VI.
In che maniera allarmante abbia cominciato a riprosperare il brigantaggio nelle provincie
meridionali dopo l’avvento di Garibaldi si può conoscere spogliando specie quel Giornale di Napoli
che, da borbonico ch’era stato, ora si mutava, mutatis temporibus, in una patriottica gazzetta
cittadina. Fu dal 1861 che, nella rubrica della cronaca locale, v’occupò, fin quasi agli scorci del
1864, non piccolo spazio la continua narrazione delle gesta di nuove bande armate che s’erano
andate organizzando appena l’ultimo de’ Borboni aveva dovuto riparare a Roma.
Chi si mettesse, per avventura, a scriver di que’ tempi e di que’ fatti potrebbe ben comporne,
ricostruendoli tutti quanti sulle sincrone e particolareggiate narrazioni che ne sono andate stampate
o si sono udite da spettatori di quelle orribili scene, meglio di una dozzina di volumi. E in questi,
documentata ed esposta da un critico sereno, potrebbe non pure la storia ma ritrovarsi la psiche delle
nostre provincie, tra la cui gente primitiva, ancor oggi separata in buona parte dalla civiltà morale,
non si potrebbe nemmeno adesso dir che questa sia penetrata in tutto.
Tutto, ancor cinquant’anni addietro, favoriva in questi paesi il brigantaggio: la povertà degli
agricoltori, la rapacità e la protervia signorile, la supina ignoranza degli abitatori, la mala influenza
del prete, la superstizione, il fanatismo. Un libro, publicato dal conte Alessandro Bianco di Saint-
Jorioz, nel 1864 capitano nel Corpo Reale di Stato Maggiore Generale, descrive que’ tempi e quelle
scorrerie senza riguardo a nomi e a cose, e pare un ferro rovente accostato a una piaga. Un altro
libro, che s’intratterrà particolarmente della reazione del Melfese e del brigantaggio ha in corso di
stampa in questo momento il dottor Basilide del Zio, che ha già publicato, co’ ritratti del Crocco e
del Caruso, un interessante volume intorno alle loro confutabili autobiografie
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. Quello del capitano
Massa già mi fornisce molte e curiose notizie sul famigerato brigante di Rionero in Vulture, che, a
quanto il Massa ne scrive, continuò a mettere assieme i suoi ricordi, nel bagno di Santo Stefano, a’
27 di marzo del 1889.
Il padre di Crocco era pastore e contadino: sua madre, Maria Gera, era una donna di grande
bontà d’animo. Si alzava all’alba, preparava la bisaccia del marito, rassettava la casa, curava i suoi
cinque figliuoli e poi si metteva a lavorare, tranquilla. Siamo al 1836, in aprile. I due primi figliuoli
della Maria, Donato e Carmine, stanno attorno ad una tavola e mangiano una minestra di fave: la
madre, incinta, li guarda. Improvvisamente un magnifico levriero balza nella stanzuccia, afferra un
coniglio che mangiucchia in un cantuccio e via sulla strada.
I ragazzi si levano e gli corrono appresso; il levriero ha già ammazzato il coniglio. Donato
Donatelli dà di piglio a un randello, e così forte percote sul capo il cane che questo cade morto. Il
signore al quale il cane apparteneva si precipita nella casupola, distribuisce colpi di frusta a’ ragazzi,
inviperisce contro la donna che li difende e, imbestialito, le scaraventa un calcio nel ventre. La
povera donna si sconcia, ammala, diventa pazza. Un bel giorno una fucilata, dal fitto d’una macchia,
è sparata contro il signore: e il padre di Carmine Crocco, il marito della Maria, è arrestato come
sospetto di mancato assassinio. Egli invoca un alibi: difatti era innocente. Ma pareva così evidente
la causa a delinquere nello sciagurato, che nessuno gli dà retta ed il povero pastore è menato nelle
carceri di Potenza. Dopo trentuno mesi il vero colpevole è scoperto: il padre di Crocco è liberato.
Ma la Maria è morta. E Carmine Crocco ha soltanto quindici anni. La vendetta deve cominciare.
«Io - scrive Crocco - non avevo paura di nessuno, e sentivo in me il bisogno di prevalermi
sui miei simili, distinguermi dall’ordinario, fosse pure con pericolo della vita». E la terribile storia
della sua vita di bandito s’inizia qui con uccisioni, ricatti, assalti temerarii a’ paeselli della sua
provincia, distruzioni, spogliazioni, incendii e ruberie d’ogni sorta. Crocco comanda un piccolo
esercito di 700 uomini; espugna Avigliano, entra in Melfi e ne fa suo quartiere generale.
Agli ordini suoi ha capibanda feroci come Coppa e Ninco Nanco, Caruso e Sacchitiello,
Totaro e Masini, che poi costituiscono per conto loro altre bande e dal 1860 al 1864 seminano di
terrore e di stragi i boschi di Lagopesole e di Avigliano, Venosa, Ricigliano e Muro,
Montescaglioso e Moliterno, Pietragalla e Balvano, antiche e piccole cittadine poste sui monti o tra
le boscaglie e difese così dalle loro torricelle come dalla guardia nazionale collocatavi a garentia
degli abitanti; un piccolo esercito pieno di ardore e di coraggio, che divide coi bersaglieri e con la
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Le reazioni del Melfese e il brigantaggio.