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Francesco Guicciardini
Scritti minori
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Scritti minori
AUTORE: Guicciardini, Francesco
TRADUTTORE:
CURATORE: Palmarocchi, Roberto
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: Opere / Francesco Guicciardini.
Comprende:
VIII: Scritti politici e Ricordi
a cura di Roberto Palmarocchi
Collezione: Scrittori d'Italia
G. Laterza Editore,
Bari, 1933
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 14 giugno 2000
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it
REVISIONE:
Marina De Stasio, marinads@tiscalinet.it
PUBBLICATO DA:
Alberto Barberi
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Francesco Guicciardini
III
SCRITTI MINORI
I
[E
LOGIO DI
L
ORENZO DE
'
M
EDICI
.]
Lorenzo de' Medici morí lo anno 1492 a' dí... di aprile essendo di etá di anni 43 vel circa.
Cosimo avolo suo, uomo di singulare prudenzia e di grandissima ricchezza, ebbe tanta autoritá nel
governo della republica fiorentina, quanta possi avere uno cittadino in una cittá libera. Morto lui,
rimase Piero suo figliolo e padre di Lorenzo nella medesima grandezza, el quale fu uomo claro per
bontá di natura e per essere clementissimo. Morto Piero, e' cittadini tutti concordi perpetuorono a
Lorenzo suo figliolo la medesima autoritá e grado che avevano avuto el padre e lo avolo, nonostante
che non fussi di etá di piú che di 21 anno, ma di grandissima indole; dove lui si governò sempre con
tanta prudenzia e virtú che quella citragionevolmente non si è mai ricordata sanza lacrime della
sua immatura morte, perché a' tempi sua la fiorí di tutte quelle prosperitá che può avere una cittá, di
ricchezze, di imperio, di uomini virtuosi, di lettere e di tutte le arte buone, di reputazione, e sopra
tutto di una grandissima unione e concordia civile, la quale mentre che lui visse fu perpetua, eccetto
che nello anno 1478, nel quale e' Pazzi, famiglia potente nella cittá e nobile, e messer Francesco
Salviati arcivescovo di Pisa, fatta una coniurazione con occulto favore di papa Sisto e del re
Ferrando, amazzarono Giuliano suo fratello, e lui ferito con grandissimo periculo salvò la vita.
Sendo di poi puniti li autori, ne seguitò una guerra gravissima, perché Sisto ed el re
Ferrando, deliberando tentare apertamente e colle arme quello che non era potuto riuscire loro con
fraude ed arti occulte, mandorono uno potente esercito sotto el duca di Calavria e duca di Urbino
contro a' fiorentini. Durò questa guerra piú di dua anni e con fortuna varia, sendo e' fiorentini aiutati
dallo stato di Milano e da' vinitiani loro confederati, ed all'ultimo aiutandoli e' confederati
freddamente, cominciorono le cose loro a declinare; e perché el papa e re usavano dire che non
facevano la guerra per inimicizia che avessino con la republica, ma per odio particulare di Lorenzo,
parse a Lorenzo che fussi oficio di buono cittadino provedere che la patria per causa di lui solo non
corressi tanto periculo, e per questo andò personalmente a Napoli a trovare el re Ferrando, con
disposizione o di persuadere a quello re che li fussi piú a proposito lo essere suo amico che inimico,
o non potendo persuaderli questo, liberare col suo sangue proprio la patria da guerra tanto
pericolosa. Aiutò Dio la sua buona intenzione, in maniera che innanzi partissi da Napoli concluse la
pace, e contrasse con quel re una amicizia grandissima che durò mentre che visse.
Questa fu quanta infelicitá ebbe Lorenzo, la quale nondimeno si terminò bene, e vi si
conobbe drento la sua prudenzia, sendosi con uno partito tale liberato da gravi periculi, e lo amore
che e' portava alla patria, ave[ndo], perché quella stessi in pace, messa la vita propria in mano degli
inimici. Fuora di questo tempo fu tutta la vita sua piena di successi buoni e di gloria, perché nella
cittá accrebbe sempre con concordia ed unione universale la autoritá sua. solo vivente lui si
conservò lo imperio publico ma ancora si augumentò, perché si acquistorno per forza, di mano de'
genovesi, Petrasanta e Serezzana, terre di grande importanzia al dominio fiorentino; acquistossi
Fivizzano ed una grande parte di Lunigiana, parte comperata, parte lasciata da alcuni de' signori di
quella provincia, che morirono sanza eredi.
4
Nelle cose commune di Italia procurò sempre a conservare la pace ed a provedere che
alcuno de' potentati non diventassi grande che fussi pericoloso alla libertá de altri. Per questo,
quando e' viniziani feciono la impresa di pigliare Ferrara, parendoli che e' diventassino molto
potenti, confortò la cittá a pigliare la difesa di quello duca, alla quale benché ancora concorressino
el re Ferrando e lo stato di Milano e di poi all'ultimo papa Sisto, nondimeno li piú pronti e vivi aiuti
furono e' nostri. Seguí la creazione di papa Innocenzio, el quale nel principio prese la protezione di
alcuni baroni che si erano ribellati dal re Ferrando, in modo che lo stato di quello re si ridusse in
gravissimo periculo. Parve a Lorenzo che attesa la ambizione de' pontefici, tanta grandezza della
Chiesa sarebbe dannosa alli altri, e però confortò la cittá a defendere quello stato, ed eccitò al
medesimo el signore Lodovico governatore del ducato di Milano, quale procedeva freddamente, in
modo che quel re si conservò con grandissima gloria di Lorenzo; e poi che la potenzia de' viniziani
era maggiore che alcuna altra di Italia, ed era giá conosciuto lo appetito loro immodico del
dominare, lui per resisterli sempre si ingegnò che el re di Napoli, duca di Milano e la republica
fiorentina vivessino in unione e lega particulare, di che seguí la securtá e conservazione commune
di tutta Italia.
Per queste cose lui salí in tanta reputazione di prudenzia ed in tanta autoritá, che nelle cose
di Italia non si deliberava cosa alcuna grave sanza sua voluntá. Papa Innocenzio si lasciava in tutto
governare a lui. Nelle controversie che nascevano tra el re Ferrando e signore Lodovico, lui era
mediatore e compositore, e la fede che ciascuno di loro aveva nella prudenzia sua, e la paura che per
consiglio suo la cittá nostra non declinassi a una delle parte, operava che, benché tra loro fussi mala
voluntá, non si procedeva a maggiore discordie, in modo che lui era come uno temperamento della
male disposizione di Italia. Queste opere e processi sua dimostrono apertamente quale fussi la
prudenzia sua nelle cose delli stati.
Ma non fu minore lo ingegno e virtú sua in tutte le altre cose laudabili. Fu di natura
clementissimo: nel tempo che lui stette a Napoli, sendo opinione di molti che el re lo avessi a
ritenere, tentorono in Firenze alcuni cittadini nobili di mandarlo in esilio; a' quali tutti lui tornato
perdonò; solo perdonò, ma ebbe alcuni di loro tra li amici intimi, e fu operatore che fussino
esaltati alle prime degnitá della cittá. Così visse sempre con dimostrazione di religione, con
elemosine assai e con favorire supremamente le chiese ed opere pie.
Ma quello che li recò grandissima gloria fu uno amore ed ardore immenso che gli ebbe alle
lettere ed a tutte le virtú ed arte buone, per le quali non perdonando a spesa a fatica o
incommoditá alcuna, si ingegnò con premi e con speranze grande condurre a Firenze tutti li omini
eccellenti in qualunque spezie di dottrina ed arte. Fiorironvi a' tempi sua li studi di umanitá, e vi
furono molti uomini dottissimi; massime Cristoforo Landino, del quale sendo publico precettore
uscirono molti dotti come si dice del cavallo troiano, Bartolommeo Scala esaltato da lui e quale fece
eleggere con onorato stipendio per primo secretario della republica, e sopra tutti Angelo Poliziano,
quale sendo poverissimo fu da' teneri anni educato in casa sua e sumministratoli danari, libri ed ogni
commoditá alle lettere; e di poi crescendo la etá lo provide di entrate abundante. Quanto fu mirabile
nella dottrina platonica Marsilio Ficino! Ioanni Pico conte della Mirandula, miraculo della etá
nostra, allettato da tanta virtú di Lorenzo, venne a vivere a Firenze. Stettonvi molti anni a
interpretare le lettere greche, prima Demetrio, di poi Constantino Lascari, uomini a iudicio di tutti
singolarissimi; in modo che sotto questi precettori, e veduto in quanto prezio Lorenzo teneva li
omini dotti, tutta la nobilitá ed ogni spezie di giovani si dette alli studi. Fece in Pisa instituire uno
Studio publico di tutte le scienzie, dove con grandissimi salari invitò tutti li uomini dotti di Italia, in
forma che non rimase quasi uomo eccellente che non vi leggessi, e fu sanza dubio el primo collegio
di Italia.
Usava ogni diligenzia che tutti e' religiosi eccellenti nelle lettere sacre venissino a Firenze,
tra' quali amò singularmente messer Mariano da Ghinazzano, uno de' primi predicatori di Italia, a
contemplazione di chi, edificò allato alle mura uno bellissimo monasterio; fece una bellissima
libreria empiendola di quanti libri rari e preziosi potette avere; li parendo che in Italia fussino
molti libri greci, mandò in Grecia Constantino Lascari con commessione comperassi tutti e' libri
5
notabili poteva avere sanza guardare a spesa alcuna. Dilettossi oltre a questo assai della scultura,
della pittura, della architettura, dando guadagno ed emolumento a tutti li omini eccellenti in queste
arte; cosí della musica, e fece in Firenze ordinare una capella di cantori che forse non la aveva tale
alcuno principe cristiano. Finalmente fu di ingegno universalissimo in tutte le cose virtuose, ed uno
refugio e patrocinio di tutti li omini eccellenti in qualunque arte.
In coeteris el vivere suo fu civile e piú tosto da privato che da uomo di stato, come quello
che non voleva collo esemplo suo indurre li altri cittadini in uno vivere troppo suntuoso, e cosí in
tutta la conversazione sua viveva colli altri con quella umanitá, affabilitá e sanza fasto alcuno, come
se fussi stato uno di loro, e nondimeno quando a Firenze veniva qualche uomo claro di nobilitá e di
virtú, li faceva con conviti e con doni onore supremo, come quello che di liberalitá e di appetito di
gloria e di eccellenzia era equale a ogni principe. Con queste arte e virtú fu di tanta fama e
riputazione non solo in Italia ma eziandio apresso le nazione esterne, che fu cosa mirabile; e molti
re cristiani tennono in particulare amicizia grande con lui; solo in Cristianitá, ma eziandio alli
infedeli si sparse la gloria sua, in modo che el grande soldano di Babillonia mandò insino a Firenze
uomini sua a visitarlo ed a donarli una giraffa ed altri animali di quelle regioni.
Morí essendo Italia tutta in grandissima quiete e felicitá, la quale poco doppo la morte sua
cominciò a perturbarsi e venire in discordia, donde seguí la entrata de' franzesi in Italia e la ruina
universale; in modo che la morte sua fu calamitosa a tutti, perché è opinione de' savi che vivendo
lui, che era come uno censore delli altri potentati, non seguiva tanta disunione; in forma che non
sanza causa parse che e' cieli mostrassino molti prodigi della morte sua, perché pochi giorni innanzi
apparsono in cielo molti fuochi, sentissi urli per la aria, e la testudine di Santa Liberata fu fulminata;
e' lioni che sono inclusi in Firenze combatterono tra loro medesimi. La cittá, quale allora era in
somma felicitá di stato, di ricchezze e di reputazione, pianse la morte sua non altrimenti che di uno
padre publico, dolendosi ognuno che uno uomo tanto eccellente e che amava sí ardentemente la
patria, fussi morto giovane. Rimase in tanto lutto una sola consolazione, e questa è della speranza
che si aveva de' figlioli, massime del secondogenito messer Giovanni cardinale, nel quale, benché
allora fussi di etá molto tenera, si vedeva tale indole ed apparivano tali segni di probitá e di virtú,
che e' fussi insino a allora opinione che e' non avessi a essere inferiore al padre, ed una espettazione
ferma di tutti che avessi a essere ornamento di quella degnitá e della Chiesa di Dio, e che se venissi
mai tempo che el sommo pontificato si dessi per virtú, non per ambitione e corruttele, che vivendo
lui insino alla etá conveniente avessi sanza alcuno dubio a essere eletto.
6
II
S
E SIA LECITO CONDURRE EL POPULO ALLE BUONE LEGGE
CON LA FORZA NON POTENDO FARSI ALTRIMENTI
.
Questa quistione pare prima facie che abbi poca difficultá e poche ragione da disputarla,
perché nessuna cosa è piú contro alle legge e contro alla libertá della cittá, che è la forza. Non sono
tutte le leggi fatte ad altro effetto che per rimuovere la forza e volere che la voluntá di uno uomo
particulare non possa piú che la ragione. Lo essere la cittá libera e deliberare liberamente,
presuppone che la determini da medesima a posta sua e secondo li pare; lo usare la forza,
presuppone che la abbi a regolarsi in tutto ad arbitrio di altri e nel tempo e nel modo. Chi adunche
vuole condurre el populo con la forza usa uno modo contrario alla sustanzialitá della libertá, e
volendo conservare el buono vivere e le legge comincia a guastarle. Non può essere ancora cosa
alcuna di piú vituperio ed infamia a una cittá libera che lo intendersi che la sia forzata e violentata,
perché li toglie quello splendore e quella gloria che li dá lo essere lei in libertá. Male adunche si può
giovarli colla forza, poi che si li toglie lo onore: ed è come uno medico che volessi sanare uno
infermo e li dessi una medicina che lo offendessi. Aggiugnesi, il che non debbe essere di poca
considerazione in chi governa le republiche, che quando bene colla forza si facessi qualche cosa che
fussi di sommo beneficio alla cittá, che si introdurrebbe uno esemplo pessimo; e si darebbe
occasione a chi volessi ne' tempi futuri fare alterazione nella cittá, di procedere alle arme ed alla
forza con colore di volere fare bene, e giustificarsene collo esemplo passato; come communemente
tutti li esempli cattivi sono nati ed hanno preso autoritá da' princípi buoni. Chi adunche mette mano
alla forza perverte le legge e la libertá, fa vergogna alla cittá sua, e occasione a chi verrá in altri
tempi di potere sotto lo scudo suo fare male alla patria.
Da altro canto si può considerare, (presupponendo che lo stato della republica sia in uno
termine che non si riparando la conduca in una ruina certa, si possi per le corruttele della cittá o
divisione de' cittadini darli remedio se non col constrignerli), che gli è pure meglio provedere con
modo estraordinario alla salute publica che lasciarla ire in perdizione. Le legge medesime se le
potessino parlare consentirebbono in questo caso di essere violate una volta per cavare di questa
violenzia la sua perpetua conservazione, le quali tutte sogliono in ogni proibizione eccettuare e' casi
della necessitá. E certo non si può dire che guardi le legge quello che per non contravenire loro le
lasci rovinare, si può dire amatore della libertá chi, perché la non sia violata, la lascia perdere.
Denominansi tutti li atti delli uomini o buoni o mali secondo el fine loro, e però non si potrá dire se
non buona e lecita forza quella che si fa a fine di levare la forza. Nessuna legge della natura è piú
forte e legata con piú vinculi che la congiunzione della anima col corpo, il che si dimostra per
vedere quanto sia dura ed aspra la separazione; e nondimeno molti uomini preclarissimi nelli antichi
tempi, per non stare in servitú e per non vedere perdere alla patria sua la libertá, la roppono
sciogliendola violentemente e privandosi della vita da loro medesimi.
Dicono questi sacri scrittori che el modo del procedere di Dio è secondo lo ordine delle cose
naturali, el quale quando non basta a condurre una cosa al fine destinato, allora, lasciati e' modi
ordinari, viene alli estraordinari, e le conduce a perfezione con miracoli e con termini sopranaturali.
Cosí a proposito vedendo uno buono cittadino la perdizione della sua patria e conoscendo quale sia
el riparo, debbe innanzi a ogni cosa pensare se e' lo possi introdurre colle persuasioni e co' modi
civili ed usitati nelle republiche; e' quali quando non servono ed è necessaria la forza, debbe piú
tosto usarla che lasciare perdere el tutto, e fare un poco di violenzia breve alle legge ed alla libertá
per conservarle lungamente. E che questa opinione sia vera, lo mostra oltre alla ragione, lo esemplo
di Licurgo, el quale non con altro modo dette principio a quelle legge memorabile che colla forza e
colle arme; omo certo santissimo ed ammirabile, e che, essendosi mosso sanza alcuno respetto di sé,
ma solo per el beneficio publico, non arebbe tentata questa via se non la avessi conosciuta lecita o
permessa.
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Concludo adunche che questa sentenzia sia piú vera, e che e' sieno da imitare e' buoni medici
che, quando non possono sanare la piaga con unguenti e medicine dolci, vengono al ferro ed al
fuoco; ma bene concludo ancora che chi si trova in una cittá libera debbe quanto e' può procurare
che nessuno pigli tanta autoritá che e' possa usare a arbitrio suo e le legge e la forza; debbe
assicurarsi per averlo conosciuto ne' tempi passati buono ed amatore della patria, perché li omini
sono fallacissimi, ed anche el potere fa molte volte volere; e la vera sicurtá che uno non abbi a fare
male, debbe essere fondata che e' non possa, non che e' non voglia.
8
III
S
E LO AMAZZARSI DA SÉ MEDESIMO PER NON PERDERE LA LIBERTÁ O PER NON VEDERE LA PATRIA IN
SERVITÚ PROCEDE DA GRANDEZZA DI ANIMO O DA VILTÁ
,
E SE È LAUDABILE O NO
.
Con tutto che questa disputa sia oggi sanza difficultá, attesa la determinazione della legge
cristiana che proibisce alcuno farsi forza da medesimo, dare termino alla sua vita fuora del
tempo e del modo destinato da Dio; nondimeno volendo esaminarla colle ragione naturale e
posposta la reverenza della fede cristiana, non si può negare che la non abbi molto dubio, ed è stata
lungamente ventilata con vive ed acute ragione nelle scuole delli antichi filosofi ed uomini dotti, e
tra li altri molto lucidamente da Cicerone e Cesare; approvata ancora colla autoritá di sommi
uomini, de' quali altri amazzandosi, altri reservandosi a migliori tempi, hanno fatto questa quistione
piú dubia e piú oscura. La quale arebbe sanza controversia bisogno di essere discussa da piú sottile
ingegno e da uno che fussi assuefatto nelle scuole della filosofia, della quale io non lessi mai libro;
ma faccendosi questo discorso da me per esercizio proprio e non per utilitá di altri, basterá che io ne
parli grossamente e solo con quelle ragioni che naturalmente mi occorrono.
E' non si può negare che ciascuno che si amazza da medesimo in qualunque de' casi
proposti, non lo facci per fuggire qualcosa, la quale lui riputa male e la teme. Verbigrazia chi si
amazza per non vedere o la patria o la persona sua serva, lo fa perché li stima che la servitú sia male
e teme delli incommodi di quella, e con tanta poca misura che el timore lo strigne a volersi più tosto
privare della vita e rimanere sanza senso, che sentire e gustare quel male che si presuppone esservi
drento. La radice e la origine adunche di questo amazzarsi è fondata principalmente in sul temere e'
mali, e' quali lui amazzandosi vuole fuggire; e però è necessario dire che e' proceda da viltá e da
mancamento di animo, perché non si ardisce a potere sofferire e' mali che e' crede essere nella
servitú. Né si può dire che e' non sia el timore, ma lo amore della libertá che lo induca a fare, perché
questo amore della libertá ha di necessitá fondamento in sullo odio della servitú; conciosiaché lo
amore e l'odio sieno correlativi, né possino essere l'uno sanza l'altro, cum sit che presupposto alcuno
avere amore a una cosa, ne séguiti che li abbi in odio el contrario, e cosí e converso; e però chi è
mosso da amore della libertá, è in uno medesimo tempo e modo mosso da odio della servitú,
amando quella per giudicarla cosa buona, questa avendo in odio per giudicarla cosa mala; e dove è
lo odio è la paura di quello che l'uomo odia, e consequentemente bisogna confessare che e' vi sia la
paura della servitú e de e' mali che si presuppongono essere in quella. Di questo séguita
necessariamente che chi si amazza per fuggire la servitú sua o della patria, è originalmente mosso
da paura e da timore, e non si può dire che la sia grandezza di animo ma viltá.
Questo medesimo si conferma vivamente, perché non è dubio secondo la sentenzia
commune di tutti, che nessuno male è da equiparare alla morte, la quale dissolve la anima dal corpo,
che è el maggiore e piú forte vinculo che abbino li uomini, e però dissono e' filosofi che la morte è
lo ultimo di tutte le cose terribili, e certamente la povertá, la vergogna e la servitú è minore male
che la morte, perché alli uomini è naturale lo essere e lo appetito di essere, e da chi ne parla colla
ragione, è preeletto el male essere al non essere; e però disse qualche scrittore santo che e' dannati
nello inferno, dove non è speranza alcuna in perpetuo di redenzione, non muterebbono la
condizione loro al non essere, tanto naturalmente è appetito dalli omini lo essere. E però séguita che
chi elegge la morte per schifare la servitú elegge uno maggiore male per fuggire uno minore, il che
procede da stimare e reputare la servitù maggiore male che la non è, ed averne piú paura che non si
debbe e che non è ragionevole. Non si può adunche dire che e' proceda da generositá di animo,
perché el primo articulo dello uomo animoso è di non si fare una cosa piú terribile che la sia, e chi
incorre in questo defetto manca di animo, ed è necessario dire che abondi la timiditá. Questa
ragione conchiude non solo che sia sanza animo e pauroso, ma che e' pecchi ancora nel giudicio,
stimando uno male maggiore che e' non è, ed eleggendo di volere più tosto uno male grande che
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uno minore; e puossi comparare a uno che vuole più tosto due ferite che una, il che chi facessi
sarebbe sanza dubio reputato stulto da tutti li omini.
Confermasi questa opinione medesima con una altra ragione, perché chi, venendo in servitù,
o lui o la patria, sperassi che la libertá si potessi qualche volta recuperare e che questo male avesse a
essere temporale, sanza dubio più tosto eleggerebbe la servitù, aspettando che la avessi in processo
di tempo a finire, che la morte la quale sa essere male perpetuo. Lo amazzarsi adunche per simile
ragione è spezie di desperazione, la quale viene da mancamento di animo e da troppa timiditá,
massime quando si perde la speranza che e' si variino quelle cose che non sogliono mai stare
lungamente ferme: veggiamo le cose umane e massime delli stati andarsi tuttodí alternando, e dove
è oggi la vittoria e lo imperio, essere domani la perdita e la servitù, ed e converso; e quello che è
più, venire spesso queste revoluzione e queste tempeste in tempi che non pare se ne vegga alcuno
segno, e contro alla opinione di tutti li omini; e però chi ne perde la speranza piú che sia
ragionevole, bisogna che nasca da essere troppo timido e pauroso.
Ultimamente non si può negare che lo amazzarsi, oltre al tôrre alla persona propria ogni
occasione di tornare allo stato desiderato, è ancora dannoso ad altri; e massime quando l'uomo lo fa
per non vedere la servitù della sua patria, alla quale potrebbe molto piú giovare vivendo ed
aspettando qualche occasione di poterla ridurre alla libertá ed al suo stato antico, che togliendosi la
vita; e però non so come si possa dire amatore della patria quello che col fare male a sé medesimo si
toglie ogni facoltá di poterla mai in tempo alcuno aiutare; come possa lodarsi questo amazzare,
procedendo da poco animo per temere troppo e' mali della servitú, da poco giudicio per non pesare
quanto grande male sia la morte, e faccendo nocumento a con danno di altri; ed in effetto pare
molto più da commendare quello che animosamente sopportando ogni difficultá della servitù, si va
preservando di potere a qualche tempo godere la libertá.
Da altro canto si legge che nelli antichi tempi molti uomini tenuti grandi e generosi si sono
spontaneamente amazzati, non solo per fare qualche beneficio grande alla patria, come feciono e'
Decii, del quale caso non occorre parlare perché è diverso dal tema proposto, ma ancora ne' nostri
propri termini, sanza utilitá alcuna del publico, solo per fuggire la servie non volere vivere in
patria non libera. Di questi fu capo apresso a' romani, Marco Catone, uomo di singulare virtú e
constanzia, el quale, avendo sempre con grande animo stimato poco el giudicio della moltitudine, le
repulse ed altre infamie civili, e prese per utilitá della citmolte inimicizie, per non vivere nella
patria serva per beneficio di altri, si amazzò in Utica. Seguitollo Marco Bruto suo nipote, uomo
eruditissimo nelli studi di filosofia, e di tanta prudenzia e gravitá che era chiamato ornamento della
gioventú romana. Costui, con tutto che doppo Cesare avessi el primo grado della cittá, non potendo
per generositá di animo soportare che la patria sua servissi, si fece capo della coniura contro a lui; e
di poi essendo el popolo romano per la collegazione di Marco Antonio ed Ottavio ricaduto in
servitú, venne a giornata contro a' tiranni ne' campi Filippici, ed essendo rotto (con tutto che non li
mancassi facoltá di potersi fuggire e forse qualche speranza di rifare nuovi eserciti, o almeno
salvarsi in molte parte di Oriente che non erano sotto lo imperio romano, né li mancassi speranza di
potersi forse con qualche tollerabile condizione reconciliarsi colli inimici, massime per qualche
amicizia avea con Antonio), nondimeno volle piú tosto tôrsi la vita, che vivendo in servitú e
vedendo servire la patria, seguire speranze incerte.
Costoro essendo uomini prudentissimi, non è da credere non conoscessino quale fussi
maggiore male, o la servitú o la morte; è da credere che avendo fatto in tutta la vita sempre
dimostrazione di animo grandissimo, pigliassino partito di amazzarsi per timiditá, e tanto piú che la
morte è di sua natura tanto terribile e tanto contraria al desiderio naturale di tutti li uomini, e' quali a
una voce appetiscono el vivere, che e' non pare credere che chi non ha paura della morte possi avere
paura di altra cosa. Non è adunche in modo alcuno da dire che uomini tanto eccelsi e generosi si
dessino la morte per paura de' mali che si vedevano preparati in vita, perché mancassi loro el
cuore a soportarli; ma che piú tosto si movessino da una certa grandezza e generositá di animo, la
quale, essendo loro assueti a vivere liberi e con onore, li movessi veementemente che si
sdegnassino volere vivere in servitú e mancare di quella gloria e libertá nella quale erano nati e
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nutriti. La vita in sé è da essere desiderata, e da fuggire quanto si può la privazione di quella;
nondimeno non essendo perpetua ed avendo di necessitá ciascuno a morire, è da essere preposta la
vita breve con onore, alla lunga con ignominia; e chi è uso a vivere gloriosamente e dependendo da
solo, debbe con ogni modo e via fuggire la perdita della gloria sua, e di avere contro a ragione a
umiliarsi ed inclinarsi a altri. debbe nascere questo appetito per paura di non potere soportare e'
mali che sono in quello che lui fugge, ma per non volere maculare la gloria e generositá con che gli
è vivuto.
Non mancava a Catone, Bruto e molti altri simili, ingegno e facultá di sapere vivere in
servitú, non arte o industria di sapersi umiliare ai tiranni; temevano, venendo in potestá loro,
tanto di cruciati o tormenti che per questo volessino prevenire, erano tanto inesperti delle cose
umane, massime avendo veduto nella etá loro tante e sí spesse mutazione nella republica sua, che e'
non conoscessino potere essere che questi mali non fussino perpetui, e che vivendo vedrebbono
forse uno giorno tornare la patria in libertá. Ma considerando che e' non era in potestá di alcuno
conservarsi sempre la vita, ma lo onore e la gloria sí, e parendo loro che e' fussi suo grandissimo
vituperio ubidire, servire e stare sudditi, per iniquidella fortuna, a chi secondo le legge della
natura e civile, loro erano pari, vollono conservarsi la gloria col tôrsi la vita; non perché mancassi
loro lo animo di potere sostenere la servitú, ma perché stimorono piú el mantenersi per sempre la
gloria e lo onore, che la vita per poco tempo.
Potrebbesi in questo, forse disputare se e' mancò loro giudicio a stimare suo vituperio o
ignominia lo ubidire sanza loro colpa alla necessitá della fortuna; ma presupposto che a loro sarebbe
stato vituperoso el vivere cosí, non si può al parere mio mettere in dubio se e' mancassi loro lo
animo; anzi attribuire a una somma generositá lo stimare piú la gloria e reputazione sua che la vita,
sendo quella perpetua, questa temporale; quella procedendo da virtú propria, questa da regola della
natura. E quanto la morte è maggiore male e piú terribile, tanto piú è da laudare ed ammirare la
constanzia e grandezza loro, che per conservare la gloria sua non la temessino; è da essere in
considerazione el potere sperare che qualche volta si recupererrebbe la libertá, perché questo non
toglieva che vivendo una volta in servitú e stando sotto al tiranno, la gloria loro non fussi maculata,
la quale non tornava colla recuperazione della libertá, sendo giá scoperta la bassezza dello animo
loro di potere soportare di avere ubidito e vivuto sotto el tiranno.
Queste ragione mi occorrono per la una parte e per l'altra, ed a giudicio mio non si può
negare, posposta eziandio la autoritá di tanti uomini, che la non fussi grandissima generositá di
animo; se bene si potessi forse disputare se tale generositá era bene moderata o no.
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