creazione di nuovi metodi di
concezione, è venuta passo passo riflettendo l'esperienza di una nuova vita. Come questa, nelle
rivoluzioni degli ultimi due secoli, si è andata via via spogliando degl'involucri mitici, mistici e
religiosi, a misura che è venuta acquistando la coscienza pratica e precisa delle sue condizioni
immediate e dirette, così il pensiero, che questa vita riassume e teorizza, s'è alla sua volta spogliato
dei presupposti teologici e metafisici, per racchiudersi, in fine, in questa prosaica esigenza: nella
interpretazione della storia occorre restringersi alla coordinazione obiettiva delle condizioni
determinanti e degli effetti determinati. La concezione materialistica segna il culmine di questo
nuovo indirizzo nel ritrovamento delle leggi storico-sociali; in quanto non è un caso particolare di
una generica sociologia, o di una generica filosofia dello stato, del diritto e della storia, ma è il
risolvente di tutti i dubbi e di tutte le incertezze che accompagnano le altre forme di filosofare su le
cose umane, ed è l'inizio della interpretazione integrale di queste.
Gli è dunque cosa facile, specie per il modo come ci si son messi alcuni volgari criticastri, l'andar
ritrovando i precursori di Marx e di Engels, che questa dottrina hanno pei primi precisata nei
fondamenti. E quando mai era saltato per il capo ad alcuno dei seguaci loro, fossero pur quelli della
più stretta osservanza, di far passare quei due pensatori per facitori di miracoli? Anzi, se piace di
andar cercando le premesse della creazione dottrinale di Marx e di Engels, non basterà di fermarsi a
quelli che diconsi precursori del socialismo fino a Saint-Simon e più in là, né ai filosofi e
segnatamente ad Hegel, né agli economisti, che avean dichiarata la anatomia della società che
produce le merci: bisogna risalire a dirittura a tutta la formazione della società moderna, e poi da
ultimo trionfalmente dichiarare, che la teoria è un plagio delle cose che spiega.
Perché, in verità, i precursori effettivi della nuova dottrina furono i fatti della storia moderna, che è
diventata così perspicua e rivelatrice di se stessa, da che si operò in Inghilterra la grande rivoluzione
industriale della fine del secolo scorso, e in Francia avvenne quella gran dilacerazione sociale che
tutti sanno; le quali cose, mutatis mutandis, si son poi andate riproducendo, in varia combinazione e
in forme più miti, in tutto il mondo civile. E che altro è, in fondo, il pensiero, se non il cosciente e
sistematico completamento dell'esperienza; e che è questa, se non il riflesso e la elaborazione
mentale delle cose e dei processi che nascono e si svolgono, o fuori della volontà nostra, o per opera
della nostra attività; e che altro è il genio, se non la individuata e conseguente ed acuita forma di
quel pensiero, che per suggestione della esperienza sorge in molti uomini della medesima epoca, ma
nella più parte di loro rimane frammentario, incompleto, incerto oscillante e parziale?
Le idee non cascano dal cielo, e anzi, come ogni altro prodotto dell'attività umana, si formano in
date circostanze, in tale precisa maturità di tempi, per l'azione di determinati bisogni, e pei reiterati
tentativi di dare a questi soddisfazione, e col ritrovamento di tali o tali altri mezzi di prova, che sono
come gl'istrumenti della produzione ed elaborazione loro. Anche le idee suppongono un terreno di
condizioni sociali, ed hanno la loro tecnica: ed il pensiero è anch'esso una forma del lavoro.
Spostare quelle e questo ossia, le idee ed il pensiero, dalle condizioni e dall'ambito di lor proprio
nascimento e sviluppo, gli è svisarne la natura e il significato.
Mostrare come la concezione materialistica della storia fosse nata precisamente in date condizioni e
cioè non come personale e discutibile opinione di due scrittori, ma come una nuova conquista del
pensiero per la inevitabile suggestione di un nuovo mondo che si sta generando già, ossia la
rivoluzione proletaria, questo fu l'assunto del mio primo saggio. Il che è quanto dire, che una nuova
situazione storica si è completata del suo congruo istrumento mentale.
Ora immaginare, che cotesta produzione intellettuale potesse avverarsi in ogni tempo e luogo, gli è
come assumere a regola delle proprie ricerche l'assurdo. Trasferire le idee a capriccio, dal terreno e
dalle condizioni storiche in cui son nate, in qualunque altro terreno, ciò è come prendete a base del
ragionamento il semplice irrazionale. E perché non si dovrebbe immaginare del pari, che la città
antica, nella quale nacquero l'arte e la scienza greca e il diritto romano, rimanendo pur città antica
di democrazia con gli schiavi, acquistasse medesimamente e sviluppasse tutte le condizioni della
tecnica moderna? Perché non credere, che la corporazione artigiana medioevale, rimanendo qual
essa era nel suo quadro fisso, s'avviasse alla conquista del mercato mondiale, senza le condizioni
della concorrenza sconfinata, che cominciarono appunto dall'eroderla, e negarla? Perché non
congetturare un feudo, che, pur rimanendo feudo, fosse officina da produrre esclusivamente merci?
Perché Michele di Lando non avrebbe dovuto scrivere lui il Manifesto dei Comunisti? Perché non si
avrebbe a pensate, che i trovati della scienza moderna potessero venir fuori dal cervello degli
uomini di ogni altro luogo e tempo; cioè, prima che determinate condizioni facessero nascere
determinati bisogni, e alla soddisfazione di questi si dovesse provvedere con una reiterata ed
accumulata esperienza?
La nostra dottrina suppone lo sviluppo ampio, chiaro, cosciente ed incalzante della tecnica
moderna; e con questa la società che produce le merci negli antagonismi della concorrenza, la
società che suppone come sua condizione iniziale, e come mezzo indispensabile al suo perpetuarsi,
l'accumulazione capitalistica nella forma della proprietà privata, la società che produce e riproduce
di continuo i proletarii, e a reggersi ha bisogno di rivoluzionare incessantemente i suoi istrumenti,
compreso lo stato e gl'ingranaggi giuridici di questo. Questa società, che, per le leggi stesse del suo
movimento, ha messa a nudo la sua propria anatomia, produce di contraccolpo la concezione
materialistica. Essa, come ha prodotto nel socialismo la sua negazione positiva, così ha generato
nella nuova dottrina storica la sua negazione ideale. Se la storia è il prodotto, non arbitrario, ma
necessario e normale, degli uomini in quanto si sviluppano, e si sviluppano in quanto socialmente
esperimentano, ed esperimentano in quanto perfezionano e raffinano il lavoro, ed accumulano e
serbano i prodotti e risultati di questo, la fase di sviluppo in cui noi ora viviamo non può esser
l'ultima e definitiva, e i contrasti a questa intimi ed inerenti sono le forze produttive di nuove
condizioni. Ed ecco come il periodo delle grandi rivoluzioni economiche e politiche di questi due
ultimi secoli ha maturato nelle menti questi due concetti: l'immanenza e costanza del processo nei
fatti storici, e la dottrina materialistica, che in fondo è la teoria obiettiva delle rivoluzioni sociali.
Non v'ha dubbio, che il risalire attraverso i secoli e il rifarsi studiatamente col pensiero su lo
sviluppo delle idee sociali, per quanto ce n'è documento negli scrittori, è cosa che riesce tuttora
assai istruttiva, e giova soprattutto ad accrescere in noi la consapevolezza critica, così dei nostri
concetti come dei nostri procedimenti. Tale ritorno della mente su le sue premesse storiche, quando
non ci porti a smarrirci nell'empirismo di una sconfinata erudizione, e non c'induca nella tentazione
di stabilire frettolosamente delle vane analogie, giova senza dubbio a dare pieghevolezza ed
efficacia di persuasione alle forme della nostra attività scientifica. Nell'insieme delle nostre scienze
si deriva ora, in via di fatto e per approssimativa continuità di tradizione, l'ottimo di quanto fu mai
ritrovato, escogitate e provato, non che nei tempi moderni, fin da quelli dell'antica Grecia, con la
quale appunto comincia in modo definitivo per tutto l'uman genere, lo svolgimento ordinato del
pensiero cosciente, riflesso e metodico. Non ci sarebbe dato di fare un solo passo nella ricerca
scientifica senza l'uso dei mezzi da gran tempo trovati e pronti; come sarebbe a dire, tanto per
addurre alcuni dei più generali, della logica e della matematica. Ad avere una opinione contraria
occorrerebbe di voler dire, che ogni generazione debba ricominciar da capo, rimbamboleggiando.
Ma né agli antichi autori, nell'angusto ambito delle loro repubbliche di città, né agli scrittori della
Rinascenza, incerti sempre tra un immaginato ritorno all'antico e il bisogno di afferrare
intellettualmente il mondo nuovo, che era in gestazione, fu dato di giungere all'analisi precisa degli
elementi ultimi dai quali resulta la società, che il genio insuperato di Aristotele non vide e non
comprese di là dai confini in cui si spiega la vita dell'uomo cittadino.
La ricerca su la struttura sociale, considerata nei suoi modi di origine e di processo, si fece viva ed
acuta ed assunse aspetti multiformi nei secoli decimosettimo e decimottavo, quando si formò la
Economia, e insieme a questa, sotto ai varii nomi di Diritto di Natura, di saggi su lo Spirito delle
Leggi e di Contratto Sociale, si fece strada il tentativo di risolvere in cause, in fattori, in dati logici e
psicologici, il multiforme e non sempre chiaro spettacolo di una vita, in cui si preparava la più
grande rivoluzione che si conosca. Coteste dottrine, quale che fosse l'intento subiettivo e l'animo
degli autori - come è il caso antitetico del conservatore Hobbes e del proletario Rousseau - furon
tutte rivoluzionarie nella sostanza e negli effetti. In fondo a tutte tu ritrovi sempre come stimolo e
come motivo i bisogni materiali e morali dell'età nuova; che per le condizioni storiche erano quelli
della borghesia: - e per ciò conveniva di combattere, in nome della libertà, la tradizione, la chiesa, il
privilegio, le classi fisse, ossia gli ordini e i ceti, e per conseguenza lo stato che di questi era o
pareva autore, e poi i privilegi del commercio, delle arti, del lavoro e della scienza. Onde si mirò
all'uomo in astratto, ossia ai singoli individui emancipati e liberati, per virtù di astrazione logica, dai
loro vincoli storici e di necessaria dipendenza sociale; e nella mente di molti il concetto della
società si venne come a ridurre in atomi, e anzi parve, ai più, naturale il credere, che la società
stessa non sia se non una somma d'individui. Le categorie astratte della psicologia individuale si
trovarono come spinte sul davanti, o messe in cima, della spiegazione di tutti i fatti umani; ed ecco
come in tutti cotesti sistemi ed escogitazioni non si parli che di paura, di amor proprio, di egoismo,
di obbedienza volontaria, di tendenza alla felicità, di originaria bontà dell'uomo, di libertà di
contrattare; e poi della coscienza morale, e dell'istinto o del senso morale, e di altrettali cose astratte
e generiche, come quelle che fossero sufficienti a spiegare la concreta storia esistente, e a crearne di
sana pianta una nuova.
Nell'atto che tutta la società entrava in una strepitosa crisi, l'orrore dell'antico, del vieto, del
tradizionale, dell'organizzato da secoli, e il presentimento di una rinnovazione di tutta l'esistenza
umana, ingenerarono da ultimo un oscuramento totale nelle idee di necessità storica e di necessità
sociale; ossia in quelle idee, che, accennate appena dai filosofi antichi, e venute poi in tanto
sviluppo nel secolo nostro, in quel periodo di razionalismo rivoluzionario non ebbero che rari
rappresentanti, come Vico, Montesquieu, e in parte Quesnay. In questa situazione storica, che fa
nascere una letteratura acuta, agile, sovvertitrice, penetrante e popolarissima, sta la ragione di ciò
che Louis Blanc, con una certa enfasi, chiamò individualismo; con la qual parola altri dopo di lui
han poi creduto di dare espressione ad un fatto permanente della natura umana, che possa
soprattutto servire come di argomento decisivo contro il socialismo.
Singolare spettacolo; anzi singolare contrasto! Il capitale, formatosi come che si fosse, tendeva a
vincere ogni altra precedente forma di produzione, rompendone i vincoli e gl'impedimenti, tendeva
ad essere, cioè, il signore diretto od indiretto della società, come di fatti è divenuto nella più gran
parte del mondo; dal che poi è proceduto, che, oltre a tutti i modi di moderna miseria e di nuova
gerarchia in cui ora ci aggiriamo, si avverasse la più stridente antitesi di tutta la storia, ossia quella
presente tra la anarchia della produzione nel complesso della società, e il ferreo dispotismo del
modo del produrre nelle singole aziende, officine e fabbriche! Ebbene, i pensatori, e filosofi, ed
economisti, e divulgatori d'idee del secolo decimottavo non vedeano che libertà ed eguaglianza!
Tutti ragionavano allo stesso modo, tutti partivano dalle stesse premesse; o che arrivassero a
conchiudere, doversi ottenere la libertà da un governo di pura amministrazione, o che fossero
addirittura democratici, o per fino comunisti. Il regno prossimo della felicità stava innanzi agli
occhi di tutti, come d'indubbio avvento; pur che fossero tolti i vincoli e gl'impedimenti, che
all'uomo, di sua natura buono e perfettibile, aveano imposto la forzata ignoranza e il dispotismo
della chiesa e dello stato. Cotesti impedimenti non pareano condizioni, e termini, nei quali gli
uomini si fossero trovati per le leggi del loro sviluppo, e per gl'intrecci inevitabili del moto
antagonistico, e per ciò incerto e flessuoso della storia, come paiono finalmente a noi per il
prevalere dello storicismo obiettivo: ma, anzi, pareano dei semplici imbarazzi, dei quali l'uso retto
della ragione dovesse liberarci. In cotesto idealismo, che raggiunse il suo apice in alcuni degli eroi
della Grande Rivoluzione, germogliò una fede sconfinata nel sicuro progresso di tutto l'uman
genere. Per la prima volta il concetto di umanità apparve in tutta la sua estensione, e senza
mescolanza d'idee o di presupposti religiosi. I più risoluti fra cotesti idealisti furono appunto i
materialisti estremi; come quelli, che, negando ogni obietto alla fantasia religiosa, assegnavano al
bisogno della felicità questa terra qual sicuro dominio, pur che la ragione schiudesse la via.
Ma le idee furono così barbaramente maltrattate dalle prosaiche cose, come avvenne tra la fine del
secolo passato e il principio di questo. Assai dura fu la lezione dei fatti, dalla quale procedettero le
più tristi delusioni, e poi ne seguì un radicale rivolgimento negli spiriti. I fatti, in una parola,
riuscirono contrarii ad ogni aspettazione; il che, se dapprima produsse stanchezza nei disillusi, non
poté a meno di indurre desiderio e bisogno di nuova ricerca. È noto come Saint-Simon e Fourier,
nei quali proprio in principio del secolo si avvera, nelle forme unilaterali della genialità prematura,
la reazione contro i resultati immediati della grande rivoluzione politico-economica, si levassero
risolutamente, il primo contro i giuristi, ed il secondo contro gli economisti.
Difatti, rimossi gl'impedimenti alla libertà, che furon proprii di altri tempi, dei nuovi e spesso più
gravi e più dolorosi eran subentrati; e, come la felicità eguale per tutti non s'era avverata, così la
società rimaneva nella sua forma politica, tal quale come prima, una organizzazione delle
disuguaglianze. La società deve esser, dunque, un qualcosa di per sé stante, un certo che di naturale,
un semovente complesso di rapporti e di condizioni, che sfida i tuoni propositi soggettivi dei singoli
componenti suoi, e passa sopra alle illusioni ed ai disegni degli idealisti! Essa, dunque, segue un suo
proprio andamento, dal quale sarà lecito di astrarre delle leggi di processo e di sviluppo, ma al quale
non è dato d'imporne! Per cotal conversione delle menti, il secolo decimonono s'annunciò con la
vocazione di dover essere il secolo della scienza storica e della sociologia.
Il pensiero ha di fatti invaso e penetrato ogni campo dell'attività umana, col principio dello
sviluppo. In questo secolo fu ritrovata la grammatica storica, e fu rinvenuta la chiave per esplorare
la genesi dei miti. In questo secolo furono rinvenute le tracce embriogenetiche della preistoria e
furon per la prima volta messe in serie di processo le forme politiche e giuridiche. Il secolo
decimonono si annunziò come il secolo della sociologia, nella persona del Saint-Simon; nel quale,
come accade degli autodidatti e dei precursori geniali, si trovano confusi insieme i germi di tante
tendenze contradittorie. Per questo rispetto la concezione materialistica è un resultato; ma è quel
resultato, che è il compimento di tutto un processo di formazione; e come resultato e come
compimento essa è anche la semplificazione di tutta la scienza storica e di tutta la sociologia, perché
ci riporta dai derivati e dalle condizioni complesse alle funzioni elementari. E ciò è avvenuto per la
diretta suggestione di una nuova e strepitosa esperienza.
Le leggi della economia, quali esse per sé sono e per sé si esplicano, avean trionfato di tutte le
illusioni, e s'eran mostrate direttrici della vita sociale. La grande rivoluzione industriale, operatasi
per primo in Inghilterra alla luce del giorno, anzi nel secolo dei lumi, facea intendere come le classi
sociali, se non sono in natura, non son nemmeno una conseguenza del caso o dell'arbitrio; anzi
nascono storicamente e socialmente entro ed attorno ad una determinata forma di produzione. E chi,
in verità, non avea visto a sorgere, sotto i suoi occhi, i nuovi proletarii dalla rovina economica di
tante classi di piccoli proprietarii, di piccoli contadini e di artigiani; e chi non era in grado di
scorgere il metodo di tale novella creazione di nuovo stato sociale, in cui tanti uomini venivano ad
esser ridotti e a trovarsi per forza? Chi non era in grado di scorgere, come il danaro diventato
capitale fosse riuscito in breve corso d'anni a grandeggiare, per l'attrazione che esso esercita sul
lavoro degli uomini liberi, nei quali la necessità di darsi liberamente a mercede era stata di lunga
mano preparata con tanti accurati metodi di diritto, e per le vie di una violenta o indiretta
espropriazione? Chi non avea visto a sorgere le nuove città intorno alle fabbriche, e cingersi al loro
perimetro di desolante miseria, che non era più un caso di singolare disavventura ma la condizione
e la fonte della ricchezza? E in quella miseria di novello stile apparivano numerose le donne ed i
fanciulli, uscenti per la prima volta da una ignorata esistenza, per figurare sul palcoscenico della
storia qual sinistra illustrazione della società degli eguali. E chi non sentiva - ci fosse o non ci fosse
la sedicente teoria del reverendo Malthus - che il numero di conviventi, che cotesto modo di
organizzazione economica può contenere, se a volte è insufficiente a chi per l'alea favorevole della
produzione ha bisogno di braccia, altre volte è esuberante, e per ciò non occupabile e pauroso?
Diveniva, inoltre, cosa evidente, che la rapida e violenta trasformazione economica avveratasi
strepitosamente in Inghilterra, era ivi riuscita perché quel paese erasi potuto creare, di fronte alla
rimanente Europa, un monopolio fino allora non mai visto, ed a reggere cotesto monopolio era
occorsa una politica senza scrupoli, la quale permetteva una buona volta a tutti di tradurre in prosa
il mito ideologico dello stato, che avrebbe ad essere tutore e pedagogo del popolo.
Nella visione immediata di tali conseguenze della nuova vita ebbe origine il pessimismo, più o
meno romantico, dei laudatores temporis acti, da De Maistre a Carlyle. La satira del liberalismo
invade le menti e la letteratura in principio di questo secolo. Comincia quella critica della società,
nella quale è l'inizio di tutta la sociologia. Bisognava innanzi tutto vincere la ideologia, che erasi
accumulata ed espressa nelle tante dottrine del Diritto di Natura e del Contratto Sociale. Bisognava
rimettersi di fronte ai fatti, che le rapide vicende di un processo tanto intensivo imponevano
all'attenzione in forme così nuove e paurose.
Eccoti Owen, l'impareggiabile sotto tutti i rispetti; ma per questo specialmente, che egli fu tanto
chiaroveggente su le cause della nuova miseria, quanto fu ingenuo nel ricercare i modi di vincerle.
Bisognava giungere alla critica oggettiva della Economia, che apparve la prima volta, in forme
unilaterali e reazionarie, in Sismondi. In quel periodo di tempo, in cui si mutavano le condizioni di
una nuova scienza storica, nascono e attirano sopra di sé l'attenzione tante diverse forme di
socialismo utopico, unilaterale, o a dirittura stravagante, che non arrivarono mai fino ai proletarii, o
perché questi non avean coscienza politica affatto, o, avendola, si moveano a salti, come nelle
cospirazioni e sommosse francesi dal 1830-48, o si aggiravano sul terreno pratico delle riforme
immediate, come è il caso dei Cartisti. E pure tutto cotesto socialismo, per quanto utopico,
fantastico ed ideologico, era una critica immediata e spesso geniale dell'Economia; una critica
unilaterale, insomma, cui occorreva il complemento scientifico di una generale concezione storica.
Tutte coteste forme di critica parziale, unilaterale ed incompleta misero effettivamente capo nel
socialismo scientifico. Questo non è più la critica soggettiva applicata alle cose, ma è il
ritrovamento dell'autocritica che è nelle cose stesse. La critica vera della società è la società stessa,
che per le condizioni antitetiche dei contrasti su i quali poggia, genera da sé in se stessa la
contraddizione, e questa poi vince per trapasso in una nuova forma. Il risolvente delle presenti
antitesi è il proletariato; che lo sappiano o non lo sappiano i proletarii stessi.
Come in essi la miseria loro è diventata la condizione palese della società presente, così in essi e
nella miseria loro è la ragion d'essere della nuova rivoluzione sociale. In questo trapasso dalla
critica del pensiero soggettivo, che esamina dal di fuori le cose e immagina di poterle correggere
per conto suo, alla intelligenza dell'autocritica che la società esercita sopra di se stessa nella
immanenza del suo proprio processo; soltanto in ciò consiste la dialettica della storia, che Marx ed
Engels, solo in quanto erano materialisti, trassero dall'idealismo di Hegel. E in fin delle fini poco
importa se di tali riposte e complicate forme del pensiero non si sappian render conto, nè i letterati,
che non conoscono altra significazione della parola dialettica se non quella dell'artificio sofistico, nè
i dotti e gli eruditi, che non sono mai atti a sorpassare la conoscenza empiricamente disgregata dei
semplici particolari.
Ma il grande rivolgimento economico, che ha offerto i materiali onde è composta la società
moderna, nella quale è arrivato in fine al suo quasi completo sviluppo l'impero del capitalismo, non
sarebbe riuscito di così rapido e suggestivo insegnamento, se non fosse stato luminosamente
illustrato dal moto vertiginoso e catastrofico della Rivoluzione Francese. Mise essa in piena
evidenza, come in tragica rappresentazione, tutte le forze antagonistiche della società moderna,
perché questa vi si fece strada tra le rovine, e segnò in breve tratto di tempo precipitosamente le fasi
del suo nascimento e del suo assetto.
Nacque la Rivoluzione dagl'impedimenti che la borghesia dovette vincere con la violenza, poi che
apparve evidente come la transizione dalla vecchia alla nuova forma della produzione - o della
proprietà, come dicono per necessità di gergo professionale i giuristi - non potesse avverarsi per le
vie più tranquille delle successive e graduali riforme. E fu essa per ciò sollevazione, attrito e
rimescolamento di tutte le vecchie classi dell'Ancien Régime, e rapida e vertiginosa formazione ad
un tempo di nuove classi, nel brevissimo ma singolarmente intensivo periodo di soli dieci anni, che
al paragone della ordinaria storia di altri paesi e tempi paiono secoli. In cotesta compressione di
vicende da secoli in così breve giro di anni, si esemplificarono i momenti e gli aspetti più
caratteristici della società nuova, o moderna, con tanto maggiore evidenza, in quanto che la pugnace
borghesia avea già creato a se stessa tali mezzi ed organi intellettuali, da possedere nella teoria
dell'opera propria la coscienza riflessa del suo movimento.
La violenta espropriazione di una parte non piccola della vecchia proprietà, di quella, cioè, che era
immobilizzata nel feudo, nei regi e principeschi demani e nella manomorta, coi diritti reali e
personali che ne derivavano per mille vie, mise a disposizione dello stato, divenuto per necessità di
cose un terribile ed onnipotente governo di eccezione, una massa straordinaria di mezzi economici;
e questi, per un verso dettero luogo alla singolare finanza degli assegnati, finiti poi
nell'annullamento di se stessi, e per un altro verso dettero luogo alla formazione dei nuovi
proprietarii, che andarono debitori alle chances dell'aggiotaggio, e alle contingenze dell'intrigo e
della speculazione, della fortuna loro. E chi avrebbe mai più osato dappoi di giurare sul capo del
sacro ed atavico istituto della proprietà, dacchè il titolo recente ed accertato di questa poggiava così
palesemente su la notizia delle fortunate contingenze? Se mai era passato per il capo di tanti molesti
filosofi, a cominciare dai Sofisti, che il diritto fosse una utile e comoda fattura dell'uomo; cotesta
proposizione di malvisti eretici poteva sembrate oramai verità semplice ed intuitiva per fino agli
ultimi straccioni dei sobborghi di Parigi. Non aveano essi, i proletarii, dato l'impulso, con tutto il
resto del popolo minuto, alla rivoluzione in generale con le mosse anticipate dell'aprile dell'89; e
non si trovaron poi come scacciati di nuovo dalla scena della storia dopo l'insuccesso della rivolta
del Preriale del '95? Non aveano essi portato a spalle tutti i focosi oratori della libertà e della
eguaglianza; non aveano essi tenuto in mano la Comune parigina, che fu per un pezzo l'organo
impulsivo dell'Assemblea e di tutta la Francia; e non finivan poi da ultimo nell'amara delusione
d'essersi creati con le proprie mani i novelli padroni? Nella coscienza fulminea di tal delusione è il
movente psicologico, rapido ed immediato, della cospirazione di Babeuf; la quale, per ciò appunto,
è un grande fatto della storia, ed ha in sé tutti gli elementi della tragedia oggettiva.
La terra, che il feudo e la manomorta aveano come legata ad un corpo, ad una famiglia, ad un titolo,
liberata dai suoi vincoli era diventata merce, perché fosse base ed istrumento da produrre merci; ed
era diventata d'un tratto merce così pieghevole, docile ed adattabile, da prestarsi a circolare nei
simboli di tanti pezzi di carta. E intorno a questi simboli moltiplicati di tanto su le cose che doveano
rappresentare, che da ultimo finiron nel nulla, sorse gigante l'affare, come sorse d'ogni parte, su le
spalle della miseria dei più miseri, e fra tutti gli anfratti della precipitosa e sinuosa politica, e
sfacciato soprattutto nel trar partito dalla guerra e dai suoi gloriosi successi. Per fino i rapidi
progressi di una tecnica accelerata per le urgenti circostanze, dettero materia ed occasione al
prosperar degli affari.
Le leggi dell'economia borghese, che son quelle della produzione individuale nel campo
antagonistico della concorrenza, insorsero furiose, con tutti i mezzi della violenza e dell'insidia,
contro l'arbitrio idealistico di un governo rivoluzionario; il quale, forte della certezza di salvare la
patria, e forte ancora più della illusione di fondare in eterno la libertà degli eguali, credette fosse
cosa possibile il sopprimere l'aggiotaggio con la ghigliottina, l'eliminare l'affarismo con la chiusura
della borsa, e l'assicurare al popolo minuto la esistenza, col fissare il maximum dei prezzi dei generi
di prima necessità. Le merci, e i prezzi, e gli affari rivendicarono con la violenza la libertà propria,
contro quelli che volean leggere o imporre loro la morale.
Il Termidoro, quali che fossero le personali intenzioni dei Termidoriani, o vili, o paurosi, o illusi,
fu, così nelle cause ascose come nei suoi effetti non remoti, il trionfo degli affari su l'idealismo
democratico. La costituzione del '93, la quale segna l'estremo limite cui possa giungere il pensiero
democratico, non era mai andata in esecuzione. La pressione grave delle circostanze, la minaccia
dello straniero, le varie forme di ribellione all'interno, dalla girondina alla vandeana, avean reso
necessario un governo di eccezione, che fu il Terrore nato dalla paura. A misura che i pericoli
cessavano, cessò il bisogno del terrore; ma la democrazia s'infranse innanzi agli affari, nei quali
nasceva la proprietà dei proprietarii nuovi. La costituzione dell'anno III consacrò il principio del
moderantismo liberale, dal quale è proceduto tutto il costituzionalismo del continente europeo: ma
innanzi tutto fu la via per giungere alla garanzia della proprietà nuova. Cambiare i proprietarii,
salvando la proprietà, questo il motto, questa la parola d'ordine, questa l'insegna, che sfidò per anni
dal 10 agosto '92, così le sommosse violente, come gli arditi disegni di coloro che tentarono di
fondare la società su la virtù, su l'eguaglianza, su la spartana abnegazione. Il Direttorio fu il tramite
attraverso del quale la rivoluzione giunse a negare se stessa come conato idealistico; e col
Direttorio, che fu la corruzione confessata e professata, divenne realtà il motto: cambiati sì i
proprietarii, ma la proprietà è salva! E da ultimo occorreva, a trarre da tante rovine uno stabile
edifizio, la forza vera; e questa si trovò in un singolare avventuriere d'insuperata genialità, cui la
fortuna avea romanamente arriso, ed il solo che possedesse la virtù di mettere la chiusa della
conveniente morale a quella favola gigantesca, perché in lui non era nè ombra, nè traccia di scrupoli
morali.
Tutto si vide in quella rapina di eventi. I cittadini armati alla difesa della patria, vittoriosi oltre i
confini della circostante Europa, nella quale portano con la conquista la rivoluzione, divengono
soldatesca da opprimere la libertà in patria. I contadini, che in un impeto d'imperiosa suggestione
produssero per entro alle terre di feudo l'anarchia dell'89, diventati, o soldati, o piccoli proprietarii,
o piccoli fittaiuoli, dopo d'essere stati per un quarto d'ora le sentinelle avanzate della rivoluzione,
ricaddero nella silenziosa e balorda quiete della vita loro tradizionale, che, muta di casi e di
movimenti, fa da sottostrato sicuro al così detto ordine sociale. I piccoli borghesi di città, e i già
membri delle corporazioni, a breve andare s'accomodarono a diventare, nel campo della gara
economica, i prestatori liberi dell'opera della mano. La libertà del commercio esigeva, che ogni
prodotto diventasse liberamente commerciabile, e superava, quindi, l'ultimo impedimento,
ottenendo che il lavoro diventasse anch'esso libera merce.
Tutto si mutò in quel tempo. Lo stato, che era parso per secoli a tanti milioni d'illusi una sacra
istituzione, o un divino mandato, lasciando il capo del suo sovrano sotto la fredda azione di un
istrumento tecnico, ne rimase sconsacrato e profanizzato. Diventava esso stesso, lo stato, un
apparato tecnico, che alla gerarchia veniva sostituendo la burocrazia. E perché non v'era più
presunzione di antichi titoli, che dessero ragione di privilegio da tenervi posto, questo novello stato
poteva diventar la preda di chi se lo pigliasse; si trovava, insomma, messo agl'incanti, purché i
fortunati tra gli ambiziosi fossero i soliti garanti della proprietà, e dei nuovi e vecchi proprietari. Il
novello stato, che ebbe bisogno del 18 Brumaio per diventare una ordinata burocrazia poggiata sul
militarismo vittorioso, questo stato che completava la rivoluzione nell'atto che la negava, non potea
fare a meno del suo testo, e l'ebbe nel Codice Civile, che è il libro d'oro della società che produca e
venda merci. Non invano la giurisprudenza generalizzata avea serbato e commentato per secoli,
nella forma di una disciplina scientifica, quel Diritto Romano, che fu, è, e sarà la forma tipica e
classica del diritto d'ogni società delle merci, finché il comunismo non tolga di mezzo la possibilità
di venderne e di comprarne.
La borghesia, che per l'incidenza di tante singolari circostanze fece la strepitosa rivoluzione col
concorso di tante altre classi e semiclassi, sparite poi dopo breve tempo quasi tutte dalla scena
politica, apparve nei momenti del più vivo attrito come spinta da motivi ed ispirata da una
ideologia, che sarebbero affatto difformi dagli effetti che sopravvissero e positivamente si
perpetuarono. Ciò fa, che nel calore delle lotte la vertiginosa mutazione del sottostrato economico
apparisca come dissimulata dagli ideali, ed oscurata dall'intreccio di tanti propositi e disegni, da cui
sorgono atti di malvagità e di eroismo inauditi, e correnti di illusioni e dure prove di disinganni.
Mai si sprigionò dagli umani petti così potente la fede nell'ideale del progresso. Liberare l'uman
genere dalla superstizione, o a dirittura dalla religione, fare d'ogni individuo un cittadino, e d'ogni
privato un uomo pubblico; questo l'inizio: - e poi su la linea di cotesto programma compendiare,
nell'azione breve di pochi anni, quella evoluzione, che ai più idealisti di ora appare quale opera di
molti secoli ancora da venire: - questo l'idealismo d'allora. E perché dovea repugnare a costoro la
pedagogica della ghigliottina?
Tale poesia, grandiosa certo se non dilettosa, lasciò dietro di sé una prosa assai dura. E fu la prosa
dei proprietarii, che dovean la proprietà alla fortuna, e fu quella dell'alta finanza e dei fornitori
arricchiti, dei marescialli, dei prefetti, dei giornalisti e degli artisti e letterati mercenarii; fu la prosa
della corte del singolare mortale, cui le qualità del genio militare innestate su l'indole brigantesca
avean senza dubbio conferito il diritto di schernire come ideologo chiunque non ammirasse il fatto
nudo e crudo, che nella vita può essere, come era per lui, la semplice brutalità del successo.
La Grande Rivoluzione affrettò il corso della storia in buona parte dell'Europa. Da essa parti tutto
ciò che chiamiamo liberalismo e democrazia moderna, salvo i casi di errata imitazione
dell'Inghilterra, e fino allo stabilimento della unità d'Italia, che fu, e rimarrà forse l'ultimo atto della
borghesia rivoluzionaria. Fu quella rivoluzione l'esempio più vivo e più istruttivo del come una
società si trasformi, e del come le nuove condizioni economiche si sviluppino, e sviluppandosi
coordinino in gruppi e classi i membri della società. Fu la prova palpabile, del come si trovi il
diritto, quando occorra ad espressione e difesa di determinati rapporti, e del come si crei lo stato, e
se ne dispongano i mezzi, le forze e gli organi. E si vide come le idee germoglino dal terreno delle
necessità sociali, e come i caratteri, le tendenze, i sentimenti, le volontà, ossia, a farla breve, le forze
morali, si producano e svolgano in circostanziate condizioni. In una parola, i dati della scienza
sociale furono, per così dire, ammanniti dalla società stessa; e non è da meravigliare se la
Rivoluzione, che fu preceduta ideologicamente dalla forma più acuta di dottrinarismo razionalistico
che si conosca, abbia finito poi per lasciare dietro di sé il bisogno intellettuale di una scienza storica
e sociologica antidottrinaria; come in buona parte è riuscito di farne nel secolo nostro, che volge
oramai al termine suo.
E qui, per le cose da me dette e per quelle generalmente risapute, sarebbe inutile ricordare
nuovamente, come ad Owen faccian riscontro Saint-Simon e Fourier, e di ripetere per quali vie siasi
originato il socialismo scientifico. L'importante è in due punti soli, e cioè: che il materialismo
storico non potea nascere se non dalla coscienza teorica del socialismo; e che esso può oramai
spiegare la sua propria origine, coi suoi proprii principii, il che è la riprova massima della maturità
sua.
Non era perciò fuor di luogo la frase con cui comincia questo capitolo: le idee non cascano dal
cielo.
VIII.
Per il cammino fatto fin qui deve oramai parer chiaro a chiunque, quale sia il valore preciso e
relativo della così detta dottrina dei fattori; e per qual modo si riesca ad eliminare obiettivamente
cotesti concetti provvisorii, che furono e sono semplice espressione di un pensiero non arrivato
pienamente a maturità.
Eppure su cotesta dottrina bisogna tornarci ancora una volta, per dichiarar meglio, e più
partitamente, da quali ragioni sia dipeso e dipenda, che due dei così detti fattori, ossia lo stato e il
diritto, fossero o siano tuttora assunti aprincipale od esclusivo soggetto della storia.
La storiografia, di fatti, ha riposto per secoli in coteste forme della vita sociale l'essenziale dello
sviluppo umano; e, anzi, non ha visto questo sviluppo se non nel modificarsi di tali forme. La storia
è stata trattata per secoli come disciplina attinente al movimento giuridico-politico, e anzi al politico
principalmente. La inversione dalla politica alla società è cosa recente; e assai più recente ancora è
la risoluzione della società negli elementi del materialismo economico. In altre parole, la sociologia
è di assai recente invenzione; e il lettore, spero, avrà inteso da sé, che io adopero cotesta parola,
brevitatis causa, per indicare in genere la scienza delle funzioni e delle variazioni sociali, e non per
riferirmi al caso specifico del modo come la trattano i Positivisti.
Gli è del resto cosa risaputa, come, fino al principio di questo secolo, le notizie attinenti alle usanze,
ai costumi, alle credenze e così via, e anche quelle attinenti alle condizioni naturali, che fanno da
sottosuolo e da circuito alle forme sociali, apparissero nelle storie politiche quali semplici curiosità,
o quali accessorii e complementi della narrazione.
Tutto ciò non può essere accidentale: e non è. Rendersi conto della tardiva apparizione della storia
sociale gli è per ciò di doppio interesse: e perché la dottrina nostra giustifica ancora una volta, per
cotal via, la sua ragion d'essere; e perché dei così detti fattori si fa la eliminazione in modo
definitivo.
Fatta eccezione di alcuni momenti critici, nei quali le classi sociali, per estrema incapacità a tenersi
in una condizione di relativo equilibrio per adattamento, entrano in una più o meno prolungata crisi
di anarchia; e fatta eccezione di quelle singolari catastrofi, nelle quali tutto un mondo precipita,
come alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente, o al dissolversi del Califfato: dacché c'è
memoria di storia scritta, lo stato apparisce, non solo come l'apice, e come il vertice della società,
ma come il reggitore di essa. Il primo passo che il pensiero ingenuo abbia fatto in tale ordine di
considerazioni consiste in questo enunciato: il reggitore è l'autore.
Fatta, inoltre, eccezione di certi brevi periodi di democrazia esercitata con la viva coscienza della
sovranità popolare, come fu di alcune città greche, e segnatamente di Atene, e di alcuni Comuni
italiani, e specie di Firenze (quelle erano, però, di uomini liberi padroni di schiavi, questi furono di
cittadini privilegiati sfruttanti il forestiero e la campagna), la società retta a stato fu sempre di una
maggioranza messa in balia di una minoranza. Cosicché la maggioranza degli uomini è apparsa
nella storia come una massa retta, governata, guidata, sfruttata e maltrattata; o, per lo meno, qual
variopinta conglomerazione d'interessi, che alcuni pochi avessero da regolare, mantenendo in
equilibrio le divergenze, per pressione o per compensazione.
Di qui la necessità di un'arte di governo; e, come questa si fa prima di ogni altra cosa palese agli
osservatori della vita collettiva, così era naturale, che la politica apparisse come l'autrice dell'ordine
sociale, e come l'indice della continuità nel succedersi delle forme storiche. Chi dice politica, dice
attività, che fino ad un certo punto si conduce a disegno; cioè fino a che i calcoli non dian di cozzo
in ignorate o inaspettate resistenze. Assumendo, per quel che suggeriva la imperfetta esperienza, ad
autore della società lo stato, e ad autrice dell'ordine sociale la politica, ne venia di conseguenza, che
gli storici narratori o ragionatori fossero portati a riporre l'essenziale della storia nel succedersi
delle forme, delle istituzioni e delle idee politiche.
Donde lo stato avesse avuto origine, e in che cosa trovasse fondamento al suo perpetuarsi, non
importava, come non importa al comune ragionamento. I problemi di indole genetica spuntano,
com'è risaputo, assai tardi. Lo stato c'è, e trova la sua ragione nella sua necessità attuale: - tanto è
vero, che la fantasia non ha potuto adattarsi all'idea, che una volta non ci fosse, e ne ha prolungata
la esistenza congetturale fino alle prime origini del genere umano. Iddii, o semidei ed eroi ne furono
gli istitutori, nella mitologia per lo meno; come nella teologia medievale il papa fa da fonte prima, e
per ciò divina e perpetua, di ogni autorità. Ancora ai tempi nostri, viaggiatori inesperti e missionarii
idioti trovano da per tutto lo stato, là dove non è, presso i selvaggi e i barbari, che la gens, o la tribù
delle genti, o l'alleanza delle genti.
Due cose sono occorse, perché tali pregiudizii del ragionamento rimanessero vinti. In primo luogo
fu necessario si riconoscesse, che le funzioni dello stato nascono, crescono, diminuiscono, si
alterano e si succedono col variare di certe condizioni sociali. In secondo luogo è convenuto si
arrivasse ad intendere, che lo stato esiste e si regge in quanto è ordinato a difesa di certi determinati
interessi, di una parte della società, contro tutto il testo della società stessa, la quale deve esser fatta
di tal modo, nel suo insieme, che la resistenza dei soggetti, dei maltrattati, degli sfruttati, o si
disperda nei molteplici attriti, o trovi compenso nei parziali, per quanto miseri, vantaggi degli
oppressi stessi. La miracolosa ed ammirata arte politica si risolve per ciò in un enunciato assai
semplice: applicare una forza, o un sistema di forze, ad un insieme di resistenze.
Il primo e più difficile passo è fatto quando si giunge a risolvere lo stato nelle condizioni sociali, da
cui esso trae origine. Ma queste condizioni sociali stesse sono state poi precisate con la teoria delle
classi; la genesi delle quali è nella maniera delle varie occupazioni, data la distribuzione del lavoro,
e ossia dati i rapporti che coordinano e vincolano gli uomini in una determinata forma di
produzione.
A questo punto il concetto dello stato ha cessato di rappresentare la causa diretta del movimento
storico, in quanto presunto autore della società: perché s'è visto, che in ogni sua forma e variazione
esso non è, se non l'ordinamento positivo e forzato di un determinato dominio di classe, o di una
determinata accomodazione di diverse classi. E poscia, per ulteriore conseguenza di tali premesse,
si e giunti da ultimo a riconoscere, che la politica, in quanto arte di operare a disegno, è una parte
assai piccola del movimento generale della storia, ed è una parte non grande della formazione e
dello sviluppo dello stato stessa; nel quale molte cose, ossia molte relazioni, nascono e si svolgono
per necessaria accomodazione, per tacito consenso, per subita o tollerata violenza, per intuitivo
ripiego. Il regno dell'inconsapevole, nel senso di ciò che non è voluto ad arbitrio, a disegno o per
elezione, ma che si determina e si fa per succedersi di abiti, di consuetudini, di accomodazioni e
così via, è divenuto assai largo nel campo delle conoscenze che formano oggetto della scienza
storica; e la politica, che era stata assunta a regola di spiegazione, è diventata essa stessa la cosa da
spiegare.
Per quali ragioni la storia si presentasse in esclusiva veste politica gli è, dunque, oramai palese.
Ma non per questo lo stato è una semplice escrescenza, o un puro accessorio, o del corpo sociale, o
della libera associazione; come è parso a tanti utopisti, e a tanti ultraliberali anarchizzanti. Se la
società ha messo capo, in fino ad ora, nello stato, gli è perché di tale complemento di forza e di
autorità essa ha avuto bisogno, in quanto è appunto di disuguali, per effetto delle differenziazioni
economiche. Lo stato è ben qualcosa di assai reale, come sistema di forze, che mantengono
l'equilibrio, o lo impongono con la violenza e con la repressione. E per esistere come tale sistema di
forze è dovuto divenire ed essere una potenza economica; poggi questa nella razzia, nella preda,
nella imposizione di guerra, o consista nella diretta proprietà di demanio, o si formi di volta in
volta, come nel metodo moderno della pubblica finanza, che assume le simulate forme
costituzionali di una pretesa autotassazione. In cotesta potenza economica, di tanto cresciuta, negli
stati moderni, consiste il fondamento della sua capacità ad operare. Da essa deriva, che, per via di
una nuova division del lavoro, intorno alle funzioni dello stato stesso si formino ordini e ceti
speciali, ossia classi particolarissime, non esclusa quella dei parassiti.
Lo stato, che è e deve essere potenza economica, perché a difesa delle classi dirigenti sia fornito di
mezzi per reprimere, per governare, per amministrare, per guerreggiare, crea per diretto o per
indiretto un insieme d'interessi nuovi e particolari, i quali reagiscono necessariamente su la società.
Cosicché lo stato, nell'atto che è sorto e si mantiene comc garante delle antitesi sociali, che sono
conseguenza delle differenziazioni economiche, forma intorno a sé una cerchia d'interessati
direttamente all'esistenza sua.
Da ciò derivano due conseguenze. Come k società non è un tutto omogeneo, anzi è un corpo di
particolareggiata articolazione, anzi un multiforme complesso d'interessi antitetici, così accade, che
alcune volte i reggitori dello stato tendano ad isolarsi, e in tale isolamento si contrappongano a tutta
intera la società E poi in secondo luogo, accade, che organi e funzioni create la prima volta a
benefizio di tutti, degenerino in abusi di consorterie, di conventicole e di camorre. Di qui le
aristocrazie e le gerarchie nate dall'uso dei poteri politici, e di qui le dinastie; le quali formazioni,
viste alla luce della semplice logica, paiono irrazionali del tutto.
Da che c'è storia accertata, lo stato è cresciuto o è diminuito di poteri, ma non è mai più sparito,
perché mai più vennero meno, nella società dei disuguali per economica differenziazione, le ragioni
per mantenere e per difendere con la forza e con la conquista, o la schiavitù, o i monopolii, o il
predominio di una forma di produzione, mediante la signoria dell'uomo su gli uomini. Onde poi lo
stato è diventato come l'arena di una incessante guerra civile, che vi si svolge di continuo, anche se
non appaia nelle forme strepitose dei Mario e dei Silla, delle giornate di Giugno e della secessione
americana. Dentro allo stato ha sempre fiorito la corruzione dell'uomo per mezzo dell'uomo;
perché, se non v'è forma di dominio che non trovi resistenza, non v'è resistenza che per gli urgenti
bisogni della vita non possa degenerare in rassegnata accomodazione.
Per tali ragioni le vicende storiche, viste alla superficie della monotona narrazione ordinaria, paiono
come la ripetizione assai poco variata del medesimo tipo, come una specie di ritornello, o di
configurazione da caleidoscopio. Non è da maravigliare che il concettualista Herbart e il maligno
pessimista Schopenhauer venissero nella conclusione, che di storia come vero processo non ce n'è:
il che, in volgare, si direbbe così: la storia è una canzone noiosa!
Ridotta la storia politica alla sua quintessenza, lo stato rimane chiarito in tutta la sua prosa, in cui
non è più traccia, né di teologica transumanazione, né di quella metafisica transustanziazione, che
ebbe tanta voga presso certi filosofi tedeschi: p. e. lo stato che è l'Idea, lo stato Idea che si esplica
nella storia, lo stato che è l'attuazione piena della personalità, ed altrettali pappolate. Lo stato è un
reale ordinamento di difese per garentire e perpetuare un metodo di convivenza, il cui fondamento
è, o una forma di produzione economica, o un accordo ed una transazione fra diverse forme. A farla
più breve, lo stato suppone, o un sistema di proprietà, o l'accordo tra più sistemi di proprietà. In ciò
è il fondamento d'ogni sua arte, al cui esercizio occorre, che lo stato stesso divenga una potenza
economica, e che abbia anche i mezzi e i modi per far passare la proprietà dalle mani degli uni nelle
mani degli altri. Quando, per effetto di una rinnovazione acuta e violenta delle forme della
produzione, occorre di provvedere ad un insolito e straordinario spostamento dei rapporti della
proprietà (p. e. abolizione della manomorta e del feudo, abolizione dei monopolii commerciali),
allora la vecchia forma politica è insufficiente, e la rivoluzione è necessaria per creare il nuovo
organo che esegua la trasformazione economica.
Ora, fatta astrazione da' tempi antichissimi a noi ignoti, tutta la storia s'è svolta nei contatti e nei
contrasti di varie tribù, e comunanze, e poi di varie nazioni e di vani stati, cioè, le ragioni delle
antitesi interne nella cerchia di ciascuna società sonosi sempre andate complicando con gli attriti
all'esterno. Queste due ragioni di contrasto si condizionano a vicenda, ma in modi sempre variati.
Spesso è il disagio interno che spinge una comunanza o uno stato ad entrare in esterne collisioni;
altre volte sono queste collisioni che alterano i rapporti interni.
Il movente precipuo dei vani rapporti tra le diverse comunanze fu dalle origini, com'è fino ad ora, il
commercio nel lato senso della parola, ossia lo scambio: sia che si trattasse di cedere, come in una
povera tribù, il solo esuberante, in cambio di altre cose, sia che si tratti, come oggi, della grande
produzione in massa, che è fatta ad esclusivo scopo di vendere, per trarre dal danaro il danaro
cresciuto d'un tanto. Cotesta enorme massa a accadimenti esterni ed interni, che si accumulano ed
accavallano l'un su l'altro nella ordinaria cronistoria, turbano tanto gli storiografici espositori e
compendiatori, che essi quasi si smarriscono in infiniti tentativi di artificiali raggruppamenti
cronologici e prospettici. Chi invece segua lo sviluppo interno dei varii tipi sociali quanto alla loro
struttura economica, e consideri le vicende politiche come particolari resultati delle forze operanti
nella società, finisce da ultimo per vincere il confuso della molteplice ed incerta impressione
empirica, e al posto della linea cronologica, del sincronismo e della prospettica, mette la serie
concreta di un processo reale.
Innanzi a questo genere di realistiche considerazioni, cadono tutte le ideologie fondate su la
missione etica dello stato, o sopra qualunque altra frase simile. Lo stato è, per così dire, messo al
suo posto, e rimane come inquadrato nei contorni del divenire sociale, in quanto forma che è effetto
di altre condizioni, e che a sua volta, poi che esiste, reagisce naturalmente sul resto.
E qui spunta un'altra questione.
Cotesta forma sarà superata mai? - ossia, ci può essere una società senza stato? - ovvero, ci può
essere una società senza classi? - e, se giova di spiegarsi meglio, ci sarà una forma di produzione
comunistica, con tale spartizione di lavoro e di ufficii, che non possa dar luogo allo sviluppo delle
disuguaglianze, da cui si genera il dominio dell'uomo su l'uomo?
Nella risposta affermativa a coteste domande consiste la somma del socialismo scientifico; in
quanto esso enuncia l'avvento della produzione comunistica, non come postulato di critica, né come
meta di una volontaria elezione, ma come il resultato dell'immanente processo della storia.
Come è risaputo, la premessa di tale previsione è nelle condizioni stesse della presente produzione
capitalistica. Questa socializza di continuo il modo del produrre, avvince sempre di più il lavoro
vivo e regolamentato alle condizioni obiettive della tecnica, concentra di giorno in giorno sempre
più la proprietà dei mezzi di produzione nelle mani di pochi, che come azionisti e negoziatori di
azioni si trovano sempre più assenti dal lavoro immediato, la cui direzione passa all'intelligenza.
Col crescere della coscienza di tale situazione nei proletarii, cui l'insegnamento della solidarietà
viene dalle condizioni stesse della loro reggimentazione, e col decrescere della capacità nei
detentori del capitale a conservare la privata direzione del lavoro produttivo, si verrà ad un punto in
cui, di un modo o dell'altro, con la eliminazione di ogni forma di rendita, interesse e profitto
privato, la produzione passerà all'associazione collettiva, ossia sarà comunistica. Così cesseranno
tutte le disuguaglianze, che non siano quelle naturali del sesso, dell'età, del temperamento e della
capacità; cesseranno, cioè, tutte le disuguaglianze, che hanno attinenza alle classi economiche, e
anzi da queste son generate: e sparite le classi verrà meno la possibilità dello stato, come dominio
dell'uomo su l'uomo. Il governo tecnico e pedagogico dell'intelligenza sarebbe l'unico ordine della
società.
Per cotal via il socialismo scientifico, per ora idealmente almeno, ha superato lo stato; e
superandolo lo ha inteso a fondo, così nel suo modo di origine, come nelle ragioni di sua naturale
sparizione. E lo ha inteso appunto perché non gli si leva contro in modo unilaterale e soggettivo,
come fecero già più volte in altri tempi cinici, e stoici, ed epicurei d'ogni maniera, e poi settarii
religiosi, e cenobiti visionani, e utopisti da conventicola, e da ultimo anarchisti d'ogni tinta e colore.
Anzi, più che levarglisi da sé contro, il socialismo scientifico ha mirato a mostrare, come lo stato si
sollevi di continuo da sé contro se stesso, creando nei mezzi di cui non può fare a meno, p. e.
colossale finanza, militarismo, suffragio universale, estensione della coltura, e così via, le
condizioni della sua propria rovina. La società che lo ha prodotto lo riassorbirà: ossia, come la
società, in quanto forma di produzione, eliminerà le antitesi di capitale e lavoro, così con la
sparizione dei proletarii, e cessando le condizioni che rendono possibile il proletariato, sparirà ogni
dipendenza dell'uomo dall'uomo, in qualunque forma di gerarchia.
I termini entro i quali s'aggira la genesi e lo sviluppo dello stato, dal suo punto iniziale di
apparizione entro una determinata comunità, in cui cominciò la differenziazione economica, fino a
questo momento, in cui la sua sparizione principia a disegnarsi alla mente, ce lo rendono oramai
comprensibile.
E per tale comprensibilità, che lo riduce a necessario complemento di determinate forme
economiche, la presunzione di considerarlo qual fattore autonomo della storia rimane eliminata per
sempre.
Torna oramai cosa relativamente facile il rendersi conto del come il diritto sia stato elevato a fattore
decisivo della società, e quindi della storia, per diretto o per indiretto.
Innanzi tutto è bene di ricordare per quali vie siasi formata quella concezione filosofica del diritto
generalizzato, nella quale principalmente ha radice la considerazione della storia come dominata dal
progresso legislativo per sé stante.
Col precoce dissolversi della società feudale in alcuni punti dell'Italia centrale e settentrionale, e col
sorgere dei comuni, che furono repubbliche di produttori corporativi, e di corporazioni di mercanti,
tornò in onore il Diritto Romano. Questo rifiorì nelle Università; e come rinasceva in opposizione ai
diritti barbarici e in buona parte in opposizione al Diritto Canonico, era evidentemente, in tale sua
rifioritura, una forma del pensiero più rispondente ai bisogni della borghesia, che cominciava a
svilupparsi.
Difatti, di fronte al particolarismo dei diritti, che erano, o consuetudini di popoli barbari, o privilegi
di un corpo, o concessioni papali ed imperiali, quel diritto appariva come la universalità della
ragione scritta. Non era esso arrivato a considerare la personalità umana nei suoi più astratti e
generali rapporti; in quanto un qualunque Tizio è capace di obbligarsi e di obbligare, di vendere e di
comprare, di cedere, donare e così via? Il Diritto Romano, per quanto elaborato nella sua ultima
redazione per autorità d'imperatori da giuristi servili, appariva, dunque, in sul declinare delle
istituzioni medievali, come una forza rivoluzionaria, e come tale era un grande progresso. Cotesto
diritto così universale, che dava i mezzi per isconvolgere e rovesciare i diritti barbarici, era
certamente un diritto più rispondente alla natura umana guardata nei suoi rapporti generici; e nella
sua opposizione ai diritti particolari e di privilegio appariva come un diritto di natura.
E' noto, del resto, come la ideologia del diritto di natura sia nata. E' venuta nel suo massimo fiore
nei secoli decimosettimo e decimottavo; ma fu di lunga mano preparata dalla giurisprudenza che
pigliava a suo fondamento il Diritto Romano, o adottato, o rimaneggiato, o commentato.
Nella formazione della ideologia del diritto naturale concorse un altro elemento, ossia la filosofia
greca delle epoche posteriori. I greci, che furono gli inventori di quelle determinate arti del pensiero
che sono le scienze, non trassero mai, com'è risaputo, dalle molteplici leggi locali loro una
disciplina che corrisponda a ciò che noi chiamiamo giurisprudenza. Invece, per il rapido progresso
della scienza astratta nell'ambito delle democrazie essi giunsero ben per tempo alle più ardite
discettazioni logiche, retoriche e pedagogiche su la natura del diritto, dello stato, della legge, della
pena; onde poi nella loro filosofia si trovano le forze rudimentali di tutte le discussioni posteriori.
Ma solo più tardi, cioè ai tempi dell'Ellenismo, quando i confini della vita greca s'erano tanto
slargati da confondersi con quelli del mondo civile, nell'ambito di quel cosmopolitismo, che portava
con sé il bisogno di cercare in ogni uomo l'uomo, nacque il razionalismo del diritto, o il diritto di
natura, nella forma che gli impresse la filosofia stoica. Cotesto razionalismo greco, che aveva
offerto già qualche elemento formale alla codificazione logica del Diritto Romano, risorse nel
secolo decimosettimo nella dottrina che fu appunto del diritto naturale.
Da varie fonti, dunque, derivò la ideologia, che è servita da arma di critica e da istrumento per dare
forma giuridica all'ordinamento economico della società moderna.
Nel fatto, però, cotesta ideologia giuridica riflette, nella lotta per il diritto e contro il diritto, il
periodo rivoluzionario dell'intelletto borghese. E per quanto pigli dapprima le mosse dottrinarie dal
ritorno alla tradizione filosofica antica, e dalla generalizzazione della giurisprudenza romana, in
tutto il resto e in tutto il suo genuino sviluppo è affatto nuova e moderna. Il Diritto Romano, per
quanto generalizzato dalla scuola e dalla elaborazione moderna, rimane sempre in se stesso una
raccolta di casi non dedotti da preconcezione di sistema, né preordinati dalla mente sistematica di
un legislatore. E d'altra parte il razionalismo degli Stoici, e dei loro contemporanei e seguaci fu di
mera contemplazione, e non produsse intorno a sé un moto rivoluzionario. L'ideologia del diritto di
natura, che da ultimo ebbe nome di filosofia del diritto, fu invece sistematica, partì sempre da
enunciati generali, e fu inoltre battagliera e polemica, e anzi fu alle prese con l'ortodossia, con
l'intolleranza, col privilegio, coi corpi; combatté, insomma, per le libertà, che ora costituiscono i
fondamenti della società moderna.
Nell'ambito di cotesta ideologia, che era un metodo di combattimento, germogliò per la prima volta,
in forma tipica e decisiva, il pensiero, che c'è un diritto che è una cosa sola con la ragione. I diritti
contro i quali si combatteva apparivano come una deviazione, come un regresso, come un errore.
Da questa fede nel diritto razionale nasceva la credenza cieca nella forza del legislatore, che
apparisce così ravvolta nelle forme del fanatismo nei momenti acuti della Rivolozione Francese.
Di qui la persuasione, che la società tutta debba essere come investita da un solo diritto, eguale per
tutti, sistematico, logico, conseguente. Di qui la convinzione, che un di-ritto il quale garentisca a
tutti l'eguaglianza giuridica, che è la facoltà del contrattare, garentisca anche a tutti la libertà. E giù
tutto il resto! Col trionfo del vero diritto trionfa la ragione, e la società regolata dal diritto eguale
per tutti è la società perfetta!
Quali illusioni fossero in fondo a tali tendenze è inutile di dire. A che cosa dovesse riuscire cotesta
liberazione universale dell'uomo, lo sappiamo già. Ma ciò che qui più importa gli è che tali
persuasioni partivano da un concetto del diritto, per cui questo rimaneva come scisso dalle cause
sociali che lo producono. Cosicché la ragione, cui cotesti ideologi si appellavano, si riduceva a
togliere al lavoro, all'associazione, al traffico, al commercio, alle forme politiche ed alla coscienza,
tutti i limiti e tutti gl'impedimenti, che tornano d'impaccio alla libera concorrenza. Come di ciò
s'avesse l'esperienza nella Grande Rivoluzione del secolo passato, ho detto già nell'altro capitolo. E
se c'è ora chi si ostini a discorrere di un diritto razionale, che domini la storia, di un diritto,
insomma, che sarebbe un fattore anziché un semplice fatto della evoluzione storica, vuol dire che
costui vive fuori del nostro tempo, e non ha inteso come la codificazione liberale ed egalitaria abbia
già segnata in via di fatto la fine e il termine di tutta cotesta scuola del diritto di natura.
Per diverse vie si è giunti in questo secolo a ridurre il diritto, da cosa razionale in cosa di fatto; e
perciò in cosa corrispettiva a determinate condizioni sociali.
Prima di tutto l'interesse storico, allargandosi ed approfondendosi, ha portato le menti a riconoscere,
che per intendere le origini del diritto non bastava, né incominciare dalla ragione, né fermarsi
all'esame del Diritto Romano. I diritti barbarici, e le usanze e le consuetudini dei popoli e delle
società tanto disprezzate dai razionalisti, son tornate in onore; dico, teoricamente. Questo era il solo
modo per ottenere, dallo studio delle forme più antiche, la guida ad intendere come le più recenti si
fossero poi prodotte.
Il Diritto Romano codificato è una forma assai moderna; quella personalità che esso suppone, come
soggetto universale, è una elaborazione di tempi avanzati, nei quali, sul cosmopolitismo dei rapporti
sociali dominava una costituzione burocratico-militare. In quel mondo in cui era venuta a
compimento la ragione scritta, non era più traccia di spontaneità di vita popolare, non era più
democrazia. Quello stesso diritto, prima di arrivare a tale cristallizzazione, era nato e s'era svolto; e
guardato nelle sue origini e nei suoi sviluppi, specie se a tale studio concorra la comparazione,
apparisce in tanti punti affine alle istituzioni delle società e dei popoli creduti inferiori. Si facea
dunque chiaro, che scienza vera del diritto non possa essere se non la storia genetica del diritto
stesso.
Ora, mentre il continente europeo avea creato nella codificazione del diritto civile il tipo ed il testo
della ragion pratica borghese, non permaneva forse in Inghilterra un'altra forma autogenetica di
diritto, nata e svoltasi in modo affatto pratico, dalle condizioni stesse della società che l'ha prodotto,
senza sistema, e senza che l'azione del razionalismo metodico ci avesse avuto influenza?
Il diritto che veramente esiste, ed ha valore, è dunque cosa assai più semplice e modesta, di quello
che non paresse agli entusiastici decantatori della ragione scritta, della ragione imperante; ai quali
può mandarsi buona la loro illusione, in quanto furono precursori ideali di una grande rivoluzione.
All'ideologia bisognava sostituire la storia delle istituzioni giuridiche. La filosofia del diritto finì in
Hegel; e se c'è chi voglia obiettare in nome dei libri pubblicati dappoi, dirò, che la carta stampata
dai professori non è proprio e sempre l'indice del progresso del pensiero. La filosofia del diritto si
converte così nella trattazione filosofica della storia del diritto. E come la filosofia storica metta
capo nel materialismo economico, e in che senso il comunismo critico sia l'inversione di Hegel, non
occorre qui di ripetere ancora una volta.
Cotesta rivoluzione, che pare di sole idee, non è se non il riflesso intellettuale delle rivoluzioni
accadute nella vita pratica.
Nel nostro secolo il legiferare è diventato una malattia; e la ragione imperante nella ideologia
giuridica è stata detronizzata dai parlamenti. In questi le antitesi degl'interessi di classe hanno
assunta la forma di partiti; e i partiti si schierano pro e contro a determinati diritti; onde tutto il
diritto apparisce, o come un semplice fatto, o come cosa che sia utile o non utile di fare.
Il proletariato s'è levato: e, dovunque la lotta operaia s'è precisata, i codici borghesi ne son rimasti
sbugiardati. La ragione scritta si è mostrata impotente a salvare i salarii dalle oscillazioni del
mercato, a garentire donne e fanciulli dagli orarii vessatorii delle fabbriche, o a trovare un solo dei
suoi acuti ripieghi per risolvere il problema della disoccupazione. La sola limitazione parziale delle
ore di lavoro ha dato materia ed occasione ad una lotta gigante. Piccoli e grossi borghesi, agrarii ed
industriali, avvocati dei poveri e difensori della ricchezza accumulata, monarchici e democratici,
socialisti e reazionarii si sono affannati a trarre in qua e in là l'azione dei poteri pubblici, e a
sfruttare le contingenze della politica e l'intrigo parlamentare per trovare garenzie e difese a
determinati interessi, o nella interpretazione di un diritto esistente, o nella creazione di un nuovo
diritto. Buona parte di esso fu più volte rifatta; e si videro le più strane oscillazioni,
dall'umanitarismo che difende anche i poveri, e per fino gli animali, alla proclamazione della legge
stataria. Al diritto fu levata la maschera; e n'è rimasto profanizzato.
Ed ecco subentrato il sentimento dell'esperienza, e da questa è derivata una enunciazione tanto
precisa per quanto modesta: ogni diritto fu ed è la difesa, o consuetudinaria, o autoritaria, o
giudiziaria, di un determinato interesse; e di qui alla riduzione all'economia non c è che un passo.
Se la concezione materialistica è venuta da ultimo a suggellare coteste tendenze in una veduta
esplicita e sistematica, gli è perché la sua orientazione è stata determinata dall'angolo visuale del
proletariato. Questo è il prodotto necessario, ed è ad un tempo la condizione indispensabile di una
società, nella quale tutte le persone in astratto sono eguali in diritto, ma le condizioni materiali dello
sviluppo e della libertà degli individui sono disuguali. I proletarii sono le forze, per l'esercizio delle
quali i mezzi di produzione accumulati si riproducono, e si rifanno in nuova ricchezza: ma essi
stessi non vivono, se non reggimentandosi intorno al capitale, e dall'oggi al dimani passano nella
condizione di disoccupati, di poveri e di emigranti. Essi sono l'esercito del lavoro sociale, ma i loro
capi sono i loro padroni. Essi sono la negazione del giusto, nel regno del diritto; ossia sono
l'irrazionale, nel preteso dominio della ragione.
Dunque la storia non fu il processo per giungere all'impero della ragione del diritto; ma non fu fino
ad ora se non la serie delle mutazioni nelle forme della soggezione e della servitù. Dunque la storia
consiste tutta nella lotta degl'interessi, e il diritto non è se non l'espressione autoritaria di quelli che
han trionfato. Con tali enunciazioni non si giunge certo a spiegare ogni singolo diritto, che sia
apparso nella storia, per via della immediata visione del rispettivo interesse. Le cose storiche sono
assai complicate; ma queste enunciazioni generali bastano ad indicare lo stile e il metodo della
ricerca, che si è oramai sostituita alla ideologia giuridica.
IX.
Qui vengono in buon punto alcune formule riassuntive.
Date le condizioni di sviluppo del lavoro, e dei suoi appropriati congrui istrumenti, la struttura
economica della società, ossia la forma della produzione dei mezzi immediati della vita, determina
sopra un terreno artificiale, in primo luogo e per diretto, tutta la rimanente attività pratice dei
consociati, e il variare di tale attività nel processo che chiamiamo storia, e cioè: - la formazione,
l'attrito, le lotte e la erosione delle classi; - lo svolgimento corrispettivo dei rapporti regolativi, così
del diritto, come della morale; - e le ragioni e i modi di subordinazione e di soggezione, degli
uomini verso gli uomini, col rispondente esercizio del dominio e dell'autorità, ciò, insomma, in cui
da ultimo si origina e consiste lo stato: e determina in secondo luogo l'indirizzo, e in buona parte, e
per indiretto, gli obietti della fantasia e del pensiero, nella produzione dell'arte, della religione e
della scienza.
I prodotti di primo e di secondo grado, per gli interessi che creano, per gli abiti che ingenerano, per
le persone che coordinano, specificandone l'animo e le inclinazioni, tendono a fissarsi e ad isolarsi
come per sé stanti; e di qui nasce la veduta empirica, secondo la quale diversi fattori indipendenti,
con propria efficacia e con proprio ritmo di movimento, concorrerebbero a formare il processo
storico, e le rispettive configurazioni sociali che successivamente ne resultano. Fattori - se mai
cotesta parola deve usarsi - veri e propri e positivi della storia, dalla sparizione del comunismo
primitivo in qua, e fino ad ora, furono e sono le classi sociali, in quanto consistono in
differenziazioni d'interessi, che si esplicano in determinati modi e forme di opposizione (- da cui di
genera l'attrito, il moto, il processo e il progresso -).
Le variazioni della sottostante struttura (economica) della società, che a prima vista ci si
manifestano intuitivamente nell'agitarsi delle passioni, si svolgono consapevolmente nelle lotte
contro un diritto o per il diritto, e si avverano nello scuotimento e nella rovina di un determinato
ordinamento politico, hanno, in realtà, la loro adeguata espressione solo nell'alternarsi delle
relazioni esistenti fra le diverse classi sociali. E queste relazioni mutano per l'alterarsi dei rapporti,
che precedentemente correano, tra la produttività del lavoro e le condizioni (giuridico-politiche) di
coordinamento tra i cooperanti della produzione.
E, in fin delle fini, tali rapporti tra la produttività del lavoro e la coordinazione dei cooperanti si
alterano per il mutare degli istrumenti (- nel senso lato della parola -) occorrenti alla produzione. Il
processo ed il progresso della tecnica, come sono l'indice, così sono la condizione di ogni altro
processo e progresso.
La società è per noi un dato, che noi non possiamo risolvere, oltre a quella maniera di analisi, che si
fa riducendo le forme complesse alle più semplici, le moderne alle più antiche: il che è rimanere,
però, sempre nel fatto di una società che esiste. La storia non è se non la storia della società; - ossia
è la storia del variare della cooperazione umana, dall'orda primitiva allo stato moderno, dalla lotta
immediata contro la natura, con pochi ed elementarissimi istrumenti, fino alla struttura economica
presente, che culmina nella polarità tra lavoro accumulato (capitale) e lavoro vivo (i proletarii).
Risolvere il complesso sociale in semplici individui, e ricomporlo poi con escogitati atti di elezione
e di volontà; - costruire, insomma, la società coi ragionamenti, significa sconoscere la natura
obiettiva e l'immanenza del processo storico.
Le rivoluzioni, nel senso più esteso della parola, e poi in quello specifico di rovina di un
ordinamento politico, segnano le vere e proprie date delle epoche storiche. Guardare di lontano, nei
loro elementi, nella loro preparazione e nei loro effetti a lunga scadenza, esse possono parere come
i momenti di una evoluzione costante, a minimi di variazione: ma considerate per se stesse sono
definite e precise catastrofi; e solo come tali catastrofi hanno carattere di accadimento storico.
X.
Per fino, dunque, la morale, e l'arte, e la religione e la scienza sarebbero prodotti delle condizioni
economiche? - anzi esponenti delle categorie di queste condizioni medesime? - ovverosia efflussi,
ornamenti, irradiazioni e miraggi dei materiali interessi?
Enunciati di cotesto genere, o a un dipresso, e così crudi e nudi, corrono già da un pezzo per le
bocche di molti, e tornano di comodo ausilio agli avversarii del materialismo, cui giova di usarne
come di opportuno spauracchio. I pigri, che son poi moltissimi anche fra i così detti intellettuali, si
accomodano ben volentieri alla grossolana accettazione di tali pronunciati; come chi ripari con la
mente in novello asilo dell'ignoranza. Che bella festa e che bella allegria dev'esser mai cotesta per
tutti gl'indolenti; di avere, cioè, una buona volta compendiato in breve giro di pochissime
proposizioni tutto lo scibile, per poi dischiudere tutti i segreti della vita con una sola ed unica
chiave! Tutti i problemi dell'etica, dell'estetica, della filologia, della critica storica, e della filosofia
ridotti ad un problema solo, senza tanti rompicapo! E su cotesto andare gli sciatti semplicioni
potrebbero ridurre tutta la storia all'aritmetica commerciale; e da ultimo una nuova interpretazione
autentica di Dante potrebbe darci la Divina Commedia illustrata coi conti delle pezze di panno, che
gli astuti mercanti fiorentini vendeano con tanto profitto loro!
La verità è questa, che, cioè, gli enunciati che implicano problemi, si convertono assai facilmente in
volgari paradossi nelle teste di coloro, che non siano assuefatti a vincere le difficoltà del pensare
con l'uso metodico dei mezzi congrui. Ora dei precisi termini di tali problemi toccherò qui in
genere, ma in modo quasi aforistico: perché, veramente, io non intendo di descriver fondo
all'universo, in questo breve saggio, che non ha poi da essere una enciclopedia.
La morale innanzi tutto.
Non dico dei sistemi e dei catechismi, o religiosi, o filosofici. Gli uni e gli altri stettero e stanno al
di sopra del corso ordinario e profano delle cose umane, nella più parte dei casi, come le utopie
stanno al di sopra delle cose. Né dico di quelle analisi formali dei rapporti etici, che son venute
tanto raffinandosi dai Sofisti ad Herbart. Ciò è scienza, e non è vita. Ed è scienza formale, come la
logica, la geometria e la grammatica. L'ultimo acuto ritrovatore e definitore di tali rapporti etici, che
è appunto Herbart, sapea bene che le idee, ossia i punti di vista formali del giudizio morale, sono
per sé impotenti. E per ciò egli ripose nelle circostanzialità della vita, e nella formazione
pedagogica del carattere, la realtà dell'etica. Parrebbe Owen, se non fosse stato un codino.
Dico, invece, di quella morale, che esiste prosaicamente, e in modo empirico ed ovvio, nelle
inclinazioni, negli abiti, nelle consuetudini, nei consigli, nei giudizii e nelle valutazioni degli uomini
di tutti i giorni. Dico di quella morale, che come suggestione, come spinta e come remora, si forma
in vario grado di sviluppo, e con maggiore o con minore evidenza, ma a frammenti, in tutti e singoli
gli uomini; per il fatto stesso che convivendo essi, ed occupando ciascuno una posizione
determinata nell'ambito della convivenza, riflettono naturalmente e necessariamente su le opere
proprie e su le opere altrui, e concepiscono aspettazioni ed apprezzamenti, e primissimi elementi di
massime generali.
Questo è il factum; e ciò che più importa è, che questo factum ci si presenta vario e molteplice nelle
diverse condizioni della vita, e variabile attraverso alla storia. Questo factum è il dato della ricerca.
I fatti non sono né veri, nè falsi, come già sapeva Aristotele. I sistemi, invece, siano essi teologici o
razionalistici, possono essere veri o falsi; come quelli che si argomentano di intendere, di spiegare e
di completare il fatto, riconducendolo ad altro, o integrandolo con altro.
Alcuni punti di teoria pregiudiziale sono oramai messi in sodo, per rispetto alla interpretazione di
questo factum.
Il volere non vuole se stesso, da se stesso; come era parso agl'inventori di quel libero arbitrio, che
rivelava solo l'impotenza di una analisi psicologica, non giunta per anche a maturità. Le volizioni,
in quanto fatto consapevole, sono espressione particolare del meccanismo psichico; sono resultato,
alla prima, dei bisogni, e poi di tutto ciò che giù giù li precede, fino alla elementarissima motilità
organica.
La morale non pone né genera se stessa. Non istà, cioè, a fondamento universale dei varii e variabili
rapporti etici quell'ente spirituale, che fu detto la coscienza morale, una ed unica per tutti gli
uomini. Questo ente astratto fu eliminato dalla critica, come tutti gli altri enti simili, ossia come
tutte le così dette facoltà dell'anima. Che spiegazione dei fatti era mai quella, in vero, che supponea
la generalizzazione del fatto stesso, come mezzo per ispiegarlo; quando, p. e. si ragionava così: le
sensazioni, le percezioni, le intuizioni a un certo punto si trovano fantasticate, ossia alterate, dunque
la fantasia le ha trasmutate? A tale genere di escogitazioni appartiene la così detta coscienza morale,
che fu assunta a presupposto delle condizionate valutazioni etiche. La coscienza morale, che
realmente esiste, è un fatto empirico; è un indice, ossia un riassunto, della relativa formazione etica
di ciascun individuo. Se scienza qui ci ha da essere, essa non può spiegare le relazioni etiche per via
della coscienza, ma deve appunto intendere come tale coscienza si vada formando.
Se i voleri derivano, e se la morale resulta dalle condizioni della vita, l'etica, nel suo insieme, non è
che una formazione; ossia il suo problema si risolve in quello della pedagogica.
C'è una pedagogica, direi individualistica e soggettiva, la quale, supposte le condizioni generiche
della perfettibilità umana, costruisce delle regole astratte, per mezzo delle quali gli uomini, che
sono in via di formazione, sarebbero condotti ad essere forti, coraggiosi, veritieri, giusti, benevoli, e
così via per tutta la distesa delle virtù cardinali e secondarie. Ma può essa, la pedagogica soggettiva,
costruire da sé il terreno sociale sul quale tutte coteste belle cose avrebbero a realizzarsi? Se lo
costruisce, essa disegna semplicemente un'utopia.
Perché davvero il genere umano, nel rigido corso del suo divenire, non ebbe mai tempo e modo di
andare a scuola da Platone o da Owen, da Pestalozzi o da Herbart. Anzi ha fatto come gli è stato
forza di fare. Gli uomini, che presi in astratto son tutti educabili e perfettibili, si son perfezionati ed
educati sempre quel tanto, e nella misura che essi potevano, date le condizioni di vita in cui è stato
loro necessità di svolgersi. Se mai, questo è appunto il caso in cui la parola ambiente non è
metafora, e l'uso del termine accomodazione non è di traslato. La morale effettiva ci si presenta
sempre come qualcosa di condizionato e di limitato, che la fantasia ha cercato poi di superare, o
escogitando le utopie, o creando un soprannaturale pedagogo, o una miracolosa redenzione.
Perché lo schiavo avrebbe dovuto avere lui gli intendimenti, e le passioni, e i sentimenti del suo
temuto signore? Come farebbe il contadino a liberarsi dalle invincibili superstizioni, cui lo
condannano la immediata dipendenza dalla natura, la mediata dipendenza dall'ignorato meccanismo
sociale, e la fiducia cieca nel prete, che gli tien luogo di mago e di fattucchiero? Per quali vie mai il
proletario moderno delle grandi città industriali, esposto com'è di continuo alle variabili vicende
della miseria e della soggezione, potrebbe raggiungere l'ordinato e monotono tenore di vita, che fu
proprio dei membri delle corporazioni artigiane, la cui esistenza pareva come inquadrata in un
provvidenziale disegno? Da quali elementi intuitivi di esperienza quel mercante di maiali di
Chicago, che regala all'Europa tanti prodotti a buon prezzo, dovrebbe ritrarre le condizioni di
serenità e di elevazione spirituale, che conferivano all'ateniese le doti dell'uomo bello-e-buono, e al
civis romanus la dignità dell'eroismo? Quale potenza di docili persuasive cristiane strapperà
dall'animo dei proletarii moderni le ragioni naturali dell'odio contro gl'indeterminati o determinati
oppressori loro? Perché, a volere che giustizia ci sia e si faccia, occorre loro di appellarsi alla
violenza; e perché l'amore del prossimo, come legge universale, paia loro plausibile, devono essi
immaginare una vita assai difforme dalla presente, che fa dell'odio una necessità, come di debito da
scontare. In questa società delle differenziazioni, l'odio, l'orgoglio, la ipocrisia, la menzogna, la
viltà, l'ingiustizia, e tutto il catechismo dei vizi cardinali e loro accessorii, fanno da triste riscontro,
e anzi da satira, alla morale eguale per tutti.
Dunque l'etica si risolve a un certo punto nello studio storico delle condizioni soggettive ed
oggettive del come la morale si sviluppi, o trovi impedimento a svilupparsi. In ciò solo, ossia entro
questi termini, ha valore l'enunciato, che la morale è corrispettiva alle situazioni sociali, e ossia, in
ultima analisi, alle condizioni economiche. A qualche cretino soltanto può esser passato per il capo
di dire, che la morale individua di ciascun uomo sia rigorosamente proporzionale alla sua individua
situazione economica. Ciò è non solo empiricamente falso, ma è intrinsecamente irrazionale. Data
la elasticità del meccanismo psichico, non è possibile mai di ridurre lo sviluppo dei singoli individui
esclusivamente al tipo della classe o dello stato sociale. Qui si tratta dei fenomeni di massa; di quei
fenomeni che formano, o dovrebbero formare, l'oggetto della statistica morale: disciplina cotesta
che è rimasta fin ad ora incompleta, perché ha assunto ad oggetto delle sue combinazioni i gruppi
che essa stessa crea, sommando i numeri dei casi (p. e. adulterii, furti, omicidii), e non quei gruppi
che come classi, condizioni e situazioni realmente, ossia socialmente, esistono.
Raccomandare agli uomini la morale, supponendone o ignorandone le condizioni, ecco quale fu fin
ad ora la mira ed il genere di argomentazione di tutti i catechisti. Riconoscere che queste condizioni
son date dal circostanziato ambiente sociale, ecco ciò che i comunisti contrappongono all'utopia ed
alla ipocrisia dei predicatori di morale. E in quanto vedono nella morale, non un privilegio di
predestinati, né un dono della natura, ma una resultante della esperienza e della educazione, essi
riconoscono la perfettibilità umana per ragioni ed argomenti che, sono, dirò, più morali ed ideali di
quelli che furono di solito e spensieratamente accampati dagli ideologisti.
In altri termini, l'uomo sviluppa, ossia produce se stesso, non come ente genericamente fornito di
certi attributi, che si ripetano o si svolgano secondo un ritmo razionale; ma produce e sviluppa se
stesso, come causa ed effetto, come autore e conseguenza ad un tempo, di determinate condizioni,
nelle quali si generano anche determinate corretni di idee, di opinioni, di credenze, di fantasia, di
aspettazioni, di massime. Di qui nascono le ideologie di ogni maniera, come anche le
generalizzazioni della morale in catechismi, in canoni e sistemi. Non è quindi da meravigliare se
coteste ideologie, un avolta che sian nate, vengano poi coltivate a parte per forza di astrazione: tanto
che da ultimo paiono come distaccate dal terreno di vita in cui son sorte, e quasi stessero al di sopra
degli uomini, a guisa di imperativi e di modelli. Preti e addottrinati di ogni maniera provvidero per
secoli a questo lavoro di astrazione, e a mantenere le illusioni che ne risultano. Ora che furon
ritrovate le fonti positive di tutte le ideologie nel meccanismo della vita stessa, si tratta di spiegare
realisticamente il loro modo di generarsi. E come ciò vale di tutte le ideologie, così vale in
particolare di quelle che consistono nel proiettare fuori dei loro termini naturali e diretti le
valutazioni etiche, per farne, o delle anticipazioni di divini comandi, o dei presupposti di universali
suggestioni dclla coscienza.
Ciò costituisce l'obietto di speciali problemi storici. Non sempre si trova il bandolo, che lega certe
ideazioni etiche a determinate condizioni pratiche. La concreta psicologia sociale dei tempi passati
ci riesce spesso impenetrabile. Spesso le cose più ovvie ci riescono inintelligibili; p. e., gli animali
ritenuti per immondi, o la origine della repugnanza al matrimonio tra persone in lontani gradi di
parentela. Un procedere cauto ci porta a conchiudere, che di molti particolari rimarranno sempre
ascosi i motivi. Ignoranza, superstizione, singolari illusioni, simbolismi, ecco, con tante altre, le
cause di quell'inconsapevole che si trova spesso nei costumi, che per noi costituisce ora l'insaputo e
il non conoscibile.
La causa precipua di tutte le difficoltà sta appunto nella tardiva apparizione di ciò che chiamiamo
ragione; cosicché le tracce dei motivi prossimi delle ideazioni sono andate perdute, o rimasero
involute nelle ideazioni stesse.
Corre assai più spiccio il ragionamento su la scienza.
Di questa fu scritta per gran tempo la storia in modo ingenuo. Dato ed ammesso che le singole
scienze avessero il loro compendio nei manuali e nelle enciclopedie, pareva bastasse di ritrovare
cronologicamente l'apparizione dei singoli enunciati, risolvendo l'insieme del riassunto sistematico
negli elementi di cui esso s'è andato successivamente componendo. Il presupposto generale era
altrettanto semplice: - in fondo a questa cronologia c'è la ragione che si svolge e progredisce.
Codesto metodo, se metodo può chiamarsi, recava in sé questo piccolo inconveniente: che, cioè,
lasciava tutto al più intendere come da scienza che già esista derivi altra scienza a fil di ragione, ma
non lasciava punto intravvedere, per quali condizioni di fatto gli uomini fossero spinti a trovare la
prima volta la scienza; ossia a ridurre in una determinata e nuova forma la meditata esperienza. Si
trattava, insomma, di ritrovare, perché storia effettiva della scienza ci sia, la origine del bisogno
scientifico; il che poi lega in via genetica questo agli altri bisogni, nella continuità del processo
sociale.
I grandi progressi della tecnica moderna, nella quale veramente consiste la sostanza intellettuale
dell'epoca borghese, han fatto tra gli altri miracoli anche questo, di rivelarci per la prima volta la
origine pratica del tentativo scientifico. (O tu indimenticabile Accademia fiorentina, che pigliasti
nome dal cimento, quando l'Italia era al crepuscolo di sua passata grandezza, e la società moderna
era all'aurora della nuova epoca della industria.) E oramai noi siamo in grado di ritrovare il filo
conduttore di ciò che per astrazione si chiama spirito scientifico: né alcuno si maraviglia più, che
tutto nelle scoverte scientifiche sia proceduto come nei primissimi tempi, quando la rozzissima
elementare geometria degli egizii ebbe origine dal bisogno di misurare i campi esposti all'annua
inondazione del Nilo, e la periodicità di tali inondazioni suggerì, ivi stesso nell'Egitto e nella
Babilonide, di ritrovare i rudimenti dei giri astronomici.
E' certamente vero sì, che a scienza avviata, e in parte maturata, come già accadde nel periodo
ellenistico, il lavoro di astrazione, di deduzione e di combinazione si continua nella cerchia degli
addottrinati in modi, che apparentemente obliterano la coscienza delle cause sociali del primo
prodursi della scienza stessa. Ma se noi guardiamo a grandi tratti le epoche dello sviluppo della
scienza, e confrontiamo i periodi che gl'ideologi chiamerebbero di progresso e di regresso della
intelligenza, ci si palesa la ragione sociale degl'impulsi, ora crescenti ed ora decrescenti, per rispetto
all'attività scientifica. Che bisogno avea la società feudale dell'Occidente di Europa, di quelle
scienze antiche, che i bizantini serbavano almeno materialmente, mentre gli arabi nei loro vari
dominii, o liberi agricoltori, o industriosi artigiani, o operosi commercianti, eran portati a crescere
di tanto? E che è la Rinascenza, se non il ricongiungimento dell'iniziale moto della borghesia con la
tradizione del sapere antico, ridiventato usabile, e quindi capace di dichiarazione? Che cosa è tutto
l'accelerato moto del sapere scientifico, dal secolo decimosettimo in qua, se non la serie degli atti
compiuti dall'intelletto scaltrito dall'esperienza, per assicurare al lavoro umano, nelle forme di una
raffinata tecnica, il dominio su le condizioni e forze naturali? Di qui la guerra all'oscurantismo, alla
superstizione, alla chiesa, alla religione; di qui il naturalismo, l'ateismo, il materialismo, di qui
l'inaugurato dominio della ragione. L'epoca borghese è l'epoca delle menti dispiegate (Vico). E'
bene di ricordare, che quel governo del Direttorio, che fu il prototipo ed il compendio di tutta la
corruzione liberalesca, fu il primo che introdusse nella Università e nell'Accademia formalmente e
solennemente la scienza della libera ricerca: e c'entrò Lamarck! Questa scienza, che l'epoca
borghese per le sue stesse condizioni ha così fomentato e fatto crescere gigante, è il solo retaggio
dei secoli passati, che il comunismo accetti e faccia suo senza riserve.
Né metterebbe conto qui di fermarsi a dichiarare la pretesa antitesi fra scienza e filosofia. Fatta
eccezione di quei modi di filosofare, che si confondono con la mistica o con la teologia, filosofia
non vuol dire mai scienza o dottrina a parte di cose proprie e particolari, ma è semplicemente un
grado, una forma, uno stadio del pensiero, per rispetto alle cose stesse che entrano nel campo della
esperienza. La filosofia è, per ciò, o anticipazione generica di problemi, che la scienza deve ancora
elaborare specificatamente, o è riassunto ed elaborazione concettuale dei resultati cui le scienze
siano già giunte. Di quelli, che, tanto per non parere antiquati, parlano di filosofia scientifica, - se
non si vuol tenere, in un certo conto la punta umoristica di cotesta espressione, che respinge ogni
forma di teologia e di mero tradizionalismo, - bisogna dire che sarebbero dei fatui, se credessero di
rappresentare una scuola od una tendenza a parte.
Dicevo qui poco innanzi, nell'enunciar delle formule, che la struttura economica determina in
secondo luogo l'indirizzo, e in buona parte e per indiretto gli obietti della fantasia e del pensiero,
nella produzione dell'arte, della religione e della scienza. A dire altrimenti di così, ed oltre di così,
sarebbe come mettersi volontariamente su la via dell'assurdo.
Innanzitutto con tale enunciato si combatte il fantastico assunto ideologico, che arte, religione e
scienza siano svolgimenti subiettivi e svolgimenti storici di un preteso spirito artistico, religioso, o
scientifico, il quale s'andrebbe manifestando successivamente per un proprio ritmo di evoluzione,
qua e là sussidiato o impedito dalle condizioni materiali. Con tale enunciato si vuole affermare,
inoltre, la necessaria connessione, per la quale ogni fatto dell'arte e della religione è l'esponente
sentimentale, fantastico, e ossia derivato, di determinate condizioni sociali. Se dico in secondo
luogo, gli è per distinguere questi prodotti dai fatti di ordinamento giuridico-politico, che sono vera
e propria obiettivazione dei rapporti economici. E se dico in buona parte e per indiretto degli obietti
di tali attività, gli è per indicare due cose: e cioè, che nella produzione artistica e religiosa la
mediazione dalle condizioni ai prodotti è assai complicata, e poi che gli uomini, pur vivendo in
società, non cessano per ciò solo di vivere anche nella natura, e di ricevere da questa occasione e
materia alla curiosità ed al fantasticare.
Al postutto tutto ciò si riduce ad una enunciazione più generale: l'uomo non percorre più storie in
uno e medesimo tempo; ma tutte le pretese varie storie (arte, religione, etc.) ne fanno una sola. E ciò
non può vedersi perspicuamente se non nei momenti caratteristici e significativi della produzione di
cose nuove, ossia nei periodi che dirò rivoluzionarii. Più tardi, l'acquiescenza nelle cose prodotte, e
la ripetizione tradizionale di un determinato tipo, obliterano il senso delle origini.
Si provi alcuno a distrarre l'ideologia delle favole, che stanno in fondo ai poemi omerici, da quel
momento dell'evoluzione storica, in cui spunta l'aurora della civiltà ariana nel bacino del
Mediterraneo; da quella fase, cioè, della barbarie superiore, nella quale nasce, così in Grecia come
altrove, l'epos genuino. Faccia conto altri di immaginare, che il cristianesimo nascesse e si
sviluppasse altrove che nella cerchia del cosmopolitismo romano, e altrimenti che non per opera di
quei proletarii, di quegli schiavi, di quei derelitti, di quei disperati, ai quali occorreva la redenzione,
l'apocalissi, e la promessa del regno di Dio. Trovi chi voglia il modo di fingere, che nel bel mezzo
della Rinascenza spuntasse fuori la romantica, che appena s'accenna nel decadente Torquato Tasso;
o faccia di attribuire a Richardson o a Diderot il romanzo di Balzac, nel quale apparisce, come in
contemporaneo della prima generazione del socialismo e della sociologia, la psicologia delle classi.
Lassù, in dietro in dietro, alle prime origini delle ideazioni mitiche, ci è chiaro che Zeus non
assunse i caratteri di padre degli uomini e degli dei, se non quando la patria potestà era già stabilita,
e cominciava l'inizio di quella serie di processi, che mettono capo nello stato. Zeus cessò così di
essere ciò che era stato prima, cioè il semplice divo (ossia lucente), o il tonante. Ed ecco quaggiù ad
un punto opposto della evoluzione storica, gran numero di pensatori del secolo scorso riducono a un
solo dio astratto, che è semplice reggitore del mondo, tutta la variopinta immagine dell'ignoto e del
trascendente, che s'era esplicata in tanto lusso di creazioni mitologiche, cristiane o pagane. L'uomo
si sentiva più a casa sua nella natura, per via dell'esperimento, e si sentiva più atto a penetrare
l'ingranaggio della società, di cui possedeva in parte la scienza. Il miracoloso gli si assottigliava
nella mente, tanto che il materialismo e il criticismo han potuto di poi eliminare cotesto povero
residuo di trascendenza, senza metter mano alla guerra contro gli dei.
C'è sì una storia delle idee ma questa non consiste nel circolo vizioso delle idee che spieghino se
stesse. Si tratta di risalire dalle cose all'ideato. Questo è un problema: anzi in ciò è una moltitudine
di problemi, tante son varie, molteplici, multiformi ed intricate le proiezioni che gli uomini han
fatto di sé e delle loro condizioni economico-sociali, e quindi delle loro speranze e dei loro timori,
delle loro aspettazioni e dei loro disinganni, nelle ideazioni artistiche e religiose. La linea di metodo
è trovata, ma la esecuzione particolare non è facile. Soprattutto bisogna guardarsi dalla tentazione
scolastica di dedurre i prodotti dell'attività storica, che si esplica nell'arte e nella religione. È
sperabile che i filosofi alla Krug, che deduceva dialetticamente la penna con la quale scriveva, sian
rimasti in perpetuo sepolti nelle note della Logica di Hegel, ove s'accenna a tale bizzarria.
Alcune difficoltà vogliono essere qui precisate.
In ogni tentativo di riduzione dei prodotti secondarii (p. e. arte e religione) alle condizioni sociali,
che in quelli vengono ad essere idealizzate, ci occorre di formarci un lungo abito circa la psicologia
sociale specificata, nella quale la trasformazione si avvera. In ciò consiste la ragion d'essere di
quell'insieme di relazioni, che con altre forme di dicitura vengono p. e. designate, come mondo
egiziano, coscienza greca, spirito della Rinascenza, idee dominanti, psicologia dei popoli, della
società o delle classi. Quando cotesti rapporti si sono costituiti, e gli uomini si sono assuefatti a
certe ideazioni, e a certi modi di credenza o di fantasia, le ideologie trasmesse per tradizione
tendono a cristallizzarsi. E per ciò appariscono come una forza che resista al nuovo; e come questa
resistenza si manifesta nella parola, nello scritto, nella intolleranza, nella polemica, nella
persecuzione, così la lotta fra le nuove e le vecchie condizioni sociali assume la forma di una
contesa per le idee.
In secondo luogo, attraverso ai secoli della storia propriamente detta, così per la eredità della
selvatica preistoria, come per le condizioni di soggezione e quindi di inferiorità, nella quale la più
parte degli uomini furono e sono tenuti, si è prodotta una acquiescenza nel tradizionale, per cui le
vecchie tendenze si perpetuano come ostinate sopravvivenze.
In terzo luogo, come già dissi, gli uomini, vivendo socialmente, non cessano di vivere anche nella
natura. A questa non sono certo legati come gli animali, perché vivono sopra un terreno artificiale.
Ognuno del resto capisce, che la casa non è la grotta, l'agricoltura non è il pascolo naturale, e la
farmacia non è l'esorcismo. Ma la natura è sempre il sottosuolo immediato del terreno artificiale, ed
è l'ambito che tutti ci recinge. La tecnica ha messo fra noi animali sociali e la natura i modificatori, i
deviatori, gli allontanatori degl'influssi naturali; ma non ha perciò distrutta la efficacia di essi, e noi
anzi di continuo la sentiamo. E come noi nasciamo naturalmente maschi e femmine, moriamo quasi
sempre nostro malgrado, e siamo dominati dall'istinto della generazione, così noi portiamo anche
nel temperamento condizioni specifiche, che l'educazione nel lato senso della parola, ossia
l'accomodazione sociale, può modificare sì, entro certi limiti, ma non può mai distruggere. Queste
condizioni di temperamento ripetute in più esemplari, e derivatesi in più esemplari attraverso i
secoli, costituiscono ciò che si chiama carattere etnico. Per tutte coteste ragioni, la nostra
dipendenza dalla natura, per quanto diminuita dai tempi della preistoria in qua, si continua nel
nostro vivere sociale; come in questo si continua anche l'alimento che dallo spettacolo della natura
stessa viene alla curiosità ed alla fantasia. Ora cotesti effetti della natura, coi sentimenti immediati o
mediati che ne resultano, per quanto avvertiti, da che c'è storia, solo attraverso l'angolo visuale che
ci è offerto dalle condizioni della società, non mancano mai di riflettersi nei prodotti dell'arte e della
religione; la qual cosa complica le difficoltà della interpretazione realistica e piena dell'una e
dell'altra.
XI.
Usando di questa dottrina, come di nuovo principio di ricerca, come di preciso mezzo di
orientazione, e come di determinato angolo visuale, si potrà poi, da ultimo, riuscire ad un
rifacimento narrativo ed espositivo della storia?
Alla domanda generica non si può a meno di dare, in genere, una risposta affermantiva. Perché, in
effetti, se si dà il caso, che il comunista critico, ossia il sociologo del materialismo economico, o
come ora volgarmente dicesi, il marxista, abbia la necessaria preparazione critica, e l'abito della
trattazione storica, e poi le doti di esposizione che occorrono alla narrazione ordinata ed efficace,
non c'è ragione per affermare, che egli non possa scrivere la storia, come fino ad ora la scrissero i
seguaci di ogni altra scuola politica.
Ecco lì l'esempio di Marx in persona, nel quale è un argomento di fatto, che non ammette replica.
Lui, che fu il primo e principale ritrovatore dei concetti decisivi di questa dottrina, la ridusse ben
presto in istrumento di orientazione politica, da pubblicista insuperato, durante il periodo
rivoluzionario del 1848-50. E poi la plasmò con la massima precisione, in quel saggio che s'intitola
del: Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, del quale ora può dirsi, a tanta distanza di anni, e dopo
tante pubblicazioni, che fatta eccezione di qualche minuto particolare e di qualche errata previsione,
non ci sarebbe modo di arrecarvi, né correzioni, né complementi notevoli. Né starò qui a ripetere, a
guisa di chi faccia una bibliografia, l'elenco dei varii scritti attinenti all'applicazione della dottrina, o
del Marx stesso o dell'Engels - il quale ultimo, dalla Guerra dei contadini (1890) fino allo scritto
postumo su le Origini della presente unità di Germania, ne ha lasciato tanti saggi, - o degli
immediati continuatori loro, e dei volgarizzatori del socialismo scientifico. Per fino nella stampa
socialistica si trovano, di tanto in tanto, dei preziosi saggi di spiegazione delle vicende politiche
attuali, nei quali, appunto per effetto del materialismo storico, tu riconosci una chiaroveggenza e
perspicuità, che invano cercheresti negli scrittori e nei polemisti, che non hanno ancora squarciati i
veli fantastici e gl'involucri ideologici della storia.
Non è il caso, in somma, di assumersi la difesa di una tesi astratta, come userebbe un causidico. Gli
è, per fermo, evidente, che come tutte le storie, che furono fino ad ora scritte, c'è sempre in fondo,
se non proprio nelle esplicite intenzioni degli scrittori, di certo nell'animo loro, una tendenza, un
principio, una veduta generale della vita; così questa dottrina, che ha messo definitivamente ordine
alla considerazione obiettiva della struttura sociale, debba da ultimo dirigere con precisione la
ricerca storica, e debba metter capo in una narrazione piena, trasparente ed integrale.
I sussidi certamente non mancano.
L'Economia, che, come oramai tutti vedono, nacque e si svolse come la scienza della produzione
borghese, dopo essersi imbaldanzita nella illusione di rappresentare le leggi assolute di ogni forma
di produzione, per la dura lezione delle cose entrò poi, a un certo punto, come tutti sanno, in un
periodo di autocritica. Come da questa autocritica per un verso è nato il comunismo critico, così per
un altro verso, per opera, cioè, dei più tiepidi, e savii e discreti della tradizione accademica, è nata
la scuola storica dei fenomeni economici. Per fatto e merito di cotesta scuola, e per effetto della
applicazione dei metodi descrittivi e comparativi, oramai siamo in possesso di un vastissimo
materiale di cognizioni circa le varie forme storiche della economia, dai fatti più complessi e
specificati per differenze essenziali di tipo, fino alla particolareggiata azienda di un monastero, o di
una corporazione artigiana medievale. Lo stesso è accaduto della Statistica, la quale, mettendo in
uso molti mezzi di combinazione delle fonti, riesce oramai a portar luce, con sufficiente
approssimazione, sul movimento della popolazione nei secoli passati.
Cotesti studii non si fanno, certo, nell'interesse della nostra dottrina, anzi il più delle volte con
animo ostile al socialismo; del che non si avvedono quegli asineschi leggitori di carta stampata, i
quali così spesso confondono la storia economica, l'economia storica, ed il materialismo storico. Ma
cotesti studii, oltre che per il materiale difatti che raccolgono e dichiarano, son notevoli in quanto
documentano il progresso, che va tuttodì facendo la storia interna, la quale, poco per volta, si
sostituisce a quella storia esterna, che per secoli fu in modo esclusivo trattata da letterati e da artisti.
Buona parte di cotesti materiali raccolti va di continuo soggetta a nuova correzione; come accade,
del resto, in ogni campo di cognizioni empiriche, le quali di continuo oscillano tra il creduto certo,
il semplice probabile, e ciò che deve essere più tardi, o integrato, o eliminato. Né le illazioni e le
combinazioni degli storici della economia, o di quelli che narrano la storia in genere sul filo
conduttore dei fenomeni economici, son sempre tanto plausibili e concludenti, che non si senta il
bisogno di dire: qui conviene ricominciar da capo. Ma ciò che sta indubitabile è il fatto, che
presentemente tutta la storiografia tende a diventare una scienza, o, meglio, una disciplina sociale; e
quando questo moto, per ora incerto e multiforme, verrà a compimento, gli sforzi degli eruditi e dei
ricercatori metteranno capo inevitabilmente nella accettazione del materialismo economico. Per tale
incidenza di sforzi e di lavori scientifici, che partono da così diversi punti, la concezione
materialistica di tutta la storia finirà per penetrare le menti, come una definitiva conquista del
pensiero; il che toglierà, in fine, ai fautori e agli avversarii la tentazione di parlarne, pro e contro,
come usa delle tesi di partito.
Oltre ai sussidii diretti, qui innanzi accennati, la nostra dottrina ne ha di molti altri indiretti; come
ha anche degli istruttivi riscontri in molte delle discipline, nelle quali, per la maggiore semplicità
dei rapporti, fu più agevole l'applicazione del metodo genetico. Il caso tipico è nella glottologia, e in
modo specialissimo in quella che ha per oggetto le lingue ariane.
Dalla evidenza e perspicuità di processo, di analisi e di ricostruzione che è propria di tali discipline,
e specie della glottologia, gli è certo, fino ad ora, assai remota l'applicazione del materialismo
storico. Sarebbe per ciò un vano tentativo quello di provarsi, fin da ora, a scrivere una sinossi della
storia universale, che avesse a svolgere tutte le varie forme della produzione, per poi inferirne tutto
il resto dell'attività umana, in modo particolare e circostanziale. Allo stato presente degli studii, chi
tentasse cotesto compendio di nuova Kulturgeschichte non farebbe se non di ritradurre in
fraseologia economica i punti di orientazione generale, che in altri libri, p. e. nell'Hellwald, son di
fraseologia, darwiniana.
Ci corre molto dalla accettazione di un principio, alla applicazione completa e particolareggiata di
esso a tutta una vasta provincia difatti, o ad un grande intreccio di fenomeni.
Per ciò l'applicazione della nostra dottrina deve tenersi, per ora, nella esposizione e trattazione di
determinate parti della storia. Chiarissime sopra tutte le altre sono le formazioni moderne, alla
intelligenza delle quali concorrono, con pari evidenza, così gli sviluppi economici della borghesia,
come la dichiarata conoscenza dei vani impedimenti che essa ebbe a superare nei diversi paesi, e
quindi lo svolgersi delle varie rivoluzioni, intesa cotesta parola nel più lato senso. Riesce di quasi
eguale chiarezza, agli occhi nostri, la preistoria prossima della borghesia in sul declinare del
Medioevo; dove non sarebbe difficile di trovare, p. e. nell'individuato sviluppo della città di
Firenze, una serie documentata di svolgimenti nei quali il movimento economico e statistico trova
completo riscontro nei rapporti politici, e sufficiente illustrazione nello sviluppo contemporaneo
della intelligenza, già ridotta in prosa, e spoglia in buona parte di illusioni ideologiche. Né sarebbe
fuori d'ogni probabilità il ridurre, fin da ora, sotto il determinato e preciso angolo visuale del
materialismo tutta la storia romana antica. In questa, e specie nel periodo primitivo, fanno difetto le
fonti dirette, le quali per converso son tanto abbondanti in Grecia, dalla tradizione popolare e
dall'epos, e dall'autentica iscrizione giuridica, fino alla trattazione prammatica delle connessioni
storico-sociali. Ma in Roma, invece, le lotte pei diritti politici recano in sé quasi sempre le ragioni
economiche su cui poggiano; dal che poi procede, che il deperire di determinate classi, e il formarsi
di nuove classi, e il moto della conquista, e il cambiar delle leggi e delle forme dell'apparato
politico, tornino tanto evidenti. Cotesta storia romana è dura e prosaica; né si veste mai di quei
complementi ideologici che furon proprii della vita greca. La prosa rigida della conquista, della
studiata colonizzazione, delle istituzioni e delle forme di diritto, escogitate e trovate per risolvere
determinati attriti e contrasti, fa della storia romana una catena di accadimenti, che si seguono con
singolare e cruda evidenza.
Perché il problema vero è questo: che, cioè, non si tratta già di sostituire la sociologia alla storia,
come se questa fosse stata una apparenza, che celi dietro di sé una realtà riposta; ma anzi si tratta di
intendere integralmente la storia, in tutte le sue intuitive manifestazioni, e d'intenderla per mezzo
della sociologia economica. Non si tratta già di separare l'accidente dalla sostanza, la parvenza dalla
realtà, il fenomeno dal nocciolo intrinseco, o come altro si direbbe dai seguaci di qualunque altro
scolasticismo; ma, anzi, di spiegare l'intreccio ed il complesso, per l'appunto in quanto è intreccio e
complesso. Non si tratta di scovrire e di determinare il terreno sociale solamente, per poi farvi
apparir su gli uomini, come tante marionette, i cui fili siano tenuti e mossi, dalla provvidenza non
più, ma anzi dalle categorie economiche. Queste categorie sono esse stesse divenute e divengono,
come tutto il resto; - perché gli uomini mutano quanto alla capacità e all'arte di vincere, aggiogare,
trasformare ed usare le condizioni naturali; - perché gli uomini cambiano animo ed attitudini per la
reazione degli istrumenti loro sopra di loro stessi; - perché gli uomini mutano nei loro rispettivi
rapporti di conviventi, e perciò di dipendenti in vario modo gli uni dagli altri. Si tratta, insomma,
della storia, e non dello scheletro suo. Si tratta del racconto e non dell'astrazione; si tratta di esporre
e di tratteggiare l'insieme, e non già di risolverlo e di analizzarlo soltanto; si tratta, a dirla in una
parola, ora come prima e come sempre, di un'arte.
Può darsi il caso, che il sociologo, il quale segua i principii del materialismo economico, si
proponga di circoscriversi alla sola analisi, poniamo ad esempio, di quello che eran le classi al
momento che la Rivoluzione Francese scoppiò, per giungere poi alle classi, che dalla Rivoluzione
resultano e ad essa sopravvivono. In questo caso i titoli, e le indicazioni e le classificazioni della
materia da analizzare sono precisi, p. e. la città e la campagna, l'artigiano e l'operaio, i nobili e i
servi, la terra che si libera dagli oneri feudali e i piccoli proprietarii che si formano, il commercio
clic si emancipa da tante restrizioni, il danaro che si accumula, l'industria che prospera, e così via.
Né c'è nulla da obiettare su la scelta di un tale metodo; il quale, come quello che segue la traccia
embriogenetica, è indispensabile alla preparazione della ricerca storica secondo l'indirizzo della
nuova dottrina (2).
Ma noi sappiamo che la embriogenia non basta a darci notizia della vita animale, la quale non è di
schemi, ma è di esseri vivi e viventi, che lottano, e per lottare esercitano forze, istinti e passioni. E
così, è, mutatis mutandis, anche degli uomini, in quanto vivono storicamente.
Quei determinati uomini, mossi da certi interessi, spinti da certe passioni, premuti da certe
circostanze, con tali disegni, con tali propositi, che operano con tale aspettazione, per tale illusione
propria o per tale inganno altrui, che martiri di sé o degli altri vengono in aspra collisione, e si
elidono a vicenda: - ecco la storia effettuale della Rivoluzione Francese. Perché, se è vero che ogni
storia non è se non l'esplicazione di determinate condizioni economiche, gli è altrettanto vero, che
essa non si svolge se non in determinate forme di attività umana; - che questa sia passionata o
riflessa, fortunata o senza successo, ciecamente istintiva o deliberatamente eroica.
Comprendere l'intreccio ed il complesso nella sua intima connessione e nelle sue manifestazioni
esteriori; discendere dalla superficie al fondo, e poi rifare la superficie dal fondo; risolvere le
passioni e i disegni nei moventi loro, dai più prossimi ai più remoti, e poi ricondurre i dati delle
passioni, dei disegni e dei moventi loro ai più remoti elementi di una determinata situazione
economica: ecco l'arte difficile, che deve esemplificare la concezione materialistica.
E perché non giova di imitare lo scolastico, che in riva al mare insegnava a nuotare con la
definizione del nuoto, prego il lettore di aspettare, che io esemplifichi in altri saggi il mio pensiero,
col recare una qualche effettiva narrazione storica; rifacendo, cioè, per iscritto una parte di ciò che
già da un pezzo vo facendo, a voce, insegnando.
Per cotal via rimangono chiarite alcune questioni secondarie e derivate.
Qual è p. e. il significato della biografia dei così detti uomini grandi?
Si è visto a dare negli ultimi tempi a tale proposito delle risposte, che, in un senso o nell'altro, son di
carattere estremo. Da una parte sono i sociologi ad oltranza, dall'altra gl'individualisti, che, alla
maniera di Carlyle, mettono a capo della storia gli eroi. Secondo gli uni basta provare quali fossero
le ragioni p. e. del Cesarismo, e di Cesare non importa punto. Secondo gli altri non c'è ragioni
obiettive di classi e di interessi sociali che bastino a spiegar nulla: sono i grandi spiriti che dànno
impulso a tutto il moto storico; e la storia ha, per così dire, i suoi signori e monarchi. Gli empiristi
del racconto si cavano d'impaccio in modo semplice, col mettere, cioè, assieme come vien viene,
uomini e cose, le necessità di fatto e gl'influssi subiettivi.
Il materialismo storico supera le vedute antitetiche dei sociologisti e degli individualisti, e al tempo
stesso elimina l'ecletticismo dei narratori empirici.
Innanzi tutto il factum.
Che quel determinato Cesare, che fu Napoleone, nascesse l'anno tale, facesse la tal carriera, e si
trovasse fortunatamente in buon punto il 18 Brumaio; - tutto ciò è affatto accidentale rispetto al
corso generale delle cose, che spingeva la nuova classe, padrona del campo, a salvare dalla
rivoluzione ciò che a lei pareva necessario di salvare, al qual bisogno occorreva la creazione di un
governo burocratico-militare. L'uomo, o gli uomini adatti bisognava pur trovarli. Ma, che quello
che avvenne effettivamente avvenisse nei modi che sappiamo, ciò dipese dal fatto che fu Napoleone
appunto a dar opera all'impresa, e non un povero Monk, o un ridicolo Boulanger. E da questo punto
in poi l'accidente cessa di essere accidente; appunto perché è quella determinata persona che dà
l'impronta e la fisionomia agli avvenimenti, nel modo, e per il modo come si svolsero.
Ora il fatto stesso che la storia tutta poggia su le antitesi, su i contrasti, su le lotte, su le guerre,
spiega l'influenza decisiva di determinati uomini in determinate occasioni. Cotesti uomini non sono,
né un accidente trascurabile del meccanismo sociale, né dei miracolosi creatori di ciò che la società,
senza di loro, non avrebbe fatto in nessun modo. Gli è l'intreccio stesso delle condizioni antitetiche,
il quale fa che determinati individui, o geniali, o eroici, o fortunati, o malvagi, sian chiamati in
momenti critici a dire la parola decisiva. Mentre gl'interessi particolari dei singoli gruppi sociali
sono in uno stato tale di tensione, che tutte le parti contendenti a vicenda si paralizzano, a muovere
l'ingranaggio politico occorre l'individuale coscienza dì una determinata persona.
Le antitesi sociali, le quali fanno di ogni convivenza umana un organamento instabile, dànno alla
storia, specie quando sia vista ed esaminata rapidamente e a grandi tratti, il carattere del dramma.
Questo dramma si ripete nei rapporti da comunità a comunità, da nazione a nazione, da stato a stato,
perché le interne disuguaglianze, concorrendo con le differenziazioni esterne, han prodotto e
producono tutto il moto delle guerre, delle conquiste, dei trattati, delle colonizzazioni e così via. In
questo dramma apparvero sempre come condottieri della società gli uomini che si chiamano
eminenti, o grandi, e dalla presenza loro l'empirismo ha argomentato, che essi fossero i principali
autori della storia stessa. Ricondurre la spiegazione del loro apparire alle cause generali e alle
condizioni comuni della struttura sociale, è cosa che perfettamente armonizza coi dati della nostra
dottrina; ma provarsi ad eliminarli, come volentieri farebbero certi affettati oggettivisti del
sociologismo, gli è una vera fatuità.
E in conclusione, il seguace del materialismo storico, che si metta ad esporre e a raccontare, non
deve far ciò schematizzando.
La storia è sempre determinata, configurata, infitamente accidentata e variopinta. Essa ha
combinatoria e prospettiva.
Non basta di avere eliminato preventivamcnte il presupposto dei fattori; perché chi narra si trova di
continuo a fronte di cose, che paiono disparate, indipendenti, e per sé stanti. Cogliere l'insieme
come insieme, e scorgervi i rapporti continuativi di serrati accadimenti, ecco la difficoltà.
La somma degli accadimenti strettamente consecutivi e serrati, è tutta la storia; il che è quanto dire
tutto quello che noi sappiamo dell'esser nostro in quanto siamo esseri sociali, e non più
semplicemente animali.
XII.
Nel successivo insieme, e nella continuativa necessità di tutti gli accadimenti storici, non è, dunque,
domandano alcuni, nessun senso, né alcuna significazione? Cotesta interrogazione, o che parta essa
dal campo degli idealisti, o ci arrivi dalle bocche dei più cauti critici, certamente, e in tutti i casi,
come s'impone all'attenzione nostra, così esige una adeguata risposta.
In fatti, se si pon mente alle premesse, o intuitive, o intellettuali, dalle quali deriva la concezione del
progresso, come di quella idea che contenga ed abbracci la totalità del processo umano, si vede che
cotali presupposti poggian tutti sul bisogno mentale, che è in noi, di attribuire alla serie, o alle serie
degli accadimenti, un certo senso ed una certa significazione. Il concetto di progresso, per chi lo
esamini bene addentro nella sua natura specifica, implica sempre dei giudizi di valutazione; e, per
ciò, non è chi possa confonderlo con la nozione nuda e cruda del semplice sviluppo, il quale non
include punto quell'incremento di pregio, per cui noi di una cosa diciamo che essa progredisca.
Dissi già qui innanzi, e, mi pare, con sufficiente estensione, come il progresso non istia a guisa di
imperativo o di comando sul succedersi naturale ed immediato delle umane generazioni. Ciò è tanto
intuitivo, per quanto è intuitiva la coesistenza attuale di popoli, nazioni e stati, che trovansi, in uno e
medesimo tempo, in diverso stadio di sviluppo; per quanto è innegabile la presente condizione di
relativa e di rispettiva superiorità ed inferiorità di popolo a popolo; e per quanto è, da ultimo,
accertato il regresso parziale e relativo avveratosi più volte nella storia, come ne stette per secoli a
documento l'Italia. Anzi, se c'è mai prova stringente, del come il progresso non sia da intendere nel
senso di una legge immediata, e, dirò così per rincalzare, di una legge fisica o fatale, gli è appunto
questa, che lo sviluppo sociale, per le stesse ragioni di processo che gli sono immanenti, mise
spesso capo nel regresso. Gli è d'altra parte chiaro ed accertato, che così la facoltà del progredire,
come la possibilità di far regresso, non costituiscono, alla prima, né immediato privilegio, né
ingenito difetto di razza; né sono dirette emanazioni delle condizioni geografiche. Perché non solo i
primitivi centri di civiltà furon molteplici, e non solo cotali centri si spostarono nel corso dei secoli,
ma sta anche il fatto, che i mezzi, i trovati, i resultati e gl'impulsi di una determinata civiltà, che
siasi già svolta, sono, entro certi limiti, comunicabili a tutti gli uomini in indefinito. Ossia, a farla
breve, progresso e regresso sono inerenti alle condizioni ed al ritmo dello sviluppo sociale in
genere.
Ora, dunque, la fede nella universalità del progresso, che apparve con tanto impeto nel secolo
decimottavo, ha in questo primo addentellato positivo; che, cioè, gli uomini, quando non trovino
impedimenti nelle condizioni esterne, e non ne trovino in quelle che derivano dalla loro propria
opera nell'ambito sociale, sono tutti capaci di progredire.
E poi in fondo alla supposta, o immaginata, o creduta unità della storia, per la quale il processo
delle varie società formerebbe come una sola serie di progresso, sta un altro fatto, che ha offerto
motivo ed occasione a tante fantasticherie ideologiche. Se non tutti i popoli son progrediti
egualmente, e anzi alcuni, o si arrestarono, o corsero la via del regresso, se il processo di sviluppo
sociale non ebbe sempre, in ogni luogo ed in ogni tempo, il medesimo ritmo e la medesima
intensità, gli è pur nondimeno sicuro il fatto, che, nel passaggio dell'azione decisiva da popolo a
popolo nel corso della storia, i prodotti utili, già acquisiti da quelli che decadevano, passarono a
quelli che divenivano e salivano. La qual cosa non vale tanto dei prodotti, dirò così, del sentimento
e della fantasia, che pur si serbano e perpetuano nella tradizione letteraria, quanto vale dei resultati
del pensiero, e soprattutto della scoverta e della produzione dei mezzi tecnici, che, ove siano
acquisiti, per diretto si comunicano e trasmettono.
Occorre forse di rammentare, che la scrittura non fu mai più perduta, per quanto i popoli che ne
furono i rinvenitori sparissero dalla storica continuità? Occorre forse di ricordare, che noi rechiamo
tuttodì nelle nostre tasche, su i nostri orologi, il quadrante babilonese, e che noi usiamo l'algebra,
che fu introdotta da quegli arabi, la cui attività storica si è poi dispersa come la sabbia del deserto?
Non vale di molteplicare incidentalmente e indefinitamente gli esempii, perché basta di aver
sott'occhi la tecnologia, e la storia delle scoverte nel lato senso della parola, nella quale è evidente
la trasmissione quasi continuativa dei mezzi istrumentali del lavoro e della produzione.
E, al postutto, le smossi provvisorie che diconsi storie universali, per quanto rivelino sempre, così
nell'intento come nella esecuzione, qualcosa di forzato e di artificiale, non sarebbero state mai
nemmen tentate, se le vicende umane non offrissero all'empirismo dei narratori un qualche filo, sia
pur sottile, di continuità.
Ecco lì l'Italia del secolo decimosesto, che evidentemente decade; ma, mentre decade, trasmette alla
rimanente Europa le sue armi intellettuali. Né esse sole rimangono in retaggio alla civiltà che
continua; ma anche il mercato mondiale si stabilisce su i fondamenti di quelle scoverte geografiche,
e di quei trovati nautici, che furono opera dei mercanti, e dei viaggiatori e marinari d'Italia. Né solo
i modi del far la guerra, e i raffinamenti dell'astuzia politica passaron fuori dell'Italia (della qual
cosa soltanto si occupano di solito i letterati); ma anche l'arte del far danaro in tutta la evidenza di
una elaborata disciplina commerciale; e, via via, i rudimenti della scienza, su i quali è fondata la
tecnica moderna, e innanzi tutto la metodica irrigazione dei campi, e le leggi generali dell'idraulica.
Tutto ciò è tanto precisamente vero, che ad un amatore di tesi congetturali potrebbe saltar in capo di
proporsi questo quesito: cosa sarebbe stato dell'Italia, in questa moderna epoca borghese, se,
avverandosi il progetto del Senato veneto (1504) di far qualcosa che avrebbe rassomigliato negli
effetti al taglio dell'istmo di Suez, la marina italiana si fosse trovata a contendere direttamente coi
portoghesi nell'Oceano Indiano, in quel momento appunto, in cui il trasferimento dell'azione storica
dal Mediterraneo all'Oceano preparava la decadenza nostra? Ma basta di tale fantasia!
Una certa continuità storica, nel senso empirico e circostanziato della trasmissione e del successivo
incremento dei mezzi della civiltà, è un fatto, dunque, incontrastabile. E sebbene questo fatto
escluda ogni idea di preconcetto disegno, di finalità intenzionale o latente, di prestabilita armonia, e
tutte quelle altre fantasticherie su le quali si è tanto speculato, non per ciò solo esclude l'idea del
progresso, che noi possiamo usare come di valutazione del corso del divenire umano. Gli è
indubbio sì, che il progresso non abbraccia materialmente il succedersi delle generazioni, e che la
sua nozione non implica nulla di categorico, tanto che le società han fatto anche regresso, ma ciò
non toglie che cotesta idea possa servirci come di filo conduttore e di stregua, per dare
significazione al processo storico. Di tali cautele critiche, così nell'uso dei concetti specifici, come
nei modo di loro applicazione, non intendono nulla quei poveri evoluzionisti ad oltranza, che sono
scienziati senza la grammatica e senza il galateo della scienza, ossia senza la logica.
Come ho detto più volte, le idee non cascano dal cielo, e anche quelle che in dati momenti vengon
fuori da determinate situazioni, con impeto di fede e con veste metafisica, recano sempre in sé
l'indizio di corrispondere a un ordine di fatti, di cui si tenti o si cerchi la spiegazione. L'idea del
progresso, come di unificatore della storia, apparve con violenza e si fece gigante nel secolo
decimottavo, ossia nel periodo eroico della vita politica ed intellettuale della borghesia
rivoluzionaria. Come questa ha generato, nell'ordine delle opere, il periodo più intensivo di storia
che mai si conosca, così ha prodotto in pari tempo la sua propria ideologia, nella nozione del
progresso. Questa ideologia nella sua sostanza, e per il momento, vuol dire, che il capitalismo è la
sola forma di produzione che sia capace di estendersi a tutta la terra, e di ridurre tutto il genere
umano in condizioni che da per tutto si rassomiglino. Se la tecnica moderna può portarsi da per
ogni dove, se tutto l'uman genere apparisce come un solo campo di concorrenza, e tutta la terra
come un solo mercato, che maraviglia c'è se la ideologia, che coteste condizioni di fatto
intellettualmente riflette, è venuta nell'affermazione, che la presente unità storica, sia stata preparata
da tutto ciò che la precede? Traducete questo concetto di pretesa preparazione in quello affatto
naturale di verificabili successive condizioni ed eccovi aperta la via per la quale si giunge dalla
ideologia del progresso al materialismo storico: e si giunge anche all'affermazione di Marx, che
questa forma della produzione borghese è l'ultima forma antagonistica del processo della società.
I miracoli dell'epoca borghese, nella unificazione del processo sociale, non hanno riscontro nel
passato. Ecco lì tutto il Nuovo Mondo, e poi l'Australia, e l'Africa meridionale e la Nuova Zelanda!
E son tutti come noi! E poi il contraccolpo nell'Estremo Oriente per la imitazione, e nell'Africa per
la conquista! Innanzi a tale universalità e a tale cosmopolitismo, l'acquisizione dei celti e degl'iberi
alla civiltà romana, e quella dei germani e degli slavi al ciclo della civiltà romano-bizantino-
cristiana, rimpiccioliscono. Cotesta unificazione sempre crescente si riflette ogni giorno più nel
meccanismo politico dell'Europa; il quale meccanismo, perché fondato su la conquista economica
delle altre parti del mondo, oscilla oramai per gl'influssi e riflussi, che vengono dalle più remote
regioni. In questo complicatissimo intreccio di azioni e di reazioni, la guerra fra Giappone e Cina,
che fu guerreggiata coi mezzi, o imitati, o a dirittura presi in prestito dalla tecnica europea, lascia le
sue tracce, né leggiere né di breve durata, nei rapporti diplomatici dell'Europa, e ne lascia dei più
vivi nella borsa, che è la fedele interprete della coscienza dei nostri tempi. Questa Europa, maestra a
tutto il resto del mondo, ha visto di recente oscillare i rapporti della politica degli stati di cui consta,
per una rivolta nel Transvaal, e per un insuccesso delle armi italiane in Abissinia, proprio di questi
ultimi giorni (3).
I secoli che han preparato e portato alla forma sua attuale il dominio economico della produzione
borghese, hanno anche sviluppata la tendenza ad unificare la storia sotto una veduta generale; e per
cotal modo rimane spiegata e giustificata la ideologia del progresso, che informa tanti libri di
filosofia della storia e di Kulturgeschichte. La unità di forma sociale, ossia la unità di forma
capitalistica nella produzione, cui la borghesia tende da secoli, s'è venuta a riflettere nel concetto
della unità della storia, in forme tanto suggestive quante non ne potea mai dare al pensiero l'angusto
cosmopolitismo dell'impero romano, né quello unilaterale della chiesa cattolica.
Ma cotesta unificazione della vita sociale, per opera della forma capitalistica borghese, si sviluppò
la prima volta, e continua ora a svolgersi, non secondo regole, e piani, e preconcetti disegni; ma,
anzi, per via di attriti e di lotte, che nell'insieme formano un colossale intrigo di antitesi. Guerra al
di fuori, e guerra al di dentro. Lotta incessante fra le nazioni, e lotta incessante fra i componenti le
singole nazioni. Ed è tanto complicato l'intreccio delle opere e delle azioni di tanti emuli,
concorrenti e contendenti, che la coordinazione degli eventi sfugge assai spesso all'attenzione, per
esser cosa poco facile il coglierne l'intimo nesso. La gara che ora è tra gli uomini, le lotte che ora,
con varii metodi, si svolgono tra le nazioni e nelle nazioni, son valse a farci intendere meglio, per
entro a quali difficoltà si è mossa la storia del passato. E se l'ideologia borghese, riflettendo la
tendenza all'unificazione capitalistica, ha proclamato il progresso dell'uman genere, il materialismo
storico, invertendo, e senza proclamazioni, ha scoverto, che nelle antitesi fu fino ad ora la causa e il
movente d'ogni accadimento storico.
E perciò il moto della storia, preso in generale, ci si rivela come oscillante; - o meglio, per usare
una immagine più propria, ci pare si svolga sopra di una linea spezzata, che cambia spesso di
direzione, e di nuovo si spezza, e in alcuni momenti gli è come rientrante, e alcune volte si distende,
dilungandosi di molto dal punto iniziale: - un vero zig-zag.
Data la complicazione interna di ciascuna società, e dato l'incontro di più società sul campo della
concorrenza (dalle ingenue forme della razzia, della rapina e della pirateria, fino ai raffinati metodi
dell'elegante giuoco di borsa!), gli è naturale, che ogni resultato storico, quando sia misurato alla
sola stregua dell'aspettazione individuale, apparisca assai spesso come un caso, e considerato poi
teoricamente torni alla mente più inestricabile delle contingenze meteoriche.
Per ciò non è una semplice frase il detto della ironia che siede sovrana su la storia; perché, difatti, se
nessun Dio di Epicuro ride di lassù sopra le cose umane, quaggiù le cose umane intessono da se
stesse una divina commedia.
Cesserà mai cotesta ironia delle umane sorti? Sarà, ossia, mai possibile una tal forma di convivenza,
che dia luogo allo sviluppo cooperativo ed integrale di tutte le attitudini, in guisa che il processo
ulteriore della storia divenga vera ed effettiva evoluzione? Sarà possibile, se così piace agli amatori
delle arrotondate frasi, la umanizzazione di tutti gli uomini? Eliminate, nel comunismo della
produzione, le antitesi, che sono ora causa ed effetto delle differenziazioni economiche, tutte le
energie umane non acquisterebbero un grado altissimo di efficacia e di intensità negli effetti
cooperativi, e al tempo stesso non si svolgerebbero esse con la massima libertà d'individuazione, in
ogni singola persona?
Nelle risposte affermative a tali domande è la somma di ciò, che il comunismo critico dice, ossia,
predice dell'avvenire. E non dice e predice, come per discutere di una astratta possibilità, o come
chi di capo suo voglia mettere in essere uno stato di cose, che speri o vagheggi. Ma dice e predice
come chi enuncia ciò che è inevitabile accada, per la immanente necessità della storia, vista e
studiata oramai nel fondo della sua sostruzione economica.
Ce n'est que dans un ordre de choses, où il n'y aura plus de classes et d'antagonisme de classes, que
les évolutions sociales cesseront d'étre des révolutions politiques (4).
Alla vecchia società borghese, con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe, subentra una
associazione, nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti
(5).
I rapporti borghesi della produzione sono l'ultima forma antagonistica del processo sociale della
produzione - antagonistica non nel senso dell'antagonismo individuale, anzi di un antagonismo che
sorge dalle condizioni sociali della vita degl'individui; - ma le forze produttive, che si sviluppano
nel seno della società borghese, mettono già in essere le condizioni materiali per la risoluzione di
tale antagonismo. Con tale formazione di società cessa, per ciò, la preistoria del genere umano (6).
Con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della società, rimane esclusa la
produzione delle merci, e con essa rimane esclusa la signoria del prodotto sul produttore.
All'anarchia dominante nella produzione sociale subentrerà la cosciente organizzazione a disegno.
La lotta per l'esistenza individuale cesserà. Solo per cotal modo l'uomo si distaccherà, in un certo
senso, dal mondo animale, in modo definitivo, e passerà dalle condizioni di esistenza animale in
quelle di esistenza umana. Tutto l'ambito delle condizioni della vita, che fino ad ora ha dominato gli
uomini, passerà sotto il comando e sotto la revisione degli uomini stessi; che diverranno, così, per la
prima volta effettivi signori della natura, perché saranno signori della propria consociazione. Le
leggi della loro propria attività sociale, che stavano loro di contro come leggi estranee che li
dominassero, saranno applicate e padroneggiate dagli uomini stessi, con piena cognizione di causa.
La stessa consociazione, che stava di fronte agli uomini, come imposta dalla natura e dalla storia,
diverrà la libera e propria opera loro. Le forze estranee ed obiettive, che finora dominavano la
storia, passano sotto la vigilanza degli uomini. Solo da tal punto in poi gli uomini faranno con piena
coscienza la loro propria storia; solo da tal punto in poi le cause sociali, che essi metteranno in
moto, potranno raggiungere, in gran parte, e in ragione sempre crescente, i voluti effetti. Questo è il
salto del genere umano dal regno della necessità in quello della libertà. Compiere cotesta azione
liberatrice del mondo, ecco la missione storica del proletariato moderno (7).
Se Marx ed Engels fossero stati mai facitori di frasi, se la mente loro non fosse stata resa cauta, fino
allo scrupolo, dall'uso e dall'applicazione cotidiana e minuta dei mezzi scientifici, se il contatto
assiduo con tanti cospiratori e visionarii non li avesse resi aborrenti da ogni utopia, fino alla
pedanteria dell'opposto, tali enunciati potrebbero esser tenuti in conto di geniali paradossi, che
sfuggano all'esame della critica. Ma quegli enunciati sono come la chiusa, anzi sono l'effettiva
conclusione, della dottrina del materialismo storico. Resultano a filo diritto dalla critica
dell'economia e dalla dialettica storica.
In tali enunciati, del resto sviluppabili, come avrò occasione di mostrare in altro luogo, si riassume
tutta la previsione dell'avvenire, che non sia, né voglia essere, romanzo, o utopia. E in questi
enunciati stessi è una adeguata e conclusiva risposta alla domanda con la quale comincia questo
capitolo: se, cioè, nelle serie degli accadimenti storici ci sia da ultimo ed effettivamente senso e
significazione.
E qui faccio punto; parendomi, che, per una dilucidazione preliminare, ce ne sia oramai abbastanza.
Roma, 10 marzo 1896
Appendice
A proposito della crisi del marxismo.
Mi riferisco qui ad un libro, nè breve, nè di comoda lettura, di Th. G. Masaryk, professore della
Università czeca di Praga, venuto in luce proprio di questi ultimi giorni. Quanto sia voluminoso può
vedersi a piè di pagina (8), dove n'è dato per esteso il titolo. Non mi propongo però di scriverne la
recensione pura e semplice. E se mai paresse, che l'esprimere la propria opinione a proposito d'un
libro importi che di quello si faccia la recensione, dirò che questa qui assumerà necessariamente le
proporzioni e l'andatura di un quasi-articolo.
Il nome mio e il titolo a capo della pagina potrebbero indurre nel sospetto, che io intenda di
mettermi come in una polemica di partito. Il lettore stia d'animo tranquillo. Non confonderò le
pagine della "Rivista italiana di sociologia" con le colonne del giornale politico cotidiano (9).
Dirò solo, en passant, come il caso assai curioso del grande affanno, che la stampa politica italiana,
sia essa giornaliera o altrimenti periodica, s'è dato per mesi e mesi nel proclamare la morte del
socialismo, usando la etichetta della crisi del marxismo, è parso a me un nuovo documento di quel
vizio organicamente nazionale, che può oramai definirsi qual diritto all'ignoranza. A nessuno di
cotesti egregi becchini del socialismo, che, tanto per far folla intorno alla crisi, andavano mettendo
assieme a casaccio i nomi incompatibili fra loro di così varii scrittori, è venuto in mente di proporsi
queste semplici e oneste domande: - la critica sorta in altri paesi intorno al marxismo può essa mai
riguardare direttamente l'Italia? - ebbe mai, o ha, cotesta dottrina alcuna solida base e sicura
diffusione nel nostro paese? - e, al postutto, il partito socialistico italiano ha tanta forza già, e tale
estensione su le masse e tra le masse, ed ha in se stesso tale sviluppo e tale complessità di
condizioni e di attinenze politiche, da rivelare quei caratteri precisi e spiccati di stabile e duratura
organizzazione proletaria, data la quale il discutere a fondo della dottrina gli è discuter di cose e
non di parole? - e, per andare più al fondo, c'è chi possa dire, che in questo paese nostro sia stata già
percorsa tutta la via crucis delle trasformazioni economiche, a capo delle quali s'è avverato altrove
ciò che dicesi sistema capitalistico, del quale il marxismo, alla sua volta, è poi il contraccolpo
critico?
Chi si fosse proposte coteste domande, e altre simili, sarebbe venuto nella onesta conclusione, che
non ci può essere la crisi di ciò...che non esiste ancora.
Può darsi, anzi si dà di certo, che tutti cotesti necrologisti del socialismo ignorassero come la frase
di crisi del marxismo fosse stata coniata e messa in circolazione per l'appunto dal professore
Masaryk, al quale (lui ignaro tuttora, come accade spesso agli stranieri, delle cose d'Italia) è capitata
l'insigne sorte di portare nel nostro paese un nuovo ed inatteso contributo alla fortuna delle parole.
Ma gli è proprio così. La espressione di crisi del marxismo fu inventata da Masaryk nei numeri
177-79 della "Zeit" di Vienna, del febbraio del 1898, e quegli articoli suoi furon poi raccolti in
opuscolo (10), con la data del 10 marzo: - e, si badi bene, non perché l'autore di tale scoperta
letteraria avesse in animo di dichiarare la morte del socialismo, ma solo perché gli parve di
constatare (mi si passi la parola di gergo giornalistico) la crisi per entro al marxismo; - ed egli
difatti conchiudeva così: "Io vorrei ammonire i nemici del socialismo, di non farsi delle vane
speranze in pro dei loro partiti per questa crisi del marxismo, la quale potrà dare anzi gran forza al
socialismo, quando i suoi capi vorranno criticarne liberamente i fondamenti e superarne i difetti.
Come tutti gli altri partiti di riforma sociale, il socialismo ha la sua fonte viva nelle manifeste
imperfezioni del presente ordinamento sociale, e nella sua ingiustizia ed immoralità, e soprattutto
nella miseria materiale, morale ed intellettuale della gran massa presso tutti i popoli" (11). In quelle
24 pagine, che erano invero troppo poco per la gravità dell'assunto, i dati della crisi - per quanto
s'attiene alla Sozialdemokratie tedesca e con qualche piccolo riferimento alla letteratura francese ed
inglese - venian riassunti, enumerati, caratterizzati, così un po' in furia e fretta, nei seguenti capi...
Ma che giova di tenersi più all'opuscolo del 10 marzo 1898, se nel libro alla data del 27 marzo 1899
le 24 pagine d'allora son diventate 600, dico 600, il che è viceversa troppo assai - direbbe un
napoletano - e per la entità di ciò che vi si va esponendo, e per la pazienza media dei lettori?
Il prof. Masaryk è un positivista: parola qui in Italia d'uso soverchiamente estensivo ed elastico, ma
che per lui professante filosofia vuol dire, e sia pure con parecchie modificazioni, trovarsi su la
linea che va da Comte a Spencer... o a Masaryk stesso. Non sarei in grado di tributargli tutta
l'ammirazione della quale sarà, forse, degno; perché lui ha l'abitudine per me incomoda di scrivere
in lingua czeca. Non ne conoscevo fino ad ora se non la Logica concreta nella traduzione tedesca.
Né vorrei soverchiamente sottilizzare sul tenore tassativo delle sue espressioni, perché questo libro
è stato tradotto dal signor Kalandra in un tedesco alquanto cancelleresco. L'opera nel tutt'insieme,
come dice l'autore stesso nella prefazione, non è da considerare sotto l'aspetto della composizione e
dello stile. E' un parto onninamente ultraccademico, con la ovvia partitura in introduzione e sezioni,
e queste, che son cinque e son seguite dal riassunto, recano la suddivisione in capitoli, con la
sottofigura dell'A, B, C e così via, fin giù giù alla risuddivisione del tutto in 162 paragrafi, con varia
bibliografia in ordine sparso e in ordine concentrato, con un indice-sommario veramente mirabile,
che fa pensare a tante cose cui il libro poi non risponde, e con l'inevitabile registro. Sono, insomma,
appunti di lezioni illustrative e dichiarative, di tono posato e anzi tenue, redatte a schema da
enciclopedia, e non tutte identificabili alla stessa data. Infatti, mentre il libro, composto
originariamente in lingua czeca, e preannunziato nell'opuscoletto dell'altro anno, che può tenerne le
veci per chi non voglia leggere le 600 pagine, s'andava stampando nella traduzione tedesca, nel
frattempo è apparso l'oramai famoso libro del Bernstein (cfr. nota I a p. 590), e con questo l'autore
ha sentito il bisogno di accomodare le sue partite in altro posto (12).
L'atteggiamento del Masaryk è veramente sui generis. Lui non è socialista, lui conosce estesamente
la letteratura del socialismo, lui non è avversario professionale del socialismo, lui lo giudica
dall'alto, in nome della scienza. Fu deputato al Reichsrath della Cisleitania, ma sebbene nazionalista
e progressista, che io sappia, non si confuse mai coi giovani czechi. Ora mi pare si tenga in disparte
dalla politica. Pubblica una rivista, che è un quissimile della nostra "Nuova Antologia", ed è dotto
di mestiere, cioè gran leggitore e riferitore accurato di ciò che legge, fino al minimo della più
minuta minutaglia. E questo è il primo e principale difetto del libro suo; nel quale si discorre di
molte ed infinite cose, ma alla realtà, al fatto, al vivo non si arriva mai. L'autore ha come
intercettata la vista dalla carta stampata, e dalle ombre degli scrittori tra i quali s'aggira con pari
ossequio per tutti, come chi abbia l'occhio privo di virtù prospettica.
Non è forse il principale dovere di chi si metta per la via di discutere dei fondamenti del marxismo
di essere in grado di rispondere, ma dal vivo, a questa domanda: credete voi o non credete alla
possibilità di una trasformazione della società dei paesi più civili, per la quale cesserebbero le cause
e gli effetti delle presenti lotte di classe? Di fronte a tale problema generale gli è davvero
d'importanza secondaria il modo della transizione a quello stato futuro, desiderato o previsto;
perché quel modo sfugge al nostro arbitrio, e certo non dipende dalle nostre definizioni. Per rispetto
a cotesta tesi generale gli è cosa, non dirò indifferente, ma certo di valore assai subordinato, il
sapere, qual parte del pensiero e delle opinioni, (molti confondono maledettamente quello e queste!)
di Marx e dei suoi prossimi seguaci ed interpreti collimi o non collimi con le presenti e con le future
condizioni del movimento proletario: perché non occorre di essere seguaci sfegatati del
materialismo storico per intendere, come le dottrine valgono in quanto dottrine, cioè in quanto sono
una luce intellettuale portata sopra un ordine di fatti, ma che in quanto sono dottrine non son causa
di nulla. Ma il signor Masaryk è, invece, un dottrinario, cioè un credente nella virtù delle idee, cioè
un accademico, per il quale tutto consiste nella lotta per la concezione generale del mondo
(Weltanschauung); e non c'è da maravigliarsi che egli respinga con sovrano disprezzo (passim)
l'espressione istinto delle masse Questa critica, che poggia tutta su la presunzione di un giudizio
sovranamente imparziale delle lotte pratiche della vita in nome della scienza, e che ignora la
rassegnazione del pensiero al corso naturale della storia, è e rimane intrinsecamente caduca, perché
s'aggira intorno al marxismo, senza afferrarne mai il nerbo, che è la concezione generale dello
sviluppo storico sotto l'angolo visuale della rivoluzione proletaria.
Indugiandomi a definire l'atteggiamento in genere del Masaryk, mi pare di ripagarlo di cortesia
italiana dell'ignoranza nella quale egli trovasi per rispetto ai miei scritti in argomento. Se mai li
leggesse, s'avvedrebbe, forse, come, senza scendere alle minuzie della polemica a tu per tu con la
stampa corrente del partito, senza proclamarsi scovritori od autori della crisi del marxismo, si possa
esser seguaci anche all'ora presente del materialismo storico, dopo fatta la debita parte alla nuova
esperienza storico-sociale, e con la conveniente revisione dei concetti, che abbiano subito o
subiscano correzione dal corso naturale del pensiero. Le dottrine, che sono in atto di svolgersi e di
progredire, non ammettono la trattazione erudita e filologica, come usa per le sorpassate forme del
pensiero, e per ciò che ci fu trasmesso dalla tradizione, ed ha nome di antico. Ma i temperamenti
intellettuali degli uomini sono assai difformi tra loro! Alcuni - e son pochi - presentano al pubblico
il resultato del proprio lavoro, e non credono di dovervi aggiungere la storia intima delle loro
letture, fino alla fotografia della penna della quale si servono. Sono altri - e questo è il maggior
numero - i quali sentono vivo il bisogno di dare alle stampe tutto il frutto delle loro letture. Son
meticolosi custodi dei loro quaderni, perché nessuna parte di loro fatiche vada perduta, né pei
presenti, né pei futuri. Il professore Masaryk - che stempera in 600 pagine una tesi di occasione, ed
è questa: che giudizio possa farsi ora del marxismo, atteso il fatto che se ne discute anche per entro
al partito; - il professore Masaryk, che ha tanto letto, non può a meno di considerare il marxismo
stesso secondo le sacramentali rubriche della filosofia, della religione, dell'etica, della politica, e
così via all'infinito: e, caso curioso, proprio lui, che ha tanto ossequio per la burocrazia universitaria
e per il casellario dei feticci della scienza, finisce poi da ultimo per dichiarare, essere il marxismo
un sistema sincretico! (passim in tutto il libro, ed esplicitamente a p. 587). Era parso a me, che
quella dottrina fosse proprio precisamente il contrario, e un che, anzi, di tanto intimamente unitario,
da mirare, non solo a vincere la opposizione dottrinale tra scienza e filosofia, ma anche quella più
ovvia tra pratica e teoria. Ma il signor Masaryk è fatto così com'è, e seguiamolo pure nelle sue
rubriche.
Lascia ben volentieri ad altri di occuparsi del socialismo in quanto è tendenza (a uso A. Menger)
alle riforme giuridiche; dichiara di non immischiarsi direttamente nelle questioni della Economia
(nella qual disciplina invero pare a me che zoppichi da ambo le gambe), e ci tiene a mettere
soprattutto in evidenza la filosofia di Marx, la quale esiste, tuttoché non sia espressa in opere di
tassativa composizione ad hoc; e studia in tutte le 600 pagine la crisi in quanto essa è strettamente
"scientifica e filosofica" (p. 5). Non chiedete, dunque, all'autore, né un esame concreto delle
condizioni attuali del mondo economico fatto dal vivo, né un consiglio pratico e largo di politica
sociale. Se il movimento della proletarizzazione continui o no, se la teoria del valore sia o no esatta,
queste e le altre questioni affini, per quanto della massima importanza, non interessano lui filosofo
(p. 4). Il resultato pratico è solo questo, di consigliare ai socialisti (p. 591) di tenersi al programma
dell'Engels del 1895, cioè dire alla tattica parlamentare; il che veramente essi vanno facendo da per
tutto nel mondo, e, secondo il debole avviso mio, per la semplice ragione, che non potrebbero fare
altrimenti senza addimostrarsi, o pazzi, o stolidi. Se non che il Masaryk rincalza il consiglio con
questo monito, che si debba anche abbandonare l'ideologia marxista! A buon conto, non è il corso
naturale delle vicende politiche dell'Europa civile che abbia indotto i socialisti a cambiare di tattica
(né l'autore saprebbe dirci quanto tempo questa nuova durerà, o potrà durare), ma son le idee che
cambiano e devono cambiare. Tutto si compendia nella lotta per la Weltanschauung (cfr.
segnatamente pp. 586-92), il che è naturale in uno scrittore, che ci tien tanto al sacramentale
concetto della classificazione delle scienze (p. 4), e al posto sovraeminente della filosofia.
Il Philister, nella subspecie professorale, ci si rivela qui tutto intero nella sua propria natura.
Conoscere estesamente la letteratura del socialismo, e di questo ignorare l'intimo, il senso, l'animo!
Dato questo animo - s'intende da sé - l'orientazione scientifica cambia del tutto, anzi cambia il posto
della scienza nella economia dei nostri interessi. Ma a ciò il Masaryk non giunge mai, perché
dovrebbe, per arrivarci, valicare i confini delle definizioni. Il suo libro, perciò, per quanto ricco di
coscienziose informazioni, ed alieno dal disprezzo professionale del socialismo si riduce,
nell'intento e negli effetti, ad un enorme piato del positivismo contro il marxismo! Due osservazioni
mi occorrono qui. La mia affermazione suonerà strana a molti in Italia, dove è in uso di significare
con la parola positivismo tutto ed ogni cosa. Inoltre, come ho più volte scritto, che quella intuizione
della vita e del mondo, la quale si compendia nel nome di materialismo storico, non è giunta a
perfezione negli scritti di Marx e di Engels, e dei loro prossimi seguaci, così ora qui più recisamente
affermo, che la continuazione di quella dottrina procede ancor lenta, e forse procederà allo stesso
modo per un buon pezzo.
Ma i libri come questo del Masaryk non giovano a nulla. Ecco qua un coacervo di obiezioni in
nome del positivismo sì, ma non in nome della revisione diretta ed autentica dei problemi della
scienza storica, e non in nome delle questioni politiche attuali. La così detta crisi non diventa, né il
subietto di un esame da pubblicista, né l'obietto di uno studio da sociologo, ma è come uno spazio
vuoto o una pausa, in cui l'autore vada a deporre, o a recitare, le sue filosofiche proteste.
Uno studio, né vano né privo d'interesse, è dedicato alla formazione prima del pensiero di Marx (pp.
17-89). Ma il facit è da ultimo assai meschino. "Nella costante mutazione dell'ordinamento sociale
venne Marx da ultimo a trovare la ragione storica del comunismo, come quello che s'imponga da sé.
- Secondo Marx la filosofia è la copia naturalistica del processo del mondo. - Il comunismo è dato
dalla storia stessa. - Il materialismo di Marx è un materialismo storico". - Proposizioni come queste,
le quali riproducono a un di presso il pensiero fondamentale dello scrittore che si ha per mani,
dovrebbero indurre, pare a me, il critico a rifarsi su i fondamenti di tali concezioni, per rovesciarli,
se mai, con una critica ab imis. Ebbene, che fa il signor Masaryk? Pochi righi dopo scrive: "La sua
filosofia e quella di Engels hanno il carattere dell'eccleticisino". - E poi ci regala, alla lettera D del
capo II, una insalata russa delle opinioni in contraddittorio di Bax, K. Schmidt, Stern, Bernstein,
Plekanoff, Mehring, in quanto han discusso se tale filosofia, diciamo così marxistica, sia
conciliabile o no col ritorno a Kant, a Spinoza, o a che altro siasi; e non gli sovviene del poeta, che
assistette alla fondazione della Università di Praga, per esclamare con lui:
Povera e nuda vai filosofia!
Alquanto sconnessa è la trattazione che l'autore dedica al materialismo storico (pp 92-168),
indugiandosi in prima sul divario delle definizioni, per venire infine ad una critica tutta fondata su
la vecchia nenia della dottrina dei fattori, più o meno dissimulata in una fraseologia sociologica e
psicologica alquanto dubbia ed incerta. In conclusione all'autore repugna il pensiero di una
concezione obiettivamente unitaria della storia; e gli capita spesso di confondere la spiegazione del
complesso storico mediante il variare innanzi tutto della struttura economica, con la spiegazione
illico et immediate del fatto storico determinato per via delle rispettive ed individuate condizioni
economiche. Non deve quindi recar meraviglia di vedere come Marx venga considerato quale una
specie di Comte alterato in peggio, che diventa poi un inconsapevole seguace di Schopenhauer
nell'accettare il primato della volontà, dottrina che contraddice però alla sacramentale tricotomia
psicologica d'intelletto, sentimento e volere. Può darsi che quel povero Marx ignorasse, come
l'uomo sia fornito, oltre che dell'intelletto, anche d'un fegato (sic!), il che è tanto più sorprendente,
in quanto che lui era assai fegatoso (sic!) per le quali buone ragioni può essere accaduto non
s'avvedesse, che il soppravvalore è un concetto principalmente etico (sic!). Al professore di
Università, che tratta la sua materia come il suo mestiere, può venir facilmente la tentazione di far
passate un determinato autore sotto lo scrutinio di tutte quelle altre dottrine che lui critico abbia
l'abitudine di studiare e di maneggiare. E allora, per una strana illusione da erudito, accade che i
termini di confronto, che sono nell'abito subiettivo del critico, divengano surrettiziamente come dei
termini di effettiva derivazione. Così stava accadendo al Masaryk; quando ecco che lui, nel bel
mezzo delle sue tentate comparazioni, si contraddice, e sentenzia (p. 166): "Nel fatto Marx viene a
formulare ciò che, come suol dirsi, si trovava nell'aria, e perciò io non ho dato gran peso ai singoli
influssi su la sua formazione intellettuale". Ergo - direi io - ricominciate da capo, e anzi invertite.
Nell'autore, che trattate, s'è avverata appunto questa inversione, che dalla critica dell'economia e dal
dato delle lotte di classe egli risalì ad una nuova concezione storica (e non per modificare, s'intenda
bene, ciò che tecnicamente dicesi disciplina della ricerca storica), e per quella via poi ad una nuova
orientazione su i problemi generali della conoscenza. Ma voi forzate le cose, ma voi le alterate del
tutto, mettendovi per una via che non è quella percorsa dall'obietto del vostro esame. Ma si capisce,
voi filosofo professionale scendete dall'alto delle definizioni al particolare del materialismo storico;
e, con tutto il dovuto ossequio alla metodologia, giungete alla teoria delle lotte di classe (pp. 168-
234) come si arriva a un corollario.
Anche qui la fedeltà della esposizione materiale rende più sensibile la incapacità alla comprensione
intima e viva. Qua e là alcune utili osservazioni su la imprecisione dei termini borghesia,
proletariato e simili, e poi delle altre di maggior valore su la irriducibilità di tutta la società presente
alle due famose classi, data la sua più varia e complessa articolazione. A riscontro di tutto ciò, ecco
una singolare inettitudine ad afferrare un concetto così semplice; che, cioè, dato l'intreccio della vita
sociale, gl'intenti individuali possono esser tutti errati: la qual cosa induce l'A. a dire, che nel
marxismo la coscienza individuale si risolve in puro illusionismo (!). Gli repugna di credere, che le
leggi economiche seguano un processo naturale; - ebbene, si provi a cambiarne la successione
storica per atti di arbitrio. Rivendicata la spontaneità (ma quale?) delle forze che danno impulso alla
storia, e l'aristocrazia dello spirito filosofico, e detto come il determinismo marxistico sia una e sola
cosa col fatalismo, l'A. si confessa così: "Io spiego il mondo e la storia teisticamente" (p. 234). Deo
gratias!
Al pezzo forte ci siamo finalmente, cioè alla esposizione del mondo capitalistico (pp. 235-313), e
alla critica del comunismo e del processo della civiltà (pp. 313-86). Questo è dei socialisti il punto
essenziale, e su tale terreno soltanto è dato di combatterli. Ma l'A. era disceso dalle alture, e così
sia. Non saprei negargli - tanto per cominciare dalle conclusioni - una discreta parte di ragione, là
dove parla di soverchio primitivismo e semplicismo, specie per rispetto al tentativo dell'Engels nel
rifare in breve i punti principali della storia della civiltà. Il divenire dello stato, ossia della società
ordinata a classi, con le ragioni del dominio e dell'autorità, supposta la proprietà privata e supposta
la famiglia monogamica, ebbe modi varii di sviluppo nella storia specializzata e concreta, e non c'è
facilismo che tenga, nel provarsi a rendere plausibili gli schemi troppo semplici. Può darsi che dei
socialisti correnti al comodo argomentare vedan troppo semplificato l'intreccio della storia,
riducendo questa in breve volume; il che li induce a semplificar del pari con soverchio arbitrio
l'intreccio della società presente. Né certo giova di richiamarsi di continuo alla negazione della
negazione, che non è istrumento di ricerca, ma è solo formula riassuntiva, valida, se mai, post
factum. Certo che il comunismo, ossia il più o meno lontano approdo della società presente verso
una nuova forma della produzione, non sarà un parto mentale della dialettica subiettiva. E perciò
credo - son cortese di armi agli avversarii - non esserci che un solo modo di combattere seriamente
il socialismo, ed è quello di provarsi a dimostrare come il sistema capitalistico abbia in sé - per ora
almeno - tale indefinita forza di adattabilità, che tutti i movimenti proletarii si riducano in fondo a
meteoriche agitazioni, senza mai formare un processo ascensivo, che importi da ultimo, con la
eliminazione del salariato, anche quella di ogni dominio di classe. In cotesto intento critico-
dimostrativo si riassume, per es., la forza della scuola del Brentano e i suoi seguaci. Ma questo non
pare sia pane pei denti del signor Masaryk, il quale rivela tutta la sua inettitudine ad afferrare il
nesso economico della materia che ha per le mani, proprio nel capitolo che dedica alla critica del
sopravvalore (pp. 250-313).
Attraverso ad una rassegna bibliografica intorno alla vexata quaestio del divario fondamentale che
correrebbe tra il I e il III volume del Capitale, l'A. viene a rigettare come inesatta la dottrina del
valore-lavoro, e poi giù giù ad affermare, come Marx non potesse partire dal concetto della utilità,
perché il suo obiettivismo estremo lo rendeva alieno dalla considerazione psicologica (!). Dichiara
poi la sua opinione sul posto che l'economia dovrebbe occupare nel sistema delle scienze, data la
dipendenza sua dai presupposti di una sociologia generale. Rigettato il concetto della economia in
quanto scienza storica, riaccampa la pretesa di una scienza della economia, che, senza confondersi
con l'etica, abbracci tutto l'uomo, e non soltanto l'uomo lavorante. Sofistica su la impossibilità di
trovare una misura del lavoro, in quanto questo, alla sua volta, debba misurare il valore; e considera
il sopravvalore come una escogitazione tratta dalla ipotesi costruttiva delle due classi in lotta fra
loro. Per via di molti ripieghi scrive l'apologia del capitalista, in quanto è intraprenditore, cioè
lavoratore e direttore; e, mentre si scaglia contro la classe parassitaria e contro il commercio
ingannatore, postula un'etica la quale insegni a ciascuno la parte del suo dovere. Si compiace, da
ultimo, che Marx abbia scoverta l'importanza sociale dei lavoratori minuti; sebbene sia caduto in
quel discreto numero di spropositi, che il nostro autore va notando; come a dire, per es., la riduzione
del lavoro complicato al lavoro semplice, e soprattutto la strana opinione di credere alle lotte di
classe, mentre non c'è che lotta tra gli individui.
Ma se è cosa così facile il ridurre in polvere il materialismo storico, ma se le lotte di classe in
quanto principio di dinamica storica non sono che la erronea generalizzazione di fatti male intesi,
ma se l'aspettazione del comunismo è affatto utopistica, ma se le dottrine del Capitale sono di cosi
patente erroneità, ma se tutti i fondamenti sono oramai distrutti, perché l'A. s'affanna poi a scrivere
altre duecento pagine sul diritto, su l'etica, su la religione e così via, ossia su quei sistemi che
chiama ideologici? A me sarebbe bastato, p. e., ciò che è detto a pagine 509-19, in una specie di
pausa interposta alla rete fitta dei paragrafi, come per venire ad una certa maniera di giudizio finale,
al quale poi, per difetto di stile, manca pur troppo la concentrazione del pensiero nella concisione
degli enunciati. In questo tentato riassunto è come raccolta la caratteristica del marxismo, la qual
cosa dà maggior risalto alla tesi dell'autore. - Marx (questo è il succo della caratteristica), segna
l'estremo limite della reazione contro il subiettivismo, in quanto che per lui la natura è il prius e la
coscienza non è che resultato, dunque obiettivismo positivo assoluto; per lui la storia è l'antecedente
e l'individuo è il conseguente, dunque negazione assoluta dell'individualismo. La questione della
conoscenza è puramente pratica. Tra natura dell'uomo e storia umana c'è perfetta equazione. Non
c'è altra fonte di conoscenza dell'uomo, da quella in fuori che ci offre la storia. L'uomo è tutto in ciò
che l'uomo fa. Di qui il fondamento economico di tutto il resto. Di qui il lavoro come filo
conduttore della storia. Di qui la persuasione, che le varie forme sociali non siano, se non le forme
varie della organizzazione del lavoro. Di qui la veduta del socialismo non più come di semplice
aspirazione o aspettazione. Di qui il concetto del comunismo, non come di semplice sistema di
rapporti economici, ma come di una innovazione di tutta la coscienza, oltre i limiti di tutte le
presenti illusioni, e nell'assetto dell'umanesimo positivo. - Ma cotesto estremo obiettivismo
s'infrange ora nel ritorno a Kant, ossia nel criticismo. Marx fu incompleto. Non seppe superare
Hegel, non trovò l'espressione adeguata delle sue tendenze, ricadde nella romantica di Rousseau,
invano si provò a districarsi da Ricardo e da Smith, dei quali tentò la critica, e rimase autore di un
sistema incompleto. C'è in lui come una tragica filosofica. Fece servire a nuovi ideali le idee già
vecchie, non seppe trovare altre molle al rivoluzionarismo, se non negl'impulsi all'edonismo, e per
ciò rimase aristocratico ed assolutista nella sua passione rivoluzionaria.
Cotesti tratti, che sarebbero pennellate per chi disponesse della facoltà dello stile, questi tratti i quali
possono farci avvertiti del come corra attraverso tutta la storia una continua gran tragedia del lavoro
(13), lasciano impassibile il nostro autore nella sua accademica pedanteria. Lui non contrappone
concezione a concezione nel rapido sguardo di una nuova interpretazione dei destini umani, ma
obietta solo in nome "della missione del nostro tempo a ritrovare una nuova sintesi delle scienze"
(p. 513). - E qui di nuovo Hume e Kant, e la domanda: che è la verità? E poi si discorre della nuova
neoetica, che deve discendere scientificamente alla critica della società. La nuova filosofia deve
risolvere il problema della religione, che Marx credette d'aver superato, facendo di quella una forma
illusionale. Il pessimismo è la nota dominante del nostro tempo.
Schopenhauer s'avvicinò in parte al vero, nel fare della volontà la radice del mondo. Gli fece da
pendant Marx con la dottrina unilaterale del lavoro. Il marxismo ebbe il torto di rimanere negativo.
"Il Capitale non è se non la trascrizione economica del Mefistofele del Faust" (sic! a p. 516 - e chi
non mi crede vada a riscontrare!) Da ultimo sappiamo - se io ho ben capito - che nel ritorno a Kant,
e nel declinare dello spirito rivoluzionario verso il parlamentarismo, consiste l'essenziale della crisi;
ossia, l'inizio dell'epoca Masaryk nella storia del mondo.
Dunque Kant e il parlamento! Ma quale Kant? Quello della privatissima vita privata del signor
Philister di Königsberg? - o quell'altro autore rivoluzionario di scritti sovversivi, che parve ad Heine
un altro degli eroi della grande rivoluzione? E quale parlamento di ordinaria e
consuetudinaria fattura è chiamato a trasformare la storia? Diremo allora Kant e la Convenzione: -
ma questa succedette alla rivoluzione, cioè allo sgretolamento di tutto un sistema sociale, alla
rovina di tutto un ordinamento politico, allo scatenamento di tutte le passioni di classe... e basta. Il
signor Masaryk, come professionista di sociologia accademica, ha il diritto di ignorare quella storia
viva, agitata, impulsiva, passionata che piace a quegli altri mortali, i quali hanno il senso
simpatetico della realtà umana; e può perciò comodamente adagiarsi nella persuasione che il
periodo delle rivoluzioni è oramai sorpassato per sempre, e che siamo definitivamente entrati in
quello delle lente evoluzioni, anzi nell'idillio della quieta e rassegnata ragione.
E torniamo pure al suo casellario.
La scorsa su la dottrina dello stato e del diritto (pp. 387-426) è rivolta principalmente a combattere
la veduta secondo la quale quello e questo sono come delle formazioni secondarie e derivate per
rispetto alla società in genere. Lo stato esiste dalle origini della evoluzione, ed esisterà sempre per
ragioni che l'intelletto e la morale approvano (p. 405); e poi l'uomo "per naturale disposizione sua
non solo comanda volentieri, ma si lascia anche comandare, e volentieri obbedisce". Le
disuguaglianze naturali legittimano la gerarchia (p. 406). E sta bene! Ma dato ciò, perché affannarsi
poi a dimostrare, che il diritto non è derivabile dalle condizioni economiche; a che pro spendere del
tempo a combattere le dottrine egalitarie dell'Engels, e perché appellarsi alla solenne autorità del
Bernstein (p. 409), che avrebbe rimesso in onore lo stato (figurarsi, proprio in un articolo della
"Nene Zeit"!), come quella tal cosa che i socialisti non voglion più abolire, ma soltanto e
semplicemente riformare? Ma gli è tanto facile di trovarsi d'accordo col volgare senso comune, il
quale non si rifiuta di ammettere, precisamente come fa il nostro signor Masaryk, che vi sono
disuguaglianze giuste e di quelle ingiuste (sic!). Magari ci desse lui la misura giusta!
Passo sopra al capitolo intitolato nazionalità ed internazionalità (pp. 426-65) - dove l'A., oltre a
mostrarsi indignato per la slavofobia di Marx, fa delle utili osservazioni su quegl'impedimenti
all'internazionalismo, i quali nascono spontanei dallo spirito nazionale - per fermarmi un poco su
gl'insigni paradossi che pronuncia a proposito della religione (pp. 455-81). Qui ci si rivela qual vero
decadente. Cattolicesimo e protestantesimo sono ancora fatti arcivivi, e decisivi inoltre sulle sorti
del mondo! Anzi noi tutti siamo, o l'una cosa, o l'altra. Anzi tutta la filosofia moderna è protestante,
e non c'è filosofia cattolica se non per nefas (e il vostro Comte?). In Marx c'è un elemento cattolico,
non solo per aver egli adottato il socialismo francese, il quale è cattolico e repugna alla coscienza
protestante, ma perché fu autoritario, nemico della individualità, internazionalista e seguace
dell'obiettivismo assoluto (p. 476). Come la Rivoluzione Francese fu in gran parte un movimento
religioso, così un che di religioso è implicito a tutto il socialismo contemporaneo. Qua e là
s'accenna all'idea, che protestantesimo e cattolicesimo in un certo modo reciprocamente si
completino; - e può darsi che l'A. pensi che si prepari ora nel socialismo la religione dell'avvenire,
attesoché "la fede sia il più alto obiettivismo dell'uomo normale, e perciò ipso facto sociale; - ma
l'obiettivismo di Marx è troppo bilioso" (p. 480).
Se la religione è perenne, se lo stato è immortale, se il diritto è naturale, figurarsi poi se l'etica (pp.
482-500) non debba essere supereterna. L'A. rivendica alla coscienza morale il carattere del dato
indiscutibile ed immediato. Non mi soffermo a dichiarare come qualmente non occorra di essere né
materialisti della storia, né materialisti semplici, per relegare tra le fiabe cotesta opinione infantile;
e faccio perciò grazia all'A. delle citazioni degli articoli di riviste, nei quali i Bernstein, gli Schmidt
e simili socialisti avrebbero rivendicate le ragioni dell'etica contro l'amoralismo di Marx (p 497).
Taccio del socialismo per rispetto all'arte (pp. 500-8).
Per tutte coteste ragioni, leggendo ciò che l'A. scrive nella quinta sezione (pp. 520-85) intorno alla
politica pratica del socialismo, trattandone in due capi, intitolati l'uno rivoluzione e riforma, e l'altro
marxismo e parlamentarismo, ci si trova in presenza di un artefatto dottrinale della più bella specie
verbalistica. Che il socialismo siasi venuto sviluppando, in questi ultimi cinquanta anni, dalla setta
al partito, è cosa abbastanza nota. Che il comunismo imperativo e categorico di una volta, sia
divenuto la democrazia sociale, gli è altrettanto risaputo. Che i partiti socialistici spieghino
presentemente un'azione pratica varia e circostanziata, come gli è un fatto storico, gli è anche da
parte loro come un fare la storia. Che in tutte coteste cose si commettano degli errori, e ci siano
delle pratiche incertezze, gli è un fatto umanamente inevitabile: ma gli è anche vero, che, per
intenderle coteste cose, bisogna pur viverci dentro, e con occhio e con senso da storico osserva
tore. E che fa il signor Masaryk? Ma lui non vede che categoremi; - ed ecco come il
passaggio è tutto dal rivoluzionarismo sistematico alla negazione della possibilità di qualsiasi
rivoluzione, dal romanticismo all'esperienza, dall'aristocrazia rivoluzionaria all'etica democratica,
dall'imperativo categorico all'empirismo, dall'obiettivismo puro all'autocriticità, dal Titanismo al
non so che cosa, ma si sa solo che "Faust-Marx diventa elettore" (p. 562). Fortunati voi elettori
socialistici che completate Goethe! - E poi ecco qui uno specioso metodo: assumere la persona di
Marx (del quale non so perché l'A. dica d'ignorare la biografia! p. 517) come indefinitamente
prolungata attraverso tutti gli atti e tutte le manifestazioni dei partiti e della stampa socialistica, e
metter poi a carico del marxismo del signor Carlo Marx, come fossero i ravvedimenti e pentimenti
suoi proprii, le parole e gli atti di tutti gli altri. Ma pare che la Nemesi sia giunta - perché quel
benedetto Marx volle essere troppo diverse cose ad un tempo stesso, e cioè filosofo tedesco e
rivoluzionario latino, protestante e cattolico, - e la vendetta del protestantesimo è poi venuta (p.
566), cosicché gli è qui il definitivo motto della crisi, gli è qui il senso schietto del nuovo 9
Termidoro di Massimiliano Carlo Robespierre Marx.
Non varrebbe la pena di seguire l'A. là dove va racimolando in tutta la stampa socialistica, e negli
atti dei partiti, le prove della dissoluzione del marxismo per opera dei marxisti, che sarebbero come
un Marx prolungato. La tesi è che il socialismo diventa costituzionale. Per la tesi tutto è buono,
anche l'invocare la testimonianza di E. Ferri, il quale avrebbe detto, non so veramente dove, che la
repubblica è un privato interesse dei partiti borghesi. Dunque niente repubblica! E la speranza
dell'A. è questa, "che, perdendo il socialismo i caratteri acuti dell'ateismo, del materialismo e del
rivoluzionarismo, si venga in fin delle fini ad un verace democratismo, il quale acquisti le
proporzioni di una universale concezione della vita e del mondo. La politica di così fatto
democratismo sarebbe la vera politica della vita e del mondo, una politica sub specie aeternitatis"
(p. 585). Ed io, per parte mia, confesso di non capirci nulla.
Ho seguito, con insolita premura e pazienza - stante che il genere delle mie occupazioni mi tolga il
modo di leggere un solo libro tutto d'un fiato - le 600 pagine del signor Masaryk. Ne ebbi una viva
curiosità al primo annunzio. S'era tanto parlato e sparlato di crisi del marxismo da così gran numero
di persone di media ed infima, e, quasi sempre, incongrua coltura, che mi parve ci dovesse esser
molto da apprendere dall'opus magnum dell'autore della nuova parola d'ordine della scienza sociale.
La delusione che n'ho provata resulta da ciò che son venuto fin qui notando.
Certo che il signor Masaryk non ha niente che vedere con le varie specie di professionale ignoranza
e di audace gherminelleria, le quali han fatto fiorire, in poco d'ora, tanti critici definitivi del
socialismo in questo nostro felice paese, ove vegetano tante sorti di anarchismo morale ed
intellettuale. Non c'è di comune tra l'autore di cui mi occupo e cotesta così detta crisi del marxismo
in Italia, niente altro dall'etichetta in fuori, e cotesta etichetta è giunta
da noi certamente per via della stampa francese.
L'onesto e modesto intento del Masaryk fu soltanto quello di recitare l'elogio funebre del marxismo,
proprio in nome di un'altra filosofia. La materia da criticare l'ha raccolta in note di paziente e
minuta elaborazione; e in nome di che e a quale intento la critica sia stata poi da lui condotta,
apparisce chiaro da tutto il contesto, e perfino dal tono dimesso ed equanime. La questione sociale è
un dato - il socialismo è anch 'esso un dato - socialismo e marxismo oramai fanno uno (l'autore
ripete ciò più volte, e mi pare che sbagli di grosso), ma la questione sociale deve avere soluzioni
diverse da quelle aspettate dal socialismo-marxismo; dunque ritocchiamo, rifacciamo,
sconvolgiamo la Weltanschauung, che sta a base del marxismo, e giacché gli stessi marxisti, o
quasi, ne ridiscutono, entriamo da arbitri nella crisi.
Ciò che il Masaryk, proprio lui, veramente voglia in pratica, lo sapremo forse meglio un'altra volta;
ed io confesso, che, per parte mia, non mi struggo dal desiderio di saperlo. Ma questa lettura mi ha
fatto ripensare a tutto un secolo di storia delle idee.
Il positivismo, dalle sue origini è stato sempre alle calcagna e socialismo. Ideologicamente le due
cose nacquero, quasi a un tempo, nella mente indistintamente geniale di Saint-Simon. Furono come
il complemento, per antitesi, dei principi della Rivoluzione. La opposizione fra i due termini si
venne svolgendo nella variopinta discendenza saint-simoniana; e a un certo punto il Comte divenne
il rappresentante della reazione (aristocratica, direbbe il Masaryk), che dispensa agli uomini, nel
quadro fisso del sistema, il posto e la destinazione, in nome della scienza classificativa ed
onnisciente. A misura che il socialismo è diventato la coscienza della lotta di classe per entro
all'orbita della produzione capitalistica, e a misura che la sociologia, più volte mal tentata, s'è
venuta consolidando nel materialismo storico, il positivismo, da erede infedele dello spirito
rivoluzionario s'è chiuso nell'orgoglio della sovraeminente classificazione delle scienze, che
disprezza il concetto materialistico della scienza stessa, come di cosa mutabilmente consona al
variare delle condizioni pratiche, ossia del lavoro. Masaryk è un uomo troppo modesto per rimettere
in iscena il papato scientifico del Comte, ma è abbastanza professore per credere ancora alla
Weltanschauung, come a un qualcosa di sovrastante alla questione sociale degli umili lavoratori.
Giratela e voltatela quanto e come volete, c'è nel professore un che sempre del prete, che crea
l'iddio che poi adora, sia esso il feticcio, o l'ostia consacrata.
E ora possiamo dire d'aver capito.
Avrei la tentazione di citare qui alcuni luoghi dei miei scritti, dai quali resulterebbe chiaro in che
stia il divario tra la critica e la crisi. Ma al punto dove son giunto mi pare che basti.
Come la politica non può essere se non la interpretazione pratica e fattiva di un dato momento
storico, oggi appunto il socialismo ha innanzi a sé - parlo così per le generali, e senza tener conto
delle differenze che corrono fra i diversi paesi - questo problema veramente intricato e difficile: che
esso, cioè, mentre deve rifuggire dal perdersi nei vani tentativi di una romantica riproduzione del
rivoluzionarismo tradizionale (ossia, direbbe Masaryk, deve rifuggire dalla ideologia!), deve anche
guardarsi nello stesso tempo da quei modi di adattamento e di acquiescenza, che, per le vie delle
transazioni, lo farebbero come sparire nell'elastico meccanismo del mondo borghese. Gli è il
desiderio, la aspettazione, la speranza di tale acquiescenza da parte del socialismo, che hanno
indotto di recente tanti e tanti portavoce dell'ordine sociale presente a dare una straordinaria
importanza alle ovvie polemiche letterarie del partito, e cosi gran peso al modesto libro del
Bernstcin, che fu elevato di botto agli onori di un sintomo storico14. In questo fatto è la
caratteristica e la condanna, ad un tempo, così di quel libro, come di tante altre manifestazioni
affini: ma il signor Masaryk in tutto ciò non c'entra nulla. Il Masaryk, da professore in esercizio, ha
fatto della filologia attraverso alla carta stampata.
Roma, 18 giugno 1899
NOTE
(1) Cotesto studio genetico fu l'argomento e l'oggetto principale del mio primo saggio: In memoria
del Manifesto dei comunisti, il quale è appunto il preambolo indispensabile per la intelligenza di
tutto il resto.
(2) Alludo qui al pregevole scritto di K. Kautsky, Die Klassengegensätze von 1789.
(3) E' bene che io ricordi che la prima edizione di questo libro reca la data del 10 marzo 1896.
(4) Marx, Misère de la Philosophie, Paris 1847, p. 178.
(5) Id., Manifest der Kommunistichen Partei, London 1848, p. 16.
(6) Id., Zur Kritik der politischen Oekonomie, Berlin 1859, p. VI della prefazione
(7) Engels, E. D(hring's Umw(lzung der Wissenschaft, Stuttgart 1894, pp. 305-6.
(8) Die philosophischen und sociologischen Grundlagen des Marxismus - Studien zur sozialen
Frage, von Th G. Masaryk, Professor an der b(hmischen Universit(t Prag, Wien, C. Konegen, pp.
XV e 600, in-8° gr.
(9) Questa polemica apparve nel fasc. III dell'anno III (1899).
(10) Die wissenschaftliche und philosophische Krise innerhalb des gegenw(rtigen Marxismus, Wien
1898, pp. 24.
(11) Ivi, a p.24. - La medesima dichiarazione è ora ampiamente ripetuta nella chiusa del libro, e
specie alle pp. 591-92. Un'altra piccola nota alla fortuna delle parole! La crisi per entro è diventata
la crise du Marxisme nella traduzione francese di quell'opuscolo, fatta da Bugiel, Paris 1898
(estratto dalla "Revue internationale de sociologie", fasc. del luglio).
(12) Ossia nei numeri 239 e 240 del 20 aprile e 6 maggio 1899 della "Zeit" di Vienna. E così avea
anche fatto nell'ottobre dell'anno scorso, a proposito del messaggio del Bernstein al Congresso di
Stuttgart.
(13) Mi permetto qui di rimandare al mio Discorrendo, etc., lettera nona.
(14) A proposito del libro del Bernstein cfr. il mio articolo nel "Mouvement Socialiste", fascicolo
del maggio 1899.
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