si credeva maggiore di essi e si sdegnava di dover ubbidire a così fatti. E l'oppressione scendeva sino
a le ultime classi del popolo; ed in ogni paesello il prete ed il gendarme regnavano spietati su le
misere genti, e con arbitri, estorsioni, e soperchierie d'ogni maniera, pungevano ed irritavano chi stava
sotto. Nel Lombardo-Veneto c'era lo straniero, che è peggiore di ogni tirannide paesana; ma lì lo
straniero era forte, non stolto, puniva feroce ogni reato politico; ma favoriva la buona
amministrazione interna, ed era giusto con tutti fra certi limiti: lì erano come due campi, in uno gli
stranieri, nell'altro il popolo tutto unito che pur faceva qualche buona cosa da sé, e non si moveva
facilmente perché capiva che non poteva togliersi facilmente dal collo un esercito straniero. Noi altri
per contrario si aveva la tirannide fraterna, che è la più crudele fra tutte, e non era Ferdinando il
tiranno, no, ma il prete, il gendarme, il giudice regio, il ricevitore, qualunque impiegato con potere,
che non ci lasciavano un'ora di pace, che continuamente, ogni giorno, e in piazza e in casa ci stavano
ai fianchi, e ci dicevano come il ladro: "O dammi o ti pungo". Questa oppressura corrompe una
nazione sin nelle ossa. Tutti se ne lamentavano, finanche gli oppressori piccoli che erano schiacciati
dai grossi: onde ciascuno era persuaso che se pochi arditi levassero una bandiera e si mantenessero
per quindici giorni, gli oppressi, che erano tutti, correrebbero a loro e rovescerebbero un governo
stolto e malvagio. Questa persuasione spiega i moti napoletani tanto frequenti, i quali senza essa
sarebbero una pazzia. Basta cominciare, e durare un po', si diceva da tutti, e non mancavano uomini
arditi che rispondevano: "Cominceremo noi", e se fallivano, nei incolpavano la fortuna, e c'erano altri
pronti a ritentare la pruova. Era giusta quella persuasione? A quelli che vogliono il bene soltanto da la
mano di Dio pareva di no; agli animosi pareva di sì, ed ebbero ragione dal tempo.
Mentre noi eravamo ancora in carcere nel 1841 la città di Aquila levò il grido di costituzione.
Avevano presi accordi coi paesi vicini, e con altre città degli Abruzzi, e con Napoli dove dicevano che
un reggimento nella festa di Piedigrotta dell'8 settembre si solleverebbe, ed essi l'8 settembre si
sollevarono, e uccisero il comandante le armi della provincia colonnello Gennaro Tanfano
odiatissimo. Ma né i paesi vicini, né Napoli si mosse, e gli Aquilani rimasti soli provvidero ai casi
loro, e i capi si salvarono con la fuga. Fu spedito all'Aquila un generale, e furono tratti innanzi la
commissione militare centotrentatré accusati, ne furono condannati cinquantasei, quattro fucilati. Il
governo sospettò che il marchese Luigi Dragonetti avesse dovuto aver parte in questo affare, ma non
avendo pruove, si contentò di relegarlo tra i frati di Montecassino.
Fallito il tentativo dell'Aquila, ecco Cosenza offerirsi pronta a ritentare la pruova. Ci erano simiglianti
accordi, ed il disegno di entrare in Cosenza, farvi la rivoluzione, e poi ritirarsi su i monti, e formare
bande, e chiamare all'armi le Calabrie, la Sicilia, il regno. Il 15 marzo 1844 una mano di giovani
armati entrano nella città, percorrono tutta la via della Giostra, si fermano a Portapiana dove piantano
la bandiera tricolore, e attendono i compagni. I gendarmi dopo qualche esitazione escono comandati
dal capitano Galluppi, figliuolo del filosofo, il quale li assale a cavallo. "Capitano, ritiratevi, noi non
l'abbiamo con voi, e non vogliamo sangue", disse una voce. Ma il Galluppi spronò il cavallo, e una
palla lo colpì in un occhio e lo fece cader morto. Cominciarono le fucilate: la bandiera fu difesa
ostinatamente e vi morirono cinque intorno. Caduta la bandiera i giovani si dispersero e uscirono della
città, e ciascuno si nascose, e parecchi non furono conosciuti. Si venne agli arresti, ed al giudizio della
solita commissione militare: sette furono fucilati: altri quattordici condannati a morte furono per
grazia mandati all'ergastolo, molti altri in galera diversamente tormentati.
Intanto in Napoli la polizia arrestò Carlo Poerio, Francesco Paolo Bozzelli, Matteo de Augustinis,
Mariano d'Ayala, Michele Primicerio, Cosimo Assanti, Damiano Assanti, ed altri, creduti capi ed
ordinatori di tutte le rivoluzioni, e li chiuse in Castel sant'Elmo.
La rivoluzione di Cosenza, anche per questi arresti, levò un certo grido, ed i giornali ne parlavano, ed
un giornale di Malta, Il Mediterraneo, dando come fatto ciò che era stato disegno, diceva che gl'insorti
s'erano ritirati su le montagne, che erano mille e cinquecento, che in vari scontri avevano vinti e messi
in fuga i soldati del re, che le Calabrie erano tutte sollevate; "oh, chi va ad aiutare e guidare quei bravi
calabresi?" I fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, e Domenico Moro, veneti, uffiziali nella marina
austriaca, e affiliati a la giovane Italia, si lasciarono prendere a queste bugie; ed impazienti e generosi,
credendo giunta l'ora della grande insurrezione nazionale, disertarono, andarono a Corfù, dove si
unirono al Ricciotti, al Nardi, e ad altri esuli italiani, e preso a guida un bandito calabrese detto il
Nivaro, colà rifuggito, sbarcarono a la foce del fiume Nieto, e s'indirizzarono verso San Giovanni in
Fiore in giugno di quell'anno 1844. Subito il bandito sparì. Come in San Giovanni in Fiore si seppe