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mandategli, aggiungendo che conosceva le cose sue, perché «l’avidità del pubblico,
la quale fa le veci di stampa per ogni suo nuovo componimento, serve benissimo la
mia». Ed aggiungeva: «Son chicche che non possono esser fatte che in Toscana, e in
Toscana, che da lei, perché se ci fosse pure quello capace di far così bene imitando,
non gli verrebbe in mente d’imitare Costumi e soggetti, realtà e fantasie, tutto
dipinto; pensieri finissimi che vengon via naturalmente come se fossero suggeriti
dall’argomento; cose comuni dette con novità e senza ricercatezza, perché non
dipende da altro che dal vederci dentro certe particolarità che ci vedrebbe ognuno
se tutti avessero molto ingegno; e questo è il di più in un piccolo dramma popolato
e animato e con uno scioglimento piccante, e fondato insieme su una generalità
storica.» Meglio di così non si poteva definire la satira del Giusti. Il Manzoni
deplorava poi la satira personale (1) e quel che toccava la religione. Intorno alla
personalità delle satire, abbiamo già spiegato in qual modo la consideriamo; ma il
Giusti faceva la seguente dichiarazione che non è rigidamente esatta: «L’autore
protesta una volta per sempre che non ha preso né prenderà mai di mira né una
data persona, né un fatto particolare, purché non vi sia compreso l’interesse di tutti,
come nell’Incoronazione, nel Congresso dei dotti, ecc. Egli abborre dalla satira
personale per tre ragioni: perché offende la convenienza sociale; perché restringe il
cerchio dell’arte; perché i più tra i bricconi e tutti i figuri ridicoli non meritano
neppure un’infame celebrità.»
In mezzo alle lodi che venivano tributate al poeta satirico, questi non lasciava
passar giorno senza esprimere il suo dolore per dover adoperare la sferza,
protestando d’esser nato per cantar le dolcezze dell’amore. «Se la smania di
ostentare (scriveva al prof. Pacini) dolori e disinganni, moda attuale, non mi fa
ombra alla mente, io era nato per le miti affezioni e inclinato a quella dolce
malinconia che ti mette nell’animo il bisogno d’amare e
(1) Il Giusti rispondendo al Manzoni, scriveva: «A nominare i principi avrò fatto male, ma non
so farmene scrupolo perché ogni fedel galantuomo parlando di sé dice io, ed essi dicono noi, e chi
dice noi non è uno, ma rappresenta il parere di un ceto di persone, ovvero uno stato di cose: si dice
Filippo o Niccola per dire il governo di Francia o di Russia. Parlando poi sul serio mi pare che certi
principi sul taglio dei nostri, certi insigni furfanti come il Canosa o certi furfanti ridicoli come il Balì
Samminiatelli, son nomi che appartengono per la parte brutta alla storia contemporanea, e chi li
trova notati d’infamia o di ridicolo, pensa meno alle persone che li portarono, che alle furfanterie
fatte al tempo loro e per le loro mani. Confesso nondimeno che potevo risparmiare anche questi, e
difatti da una volta in poi non li ho più toccati; e quando gli toccai, cioè nel 32 e nel 38, le piaghe
erano fresche.» Il Giusti cercava uncini legulei, mentre poteva lealmente sostenere l’opportunità di
aver fatto quei nomi di principi e di satelliti. Nello scrivere poi che dopo il 38 non aveva fatto più
satire personali a principi, dimenticava quella molto fiera scritta nel 1841 nella canzone per il,
ritratto di Dante.
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d’essere amato. In quel tempo (a sedici anni) se mai qualche volta mi mossi a
cogliere un fiore nei campi varî della poesia, i miei passi andavano piuttosto verso i
giardini di Valchiusa, che verso gli orti del Berni. Ma le Madonne Laure che
incontrai in quegli amorosi sentieri, o non ebbero dell’antica se non quella
artificiosa irresolutezza, quella civetteria semibacchettona che fecero perdere il
tempo e qualche volta il giudizio al più tenero dei nostri poeti, ovvero furono così
antiplatoniche che Pietro Aretino sarebbe stato per esse un Petrarca troppo onesto.
Oltre a questo, guai a chi fa all’amore coi versi. I versi hanno un suono troppo lieve
e passeggero e le donne amano suoni forti e durevoli» (1). Prosegue dicendo che
scrisse in seguito poesie politiche coll’entusiasmo di ventun’anni; ma quando vide
che certi suoi condiscepoli più caldi di lui, a parole, di amor patrio e di libertà,
dopo pochi mesi aver predicato da tribuni nelle osterie e nei caffè, convertiti a un