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TITOLO: Elias Portolu
AUTORE: Grazia Deledda
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Grazia Deledda - I grandi romanzi"
a cura di Marta Savini.
Newton Compton Editori s.r.l.,
Roma, 1993. I Mammut n. 12
CODICE ISBN: 88-7983-018-X
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 27 ottobre 1994
2a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 30 gennaio 1998
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Stefano D'Urso, [email protected]
REVISIONE:
Stefano D'Urso, [email protected]
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Elias Portolu
di Grazia Deledda
I.
Giorni lieti s'avvicinavano per la famiglia Portolu, di Nuoro. Agli ultimi di aprile doveva ritornare il
figlio Elias, che scontava una condanna in un penitenziario del continente; poi doveva sposarsi
Pietro, il maggiore dei tre giovani Portolu.
Si preparava una specie di festa: la casa era intonacata di fresco, il vino ed il pane pronti [1]; pareva
che Elias dovesse ritornare dagli studi, ed era con un certo orgoglio che i parenti, finita la sua
disgrazia, lo aspettavano.
Finalmente arrivò il giorno tanto atteso, specialmente da zia Annedda, la madre, una donnina
placida, bianca, un po' sorda, che amava Elias sopra tutti i suoi figliuoli. Pietro, che faceva il
contadino, Mattia e zio [2] Berte, il padre, che erano pastori di pecore, ritornarono di campagna.
I due giovanotti si rassomigliavano assai; bassotti, robusti, barbuti, col volto bronzino e con lunghi
capelli neri. Anche zio Berte Portolu, la vecchia volpe, come lo chiamavano, era di piccola statura,
con una capigliatura nera e intricata che gli calava fin sugli occhi rossi malati, e sulle orecchie
andava a confondersi con la lunga barba nera non meno intricata. Vestiva un costume abbastanza
sporco, con una lunga sopragiacca nera senza maniche, di pelle di montone, con la lana in dentro; e
fra tutto quel pelame nero si scorgevano solo due enormi mani d'un rosso-bronzino, e nel viso un
grosso naso egualmente rosso-bronzino.
Per la solenne occasione, però, zio Portolu si lavò le mani ed il viso, chiese un po' d'olio d'oliva a
zia Annedda, e si unse bene i capelli, poi li districò con un pettine di legno, dando in esclamazioni
per il dolore che quest'operazione gli causava.
«Che il diavolo vi pettini», diceva ai suoi capelli, torcendo il capo. «Neanche la lana delle pecore è
così intricata!»
Quando l'intrico fu sciolto, zio Portolu cominciò a farsi una trecciolina sulla tempia destra, un'altra
sulla sinistra, una terza sotto l'orecchio destro, una quarta sotto l'orecchio sinistro. Poi unse e pettinò
la barba.
«Fatevene altre due, ora!», disse Pietro, ridendo.
«Non vedi che sembro uno sposo?», gridò zio Portolu. E rise anche lui. Aveva un riso caratteristico,
forzato, che non gli smoveva un pelo della barba.
Zia Annedda borbottò qualche cosa, perché non le piaceva che i suoi figliuoli mancassero di rispetto
al padre; ma questi la guardò con rimprovero e disse:
«Ebbene, cosa dici, tu? Lascia ridere i ragazzi; è tempo che si divertano, loro; noi ci siamo già
divertiti».
Intanto giunse l'ora dell'arrivo di Elias. Vennero alcuni parenti e un fratello della fidanzata di Pietro,
e tutti mossero verso la stazione. Zia Annedda rimase sola in casa, col gattino e le galline.
La casetta, con un cortile interno, dava su un viottolo scosceso che scendeva allo stradale: dietro il
muro assiepato del viottolo si stendevano degli orti che guardavano sulla valle. Pareva d'essere in
campagna: un albero stendeva i suoi rami al disopra della siepe, dando al viottolo un'aria pittoresca:
l'Orthobene granitico e le cerule montagne d'Oliena chiudevano l'orizzonte.
Zia Annedda era nata ed invecchiata là, in quel cantuccio pieno d'aria pura, e forse per questo era
rimasta sempre semplice e pura come una creatura di sette anni. Del resto, tutto il vicinato era
abitato da gente onesta, da ragazze che frequentavano la chiesa, da famiglie di costumi semplici.
Zia Annedda usciva ogni tanto sul portone aperto, guardava di qua e di là, poi rientrava. Anche le
vicine aspettavano il ritorno del prigioniero, ritte sulle loro porticine o sedute sui rozzi sedili di
pietra addossati al muro: il gatto di zia Annedda contemplava dalla finestra.
Ed ecco un suono di voci e di passi in lontananza. Una vicina attraversò di corsa il viottolo e mise la
testa entro il portone di zia Annedda.
«Eccoli, son qui!», gridò.
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La donnina usci fuori, più bianca del solito e tremante; subito dopo un gruppo di paesani irruppe nel
viottolo, ed Elias, assai commosso, corse da sua madre, si curvò e l'abbracciò.
«Fra cento anni un'altra, fra cento anni un'altra...», mormorava zia Annedda piangendo.
Elias era alto e snello, col volto bianchissimo, delicato, sbarbato; aveva i capelli neri rasati, gli occhi
azzurri-verdognoli. La lunga prigionia aveva reso candide le sue mani e la sua faccia.
Tutte le vicine si affollarono intorno a lui, respingendo gli altri paesani, e gli strinsero la mano,
augurandogli:
«Un'altra disgrazia simile fra cento anni».
«Dio voglia!», egli rispondeva.
Dopo di che entrarono in casa. Il gatto, che all'avvicinarsi dei paesani s'era ritirato dalla finestra,
venuto alla scaletta esterna saltò giù spaventato, corse di qua e di là e andò a nascondersi.
«<I>Muscì, muscì</I>», cominciò a gridare zio Portolu, «che diavolo hai, non hai veduto mai
cristiani? Oh che siamo assassini, che fuggono anche i gatti? Siamo gente onesta, galantuomini
siamo!»
La vecchia volpe aveva una gran voglia di gridare, di chiacchierare, e diceva cose inconsistenti.
Seduti che tutti furono in cucina, mentre zia Annedda versava da bere, zio Portolu s'impadronì di
Jacu Farre, un suo parente, un bell'uomo rosso e grasso che respirava lentamente, e non lo lasciò più
in pace.
«Vedi», gli gridava, tirandogli la falda del cappotto, e accennandogli i suoi figli, «li vedi ora i figli
miei? Tre colombi! e forti, eh, e sani, e belli! Li vedi in fila, li vedi? Ora che è tornato Elias, saremo
come quattro leoni; non ci toccherà neppure una mosca. Anche io, sai, anche io sono forte; non
guardarmi così, Jacu Farre, io di te me ne infischio, intendi? Mio figlio Mattia è la mia mano destra;
ora Elias sarà la mia sinistra. E Pietro, poi, il piccolo Pietro, Prededdu mio? Non lo vedi? è un fiore!
Ha seminato dieci quarti d'orzo e otto di frumento e due quarti di fave: eh, se vuol sposarsi, può
tenerla bene la moglie! Non gli mancherà la raccolta. È un fiore, Prededdu mio. Ah, i miei figli!
Come i miei figli non ce ne sono altri a Nuoro.»
«Eh! eh!», disse l'altro quasi gemendo.
«Eh! eh! Cosa vuoi dire col tuo eh! eh!, Jacu Fà? Dico bugie forse? Mostrami altri tre giovani come
i miei figli, onesti, laboriosi, forti. Uomini sono, essi, uomini sono!»
«E chi ti dice che siano donne?»
«Donne, donne! Donna sarai tu, pancia di cassetta», gridò zio Portolu premendo con le sue grosse
mani sulla pancia del parente, «tu, non loro, i miei figli! Non li vedi?», proseguì, rivolgendosi con
adorazione verso i tre giovanotti. «Non li vedi, sei cieco? Tre colombi...»
Zia Annedda s'avvicinò, col bicchiere in una mano e la caraffa nell'altra. Colmò il bicchiere e lo
porse al Farre, e il Farre lo diede cortesemente a zio Portolu. E zio Portolu bevette.
«Beviamo! Alla salute di tutti! E tu, moglie mia, femminuccia, non aver più paura di nulla: saremo
come leoni, ora, non ci toccherà più neanche una mosca.»
«Va! va!», ella rispose.
Versò da bere al Farre e passò oltre. Zio Portolu la seguì con gli occhi, poi disse, toccandosi
l'orecchia destra con un dito:
«È un po'... qui; non sente bene, infine, ma una donna! Una donna buona! Fa il fatto suo, mia
moglie, altro che fa il fatto suo! E donna di coscienza, poi! Ah, come lei...».
«Non ce n'è altra in Nuoro!»
«Pare!», gridò zio Portolu. «Forse che la sentono a fare dei pettegolezzi? Non temere, che se Pietro
porta qui la sua sposa, ci stia male, qui, la ragazza!»
E tosto cominciò a lodare anche la ragazza. Una rosa, un gioiello, una palma! Essa cuciva e filava,
essa buona massaia, essa onesta, bella, buona, benestante.
«Infine», disse il Farre ironico, «non ce n'è un'altra in Nuoro!»
Intanto il gruppo dei giovani parlava animatamente con Elias, bevendo, ridendo, sputando. Il più
che rideva era lui, il reduce, ma il suo riso era stanco e spezzato, la voce debole; il suo viso e le sue
mani spiccavano fra tutte quelle facce e quelle mani bronzine; sembrava una donna vestita da uomo.
Inoltre il suo linguaggio aveva acquistato qualche cosa di particolare, di esotico; egli parlava con
una certa affettazione, metà italiano e metà dialetto, con imprecazioni affatto continentali.
«Senti tuo padre che vi vanta», disse il futuro cognato di Pietro. «Egli dice che siete dei colombi, e
in verità che sei bianco come un colombo, Elias Portolu.»
«Ma ridiventerai nero», disse Mattia. «Da domani cominciamo a trottare verso l'ovile, non è vero,
fratello mio?»
«Ch'egli sia bianco o nero poco importa», disse Pietro. «Lasciate queste sciocchezze, lasciategli
raccontare quello che raccontava.»
«Dicevo dunque», riprese Elias con la sua voce fiacca, «che quel gran signore compagno di cella,
era il capo dei ladri di quella grande città, come si chiama... non ricordo più, via. Era con me, mi
confidava tutto. Quello sì, che si dice rubare: cosa contano i nostri furti? Noi, per esempio, un
giorno abbiamo bisogno d'una cosa, andiamo e rubiamo un bue e lo vendiamo; ci prendono, ci
condannano, e quel bue non basta a pagare l'avvocato. Ma quelli là, quei grandi ladri, altro che!
Pigliano dei milioni, li nascondono, e poi quando escono di prigione diventano ricchissimi, vanno in
carrozza e si divertono. Cosa siamo noi, Sardi asini, al loro confronto?»
I giovanotti ascoltavano intenti, pieni d'ammirazione per quei grandi ladri d'oltremare.
«Poi c'era un monsignore anche», riprese Elias, «un riccone che aveva nel libretto tante migliaia di
lire.»
«Anche un monsignore!...», esclamò Mattia meravigliato.
Pietro lo guardò ridendo e volle fare il disinvolto, sebbene si meravigliasse anche lui.
«Ebbene, un monsignore? Oh che i monsignori non sono uomini come gli altri? La prigione è fatta
per gli uomini.»
«Perché c'era quello lì?»
«Ma... pare perché voleva che si mandasse via il Re e si mettesse per Re il Papa. Altri però dicevano
che anche lui era in carcere per affari di denaro. Era un uomo alto coi capelli bianchi come la neve;
leggeva sempre. Un altro venne a morire, e lasciò ai detenuti tutto il denaro che aveva nel libretto.
Volevano darmi cinque lire; io però le rifiutai. Un Sardo non vuole elemosine.»
«Stupido! io le avrei prese!», gridò Mattia. «Mi sarei preso una sbornia solenne alla salute del
morto.»
«È proibito», rispose Elias; e stette un momento in silenzio, assorto in vaghi ricordi, poi esclamò:
«Gesù! Gesù! Quanta gente c'era, d'ogni qualità! C'era con me un altro Sardo, un maresciallo; lo
imbarcarono a Cagliari la stessa notte che imbarcarono me: egli credeva lo rilasciassero, invece lo
presero ch'egli neanche se ne accorse».
«Oh, io dico che se ne sarà accorto!»
«Oh, anch'io!»
«Egli si vantava che l'avrebbero presto graziato, che era parente del ministro, e che aveva un altro
parente alla Corte del Re: invece io l'ho lasciato laggiù; nessuno gli scriveva, nessuno gli mandava
un centesimo. E in <I>quei luoghi</I>, se non si hanno dei soldi, si crepa di fame, che Dio mi
assista! E i carcerieri!», esclamò poi facendo una smorfia, «tanti aguzzini! Sono quasi tutti
Napoletani, canaglie, che se ti vedono morire ti sputano addosso. Ma prima d'andar via io dissi ad
uno di loro: "Prova a passare dalle nostre parti, marrano, che ti accomodo io l'osso del collo".»
«Sì», disse Mattia, «provi un po' a passare vicino al nostro ovile, che gli diamo un po' di siero!»
«Oh, egli non passerà!»
«Chi non passerà?», domandò zio Portolu, avvicinandosi.
«No, un guardiano che sputava addosso ad Elias», disse Mattia.
«No, diavolo, non mi sputava affatto: cosa stai dicendo?
Tutti si misero a ridere: zio Portolu gridò:
«E poi Elias non l'avrebbe permesso; gli avrebbe rotto i denti con un pugno. Elias è un uomo: siamo
uomini, noi, non siamo bambocci di formaggio fresco come i continentali, anche se essi sono
guardiani di uomini...».
«Macché guardiani!», disse Elias alzando le spalle. «I guardiani sono canaglie; ma ci sono poi i
signori; avreste visto voi! Grandi signori che vanno in carrozza, che quando entrano in carcere
hanno migliaia e migliaia di lire nel libretto.»
Zio Portolu si stizzì, sputò, e disse:
«Cosa sono essi? Uomini di formaggio fresco! Va e mettili un po' a gettar il laccio ad un puledro
indomito, o a chiappar un toro, od a sparare un archibugio! Muoiono prima di spavento. Cosa sono i
signori? Le mie pecore sono più coraggiose, così Dio mi assista.»
«Eppure, eppure...», insisteva Elias, «se voi vedeste...»
«Cosa hai veduto tu?», ribatteva zio Portolu, sprezzante. «Tu non hai veduto nulla. Alla tua età io
non avevo veduto nulla; ma ho veduto dopo e so cosa sono i signori, e cosa sono i continentali e
cosa sono i Sardi. Tu sei un pulcino appena uscito dall'uovo.»
«Altro che pulcino!», mormorò Elias, sorridendo amaramente.
«Un gallo, piuttosto!», disse Mattia.
E il Farre. con finezza:
«No, un uccellino...».
«Uscito dalla gabbia!», esclamarono gli altri, ridendo.
La conversazione si fece generale. Elias proseguì a narrare i suoi ricordi, più o meno esatti, sul
luogo e le persone che aveva lasciato: gli altri commentavano e ridevano. Zia Annedda ascoltava
anch'essa, con un placido sorriso sul viso calmo, e non riusciva ad afferrar bene tutte le parole di
Elias: ma il Farre, sedutole accanto, le avvicinava il viso al collo e le ripeteva a voce alta i racconti
del reduce.
Intanto veniva altra gente, amici, vicini, parenti. I nuovi venuti si avvicinavano ad Elias, molti lo
baciavano, tutti gli auguravano:
«Fra cent'anni un'altra».
«Dio lo voglia!», gli rispondeva, tirandosi la berretta sulla fronte.
E zia Annedda versava da bere. In breve la cucina fu piena di gente; zio Portolu gridava
incessantemente, facendo sapere a tutti che i suoi figli erano tre colombi, e avrebbe voluto trattenere
a lungo tutta quella gente; ma Pietro smaniava di far conoscere ad Elias la sua fidanzata, e insisteva
per uscire e condurlo con sé.
«Andiamo a pigliar aria», diceva. «Questo povero diavolo è stato ben rinchiuso perché lo vogliate
tener qui tutta la sera.»
«Ne vedrà bene dell'aria!», rispose un parente.
«Quel suo volto di ragazza diventerà nero come la polvere da sparo.»
«Lo credo bene!», gridò Elias, passandosi le mani sul volto, vergognoso della sua bianchezza.
Ma finalmente Pietro riusciva a farsi intendere, e stavano per uscire, quando sopraggiunse la futura
suocera, una vedova magra, alta e rigida, col viso terreo avvolto in una benda nera: la
accompagnavano i suoi due più giovani figli, una fanciulla ed un giovinetto già pieno di boria.
«Figlio mio!», declamò con enfasi la vedova slanciandosi a braccia aperte verso Elias. «Il Signore ti
mandi fra cento anni un'altra di queste disgrazie.»
«Dio lo voglia!»
Zia Annedda andava premurosamente dietro la vedova, desiderosa di complimentarla; ma zio
Portolu s'impadronì della donna, le prese le mani, la scosse tutta.
«Lo vedi?», le gridò sul viso, «lo vedi, Arrita Scada! Il colombo è tornato al nido. Chi ci tocca, ora?
Chi ci tocca? Dillo tu. Arrita Scada...»
Ella non seppe dirlo.
«Lasciatelo dire», esclamò Pietro, rivolto alla vedova. «È allegro oggi.»
«Perché deve essere allegro!»
«Sicuro che sono allegro. Cosa ne dici, tu? Non devo essere allegro? Non lo vedi il colombo? È
ritornato al nido. È bianco come un giglio. E belle storie ne sa raccontare, ora. Arrita Scada, sentito
hai? Siamo una famiglia, una casa di uomini, noi: e diglielo a tua figlia, che essa sposerà un fiore,
non una immondezza.»
«Lo credo bene.»
«Lo credi? O che credi che tua figlia venga qui a far la serva? Verrà a far la signora: e troverà pane,
e troverà vino, e troverà grano, orzo, fave, olio: ogni ben di Dio. Lo vedi tu quell'uscio?», gridò poi,
facendo volger zia Arrita verso un usciolino in fondo alla cucina. «Lo vedi? Sì? Ebbene, sai cosa c'è
dietro quell'uscio? Ci sono cento scudi in formaggio. Ed altre cose ancora.»
«Finitela, finitela», disse Pietro, un po' mortificato. «Ella non sa che farsene del vostro ben di Dio.»
«Del resto», osservò Elias, «Maria Maddalena Scada non sposerà Pietro per il nostro formaggio.»
«Figlio del mio cuore! tutto è buono nel mondo!», declamò zia Arrita, sedendosi fra i suoi figlioli,
dei quali il maschio non parlava ma sorrideva beffardo.
«Andiamo, andiamo, finitela!», ripeteva Pietro.
Intanto zia Annedda, visto che non le lasciavano dire una parola, s'era messa a preparare il caffè per
la <I>socronza</I>. [3]
«Mio marito», le disse, appena poté averla tutta a sé, «è troppo attaccato alle cose del mondo: non
pensa affatto che il Signore ci ha dato i suoi beni, senza che noi li meritassimo, e che il Signore ce li
può togliere da un momento all'altro.»
«Annedda mia, gli uomini son tutti così», disse l'altra per confortarla. «Non pensano ad altro che
alle cose del mondo. Lasciamo andare. Ma cosa stai facendo? Non pigliarti alcun disturbo. Sono
venuta per un momentino, e me ne vado subito. Vedo che Elias sta bene, è bianco come una
ragazza, Dio lo benedica.»
«Sì, sembra che stia bene, grazie al Signore: ha tanto sofferto, povero uccello!»
«Ah, speriamo che tutto sia finito: egli non tornerà ai cattivi compagni, certamente; perché sono
stati i cattivi compagni a procurargli la disgrazia.»
«Che tu sia benedetta, le tue parole son d'oro, Arrita Scada mia. Ma cosa stavamo dicendo? Gli
uomini non pensano che alle cose del mondo: se pensassero appena appena al mondo di là,
andrebbero più dritti in questo. Essi pensano che questa vita terrena non debba finir mai; invece è
una novena, questa vita, una novena ed anche corta. Soffriamo in questo mondo; facciamo sì che
questa pulcina qui», si toccò il petto, «sia tranquilla e non ci rimproveri nulla; il resto vada come
vuole andare. Metti dunque lo zucchero, Arrita; bada che il tuo caffè non sia amaro.»
«Va bene così; dolce non mi piace.»
«Bene, stavamo dicendo che basta aver la coscienza tranquilla. Invece gli uomini non ci badano, a
questo. Basta loro che l'annata sia buona, che facciano molto formaggio, molto frumento, molte
olive. Ah, essi non sanno che la vita è così breve, che tutte le cose del mondo passano così presto.
Dàlla a me la tua chicchera, non disturbarti. Ah, non è nulla, è il cucchiaino che è caduto. Le cose
del mondo! Va tu, Arrita Scada, mettiti sull'orlo del mare, e conta tutti i granelli della rena: quando
li avrai contati saprai che essi sono un nulla in confronto degli anni dell'eternità. Invece i nostri anni,
gli anni da passare nel mondo, stanno dentro il pugno di un bambino. Io dico sempre queste cose a
Berte Portolu e a tutti i figli miei; ma essi son troppo attaccati al mondo.»
«Essi sono giovani, Annedda mia, bisogna considerare questo, che essi sono giovani. Del resto
vedrai che Elias ha messo giudizio; è serio, molto serio: la lezione non è stata piccola, e gli servirà
per tutta la vita.»
«Maria di Valverde lo voglia! Ah, Elias è un giovine di cuore; quando era ragazzo sembrava una
femminuccia; non diceva una imprecazione, non una cattiva parola. Chi l'avrebbe creduto che
appunto lui mi avrebbe fatto versar tante lagrime?»
«Basta, ora è tutto passato: ora i tuoi figli sembrano davvero dei colombi, come dice Berte tuo
marito. Basta che fra loro regni sempre la concordia, l'amore...»
«Ah, per questo non c'è pericolo, che tu sia benedetta!», disse zia Annedda sorridendo.
Dopo cena zia Annedda poté finalmente trovarsi con Elias, seduti entrambi al fresco nel cortile. Il
portone aperto, il viottolo deserto: sembrava una notte d'estate, silenziosa, col cielo diafano fiorito
di stelle purissime. Dietro gli orti, dietro lo stradale, in lontananza, si sentiva uno scampanio
argentino di pecore al pascolo; veniva nell'aria un aspro profumo d'erba fresca. Elias respirava quel
profumo, quell'aria pura, con le narici dilatate, con un istinto di voluttà selvaggia: sentiva il sangue
scorrer caldo nelle vene, e il capo oppresso da un piacevole peso. Aveva bevuto e si sentiva felice.
«Siamo stati dalla fidanzata di Pietro», disse con voce vaga, «è una ragazza assai graziosa.»
«Sì, è bruna, ma è graziosa: inoltre è assai savia.»
«Sua madre mi pare un po' boriosa: se ha un soldo fa vedere d'avere uno scudo; ma la ragazza
sembra modesta.»
«Che vuoi? Arrita Scada è di razza buona e ne va superba: del resto», disse zia Annedda, entrando
nel suo argomento favorito, «io non so cosa si ricavi dalla boria e dalla superbia. Dio disse: "tre cose
solamente deve aver l'uomo, amore, carità, umiltà". Cosa si ricava dalle altre passioni? Tu ora hai
sperimentato la vita, figlio mio; cosa ne dici tu?»
Elias sospirò forte; sollevò il viso al cielo.
«Voi avete ragione; io ho sperimentato la vita; non che meritassi la disgrazia che ho avuto, perché,
voi lo sapete, io ero innocente, ma perché il Signore non paga il sabato. Sono stato cattivo figliolo, e
Dio mi ha punito, mi ha fatto invecchiare innanzi tempo. I cattivi compagni mi avevano traviato, ed
è perché praticavo con male compagnie che sono stato travolto in quella disgrazia.»
«E quei compagni, mentre tu soffrivi, non chiedevano neppure tue notizie. Prima, quando eri libero,
non lasciavano in pace quel portone là: "Elias dov'è? dov'è Elias?". Elias andava ed Elias veniva. E
dopo? Dopo si allontanarono, o se dovevano passar per la via, calavano la berretta sulla fronte
perché noi non li riconoscessimo.»
«Basta, mamma mia! Ora è tutto finito; comincio una vita nuova», diss'egli, sospirando ancora. «Ora
per me non esiste altro che la mia famiglia: voi, mio padre, i miei fratelli: ah, credete, vi farò
dimenticare tutto il passato. Starò come un servo, all'obbedienza vostra, e mi parrà di essere rinato.»
Zia Annedda sentì lagrime di dolcezza salirle agli occhi, e poiché le sembrava che anche Elias si
commovesse troppo, sviò il discorso.
«Sei stato sempre sano?», domandò. «Sei molto dimagrito.»
«Che volete? In <I>quei luoghi</I> si dimagra anche senza essere ammalati: il non lavorare
ammazza più di qualunque fatica.»
«Non lavoravate mai?»
«Sì, si fanno dei lavoretti manuali, da calzolaio o da donnicciuola! Così pare che il tempo non passi
mai: un minuto sembra un anno: è una cosa orribile, mamma mia.»
Tacquero. La voce di Elias si era fatta profonda nel pronunciare quelle ultime parole. Durante il
pomeriggio, nella prima ebbrezza della libertà, egli aveva parlato facilmente della sua prigionia e
dei suoi compagni di sventura, sembrandogli una cosa già lontana, quasi piacevole a ricordarsi. Ma
adesso, in quell'oscurità silenziosa, nel sentire l'odore fresco della campagna che gli ricordava i
giorni felici della sua prima giovinezza trascorsa nell'ovile, nella sconfinata libertà della
<I>tanca</I> paterna, davanti a sua madre, a quella vecchierella buona e pura, improvvisamente, il
ricordo degli anni perduti invano nell'angoscia del penitenziario, gli destava orrore.
«Io sono assai debole», disse dopo qualche momento, «non ho forza per nulla: è come se mi
avessero troncato la schiena. Eppure non sono mai stato ammalato; solo una volta ho avuto una
colica tremenda, e mi pareva di morire, "<I>Santu Franziscu</I> mio", dissi allora, "fatemi uscire
da quest'orrore, e la prima cosa che farò, tornando in libertà, sarà di venire alla vostra chiesa e
portarvi un cero."»
«<I>Santu Franziscu bellu!</I>», esclamò zia Annedda, giungendo le mani. «Noi ci andremo, noi ci
andremo, figlio mio! Che tu sii benedetto, tu ripiglierai le tue forze, non dubitarne. Noi andremo a
far la novena a San Francesco: e Pietro verrà alla festa e porterà in groppa al suo cavallo la
fidanzata.»
«Quando si sposa Pietro?»
«Si sposerà dopo la raccolta, figlio mio.»
«La porterà qui la sposa?»
«Sì, la porterà qui, almeno per i primi tempi; io comincio ad esser vecchia, figlio mio, e ho bisogno
d'aiuto. Finché vivo io, voglio che restiamo tutti uniti: dopo, quando io tornerò nel seno del Signore,
ognuno di voi piglierà la sua via. Anche tu ti ammoglierai...»
«Oh, e chi mi vuole?», egli disse con amarezza.
«Perché parli così, Elias? Chi ti vuole! Una figlia di Dio. Se tu ti emenderai, se farai vita onesta, nel
timor di Dio, lavorando, la fortuna non ti mancherà. Io non dico che tu debba cercare una donna
ricca; ma una donna onesta non ti mancherà. Il Signore ha istituito il matrimonio perché si uniscano
santamente un uomo e una donna, non già un ricco e una ricca, o un povero e una povera.»
«Ecco!», diss'egli ridendo. «Non parliamo di questo! Io ritorno appena oggi, e parliamo già di
matrimonio. Ne parleremo un altro giorno: ho ventitré anni soltanto, e c'è tempo. Ma voi siete
stanca, mamma mia. Andate, andate a riposare. Andate.»
«Vado; ma ritirati anche tu, Elias, l'aria ti potrebbe far male.»
«Male?», diss'egli spalancando la bocca e respirando forte. «Come mai può far male? Non vedete
che mi ridona la vita? Andate. Rientrerò subito.»
Dopo un momento egli si trovò solo, semisdraiato per terra, col gomito appoggiato sullo scalino
della porta, Sentì sua madre salire la scaletta di legno, chiuder la finestruola e levarsi le scarpe. Poi
tutto fu silenzio. L'aria si faceva fresca, quasi umida, aromatica. Egli ripensò alle cose che sua
madre gli aveva detto: poi disse fra sé:
«Mio padre e i miei fratelli dormono tranquilli sulle loro stuoie: li sento di qui. Mio padre russa,
Mattia dice di tratto in tratto qualche parola; sogna, di certo, e anche nel sogno egli è un po'
semplice. Ma come dormono bene, essi! Si sono ubriacati, ma domani non sentiranno più nulla.
Anch'io mi sono un po' ubriacato, ma ne sentirò la traccia. Come sono debole! Non sono più un
uomo, io: non sarò più buono a nulla. Ah, e mia madre vuole ammogliarmi! Ma qual donna mi
vuole? Nessuna. Basta, l'aria si fa umida; ritiriamoci».
Ma non si mosse. Giungeva sempre il tintinnio delle greggie pascenti, che pareva or vicino, or
lontano, trasportato dalla brezza umida e fragrante. Elias si sentiva stanco, col capo pesante, e non
poteva muoversi, o gli pareva di non potersi muovere. Confuse visioni cominciarono a ondeggiargli
davanti alla fantasia: ricordava sempre l'ovile, la <I>tanca</I> coperta di fieno altissimo, e vedeva
le pecore, ingrossate dal lungo vello, sparpagliate qua e là tra il verde della pastura; ma queste
pecore avevano visi umani, i visi cioè dei suoi compagni di sventura. E provava un'angoscia
indefinibile. Forse era il vino che fermentandogli nel sangue gli causava un po' di febbre. Ricordava
tutti gli avvenimenti della giornata, ma gli pareva di aver sognato, di trovarsi ancora in <I>quel
luogo</I> e di provarne un cupo dolore.
Le immagini fantastiche del suo sogno ondeggiavano, s'allontanavano, svanivano. Ecco, ora gli
pareva che quelle strane pecore dal volto umano saltassero sul muro che chiudeva la <I>tanca</I>;
ed egli andava lor dietro, affannosamente, saltando anche lui il muro e inoltrandosi nella
<I>tanca</I> attigua, folta di soveri alti, verdissimi. Un uomo alto, rigido, grosso, con una barba
grigio-rossastra, una specie di gigante, camminava lentamente, quasi maestosamente, sotto il bosco.
Elias lo riconobbe subito: era un uomo d'Orune, un selvaggio sapiente, che vigilava l'immensa
<I>tanca</I> d'un possidente nuorese, perché non estraessero di frodo il sughero dei soveri. Elias
conosceva sin da bambino quell'uomo gigantesco, che non rideva mai e forse per ciò godeva una
certa fama di saggio. Si chiamava Martin Monne, ma tutti lo chiamavano il «padre della selva»
(<I>ssu babbu 'e ssu padente</I>), perché egli raccontava che, dopo la sua infanzia, non aveva
dormito una sola notte in paese.
«Dove vai?», chiese ad Elias.
«Vado dietro queste pecore matte. Ma sono così stanco, padre della selva mia! Non ne posso più;
sono debole e sfatto; non valgo più a nulla.»
«Eh, se tu non vuoi aver fastidi va a farti prete!», disse zio Martinu con la sua voce possente.
«Eh, eh, quest'idea mi è venuta qualche volta in <I>quel luogo!</I, gridò Elias.
Si scosse, si svegliò e provò un brivido di freddo.
«Mi sono addormentato qui», pensò sollevandosi, «coglierò qualche malanno.»
Entrò in cucina un po' barcollando: il padre e i fratelli dormivano pesantemente sulle loro stuoie; un
lume ardeva posato sulla pietra del focolare. Per Elias, poveretto, così deboluccio, era stato
preparato un letto in una cameretta terrena. Egli prese il lume, attraversò una stanzetta nella quale,
sopra larghe tavole, stava una grande quantità di formaggio giallo e oleoso che esalava un odore
sgradevole, ed entrò nella cameretta.
Si spogliò, si coricò, spense il lume. Si sentiva la schiena rotta, il capo pesante: eppure non gli
riusciva di addormentarsi, di nuovo oppresso da un dormiveglia quasi affannoso, pieno di sogni
confusi. Vedeva ancora la <I>tanca</I>, il fieno, le pecore grosse di lana gialla intricata, la linea
verde del bosco vicino. Zio Martinu era ancora là; ma stava adesso accanto al muro, alto, rigido,
sporco, maestoso.
Ritto anche lui accanto al muro, dalla parte della loro <I>tanca</I>, Elias gli raccontava molte cose
di <I>quel luogo</I>. Tra l'altro diceva:
«Ci portavano sempre a messa, ci facevano confessare e comunicare spesso. Ah, laggiù si è buoni
cristiani. Il cappellano era un santo uomo. Io gli dissi una volta, in confessione, che avevo studiato
fino alla seconda ginnasiale, che poi mi ero fatto pastore, ma che molte volte mi ero pentito di non
aver continuato a studiare. Allora egli mi regalò un libro, scritto da una parte in latino e dall'altra in
italiano, il libro della Settimana santa. Io l'ho letto più di cento, che dico? più di mille volte: e l'ho
portato qui, anche. Lo so leggere tanto in latino che in italiano».
«Allora tu sei un sapientone!»
«Non quanto voi! Però ho il timore di Dio.»
«Ebbene, quando si teme Dio si è più sapienti dei re», diceva zio Martinu.
Qui il sogno di Elias si confondeva, s'intrecciava con altri sogni più o meno stravaganti.
<B>II.</B>
Sebbene Mattia insistesse perché Elias si recasse tosto con lui all'ovile, il reduce per qualche giorno
restò a casa, ricevendo visite di amici e parenti, e riposandosi.
Zio Berte e Mattia ritornarono all'ovile, Pietro ai suoi lavori; ma or l'uno or l'altro rientravano in
paese, di sera, per rivedere Elias e tenergli compagnia. Allora erano grandi chiacchiere e racconti,
intorno al focolare, o nel cortiletto nelle sere limpide primaverili. Elias non subiva la sorveglianza
speciale che di solito adesso segue e rincrudisce la pena; ma, almeno per i primi tempi, era tenuto
d'occhio dalla questura; e spesso, di sera, due carabinieri percorrevano con passo pesante il viottolo,
si fermavano, mettevano la testa entro il portone di zio Berte.
Se zio Berte era in casa e i suoi occhietti malati di volpe distinguevano i carabinieri, tosto si alzava
tra il rispettoso e il beffardo, veniva sul portone e li invitava ad entrare.
«Ben venuto il Re, ben venuta la forza!», gridava. «Entrate dentro, qui, giovani, venite a bere un
bicchiere di vino. Oh che non volete entrare? Oh che credete d'essere in una casa di assassini o di
ladri? Galantuomini siamo noi, e voi non avete da porre il naso nelle nostre faccende.»
Quelli, due giovanotti rossi e grossi, si degnavano di sorridere.
«Entrate o non entrate?», proseguiva zio Portolu. «Vi tiro? Volete che vi tiri? Ma badate che io resto
col pezzo in mano. Se non volete entrare andate al diavolo. Vino buono ha, zio Portolu!»
Quelli finivano per entrare: ed ecco tosto zia Annedda con la famosa caraffa.
«Viva il Re, viva la forza, viva il vino! Bevete, che la giustizia vi percuota...»
«Oh, oh», osservava Mattia, se c'era, «cosa dite, babbo mio! Allora si percuotono da se stessi.»
«Ah, ah, ah
«Non c'è da ridere. Bevete, figliuoli miei. E bevi anche tu, Mattia, ché ti fa bene alla testa, e bevi
anche tu, Elias, che hai in viso il color della cenere. Rossi bisogna essere per esser uomini. Li vedi
tu questi giovanotti? Così rossi bisogna essere. Ebbene, voi diventate anche più rossi, che diavolo!
Vi vergognate per le parole di zio Portolu, forse? Eh, egli ne ha fatto arrossire altro che voi! Ha fatto
arrossire dei dragoni, zio Portolu. Voi non sapete chi è zio Portolu? Ebbene, ve lo dico io: sono io.»
«Con piacere!», dicevano i due giovanotti, inchinandosi e ridendo. Si divertivano, e il vino di zio
Portolu era davvero buono, frizzante e aromatico.
Zio Berte si pigliava la libertà di mettere le mani addosso ai carabinieri.
«Che vi credete, voi? La forza! Un corno di capra! Aspettate che vi tolgo questo coltello lungo,
questa pistola, questi bottoni: che resta di voi? Un corno, ve l'ho detto. Proviamo a mettere queste
cose a Elias, a Mattia, a Pietro mio: eccoli, sono migliori di voi. Tre fiori, tre colombi. I figli miei!
Ai figli miei voi non avete da dir nulla. Essi non hanno bisogno di andar a rubare, perché noi ne
abbiamo della roba, anche da gettarne ai cani ed ai corvi.»
«Bumh!...», diceva Elias, seduto silenzioso in un cantuccio. «Questo poi è troppo, babbo mio.»
«Lascialo dire...», mormorava Mattia, tutto contento per le spacconate del padre.
«Tu sta zitto, figlio mio, tu di queste cose non ne sai, tu sei nato ieri. Ma che state facendo,
giovanotti? Bevete, bevete, che diavolo! L'uomo è nato per bere, e noi siamo uomini.»
«Siamo tutti uomini», concludeva filosoficamente, con accento persuasivo, «uomini voi e noi, e
bisogna compatirci a vicenda. Oggi voi avete le spade e rappresentate il Re, che il diavolo lo fugga,
ma domani? Ebbene, domani può darsi che rappresentiate un corno, e può darsi che zio Portolu
allora vi sia utile. Perché io sono di buon cuore, ah, questo può dirvelo tutto il paese; come zio Berte
ce ne son pochi. Ma anche i figli miei son di buon cuore; hanno il cuore come colombi. Ebbene, se
voi passate nel nostro ovile, nella <I>Serra</I>, noi vi daremo latte, formaggio, ed anche miele. Eh,
abbiamo anche miele, noi! Ma voi, giovanotti, chiudete un occhio, o magari tutti e due, non spiate al
Re tutte le cose che vedete, perché infine tutti siamo uomini, tutti siamo soggetti all'errore...»
I due giovanotti ridevano, bevevano, e se occorreva chiudevano davvero un occhio e magari tutti e
due sulle debolezze dei Portolu e dei loro amici.
A proposito di amici, vennero a trovar Elias anche quelli dalla cui mala compagnia egli e la famiglia
facevano dipendere la <I>disgrazia</I>: e nonostante i suoi propositi, di non riceverli, anzi di
chiuder loro il portone sul muso se si azzardavano di venire, egli li accolse cristianamente, e zia
Annedda diede loro da bere.
«Che cosa si vuol fare?», disse lei, quando se ne furono andati.
«Bisogna esser cristiani, bisogna compatire. Che Dio li perdoni!»
«Eppoi è meglio star in pace con tutti. Il Signore comanda la pace», rispose Elias.
«Che tu sii benedetto, Elias, tu hai detto una grande verità.»
Ah, come si sentiva contenta zia Annedda quando il figliuolo parlava di Dio! E quando lo vedeva
tornar dalla messa; e quando egli leggeva in quel grosso libro nero, portato da <I>quel luogo!</I>
«Che Dio sia lodato!», pensava tutta commossa, «egli torna ad esser buono come lo era da
bambino.»
Intanto madre e figlio si preparavano a sciogliere il voto a San Francesco.
La chiesa di San Francesco sorge sulle montagne di Lula. La leggenda la dice edificata da un
bandito che, stanco della sua vita errabonda, promise di sottomettersi alla giustizia e di far sorgere la
chiesa se veniva assolto. Ad ogni modo, vera o no la leggenda, i priori, cioè quelli che dirigono la
festa, vengono ogni anno sorteggiati fra i discendenti del fondatore o dei fondatori della chiesa.
Tutti questi discendenti, che si dicono anche parenti di San Francesco, formano, al tempo della festa
e della novena, una specie di comunità, e godono certi privilegi. I Portolu erano nel numero. Pochi
giorni prima della partenza, Pietro si recò a San Francesco col suo carro e i suoi buoi, e prestò gratis
l'opera sua, assieme con altri contadini e muratori, alcuni dei quali lavoravano per <I>voto</I>.
Accomodarono la chiesa e le stanzette costrutte intorno, e trasportarono la legna che dovevano
ardere durante il tempo della novena. Zia Annedda, per parte sua, mandò una certa quantità di
frumento dalla prioressa, e assieme con le altre donne della <I>tribù</I> dei discendenti dei
fondatori della chiesa, aiutò a pulir la farina ed a fare il pane da portarsi alla novena. Una parte di
questo pane fu, da un messo del priore, recato in dono agli ovili della campagna nuorese. Ad ogni
ovile un pane. I pastori lo ricevevano con devozione, e in ricambio davano quanto più potevano dei
loro prodotti: alcuni anche denaro e agnelli vivi: altri promettevano di donare intere vacche che
andrebbero ad aumentare gli armenti del Santo, già ricco di terre, denari e greggie. Quando il messo
arrivò nell'ovile dei Portolu, zio Berte si scoprì il capo, si segnò, baciò il pane.
«Ora non ti do nulla», disse al messo, «ma il giorno della festa io sarò là, presso la mia piccola
moglie, e porterò al Santo una pecora non tosata e tutta l'<I>entrata</I> [5] di un giorno delle mie
greggie. Zio Portolu non è avaro e crede in San Francesco, e San Francesco lo ha sempre aiutato.
Ora va con Dio.»
Zia Annedda intanto continuava i suoi preparativi: fece del pane speciale, biscotti, dolci di mandorle
e miele; comprò caffè, rosolio, altre provviste. Elias seguiva con occhio affettuoso l'affaccendarsi
calmo di sua madre: talvolta l'aiutava. Egli non usciva quasi mai di casa; si sentiva sempre fiacco,
debole, e spesso i suoi occhi azzurri-verdognoli, un po' infossati, avevano una fissazione vitrea, e si
smarrivano nel vuoto, nel nulla: parevano gli occhi d'un morto.
Finalmente giunse il giorno della partenza. Era una domenica, ai primi di maggio. Tutto era pronto
entro le bisaccie di lana; e qua e là per le vie si vedeva qualche carro carico di attrezzi e provviste,
coi buoi aggiogati per la partenza.
Zia Annedda ed Elias, prima di partire, andarono ad ascoltar la messa nella chiesetta del Rosario:
poco prima che la messa cominciasse venne un uomo, un paesano, andò davanti ad un altare e prese
una piccola nicchia di legno e vetro; dentro c'era un piccolo San Francesco: mentre stava per uscire,
alcune donne gli fecero cenno perché si accostasse e porgesse da baciare la nicchia: anche Elias lo
chiamò con un cenno del capo e baciò il vetro ai piedi del Santo.
Poco dopo tutti erano in viaggio. Il priore, un paesano ancor giovane, con la barba quasi bionda,
montava un bel cavallo grigio, e portava lo stendardo e la nicchia: seguivano altri paesani, con
donne in groppa ai cavalli; donne che cavalcavano da sole, donne a piedi, fanciulli, carri, cani.
Ciascuno però viaggiava per conto suo, chi più in là, chi più in qua della strada.
Elias, con zia Annedda in groppa ad una mansueta cavalla balzana, era fra gli ultimi: un puledrino,
figlio della cavalla, poco più grande d'un cane, li seguiva da vicino.
Era un mattino bellissimo. Le forti montagne verso cui si viaggiava sorgevano azzurre sul cielo
ancora acceso delle fiamme violacee dell'aurora. La valle selvaggia dell'Isalle era coperta di erbe e
di fiori; sul sentiero roccioso spiovevano, come grandi lampade accese, le ginestre d'oro giallo. Il
fresco Orthobene, colorato del verde dei boschi, dell'oro delle ginestre, del rosso fiore del musco, si
allontanava alle spalle dei viandanti, sullo sfondo perlato dell'orizzonte. D'un tratto la valle s'aprì:
apparvero solitarie pianure coperte di messi ancor tenere, brillanti di rugiada, che, sotto i raggi del
sole non ancora alto, avevano un luminoso fluttuare di argento. I prati coperti di papaveri di timo, di
margherite, esalavano irritanti profumi.
Ma i viandanti dovevano salire le montagne e lasciarono di fianco le pianure conducenti al mare. Il
sole cominciava a batter forte; e i rozzi cavalieri nuoresi cominciavano a bere, per «rinfrescare la
gola», fermando di tratto in tratto i cavalli e arrovesciando il viso sotto le zucche incise dove
tenevano il vino. Una grande allegria era in tutti. Alcuni spronavano ogni tanto i cavalli,
slanciandosi ad un agile galoppo, poi ad una corsa sfrenata, arrovesciandosi un po' indietro,
emettendo grida selvaggie di gioia.
Elias li seguiva con occhio fisso, e il suo viso s'illuminava; anche lui aveva voglia di gridare;
sentiva un brivido per le reni, un istintivo ricordo di corse lontane, un bisogno di slanciarsi ancora
all'agile galoppo, alla corsa inebbriante e libera; ma il braccio sottile di zia Annedda gli legava la
vita, ed egli non solo frenava il suo istinto d'uomo primitivo, ma rimaneva assai indietro a tutti i
cavalieri, perché la polvere da essi sollevata non offendesse la vecchietta.
Finalmente cominciarono a salir la montagna. Fitte macchie di lentischi salivano e scendevano tra il
fosco brillar dello schisto, costellate di rose canine in piena fioritura. L'orizzonte stendevasi ampio e
puro, il vento odoroso passava ondulando le verdissime brughiere: ineffabile sogno di pace, di
solitudine selvaggia, di silenzio immenso appena rotto da qualche richiamo lontano di cuculo, e
dalle voci sfumate dei viandanti. Ed ecco, d'un tratto, il sublime paesaggio profanato e desolato
dalle bocche nere e dagli scarichi delle miniere: poi di nuovo pace, sogno, splendore di cielo, di
pietre fosche, di lontananze marine: di nuovo il regno ininterrotto del lentischio, della rosa canina,
del vento, della solitudine.
A un certo punto, in un'altra spianata, fra i lentischi, tutti si fermarono: alcune donne smontarono di
sella, gli uomini bevettero. La tradizione dice che là volle fermarsi la statua del Santo mentre la
trasportavano alla chiesuola, e che volle da bere! Si scorgeva la chiesa, coi suoi muri bianchi e i tetti
rossi, adagiata a mezza china tra il verdeggiar delle brughiere.
Dopo una breve sosta si riprese il viaggio. Ed Elias Portolu e zia Annedda restarono gli ultimi. La
mèta s'avvicinava; il sole s'avviava allo zenit, ma il vento gradevole, odoroso di rose canine, ne
temperava l'ardore.
Ecco il fondo d'una piccola valle, ecco di nuovo la salita: i bianchi muri, i rossi tetti si avvicinavano.
Coraggio, la salita si fa aspra ed arida, attaccatevi bene alla vita di Elias, zia Annedda! La cavalla è
stanca, tutta lucente di sudore; il puledrino non ne può più. Coraggio. L'accampamento è vicino;
ecco la bella chiesa, con le casette intorno, col cortile, col muro di cinta, col portone spalancato.
Sembra un castello tutto bianco e rosso sull'azzurro intenso del cielo, sul verde selvaggio delle
brughiere ondulate.
Dal basso Elias e zia Annedda vedevano i cavalli e i cavalieri spingersi, aggrapparsi, entrar compatti
per il portone spalancato, tra un nugolo di polvere. Gli uomini perdevano le berrette, le donne i
fazzoletti; alcune tenevano i capelli sparsi, scioltisi nel moto affannoso del cavalcare. Una campana
stridula suonava dall'alto, e i suoi piccoli rintocchi di gioia si spezzavano, si smarrivano in
quell'immensità di cielo azzurro e di paesaggio verde.
Elias e zia Annedda entrarono ultimi. Nel cortile invaso d'erbe selvaggie, pieno di sole cocente, era
un affannarsi d'uomini e di donne, una confusione di bestie stanche e sudate. Qualche bimbo
strillava, qualche cane abbaiava. Le rondini passavano stridendo sopra il cortile, quasi spaurite nel
vedere quella grande solitudine di montagna così improvvisamente animata. E invero pareva che
una tribù errante fosse venuta di lontano per dare l'assalto a quel piccolo villaggio disabitato. Le
porticine s'aprivano, le tettoie risuonavano di grida e di risate.
Elias aiutò tranquillamente sua madre a smontare, poi smontò egli stesso, legò la cavalla e si caricò
sulle spalle, una dopo l'altra, le colme bisaccie che contenevano provviste e coperte. E i Portolu,
come tutti gli altri della tribù dei fondatori della chiesa, presero posto nella <I>cumbissia
maggiore</I>. È questa <I>cumbissia</I> una lunghissima stanza, semibuia, rozzamente selciata,
col sotto-tetto di canne. Di tratto in tratto, infisso al suolo, c'è un focolare di pietra, e sulle rozze
pareti un grosso piuolo. Ognuno di questi piuoli indica il posto ereditario delle famiglie discendenti
dai fondatori.
I Portolu presero possesso del loro chiodo e del loro focolare in fondo alla <I>cumbissia</I>, che in
vero quell'anno non era molto animata. Solo sei famiglie l'abitavano, il resto dei novenanti era gente
non appartenente alla tribù, e quindi abitava le altre numerose stanzette.
Il priore con la sua famiglia, il cui posto d'onore era distinto da un armadietto praticato nel muro e
chiuso, prese però posto per due o tre famiglie. Era una famiglia numerosa quella del priore, con
una prioressa magnifica, grassa e bianca come una vacca, con due belle figliuole e una nidiata di
bimbi già vestiti in costume. Il più piccolo, ancora fasciato, aveva appena un anno; meno male che
fra le masserizie appartenenti alla chiesa c'era anche una piccola culla di legno bianco, ove il bimbo
fu subito deposto.
L'installamento dei Portolu fu in breve fatto. Zia Annedda depose in un buco del muro il suo
canestro di dolci, il suo pane, il suo caffè: sul focolare mise la caffettiera e la pentola; lungo la
parete distese il sacco, la coperta, il guanciale di stoffa rossa, e collocò il cestino di canna con le
chicchere e i piatti. E fu tutto. Per prossimi vicini i Portolu avevano una piccola vedova curva, con
due nipotini; fecero subito amorevole relazione, scambiandosi regali e complimenti. Subito dopo
Elias tolse la sella alla cavalla, e questa col puledrino sfrenò al pascolo nella vicina brughiera.
Mentre nel cortile e nelle stanzette continuavano le grida, il via vai, la confusione, zia Annedda se
n'andò a pregare in chiesa; una chiesetta fresca, pulita, col pavimento di marmo, e un gran Santo
barbuto che in verità inspirava più paura che affetto. E poco dopo ecco in chiesa anche Elias;
s'inginocchiò sui gradini dell'altare, con la berretta gettata sull'omero, e pregò.
Zia Annedda lo guardava intensamente, pregando con fervore: pareva fosse lui il Santo a cui le sue
materne preghiere venivano dirette. Ah, quel profilo delicato e stanco, quel viso bianco e patito,
quanta tenerezza le destavano! E vederlo lì, il diletto figliuolo, inginocchiato ai piedi del Santo,
compiendo il voto fatto in terre lontane, in luoghi ingrati, ah, era una cosa che struggeva il cuore di
zia Annedda.
«Ah, <I>Santu Franziscu bellu</I>, piccolo San Francesco mio, io non ho parole per ringraziarti.
Pigliati la vita mia, se ti piace, tutto quello che vuoi, ma che i miei figli sieno felici, che vadano per
le rette vie del Signore, che non sieno troppo attaccati alle cose del mondo, <I>Santu
Franzischeddu</I> mio!»
A poco a poco il via vai, il chiasso, la confusione cessarono: ciascuno aveva preso il suo posto,
anche l'illustrissimo signor cappellano, un prete alto appena un metro e trenta, molto rosso in viso,
molto allegro, che fischiava ariette di moda e canterellava canzonette quasi di caffè-concerto.
I cavalli furono portati al pascolo; s'accesero i focolari; e la magnifica prioressa e le donne della
tribù cominciarono a cuocere certe spaventose caldaie di minestra condita col cacio fresco. Che vita
gaia cominciò allora per quella specie di <I>clan</I> pacifico e patriarcale! Si sgozzavano pecore e
agnelli, si cuocevano molti maccheroni, si beveva molto caffè, molto vino, molta acquavite. Il
cappellano diceva messa e novena, e fischiava e canterellava.
Il divertimento maggiore era però nella grande <I>cumbissia</I>, di notte, attorno agli alti e
crepitanti fuochi di lentischio. Fuori la notte era fresca, talvolta quasi fredda: la luna calava sul vasto
occidente, dando alla brughiera un incanto selvaggio. O pallide notti delle solitudini sarde! Il
richiamo vibrato dell'assiuolo, la selvatica fragranza del timo, l'aspro odore del lentischio, il lontano
mormorio dei boschi solitari, si fondono in un'armonia monotona e melanconica, che dà all'anima
un senso di tristezza solenne, una nostalgia di cose antiche e pure.
Raccolti attorno al fuoco, i paesani della <I>cumbissia</I> maggiore narravano storie argute,
bevevano e cantavano. L'eco delle loro voci sonore si perdeva al di fuori, in quella grande
solitudine, in quel silenzio lunare, fra le macchie sotto cui dormivano i cavalli.
Elias Portolu prendeva parte al divertimento con piacere intenso, quasi infantile. Gli pareva d'essere
in un mondo nuovo: raccontava le sue vicende, e ascoltava i racconti degli altri quasi commosso.
Inoltre aveva stretto relazione col signor cappellano, e questo nuovo amico gli parlava un linguaggio
divertente, incitandolo a goder la vita, a dimenticare, a spassarsi.
«Servi Dio in letizia», gli diceva. «Balliamo, cantiamo, fischiamo, godiamo. Dio ci ha dato la vita
per godercela un poco. Non dico peccare, veh! ah, questo no! Eppoi il peccato lascia il rimorso, un
tormento, caro mio... basta, tu lo avrai provato. Ma divertirsi onestamente, sì, sì, sì! Io mi chiamo
Jacu Maria Porcu, ovvero prete Porcheddu perché son piccolo. Ebbene, Jacu Maria Porcu s'è
divertito assai in vita sua. Ben fatto! Una notte torno a casa dopo la mezzanotte. Mia sorella dice
che ero ubriaco; ma a me pare di no, caro mio. "Cosa mi dài da cena, Anna?" " Nulla ti do, nulla
Jacu Maria Porcu svergognato: mezzanotte è passata, nulla ti do." "Dammi da cena, Annesa; ad un
prete si deve dar da cena." "Ebbene, ti do pane e formaggio, svergognato, Jacu Maria Porcu,
svergognato, mezzanotte è passata." " Pane e formaggio ad un prete, a Jacu Maria Porcu?" "Sì, pane
e formaggio, eccolo se lo vuoi, se no lascialo." " Pane e formaggio a Jacu Maria Porcu? a prete
Porcheddu? <I>Tè, tè, ziriu, ziriu</I> [6] prendete"; e getta tutto ai cani, prete Porcheddu! Così si
deve fare, giovinotto dalla faccia pallida! E che, perché son prete, non mi devo divertire? Divertire
sì, peccare no!
L'amore si fa per ridere,
L'amore si fa per ridere,
Solo per ridere.
Oggi te, domani un'altra!»
«Costui è matto!», pensava Elias, ridendo, ma si divertiva, e le parole di prete Porcheddu lo
colpivano, gli portavano un soffio di vita, un desiderio di cantare, di godere, di spassarsi.
Quasi ogni giorno, lui, prete Porcheddu, il priore e qualche altro amico se n'andavano lontano,
all'ombra delle alte macchie. Tutto taceva nella metallica quiete del pomeriggio; davanti a loro i
monti pittoreschi di Lula si profilavano nitidi e turchini sul cielo puro, e in lontananza, tra il verde
della brughiera, i cavalli correvano agilmente, inseguendosi in rapidi giri. Pareva un quadro. E gli
amici, piacevolmente sdraiati sull'erba, si raccontavano l'un l'altro il loro passato più o meno
avventuroso, le leggende della chiesa, storielle di donne, vicende epiche accadute ai Sardi antichi.
Spesso la conversazione veniva interrotta da un gorgheggio, da una fischiatina di prete Porcheddu:
qualche volta anzi il signor cappellano balzava improvvisamente in piedi e dava in isgambetti,
oppure cantava accompagnando con mimica grottesca le sue libere canzonette.
Un giorno, l'antivigilia della festa, stavano appunto così, all'ombra d'un gruppo d'enormi lentischi,
ed Elias finiva di raccontare come una volta un detenuto suo compagno aveva bastonato un
aguzzino, perché costui aveva sdegnosamente rifiutato l'invito di bere con certi reclusi, quando s'udì
un fischio tremolante, acuto, che veniva come una freccia dalla parte della chiesa.
Elias balzò in piedi, gridò:
«Questo è il fischio di Pietro mio fratello».
«<I>Ebbé</I>», disse prete Porcheddu, «se è tuo fratello vi vedrete bene! Per ciò ti commovi?»
«Deve esser giunto anche mio padre, e forse c'è anche la fidanzata di Pietro. Andiamo, andiamo...»,
disse Elias, ed era turbato davvero.
«Quando è così, andiamo», disse il priore. «Bisogna far loro onore. Berte Portolu è un buon parente
di San Francesco. Eppoi Maria Maddalena Scada è una bella ragazza.»
«Una bella ragazza?», esclamò prete Porcheddu. Quando è così andiamo.
Elias lo guardò con sdegno; ma prete Porcheddu affrontò quello sguardo, e poi rise, e poi canterellò
la sua canzonetta favorita:
L'amore si fa per ridere,
Solo per ridere,
Solo per ridere...
Intanto s'avviavano verso la chiesa per un sentieruolo appena tracciato fra le macchie e i cespugli,
tra il verde dell'erba fragrante. Il fischio si ripeteva, sempre più vicino e insistente. Elias non s'era
ingannato. Davanti al pozzo, stavano Pietro e zio Portolu; e in mezzo a loro la luminosa figura di
Maria Maddalena. Elias sentì un colpo al cuore. Prete Porcheddu schioccò la lingua sul palato, e
stette zitto, non avendo termini per esprimere la sua ammirazione. E sì che lui diceva
d'intendersene!
Maddalena non era molto alta, né veramente bella, ma piacentissima, svelta, con una finissima
carnagione bruno-rosea, gli occhi lucenti sotto le folte sopracciglia, e la bocca sensuale. Il corsetto
rosso-scarlatto, aperto sulla candida camicia, e il fazzoletto fiorito d'orchidee e di rose, la rendevano
abbagliante. Tra le rozze figure di Pietro e di zio Portolu ella sembrava la grazia tra la forza
selvaggia. Da vicino i suoi occhi lucenti, dalle grandi palpebre, dalle lunghe ciglia, un po' obliqui e
socchiusi, un po' voluttuosi, affascinavano nel vero significato della parola.
«Bene arrivati», disse Elias avanzandosi e stringendole la mano. «Siete qui da molto? Non vi si
aspettava fino a domani.»
«Domani od oggi fa lo stesso», rispose zio Portolu. «Salute a tutti, salute al priore, salute a quel
piccolo prete rosso. Dio lo guardi, si vede che è un prete, sebbene sia in pantaloni.»
«Prete Porcheddu, eh, che ne dite?»
«Con pantaloni o senza, siamo tutti uomini», egli rispose un po' piccato. Poi si volse a Maddalena e
le fece dei complimenti.
«Bada a te», le disse Elias sorridendo, «prete Porcheddu è terribile con le donne.»
«Non più di te», rispose pronto il piccolo prete.
«Ah, ah!», rise soavemente Maddalena. «Io non temo nessuno.»
E zio Portolu:
«Non temer nessuno tu, figlia mia, colomba mia, non aver paura di nessuno: c'è zio Portolu qui, e se
non basta zio Portolu, c'è anche la sua <I>leppa</I>».
E sfoderato dalla guaina il grande coltello che portava infilato alla cintura, lo brandì in aria. Prete
Porcheddu indietreggiò, parando innanzi le mani con un finto comico gesto di terrore.
«Questo è Maometto! Questa è una scimitarra! <I>Allargaribus</I>.»
«Cosa vuole?», disse zio Portolu, rimettendo la <I>leppa</I>. «Questa ragazza, questa colomba, mi
è stata consegnata da sua madre, una colomba vedova. "Arrita Scada", le dissi io, "sta tranquilla, la
colomba non avrà danno alcuno in mani mie. Io la difenderò anche contro il figlio mio, Pietro d'oro,
nonché contro gli altri nibbi ed avvoltoi."»
Zio Portolu parlava sul serio; e ogni tanto volgeva sguardi di selvaggio affetto alla fanciulla.
«Quando è così stiamo attenti», avvertì prete Porcheddu. «E adesso andiamo a bere.»
«A bere, sì, bravo prete Porcheddu. Chi non beve non è uomo, e neppure sacerdote.»
Intanto camminavano. Zia Annedda li attendeva con le sue caffettiere e le sue caraffe e i suoi panieri
di dolci. Maddalena e il suo corteggio irruppero nella <I>cumbissia</I> ridendo e chiacchierando;
in breve fu una confusione di voci, di grida, di risate; un tintinnio di bicchieri e chicchere. S'udiva
zio Portolu raccontare che aveva fatto tutto il viaggio con la pecora, già promessa a San Francesco,
legata sulla groppa del cavallo.
«Era la mia più bella pecora!», diceva al priore. «Così di lana lunga. Eh, zio Portolu non è avaro.»
«Va al diavolo!», gli rispondeva il priore. «Non vedi che è una pecora canuta, vecchia come te!»
«Canuto sei tu, Antoni Carta! Se m'insulti ancora, t'infilo nella mia <I>leppa</I>.»
E prete Porcheddu teneva alto il bicchiere, la testa un po' reclinata sull'omero, gli occhi lusinghieri
rivolti a Maddalena e alle graziose figlie del priore.
Sulla poppa del mio brik,
Buoni sigari fumando,
Col bicchier facendo trik,
Bevo rum di contrabbando.
«Ah! ah! ah!», ridevano le donne.
Elias solo taceva. Seduto su una delle molte selle sparse per la <I>cumbissia</I>, egli centellinava il
suo vino, abbassando e sollevando di tanto in tanto la testa. E ogni volta che sollevava gli occhi
incontrava gli occhi ridenti di Maddalena, sedutagli di fronte, a poca distanza, e quegli occhi obliqui
ardenti gli penetravano l'anima. Egli provava una specie d'ebbrezza, un rilassamento di tutti i suoi
nervi, un piacere quasi fisico, ogni volta che la guardava.
Le voci, le chiacchiere, le risate, le canzonette di prete Porcheddu, le esclamazioni delle donne, gli
giungevano come di lontano: gli sembrava che ascoltasse da un luogo remoto, senza prender parte al
divertimento. Ma d'un tratto qualcuno gli rivolse il discorso, lo richiamò a sé; egli si vegliò come da
un sogno, si rabbuiò in viso, s'alzò ed uscì rapidamente.
«Dove vai, Elias!», gridò Pietro raggiungendolo.
«Vado a guardare i cavalli: lasciami andare!», egli rispose quasi rudemente.
«I cavalli sono accomodati. Perché sei di malumore, Elias? Ti dispiace che sia venuta Maddalena?»
«Macché! Perché mi dici questo?», chiese Elias guardandolo.
«No, mi pareva che tu le tenessi il broncio: mi pare che essa non ti piaccia. Cosa ne dici, fratello
mio?»
«Tu sei matto! siete tanti matti! anche lei, con tutta la sua decantata saviezza, ride troppo.»
Pietro non s'offese. D'altronde egli e tutti in casa sua trattavano Elias come un bimbo, anzi come un
malato: temevano di recargli dispiacere, e lo contentavano in ogni cosa. Anche in quel momento,
vedendo che egli desiderava esser lasciato tranquillo, Pietro ritornò presso la fidanzata.
«Son tanti matti», pensava Elias, vagando di qua e di là. «Ma anch'io? Ah, essa è sposa di mio
fratello: perché son così pazzo da guardarla?»
Rimase fuori tutta la sera.
«Dov'è mai Elias?», chiedeva ogni tanto zia Annedda, guardando intorno inquieta. «Dove sarà
andato quel benedetto giovine? Va a cercarlo, Pietro.»
Ma Pietro badava a Maddalena - che a dire il vero non pareva molto innamorata di lui, o almeno
non dimostrava, forse per tenersi nella compostezza consigliatale da sua madre, - e rispondeva:
«Vado vado», ma non si muoveva.
«Dove sarà mai Elias?», ripeté zia Annedda, giunta l'ora della cena.
«Portolu, va un po' a vedere dov'è tuo figlio.»
Zio Berte, seduto per terra accanto al focolare, arrostiva un agnello intero infilato in un lungo spiedo
di legno. Egli si vantava che nessuno al mondo arrostiva meglio di lui un agnello o un porchetto.
«Andrò, andrò», rispose a sua moglie, «lasciami prima aggiustare i conti con quest'animaletto.»
«L'agnello è arrostito, Berte; va in cerca di tuo figlio.»
«L'agnello non è arrostito, mogliettina mia: cosa te ne intendi tu? Oh che hai da dar consigli anche
su ciò a Berte Portolu? Lascia divertire i ragazzi, del resto; essi devono divertirsi.»
Ma ella insisteva, e zio Berte stava per muoversi quando Elias rientrò. Aveva gli occhi brillanti, il
volto acceso: era bellissimo. Tutti lo guardarono, e zia Annedda sospirò, e zio Berte si mise a ridere
dal piacere, riconoscendo ch'Elias era un po' ubriaco.
Ma Elias non vide che gli occhi obliqui e ardenti di Maddalena, e sentì voglia di piangere come un
bambino.
«È matta!», pensò. «Perché mi guarda così? Perché non mi lascia in pace? Io lo dirò a Pietro, lo dirò
a tutti. Ebbene, se non lo ama, perché lo inganna? Essa è matta, è matta, ma anch'io sono pazzo, io
non devo guardarla, io mi devo strappare il cuore. Ora vado laggiù, dove è Paska, la figlia del
priore, e le faccio la corte... Paska», disse infatti, avvicinandosi al focolare del priore, «tu sei la più
bella parente di San Francesco.»
«E tu il più bello», rispose pronta la ragazza, che stava tutta affaccendata attorno ad una caldaia.
Elias si sedette accanto a lei, guardandola con intensità strana: ella rideva tutta contenta, ma dentro
il cuore egli si sentiva morire.
In fondo alla <I>cumbissia</I> Maddalena guardava, e ogni tanto chinava le larghe palpebre, le
lunghe ciglia, e sembrava allora una Madonna melanconica e rassegnata. Quando la cena fu pronta,
zio Berte chiamò Elias.
«Io resto qui», gridò il giovine, «la più bella parente di San Francesco mi ha invitato al suo
focolare.»
«Tu vieni qui!», gridò zio Portolu. «Nessuno ti ha invitato, ma anche ti avessero invitato, io non ti
permetterei... Se non vieni con le buone, zio Portolu tuo padre ti fa venire con le cattive.»
Elias s'alzò e obbedì: ma non volle mangiare né bere, e rispondeva male se gli rivolgevano il
discorso.
«Perché sei di malumore?», gli chiese Maddalena con buona maniera, mentre finivano di cenare.
«Perché ti abbiamo tolto dal focolare del priore? Va, va e ritorna, stai allegro.»
«Ebbene, e se ritorno?», egli rispose ruvidamente, «che cosa te ne importa?»
«Ah, nulla!», ella disse, irrigidendosi. Poi si volse a Pietro, gli sorrise, badò a lui solo.
Elias balzò in piedi, s'allontanò; ma invece di fermarsi di nuovo al focolare del priore uscì fuori e
sedette nel cortile. Sentiva un'angoscia confusa, febbrile, un desiderio di mordersi i pugni, di
gridare, di gettarsi per terra e piangere. Eppure, nell'ebbrezza del vino e della passione, serbava
ancora coscienza di sé, e pensava:
«Io mi sono innamorato di lei; perché me ne sono innamorato, San Francesco mio? Aiutatemi,
aiutatemi voi! Io sono un pazzo, San Francesco mio, ma sono così infelice!».
Dalle <I>cumbissias</I> venivan fuori, vibranti nel silenzio della notte tiepida e pura, confusi
rumori di voci e di canti, di grida e di risate. Elias distingueva la voce di suo padre, il fischiettare di
prete Porcheddu, il riso di Maddalena, e fra tanta festa si sentiva triste, disperato, come un bimbo
lasciato solo nella selvaggia solitudine notturna della brughiera.
<B>III.</B>
Lentamente i rumori si spensero, e tutto fu silenzio su quella specie di <I>clan</I> addormentato.
Elias rientrò e si coricò a fianco di Pietro, sullo stesso fascio di erba ch'esalava un acre profumo.
Tutta la <I>cumbissia</I> era sparsa di giacigli erbosi; qualche fuoco brillava ancora, spruzzando
tremuli chiarori rossastri su quel vasto quadro silenzioso: si vedeva or sì or no una lunga barba, un
costume lanoso, un volto di donna, una sella, un cane accovacciato accanto ai focolari, un fucile
appeso alla parete. Elias non poteva dormire; e gli pareva di respirare l'alito di Maddalena, coricata
fra zia Annedda e zio Portolu, e continuava a sentire un disperato desiderio di lei; ma lo combatteva.
«No, non temere, fratello mio», diceva mentalmente rivolgendosi a Pietro, «anche se essa venisse a
gettarmisi fra le braccia, io la respingerei. Non la voglio: è tua. Se fosse di un altro, anche a costo di
tornare in <I>quei luoghi</I>, gliela toglierei; ma è tua: dormi contento, fratello mio. Anch'io
prenderò moglie, presto, subito. Chiederò Paska, la figlia del priore.»
«Ebbene», pensava poi, «sono un idiota. Che bisogno c'è di prender moglie, che bisogno c'è di
pensare alle donne? Si può vivere anche senza le donne. Oh che non sono vissuto tre anni senza
neanche vederne? Forse è per questo che, appena tornato, la prima che vedo mi fa innamorare? Ma
io sono un matto: lasciamo star le donne, che fanno diventar matti. Dormiamo.»
Ma si voltava e rivoltava, e non poteva dormire. Così passò quasi tutta la notte, e fu anche fra i
primi a svegliarsi. Dal finestrino aperto su uno sfondo argenteo penetrava la frescura rorida
dell'alba; zia Annedda e Maddalena, ancora assonnate, preparavano già il caffè. Elias si sollevò,
pallido come un cadavere, coi capelli arruffati e la gola chiusa.
«Buon giorno», disse Maddalena sorridendogli. «Guardate, zia Annedda, vostro figlio ha in volto il
color della cera. Dategli subito subito il caffè.»
«Stai male, figlio mio?»
«Credo di essere raffreddato», egli disse con voce rauca, raschiando. «Datemi da bere. Dov'è la
nostra brocca?»
Cercò, prese la brocca e bevette molto, avidamente. Maddalena lo guardava e rideva.
«Perché ridi?», diss'egli deponendo la brocca. «Perché bevo appena alzato? Vuol dire che ieri sera
mi sono ubriacato. Ebbene, il vino è fatto per gli uomini.»
«Tu non sei un uomo», intervenne zio Portolu, che aveva già bevuto dell'acquavite, «tu sei un
bamboccio di formaggio fresco; basta che una donnicciuola ti soffi addosso, puf..., perché tu sii
atterrato, morto, disfatto.»
«Ebbene, sia pure», disse Elias, indispettito, «basti che una donnicciuola mi soffi addosso perché io
caschi morto, ma lasciatemi tutti in pace.»
«Ah, che terribile malumore ti opprime!», esclamò Maddalena. «Forse perché ci sono io?»
«Sì, precisamente, perché ci sei tu.»
«La colomba!», gridò zio Portolu, aprendo le braccia. «La colomba che rallegra i luoghi dove passa.
E mio figlio, questo bamboccio dagli occhi di gatto, dice che lo mette di malumore? Va, va, va,
fammi il piacere, va via, figlio del diavolo! Se sei di malumore, va e appiccati; ma certo è che tu a
zio Portolu non porterai mai un'altra rosa come questa, da rallegrargli la casa.»
Queste parole colpirono Elias al cuore; perché improvvisamente egli ricordò che Maddalena doveva
andar ad abitare nella loro casa, sposa di Pietro, fra poche settimane. Ah, quale martirio doveva
essere! No, egli non avrebbe potuto sottoporvisi.
«Bevi il caffè, figlio mio», disse zia Annedda. «Prendi questo biscotto, sta allegro ché siamo alla
festa, e San Francesco si offende se ci rattristiamo.»
«Ma io sono allegro, mamma mia, sono allegro come un uccello. Ohi!», gridò poi, volgendosi verso
il focolare del priore, «buon dì, Pasqua fiorita.»
Dopo ciò nulla d'interessante accadde quel giorno e l'indomani, nel focolare dei Portolu. La vigilia
della festa arrivò molta gente da Nuoro e dai paesi vicini; da Lula specialmente, per il sentiero erto,
incassato nella montagna fra luminose macchie di ginestra fiorita, scendevano lunghe file di donne
vestite d'un costume un po' caricaturale, con la testa esageratamente allungata da una cuffia
sottoposta al gran fazzoletto frangiato, con le pesanti gonne d'orbace cortissime, con lunghi rosari
incatenati da strani ornamenti d'argento.
Anche i Portolu di Nuoro ebbero molti ospiti, ed Elias e Pietro furono tutto il giorno trascinati qua e
là dai giovanotti nuoresi venuti per la festa. Tutti si ubriacarono fino a perder la ragione, cantarono,
ballarono, urlarono. A momenti Elias pareva impazzito; rideva fino a diventar paonazzo, con gli
occhi verdi, ed emetteva strane grida di gioia, degli <I>uaih</I> lunghi, gutturali, trillanti, che
parevano richiami di battaglia di qualche guerriero selvaggio.
Maddalena, che aiutava zia Annedda a preparare i pasti, a servire vino e caffè agli ospiti, ogni tanto
lo guardava di traverso e mormorava:
«È molto allegro vostro figlio, zia Anné, guardate come è rosso. Come ride!».
Zia Annedda guardava Elias, sospirava e si sentiva una spina nel cuore; e un momentino che ebbe
tempo, entrò in chiesa e pregò.
«Ah, <I>Santu Franziscu meu</I>, San Francesco bello bello, toglietemi questa spina dal cuore.
Elias, il figliuolo mio, sta ritornando nella mala via: ecco che egli si ubriaca, che si strapazza, che
non è più quello. E pareva così buono al suo ritorno, e prometteva tante cose! Abbiate pietà di noi.
San Francesco mio, piccolo San Francesco mio, fatelo rientrare nella buona via, convertitelo voi,
distaccatelo dai vizi, dai cattivi compagni, dalle cose del mondo. San Francesco, fratellino mio,
fatemi questa grazia!»
Il gran Santo severo, quasi truce, ascoltava dall'alto del suo altare rozzamente adorno di fiammanti
fiori d'ogni mese. E parve esaudire la preghiera di zia Annedda, perché quella sera stessa, a cena,
Elias manifestò una sua idea. Si parlava di prete Porcheddu: alcuni lo criticavano, altri lo
deridevano.
Elias, ancora ubriaco è vero, ma non molto, prese a difendere il suo amico, poi disse:
«Ebbene, abbaiate pure, cani rognosi, sparlate pure, egli s'infischia di voi, egli sta meglio del Papa.
E anch'io mi farò prete».
Tutti risero. Egli disse:
«Perché ridete voi, pezzenti morti di fame, cani rognosi, animali, che altro non siete? Ebbene, sì, mi
farò prete: e cosa ci vuole? il latino lo so leggere. E spero di portare a voi tutti il viatico e di
sotterrarvi morti di fame».
«Anche a me, fratello mio?», gridò Pietro.
«Sì, anche a te.»
E Maddalena:
«Anche a me?».
«Anche a te!», gridò Elias, inferocito. «E a te perché no? Perché sei una donna? Per me donne e
uomini sono la stessa cosa, anzi le donne sono più spregevoli degli uomini.»
«Tutto questo non importa», disse zio Portolu, che ascoltava con molta attenzione le parole d'Elias.
«Torniamo all'argomento. Dunque tu ti faresti prete?»
«Pare così!», gridò Elias versandosi da bere. «Bevete, bevete, versate, trinchiamo.»
Vennero colmati i bicchieri.
«Piano, piano», gridò zio Portolu, fra l'allegria generale, «ragioniamo, prima di bere...»
«Chi non beve non è uomo, babbo mio», disse Pietro, ripetendo l'assioma tante volte pronunziato da
suo padre. Ma questi s'adirò sul serio, e più che gridando disse:
«Anche le bestie ragionano, figlio del diavolo! E tu rispetta tuo padre, e ringrazia la presenza di
questi amici e di questa colomba, altrimenti ti darei tanti schiaffi quanti capelli hai sulla testa».
«Bumh! Bumh! zio Portolu! Questo poi è troppo! Ad uno sposo parlare così!»
«Maddalena mia, io sono morto se non mi aiuti», gridò Pietro ridendo.
«Colomba, aiutalo!», disse zio Portolu con ironia; poi si volse di nuovo ad Elias e lo interrogò se
davvero aveva parlato sul serio. Ma Elias beveva, rideva, gridava, e non rispose a tono, e l'annunzio
del suo bizzarro disegno era già svanito fra la rumorosa allegria dei convitati.
Ma qualcuno l'aveva accolto con trepidanza: zia Annedda. Essa taceva, un po' per compostezza, un
po' perché non riusciva ad intender bene quello che si diceva, ma guardava intorno con occhi attenti.
Maddalena le avvicinava ogni tanto il viso all'orecchio, ripetendole questa o quell'altra cosa: zia
Annedda assentiva col capo e sorrideva. Ah, se Elias avesse parlato sul serio! Ma era mai possibile?
Un miracolo così grande! Ah, ma San Francesco poteva fare quello ed altri miracoli. Elias era ancor
giovine, poteva studiare, poteva riuscire. Ed era quella la sua via, la via del Signore, perché se egli
restava nel mondo era un giovine perduto. Zia Annedda pensava così, perché conosceva il suo
figliuolo.
Un momento ch'ebbe tempo, ella entrò in chiesa per ringraziare il Santo dell'idea mandata ad Elias.
Era notte; le lampade oscillavano davanti all'altare, spandendo ombre e luci tremule nella chiesa
deserta: il gran Santo, cupo, pareva assopito tra i suoi fiori d'ogni mese. Zia Annedda s'inginocchiò,
poi sedette in fondo alla chiesa, pregando. Il suo pensiero era sempre rivolto ad Elias: le pareva già
di vedere il figliuolo sacerdote, le sembrava già di ricevere i doni di frumento, le anforette di vino
turate con fiori, le torte e i <I>gattòs</I> [7] che gli amici avrebbero regalato al prete novello.
Mentre così sognava e pregava, vide entrar Maddalena. La giovinetta veniva a cercarla, le si accostò
e le sedette accanto.
«Ah, siete qui!», disse. «Vi cercavamo, ma io ho pensato subito ch'eravate qui.»
«Verrò fra poco.»
«Resto qui anch'io un poco.»
Tacquero. Dal cortile arrivavano confusi rumori, canti e melodie melanconiche, vibranti nella notte
pura. Una voce armoniosa di tenore cantava in lontananza, tra il coro triste e cadenzato
dell'accompagnamento vocale dei canti nuoresi. E quei canti nostalgici e sonori che parevano
impregnati della solenne tristezza della brughiera, della notte, della solitudine, salivano, si
spandevano, attraverso i rumori della folla riempiendo l'aria di fiori di sogni.
Maddalena ascoltava, presa da un senso profondo di tristezza. Or sì, or no, le pareva di riconoscere
quella voce. Era Pietro? Era Elias? Non sapeva, non sapeva, ma quella voce e quel canto corale,
sfumati nella notte, le davano una voluttà di tristezza quasi morbosa. E zia Annedda continuava nel
suo sogno, nella sua preghiera, senza accorgersi che Maddalena le fremeva e palpitava accanto
come davvero una colomba in amore.
Ma ecco, improvvisamente, i pensieri delle due donne sospesero il loro corso; un uomo entrava e si
avanzava con passo incerto verso l'altare. Era la figura che occupava tutta l'anima loro: Elias. Elias
s'inginocchiò sui gradini dell'altare, con la berretta gettata sull'omero destro, e cominciò a picchiarsi
il petto, la testa, e a gemere sordamente. La luce rossastra oscillante della lampada lo illuminava
dall'alto, dando un lucido riflesso sui suoi capelli; ma egli non pensava che potessero vederlo e
continuava nel suo fervore doloroso a gemere e picchiarsi il petto e la fronte.
Le due donne guardavano, trattenendo il respiro, e zia Annedda si sentiva quasi felice del dolore di
suo figlio.
«Egli si pente d'essersi ubriacato», pensava, «egli fa buoni propositi: che voi siate benedetto, San
Francesco mio, piccolo San Francesco mio.»
«Vieni, usciamo, egli potrebbe vederci e vergognarsi», disse sommessamente a Maddalena,
tirandola fuori della chiesa.
«Cosa ha Elias?», domandò Maddalena, turbata.
«Si pente dello stravizio fatto; egli è molto devoto, figliuola mia.»
«Ah
«Qualche volta è impetuoso, ma è un giovine di coscienza, figliuola mia. Ah, molto di coscienza.»
«Ah
«Sì, molto di coscienza, figliuola mia. Egli può essere indotto alla tentazione, perché tu sai che il
diavolo è sempre all'erta intorno a noi, ma Elias sa combatterlo e morrebbe prima di commettere un
peccato mortale. A volte la tentazione lo vince in piccole cose, come oggi; tu hai veduto come si è
ubriacato e come ha parlato male; ma poi egli si pente amaramente.»
«Ah, disse Maddalena per la terza volta; e non sapeva perché, ma si sentiva gli occhi arsi dalle
lagrime.
Attraversarono il cortile e rientrarono nella <I>cumbissia</I>, dove zio Portolu, Pietro e gli amici,
seduti per terra attorno al focolare, cantavano e giuocavano. Maddalena sedette nella penombra,
accanto al finestrino, seria e composta più del solito; Pietro le andò vicino e la guardò intensamente.
«Sei seria, Maddalena. Perché? Hai veduto Elias? Ti ha detto qualche cosa?»
«No, non l'ho veduto.»
«È di malumore, Elias. Lascialo dire, sai, non badargli; egli tratta tutti così.»
«Ma non m'importa!», ella esclamò con vivacità. «Eppoi egli non mi disse nulla di scortese.»
«Eppoi tu sei prudente! Non è vero che sei prudente?», disse Pietro tutto carezzevole, passandole
una mano sulle spalle.
«Lasciami!», diss'ella di cattiva maniera. «Va e gioca.»
«No, io resto qui, Maddalena
«Va
«No
«Zio Portolu, dite a vostro figlio che ritorni a giuocare.»
«Pietro, figlio mio, lascia in pace la colomba. Vieni qui, subito! O vuoi che mi alzi col bastone e mi
faccia obbedire?»
Pietro riprese il suo posto,
«Eh, eh, la vecchia volpe si fa obbedire!», disse qualcuno.
Maddalena si volse tutta verso la finestra, e guardò di fuori, col pensiero ben lontano dalla scena
rumorosa che le si svolgeva alle spalle, i begli occhi smarriti in un triste sogno. Era una notte
tiepida, velata; la luna navigava verso il sud, in un lago di argentei vapori: i cespugli neri della
brughiera, sfumati su sfondi cinerei, odoravano più del solito.
Maddalena pensava ad Elias; ed ecco, per la seconda volta, quasi evocata dalla inconscia
suggestione di lei, la figura di Elias le sorse davanti. Egli passò sotto la finestra; s'allontanò in quel
chiarore vaporoso di luna. Dove andava? Dove andava egli? Maddalena sentì un fiotto di lagrime
salire agli occhi e un fremito percorrerle le viscere e gonfiarle la gola.
Avrebbe voluto gettarsi dalla finestra, correr dietro ad Elias, e avvolgerlo e soffocarlo con la sua
passione. Ma egli sparve, lontano, ed ella ingoiò segretamente le sue lagrime. Elias aveva fatto il
suo voto, aveva detto mentalmente a suo fratello:
«Dormi contento, Pietro, fratello mio; ella è tua, e se anche venisse a gettarmisi fra le braccia, io la
respingerei».
Sfumati i vapori del vino, egli si sentiva forte, e dopo la crisi che lo aveva trascinato ai piedi del
Santo, quasi allegro. Tutti i disperati progetti che fermentati dai liquori e dagli sguardi di
Maddalena, gli avevano turbinato quel giorno nel cervello - l'idea di farsi prete, l'idea di chieder in
isposa la figlia del priore - tutto era svaporato con l'ebbrezza. Ora si sentiva calmo, non solo, ma
anche un po' vergognoso di quanto aveva pensato e detto durante quella giornata torbida.
Andò a guardare i cavalli, che pascolavano tranquilli alla luna, li fece abbeverare, poi ritornò verso
la chiesa.
«Domani si ritorna», pensava. «Posdomani via all'ovile. Resterò dei mesi interi fuori di città, con
mio padre, con quel semplice di Mattia, con gli amici pastori. Che bella vita! Quando sarò solo,
laggiù, tutti questi giorni, tutte queste sciocchezze mi parranno un sogno. Eh, le feste son belle e i
Santi son buoni, ma il vino, la gente, lo spasso, accendono il sangue, e se uno non è savio molto, ma
molto, può commettere grandi errori ed essere indotto in tentazione. Ah, bene, ora vado e mi corico
e dormo, perché la notte scorsa non ho riposato per nulla; poi domani... via... e posdomani si va
lontano, lontano. Eh, Elias Portolu, avresti paura di te?... Ma che mai vedo, lì? un uomo che dorme
sotto quel cespuglio; no, non è un uomo; cosa è dunque? Sì, è un uomo... oh, prete Porcheddu!...»
Si chinò pieno di meraviglia, e scosse il dormiente.
«Ehi, ehi, prete Porcheddu! E cosa è questo? Perché è qui? non sa che quest'aria le potrebbe far
male, e che ci sono delle biscie e degli insetti fra l'erba?»
Dopo molte scosse vigorose prete Porcheddu si svegliò tutto sgomento, stentò a riconoscere Elias,
spalancò più volte gli occhi, ma finalmente si riebbe e si alzò.
«Eh, eh, sono uscito dopo cena, volevo passeggiare, ma pare mi sia addormentato.»
«Pare anche a me! Se non l'avessi veduta per caso, sarebbe rimasta chi sa fino a quando, e chi sa
quanto spavento ne avremmo provato, non vedendola tornare.»
«Non credere che abbia bevuto molto, caro mio, no. Sono uscito così, vedendo la luna, mi sono
seduto qui. Eh, tu non sai che io sono stato una volta poeta?»
«Oh! oh!»
«Vogliamo sederci un po' qui? Guarda che bella notte. Sì, sono stato poeta, ed ho stampato una
poesia, ma siccome questa poesia era d'amore, ebbene cosa mi fa monsignore? Mi manda a dire che
la finisca, che queste non son cose da farsi da un sacerdote.»
«E lei, prete Porcheddu?...»
«E io ho smesso. Figliuolo mio, io so che tu mi hai giudicato un matto...»
«Prete Porcheddu!»
«...un matto, ma sono un matto che non fa male a nessuno, e tanto meno a se stesso. Ho saputo
sempre vivere, sono stato allegro, ma prudente. Così, quella volta, ho smesso, ma mi è rimasta
l'abitudine, talvolta, di fantasticare. Guarda che bella notte, figliuolo mio. È una di quelle notti che
invitano a pensare, a riandare nella propria vita, a pentirsi del mal fatto, a far buoni propositi per
l'avvenire. Tu sei intelligente, Elias Portolu, non sei un pastoraccio qualunque, ed hai studiato e
sofferto, e puoi capire queste cose.»
«È vero», disse Elias con voce profonda.
Prete Porcheddu, col viso rivolto al cielo, guardava la luna: anche Elias sollevò gli occhi, guardò
lassù: si sentiva stranamente intenerito.
«Ecco, figliuolo mio», continuò l'altro, «tu intendi tutte queste cose. Io ho capito che sei intelligente,
e tu guardi la luna non per indovinare le ore, come tutti i pastori, ma con un sentimento alto,
solenne.» Elias, nonostante, non capì bene queste ultime parole. «Anche tu, forse, sei un po' poeta, e
potresti fare poesie d'amore...»
«Questo no, prete Porcheddu.»
Prete Porcheddu tacque un poco, pensoso, grave: poi mormorò una quartina in dialetto. Era una
<I>invocazione al mese di maggio.</I>
<I>Maju, maju, bene eni,
Cun tottu sole e amore,
Cun sa parma e cun su fiore
E cun sa margaritina...</I> [8]
Ed Elias non cessava di guardare la luna domandandosi se sarebbe stato buono a comporre una
poesia per... Maddalena. Ah, ecco che egli si dimenticava, e che il demonio riprendeva il suo
dominio! Ma la voce di prete Porcheddu risuonò, un po' grave, un po' tremula, sommessa eppur
vibrata in quel gran silenzio di luna velata, di brughiera deserta odorante.
«Tu guardi la luna, Elias Portolu, tu pensi di fare una poesia... Ecco che ho indovinato, io. Tu sei
innamorato.»
«Prete Porcheddu!...», disse Elias spaventato, chinando la testa.
Sentì d'un colpo che quell'uomo che gli stava accanto possedeva il suo doloroso segreto: e arrossì di
vergogna e di collera. Avrebbe voluto gettarsi sopra prete Porcheddu e strozzarlo.
«Tu sei innamorato di Maddalena. Eh, non farti rosso, non adirarti, figliuolo mio. Io l'ho indovinato,
ma non spaventarti, non credere che tutti capiscano le cose come le capisce prete Porcheddu.
Ebbene, che vergogna c'è? Essa una donna, e tu sei un uomo, ed essendo un uomo sei soggetto alle
passioni umane, alle tentazioni, direbbe zia Annedda tua madre. La vergogna non sta in ciò, figlio
mio; sta nel non sapersi vincere. Ma tu ti vincerai. Maddalena...»
«Parli piano...», disse Elias.
«Maddalena è per te una cosa sacra. Guardandola è come se tu guardassi una Santa: tu l'hai capito,
non è vero?»
«Io... io l'ho capito...», mormorò Elias.
«Benissimo, tu l'hai capito: l'ho detto io che sei intelligente! Vedi, perché Dio ha creato il giorno e
la notte? Il giorno per dar agio al demonio di combattere contro di noi; la notte perché possiamo
raccoglierci in noi stessi e vincer le tentazioni. Le notti come questa son fatte per ciò, perché in
queste notti così calme, nel silenzio dobbiamo specialmente pensare che la vita nostra è breve, che
la morte viene quando meno si pensa, e che di tutta la nostra vita non portiamo davanti al Signore
che le nostre buone opere, il dovere compiuto, le tentazioni vinte.»
«E la poesia, allora?», chiese Elias, sorridendo a fior di labbro. E pareva lieto di coglier prete
Porcheddu in contraddizione, ma la sua voce era turbata.
«La poesia bella è la voce della coscienza quando ci dice che abbiamo fatto il nostro dovere. Eh,
cosa ne dici, Elias Portolu?»
«Io dico che è vero.»
«Benissimo. Allora possiamo andare. Comincia a far umido, eppoi tu mi hai detto che ci sono le
biscie. Eh, eh, dammi la mano, aiutami ad alzarmi... Eh, io non ho vent'anni per saltare come te.
Bravo, grazie; ora lascia che mi afferri a te. Cosa ne dici di prete Porcheddu?», chiese poi,
prendendo il braccio di Elias. «Esso è un matto, può ritirarsi tardi, bere, cantare, gettare il pane ai
cani, ma non è cattivo. La coscienza, soprattutto la coscienza, Elias Portolu, ricordati della
coscienza! Ah, cosa vedo lì? Una cosa nera, guarda, sarà una biscia?»
«No, è uno sterpo.»
«Vedendoci ritornare così, crederanno che io sia ubriaco. Ma non m'importa nulla perché non lo
sono. Credi tu ch'io lo sia?»
«Oh no!», gridò Elias con impeto.
«Bene, allora ricorderai sempre quanto ti ho detto!»
«Lo ricorderò.»
«Io amo la tua famiglia», cominciò prete Porcheddu, ma tosto si pentì di queste parole, cambiò
abilmente discorso e per tutta l'ora che rimase con Elias non tocco più quell'intimo argomento.
Il nome di Maddalena non fu più pronunziato: ma oramai Elias si sentiva un altro, forte, calmo,
quasi freddo, deciso a lottare fieramente contro se stesso. L'indomani mattina partenza. Il priore
vecchio aveva consegnato lo stendardo, la nicchia e le chiavi al priore nuovo, sorteggiato il giorno
prima; la prioressa aveva diviso il pane e le provviste avanzate e l'ultima caldaia di <I>filindeu</I>
[9] tra le famiglie della grande <I>cumbissia</I>. Fin dall'alba cominciarono i preparativi per la
partenza: furono caricati i carri, sellati i cavalli, colmate le bisaccie. Si partì dopo la messa; e il
nuovo priore richiuse il portone. Le stanzette, la chiesa, le macchie ritornarono deserte, adagiate
sullo sfondo azzurro delle solitarie montagne.
Addio. L'assiuolo riprende il suo grido prolungato, cadenzato, vibrato nel silenzio infinito delle
macchie. Nelle notti fragranti di lentischio, nei lunghi giorni luminosi, esso è il re della solitudine,
esso solo impera, e il suo grido melanconico pare la voce sognante del paesaggio. Addio. I cavalli
trottano, galoppano, scendono e salgono per i verdi avvallamenti della montagna; la buona e fiera
tribù dei <I>parenti</I> e dei devoti di San Francesco torna alla sua piccola città, lassù, dietro le
fresche chine dell'Orthobene, torna al suo lavoro ai suoi ovili, alle sue messi, alla sua vita dura. La
festa è finita.
Zio Portolu recava zia Annedda in groppa al suo cavallo, e Pietro la sua fidanzata. Elias questa volta
galoppava fra i primi della carovana; anche lui spesso si slanciava alla corsa, con le narici frementi e
gli occhi accesi come inebbriato dal vento tiepido e profumato che agitava le macchie fiorite e gli
passava sul viso con forti carezze. In fondo era serio però: non cantava, non gridava, come gli altri,
e non volgeva neppure lo sguardo a Paska, la figlia dell'ex priore, alla quale spesso si trovava
vicino. Paska non mancava di dargli qualche tenero benché timido sguardo, ma egli pensava:
«Perché devo ingannar qualcuno, e tanto più una fanciulla innocente? No, non devo ingannar
nessuno, e tanto meno me stesso».
Ricordava le parole di prete Porcheddu, e i buoni propositi fatti la notte prima: quindi non badava a
Paska, s'allontanava da Maddalena e, senza averne coscienza, cercava fuggire se stesso,
inebbriandosi innocentemente nel galoppo e nelle corse del suo agile cavallo.
La cavalla seguita dal puledrino era montata da zio Portolu e da zia Annedda: Pietro e Maddalena
avevano un cavallo molto mansueto, magruccio e deboluccio. Venivano quindi gli ultimi, e zio
Portolu non cessava di badare a loro. Verso mezzogiorno si arrivò all'Isalle; secondo l'uso si smontò
laggiù, per desinare, sotto un gruppo d'alberi, fra rocce coperte di musco fiorito, in riva all'acqua
corrente. L'accampamento fu presto fatto; sorsero i fuochi, giraron gli spiedi, furono imbandite le
mense. Il meriggio era dolce; grandi, alte macchie di oleandri sorgevano lungo l'acqua corrente,
immobili nell'aria calda; in fondo alla valle le messi splendevano al sole. La nicchia col piccolo San
Francesco fu deposta per terra, sopra un grande fazzoletto disteso; e dopo il pasto uomini e donne vi
si affollarono intorno, inginocchiandosi, baciandola e deponendovi dentro un'offerta. Pietro venne
con Maddalena, e più per esser veduto da lei che per devozione, mise una grossa offerta dentro la
nicchia; poi venne zia Annedda, poi Elias, che si trattenne alquanto, rivolgendo al piccolo Santo gli
occhi pieni di preghiera. Ah, egli si sentiva di nuovo smarrire; il caldo, il torpore di quel meriggio
sereno, il vino, la presenza di Maddalena lo tormentavano aspramente. Ma il piccolo Santo ascoltò
la sua preghiera e gli diede il coraggio di allontanarsi e di coricarsi in riva all'acqua, sotto gli
oleandri, solo: solo e forte contro la tentazione.
Nell'accampamento le donne chiacchieravano, prendendo il caffè e rimettendosi in ordine per la
partenza: gli uomini cantavano o tiravano al bersaglio. Elias sentiva gli spari tuonare, percorrer la
valle, ripetersi nelle verdi lontananze e tornar rimbalzati dall'eco: sentiva voci lontane, sfumate nella
quiete meridiana; il gorgheggio di qualche fringuello, il mormorio dell'acqua corrente; e i suoi sensi
si calmavano nella prima dolcezza del sonno, quando una visione gli apparve. Era Maddalena scesa
a lavarsi. Nel vederlo ella non si turbò, anzi gli si avvicinò, gli si chinò sopra... Ah, troppo! troppo! I
suoi occhi lo incantavano, ardenti, fatali. Egli ricordava il suo voto: «Pietro, fratello mio, anche se
ella venisse a gettarmisi fra le braccia, io la respingerei...». Ma provava un affanno, un delirio che lo
soffocava e lo accecava: avrebbe voluto fuggire e non poteva muoversi, ed ella gli stava vicina, e i
suoi occhi socchiusi, ardenti sotto le larghe palpebre, e le sue labbra e i suoi denti gli facevano
perdere la coscienza.
«Maddalena, amore mio...», mormorò, ma tosto si pentì e si mise a gemere di passione e di dolore.
«Pietro, fratello mio! Pietro, fratello mio...»
Si svegliò tremando: era solo e l'acqua mormorava, e gli uccelli gorgheggiavano; ma non si udivano
più né spari, né voci. Si alzò: quanto tempo aveva dormito? Guardò il sole e il sole declinava. Tutti
erano partiti, ma a guardia del cavallo di Elias restavano due pastori ai quali la carovana, in cambio
dei latticini ricevuti, aveva lasciato gli avanzi del banchetto. Elias li ringraziò e partì. Il suo cavallo
volava, e il moto e il pensiero di raggiungere presto i compagni, dispersero l'impressione ardente e
affannosa che il sogno gli aveva lasciato. Dopo quasi un'ora di corsa vide zio Portolu e zia Annedda,
Pietro e Maddalena, fermi sui loro cavalli, sull'alto di una china. Lo aspettavano forse? Gli altri eran
già lontani.
«Ebbene?», gridò dal basso.
«Che il diavolo ti percuota», gridò zio Portolu, «dove ti sei indugiato? Dà il cavallo a tuo fratello,
perché il suo s'è arenato.»
«No, non glielo do.»
«Elias, figlio mio, obbedisci a tuo padre», disse zia Annedda.
«No», rispose Elias indispettito. «Mi avete lasciato laggiù come un asino; non lo do.»
«Bene, prendi tu allora per un tratto Maddalena: così non si può andare», disse Pietro.
«Ah, Pietro, cosa tu dici», gridò fra sé Elias; e si pentì di aver negato il cavallo, ma non poté più
rifiutare, e neppure poté reprimere in fondo a sé un senso di gioia.
Ma quando sentì, nella discesa, il morbido busto di Maddalena abbandonato un po' troppo, come nel
sogno, sulle sue spalle, e il braccio di lei un po' troppo stretto alla sua cintura, egli, che credeva nei
sogni, ricordò il suo, e stette all'erta.
Portati dal forte cavallo, a momenti, fra le giravolte e le alture e i sentieri incavati nella roccia e
coperti di cespugli fioriti, Elias e Maddalena si trovavano soli, silenziosi, stretti, avvolti nel loro
triste amore. Vi fu un momento nel quale Maddalena, natura appassionata e debole, non poté
vincersi.
«Elias», disse con voce un po' tremante, «scusami se ti do noia!»
«Oh, diss'egli scrollando il capo.
«L'anno venturo condurrai in groppa al tuo cavallo la tua sposa...»
«La mia sposa?»
«Sì, Paska. Allora sarai contento.»
«E tu non sarai contenta?»
«Oh, io sarò morta...»
«Morta!... Maddalena!...»
«Morta... alla vita... all'amore, voglio dire...»
Non solo la sua voce tremava, ma tremava anche la sua mano, posata sulla cintura di Elias, e tutta la
sua persona abbandonata sulle spalle di lui. Anche lui vibrò tutto come una corda spezzata, e
un'ombra gli velò gli occhi: era la stessa angoscia, la stessa ebbrezza del sogno.
«Maddalena...», mormorò, stringendole la mano; ma tosto s'irrigidì, e disse a voce alta: «mi pareva
che tu cadessi; sta dritta, sta in equilibrio».
Nell'anima gli risuonavano forti, insistenti le parole di prete Porcheddu; e il suo voto non gli usciva
di mente.
«Sta tranquillo, Pietro, fratello mio; anche se ella venisse a gettarmisi fra le braccia, io la
respingerei.»
Nuoro era vicina, lassù, dietro l'orlo della valle illuminato dal sole calante. La carovana ferma là in
alto, sui cavalli stanchi e sudati, lucenti sullo sfondo d'oro del cielo, aspettava che tutti giungessero,
per rientrare uniti in paese e girar tre volte a cavallo attorno alla chiesetta del Rosario, la cui
campana squillava già, lontana, argentina, salutando il ritorno del piccolo Santo.
<B>IV.</B>
Ecco, ora Elias è finalmente nella sconfinata solitudine della <I>tanca</I>, animata solo da qualche
grido, da qualche fischio di pastore, dal tintinnio delle greggie e dal muggito degli armenti. Folti
boschi di soveri si profilano sull'orizzonte, chiudendo lo sfondo sereno del cielo. La <I>tanca</I>
dei Portolu era stata anni prima diboscata, e adesso stendevasi aperta, vasta, battuta dal sole. Solo
qualche sovero qua e là sorgeva fra il verde delle erbe, delle macchie, dei rovi; nelle distese umide
la vegetazione era morbida e delicata, profumata di menta e di timo. I pascoli lussureggianti, al
cader della primavera, prendevano un verde dorato luminoso: i cardi aprivano i loro fiori d'oro e di
viola, i rovi sbattevano le loro rose selvatiche. Solo sotto gli alberi e nelle distese umide l'erba
restava verde e fresca. La <I>tanca</I>, sebbene piana e senza bosco, aveva recessi secreti, roccie e
macchie; il corso d'acqua in certi punti scorreva fra boschetti di sambuchi, dove il sole appena
penetrava, formando laghetti verdi e misteriosi, circondati e tramezzati di roccie, sulle quali l'acqua
infrangevasi mormorando. Lungo le rive, per largo tratto, la vegetazione si conservava fresca e
morbida: di notte l'odore dei giunchi e delle mente era quasi irritante. La greggia discretamente
numerosa dei Portolu pascolava nella <I>tanca</I>; le pecore erano grosse per il lungo vello
intricato, gli agnelli grandi e grassi. Fra due o tre giorni dovevasi tosare la greggia. Elias si sentiva
fisicamente bene in quel luogo solitario e selvaggiamente bello, dove era cresciuto, dove era scorsa
la sua prima giovinezza: giorno per giorno rivedeva e riconosceva ogni angolo, ogni recesso della
<I>tanca</I>.
I cani, uno grosso e nero, con occhi selvaggi, olimpicamente posato sotto l'albero al quale era
incatenato, e l'altro piccolo, col pelo irto rossigno, simile a un porchetto, avevano riconosciuto
Elias; ed egli aveva quasi pianto accarezzandoli.
Oltre i cani c'erano nell'ovile un porchetto mansueto e malizioso, coi piccoli occhi vispi e
carezzevoli che parevano occhi umani, un gattone nero ed un bel capretto bianco, che serviva di
guida alle pecore, aprendo allegramente la strada allorché dovevasi varcare un passo difficile o
guadare il rio. Quando non pascolava, il bel capretto stava sempre vicino a Mattia, seguendolo passa
passo, rincorrendolo, saltandogli addosso, facendogli mille moine. Era un animaletto adorabile;
andava nella capanna, molestava il gatto, giuocava col porchetto o col piccolo cane, e dormiva ai
piedi di Mattia.
La vita scorreva semplice e primitiva nell'ovile dei Portolu, frequentato solo dai pastori vicini e da
qualche viandante. Gente equivoca, latitanti od altro, non vi bazzicava: zio Portolu era uomo onesto
ed energico, Mattia un po' semplice, Elias non sentiva alcuna volontà di riattaccare le antiche
relazioni o di farsene delle nuove.
Ora egli amava la solitudine, e spesso, in quei primi giorni passati nell'ovile, sfuggiva persino la
compagnia dei suoi, quando l'opera sua non faceva bisogno. Vagava di qua e di là, ricercando i
luoghi che gli ricordavano la sua fanciullezza, spesso commuovendosi. Si commuoveva facilmente
per ogni cosa, ma dopo il primo istintivo moto d'animo si irritava di questa che egli credeva
debolezza, tanto più che suo fratello e specialmente zio Portolu, se se ne accorgevano, lo
deridevano.
«Ohi, ohi, cosa sei tu?», gli chiedeva zio Portolu.
«Un uomo di cacio fresco sei diventato tu, Elias figlio mio. Eccolo che diventa pallido come una
femminuccia per ogni piccola cosa. Uomini bisogna essere, uomini, leoni; non commuoversi, non
cambiar viso, non piangere. Cosa è un uomo che piange? È un corno. Vedi tuo fratello Mattia? Non
è un'aquila, e si meraviglia di molte cose: ma non cambia certo di colore; e a volte la meraviglia è
anche un'astuzia; eh, non guardarlo così Mattia, egli è più furbo di te.»
Dopo queste piccole prediche, ripetute spesso, Elias proponevasi di esser anche lui furbo e forte, ma
che volete? certi pensieri, certi ricordi, certe sensazioni lo assalivano così all'improvviso che egli
allora non era più padrone di sé, e tornava a intenerirsi, ad arrabbiarsi, a vergognarsi.
Aveva portato con sé tutti i libri che possedeva, ma non crediate che questi volumi formassero una
biblioteca: erano: il libro della Settimana santa, alcuni volumetti religiosi che gli erano stati
distribuiti in <I>quel luogo</I>, la <I>Battaglia di Benevento</I>, opuscoli di poesie sarde e un
vecchio erbario illustrato. Li nascose in un luogo ben sicuro e riparato, sotto una roccia, in un
boschetto di sambuchi, suo favorito luogo di riposo.
Ma zio Portolu e Mattia (questi sapeva leggere) avevano anch'essi i loro libri: <I>I Reali di
Francia</I> e <I>Guerino detto il Meschino</I>, ed anche i <I>Fioretti</I> di San Francesco.
Quante volte Mattia li aveva letti, per sé, per suo padre, per gli amici pastori! E che turbamento
infantile quegli uomini forti, che non volevano commuoversi per altre cose, provavano ogni volta
nel leggere o nell'ascoltare le avventure di Guerino o la parola dei <I>Fioretti</I>!
A tutti i libri Elias preferiva sempre quello della Settimana santa: sapeva già a memoria i Vangeli e
li leggeva quasi speditamente anche in latino. Egli se n'andava nel boschetto dei sambuchi, nella
frescura, nell'ombra olezzante di giunchi, vicino all'acqua mormorante, e leggeva la divina parola. In
quell'ora i lavori dell'ovile erano compiuti: Mattia trottava verso Nuoro sulla cavalla seguita dal
puledrino, colla bisaccia colma di cacio fresco e ricotta; zio Portolu, seduto sul limitare della
capanna, intagliava e incideva pazientemente una zucca, disegnandovi appunto un episodio del
<I>Guerino</I>, borbottando, parlando alla zucca, al temperino, alle dita, all'inchiostro che
adoperava; e le greggie meriggiavano all'ombra delle macchie, e il porchetto, il capretto, il gatto e i
cani dormivano. La <I>tanca</I> tutta riposava nell'ardore del sole, sotto il cielo di metallo chiaro,
cinereo all'orizzonte; non piegavasi uno stelo.
Elias rileggeva il suo libro, cullato dal mormorio dell'acqua; ma in quella pace infinita il suo cuore
non era tranquillo. Spesso, a metà d'un versetto, un ricordo gli brillava nella mente, richiamando
tutta la sua attenzione: e quel ricordo non era buono, ah! non era buono, non era buono!
Qualche volta egli si addormentava così, nella quiete profonda del meriggio, e immancabilmente
Maddalena gli appariva in sogno. Ed erano sogni che lo turbavano e lo eccitavano dolorosamente,
lasciandogli una cattiva impressione per tutto il resto della giornata. Egli aveva sperato di calmarsi e
dimenticare nella solitudine della <I>tanca</I>, lontano da lei; ma i ricordi dei giorni trascorsi a San
Francesco, quel sogno in riva all'Isalle, quel ritorno fatale, erano troppo recenti. Il suo sangue ne era
ancora acceso, e la volontà non bastava a vincer l'incendio: la solitudine, le forze fisiche rinascenti,
aumentavano la passione.
Ma soprattutto l'aumentava il ricordo fisso, insistente, indistruttibile del ritorno dalla festa; i sogni di
Elias rinnovavano quasi sempre quella scena, giacché le sue spalle, la sua vita, la sua mano
serbavano intatta l'impressione fisica del corpo e della mano di Maddalena: e la mente, ricordando
le parole di lei, si smarriva ancora in una vertigine di piacere e d'angoscia.
Egli s'irritava, ma non poteva vincersi; a volte le sue labbra pronunciavano il voto e nello stesso
tempo il pensiero perdevasi là, nel ricordo: allora egli si copriva d'improperi, e avrebbe voluto
bastonarsi, castigarsi, ma gli riusciva impossibile vincersi.
«Mio padre ha ragione», pensava, «io sono un ometto di cacio fresco, una bestia, uno sciocco. Che
bisogno c'è di pensare alle donne, e specialmente alla donna che non si deve guardare? Non si può
vivere altrimenti? Uomini bisogna essere, uomini, leoni; ed io sono un agnello, una pecora matta.
Ma cosa posso far io? Non mi sono fatto io così; se mi fossi fatto io, mi sarei fatto col cuore di
pietra. Ma, chi sa, col tempo mi passerà questa pazzia.»
Pensava così, ma non si confortava, perché sentiva che quella pazzia gli sarebbe durata lungo
tempo.
Intanto un desiderio acuto, quello di riveder Maddalena, gli cresceva di giorno in giorno in cuore;
ma almeno su ciò il suo proposito era fermo. Non solo, ma aveva paura del giorno in cui
Maddalena, Pietro e zia Annedda sarebbero venuti per la tosatura della greggia; eppure contava le
ore che lo avvicinavano a quel giorno, e provava, misto alla paura, un piacere fremente nel sentirlo
avvicinare.
La vigilia di quel giorno egli stava, verso sera, chiudendo un varco del muro della <I>tanca</I>: di
là stendevasi il bosco vigilato da zio Martinu Monne, il «padre della selva». Dove si trovava zio
Martinu? Elias non lo aveva riveduto ancora, sebbene l'avesse cercato due o tre volte.
D'improvviso, quella sera ecco zio Martinu uscire dal bosco e avvicinarsi al muro. Era un vecchio
gigantesco, ancora forte e dritto, coi lunghi capelli giallastri e una folta barba grigia; il suo viso tutto
increspato di rughe dure sembrava fuso nel bronzo. Era maestoso, nel suo costume scuro, sul quale
indossava una sopragiacca senza maniche, di cuoio unto; pareva un uomo preistorico. Elias diede in
esclamazioni di gioia, saltò il muro, tese la mano al vecchio.
«Beato chi vi vede, zio Martinu! Vi ho cercato due volte; come state?»
«Ben trovato! E fra cento anni un'altra disgrazia come quella passata. Come stai? Io sto bene: ho
dovuto assentarmi per vari giorni», rispose zio Martinu, calmo, con voce forte e pronunzia lenta.
Sedettero sul muro e parlarono a lungo, raccontandosi tante cose.
«Il primo giorno che son tornato», disse poi Elias, «ho sognato di voi. Ero nel cortile, in casa, ero
stanco, avevo un po' bevuto e mi addormentai. E ho sognato di voi: stavamo così, come siamo
adesso, davanti a questo muro. Come i sogni si avverano!»
«Oh! oh!», disse l'altro, ma senza meraviglia.
Elias non gli raccontò precisamente il sogno, ma gli chiese:
«Cosa vuoi che ti dica? I sogni veramente non si avverano, ma capita spesso che noi prevediamo
una cosa, ci pensiamo assai, e così la sogniamo: dopo accade; a noi sembra che sia il sogno ad
avverarsi, mentre è una cosa che semplicemente doveva accadere».
Elias ammirò ancora una volta la sapienza di zio Martinu, ma scosse il capo. Ripensava al sogno in
riva all'Isalle: aveva egli preveduto e desiderato forse il colloquio avuto poi con Maddalena? No, gli
pareva di no.
«Domani», disse dopo un momento, «domani tosiamo le pecore, zio Martinu. Verrete da noi, non è
vero? Verrà mia madre, Pietro mio fratello e la sua fidanzata.»
«Ah sì, ho sentito che tuo fratello è fidanzato. È buona la sposa?»
«Sì, pare buona. È bella.»
«Eh, questo non basta. I quadri, che son belli, si attaccano al muro e servono solo di ornamento.
Bisogna che la donna sia buona, sia affezionata al marito, e non ami altro uomo della terra.»
Elias si fece pensieroso e non rispose. D'altronde si faceva tardi, il cielo impallidiva, il bosco taceva
nella quiete solenne della sera: bisognava tornare alla capanna.
«Verrete, zio Martinu? Vi aspettiamo, non mancate.»
«Verrò.»
«Be', non mancate!», avvertì Elias, scavalcando il muro.
«Non ho mai mancato alla mia parola, Elias Portolu. Saluta tuo padre a nome mio.»
«Bene, buona sera.»
«Buona sera.»
Zio Martinu non mancò, anzi venne prestissimo, e aiutò i pastori nei preparativi per quella specie di
festa campestre. L'aurora aranciata incendiava l'oriente, versando splendori d'oro roseo sull'erba e
sulle pietre della <I>tanca</I>; ad ovest il bosco taceva sugli sfondi del cielo di lavagna chiara.
Zio Portolu arroventava una pietra per fare la giuncata. Elias e zio Martinu ammazzavano un
agnello grosso quanto una pecora: lo scuoiarono, lo squartarono e gli estrassero i visceri fumanti.
Poco dopo il sorgere del sole giunsero Pietro e le donne. Venivano lentamente, sopra un carro
guidato da Pietro; nessuno mosse loro incontro, ma Elias si sentì battere violentemente il cuore.
Maddalena scese la prima, agile e svelta, si scosse le vesti, aiutò sua madre e zia Annedda a
scendere.
Mentre Pietro scaricava il carro (zia Annedda aveva portato pane fresco e vino in abbondanza), le
donne s'avviarono verso la capanna; Maddalena era più fresca e graziosa che mai; la camicia
bianchissima, ricamata e inamidata, e la sottana di indiana scura con l'orlo celeste davan risalto alle
sue belle forme. Appena se la vide vicina e fu sotto l'impero di quegli occhi ardenti, Elias si sentì
perduto. Ma in quello smarrimento di piacere angoscioso ebbe la forza di pensare:
«Bisogna che io non mi trovi solo con lei, altrimenti sono un uomo perduto. Bisogna che mi confidi
con qualcuno, perché mi segua sempre e non mi lasci mai solo con lei, se il caso si presenta. Ah, ho
paura di me. Ma a chi dirlo? A mia madre, a mio padre? No, non è possibile. A Mattia? Non
capirebbe. Ah, zio Martinu!».
Respirò. Zio Martinu intanto guardava solenne, dall'alto, la fidanzata, mentre zio Portolu faceva le
presentazioni, ridendo col suo riso forzato e caustico.
«Eh, eh, cinghiale canuto, la vedi la sposa di Pietro? Si chiama Maddalena, e sa filare e cucire, e
nessuno mai ha detto nulla sul conto suo. Guardala, la colomba bianca; non senti che emana
profumo di rose? E questa è Arrita Scada, la vecchia colomba, la vedi, Martinu Monne?»
«La vedo.»
«Buon giorno», disse zia Arrita, rivolgendosi con curiosità al vecchio. «Voi siete d'Orune, non è
vero? State nella <I>tanca</I> del tale?»
«Sono d'Orune, sto nella <I>tanca</I> del tale.»
«Parlerete poi!», gridò zio Portolu. «Ora andiamo a bere la giuncata, a mangiare il latte cagliato.
Andiamo, andiamo, presto!»
«Il sole è appena sorto; non è ora di bere giuncata», disse Maddalena ridendo.
«Figlia mia», sentenziò zia Arrita, «bisogna mangiare e bere quando ci si invita, sia il sole alto o sia
il sole basso.»
«Eh, eh, Martinu Monne, la senti la vecchia colomba? Ti ho ben detto ch'era savia come l'acqua!»
Entrarono nella capanna dove c'era Mattia col capretto da un lato e il gatto dall'altra; poi
sopraggiunse Pietro e il quadro fu completo. Le donne sedettero su sgabelli di sughero, Elias,
silenzioso ma non triste, distribuì i <I>corcarjos</I> [10] d'unghia di pecora, e zio Portolu sturò i
<I>malunes</I> [11] pieni di giuncata e di latte. Zio Martinu dominava la scena, e guardava
ostinatamente Maddalena. Mangiarono e bevettero in abbondanza; la giuncata era squisita, e zio
Portolu si sarebbe offeso se gl'invitati non avessero dato fondo ai <I>malunes</I>.
Subito dopo colazione si cominciò la tosatura; le pecore venivano prese, legate, stese sull'erba,
senza che esse opponessero la minima resistenza; e Mattia ed Elias le tosavano destramente con
grosse forbici a molla. La lana intricata e sporca si ammucchiava qua e là per terra, e le pecore,
liberate dal laccio, tornavano al pascolo rimpicciolite, tranquille.
Le donne, al solito, preparavano il pranzo, riservando a zio Portolu la cottura dell'agnello:
Maddalena però seguiva ostinatamente Elias, come attirata da un magico filo, e ogni volta che egli
sollevava gli occhi incontrava quelli di lei, che pareva volessero affascinarlo. D'un tratto si
trovarono soli: Pietro era andato nella capanna, Mattia rincorreva una pecora più restìa delle altre e
zio Martinu s'allontanò per aiutarlo.
Elias ebbe un attimo di smarrimento, di paura, di piacere indicibile, nel trovarsi solo con
Maddalena; soli, fra l'erba e gli alti cardi fioriti. Il cuore gli batté forte e una vertigine di desiderio
gli turbinò per tutto l'essere, quando i suoi occhi incontrarono quelli appassionati e supplichevoli di
Maddalena.
«Salvami! Salvaci!», gli diceva quello sguardo. «Tu mi ami, io ti amo, son venuta per chiederti di
salvarmi e di salvarci. Elias, Elias!»
Ma egli credeva di perdersi e di perderla, se continuava solo a guardarla: fece violenza a se stesso;
guardò lontano. La pecora correva tra l'erba, inseguita da zio Martinu e da Mattia che cercavano di
spingerla verso una macchia.
«Che stupidi!». disse Elias. «Se fossi andato io, a quest'ora sarebbe tosata.»
E si slanciò lontano, lasciando Maddalena sola, nel sole, tra l'erba e gli alti cardi fioriti; sola, con le
palpebre di Madonna abbassate con rassegnato dolore.
«Zio Martinu», disse Elias al vecchio, mentre Mattia li precedeva tirandosi appresso la pecora
riluttante, «fatemi un piacere, zio Martinu mio, non lasciatemi solo un momento con quella
ragazza.»
Egli parlava piano, un po' ansioso, un po' vergognoso, ad occhi bassi. Zio Martinu lo guardò
dall'alto, lungamente, intensamente: intese, non rispose parola.
«Vi dirò... stasera... Non pensate male, zio Martinu mio», disse Elias sollevando gli occhi. «Mi fido
di voi più di mio padre.»
Zio Martinu non rispose, non si commosse, non sorrise; solo gli batté una mano sulla spalla, e per
tutto il giorno lo seguì passo passo come un'ombra.
Il pranzo fu oltre ogni dire lieto e chiassoso. Portolu annunziò a zio Martinu che Maddalena e
Prededdu si sarebbero sposati tra poco, dopo la raccolta del frumento; ma il vecchio non parve gran
fatto rallegrarsi di questa notizia.
Le donne e Pietro partirono verso il tramonto; Maddalena sembrava allegra, rideva, scherzava, si
rivolgeva a Pietro con continui sorrisi e non badava più ad Elias. Ma Elias, spinto anche un po' dal
suo amor proprio, non s'illudeva su quella falsa allegria.
«Ella mi crederà uno stupido», pensava. «Ebbene, tanto meglio; ma se sapesse... se sapesse...»
A momenti gli sembrava che il cuore gli si schiantasse, e aveva un pazzo desiderio di singhiozzare
forte, di gridare, di portarsi i pugni alla fronte. Intanto il carro s'allontanava, e le macchie
sanguinanti dei corsetti delle donne, e la figura bianca e nera di Pietro sparivano laggiù, nel verde
sfondo della <I>tanca</I>, nelle rosee lontananze del tramonto. Addio, addio. Egli non l'avrebbe
riveduta più così, libera e innamorata, nella solitudine della <I>tanca</I>, palpitante d'amore
accanto a lui, come in quella mattina di primavera. Tutto era finito.
Il carro sparve lontano e tutto fu silenzio, tutto fu vuoto intorno ad Elias. Ma volgendosi per
ritornare alla capanna, egli vide zio Martinu che l'aspettava.
«Io me ne vado», disse il vecchio. «Vuoi accompagnarmi, Elias?»
«Andiamo.»
Andarono. Il sole era tramontato, e i boschi e le lontananze tacevano sotto il cielo tutto roseo, d'un
roseo denso quasi violaceo; tutta la <I>tanca</I>, le macchie lucenti, l'erba immobile, le roccie e
l'acqua riflettevano quella calda luminosità di rosa peonia: era una pace quasi religiosa, come di
chiesa illuminata dai ceri accesi. Zio Martinu ed Elias attraversarono silenziosi tutta la
<I>tanca</I>, ed andarono a sedersi sul muro, seri e gravi.
Elias si sentiva triste; non sapeva come cominciare, e si guardava ostinatamente le mani; zio
Martinu capì in quale stato d'animo si trovava il suo giovane amico, e cercò di trarlo d'imbarazzo.
«Elias Portolu», disse gravemente, «io so quello che vuoi dirmi. Maddalena è innamorata di te.»
«Zitto!», disse l'altro con spavento, mettendogli la mano sul braccio. «Ogni piccola macchia porta
piccole orecchie!» [12], aggiunse tosto, per scusare il suo turbamento.
«Sì», rispose con voce grave il «padre della selva», «ogni piccola macchia, ogni albero, ogni pietra
porta orecchie. E che per ciò? Ciò che io ho detto e che dirò lo può ascoltare chiunque, cominciando
da Dio che è lassù, e terminando nel più misero servo. Maria Maddalena ti ama, tu l'ami; unitevi in
Dio, perché egli vi ha creato l'uno per l'altra.»
Elias lo guardava trasognato; ricordava il colloquio avuto con prete Porcheddu, i consigli, gli
avvertimenti avuti in quella indimenticabile notte di San Francesco. A chi dare ascolto?
«Ma è la sposa di mio fratello, zio Martinu!»
«E se è la sposa di tuo fratello? Lo ama forse? No. Dunque non è sua e non sarà mai sua secondo le
leggi del Signore. Il matrimonio d'amore è il matrimonio di Dio, quello di convenienza è il
matrimonio del diavolo. Salvati, Elias Portolu, e salva la colomba, come la chiama tuo padre. Maria
Maddalena accettò Pietro perché glielo imposero, perché egli aveva grano, perché aveva orzo, fave,
casa, buoi, terre. Il diavolo operava. Ma Dio aveva destinato altrimenti. Egli ti fece tornare, ti fece
incontrare con la ragazza: vi siete visti, vi siete amati, pur sapendo che secondo i pregiudizi degli
uomini non potevate neppure guardarvi. Non senti tu in questo una forza superiore all'uomo, che gli
addita la sua via? Non è la mano di Dio? Pensaci bene. Elias Portolu; ci pensi, pensato ci hai?»
«È vero. Ma Pietro è mio fratello.»
«Siamo tutti fratelli, Elias Portolu. Pietro non è uno stupido, egli capisce la ragione. Va, digli:
"Fratello mio, io amo la tua sposa e lei mi ama; che pensi di fare? Vuoi rendere infelice fratello tuo
e quell'altra creatura innocente?".»
Elias sentì freddo al solo pensiero di parlar così a suo fratello, e scosse la testa con dolore e con
terrore.
«Mai! Mai! Pietro mi ammazzerebbe, zio Martinu!»
«A mio avviso, tu hai paura.»
«Sì, perché nascondervelo? Ho paura, ma non della morte. È che anche Maddalena sarebbe perduta,
e anche Pietro e tutta la mia famiglia. Ma non è solo questa spina che io ho nel cuore, zio Martinu.
È che io amo mio fratello e non voglio, anche ammesso che egli si rassegni, che sia infelice.»
«Pietro potrebbe rassegnarsi più facilmente di te; è un carattere diverso dal tuo. Io capisco i tuoi
buoni sentimenti, Elias Portolu, ma non li approvo. Pensa alle conseguenze; ci hai pensato mai?
Maddalena ti ama perdutamente, io gliel'ho letto negli occhi. Se tu taci, ella sposerà Pietro, verrà a
stare a casa tua, e finirete col perdervi, poiché la natura umana è fragile. Lo senti, Elias Portolu?
Pensato ci hai? La tentazione si vince oggi, si vince domani, ma posdomani finisce col vincere lei,
perché noi non siamo di pietra. Ci hai pensato, Elias Portolu?»
«È vero, è vero!», disse Elias, con gli occhi pieni di terrore.
Tacquero un momento; intorno a loro il silenzio era intenso, infinito; l'ombra calava sui boschi, il
cielo di peonia impallidiva in tenere sfumature di viola... E d'un tratto Elias sentì quella gran pace
arcana penetrargli fino al cuore.
«Ma io», disse con voce mutata, «me n'andrò di casa mia.»
«Prenderai moglie? Bada che ciò sarà forse peggio.»
«No, io non prenderò mai moglie.»
«Cosa farai dunque?»
«Mi farò prete. Voi non vi meravigliate, zio Martinu?»
«Io non mi meraviglio di nulla.»
«Che cosa dunque mi consigliate? Nel sogno che vi raccontai, fatto la prima sera del mio ritorno,
voi mi consigliavate di farmi prete.»
«Una cosa è il sogno, un'altra è la realtà, Elias Portolu. Io non ti sconsiglio se tu hai la vocazione,
ma ti dico che neppure ciò ti salverà. Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne; pensaci
bene.»
«Cosa dunque mi consigliate?»
«Il consiglio te l'ho già dato. Va, ritorna in paese, parla con tuo fratello.»
«Mai... mai... con lui!»
«Ebbene, parla con tua madre. Santa donna è, madre tua: porrà il balsamo su ogni ferita.»
«Ebbene, sì, andrò!», disse Elias con improvviso slancio.
S'era deciso, e un lampo di gioia gli brillò negli occhi. S'alzò, fece qualche passo; avrebbe voluto
partir subito, liberarsi subito da quell'incubo che lo schiacciava: gli pareva tutto facile, tutto
accomodato; e per qualche momento provò una felicità così intensa come mai in vita sua.
«Bene, non perder tempo», gli disse zio Martinu. «Va domani stesso, parla, non aver scrupoli, né
pregiudizi. Ti aspetto qui domani a quest'ora; mi dirai cosa avrai fatto.»
«Andrò, verrò, zio Martinu. Buona notte, e grazie, zio Martinu.»
«Buona notte, Elias Portolu.»
E ognuno andò per la sua via.
L'indomani, alla stessa ora, i due uomini si ritrovarono nello stesso posto, vicino al muro della
<I>tanca</I>. Intorno era lo stesso silenzio, puro, infinito; il tramonto accendeva le estreme cime
del bosco, una gazza cantava in lontananza; ma Elias era triste, sfatto, col volto soffuso di
stanchezza e di sofferenza come nei primi giorni del suo ritorno.
«Zio Martinu mio», disse, «se sapeste come sono andate le cose! È inutile, non posso, non posso
parlare, né con mia madre, né con nessuno. Ieri sera mi sentivo deciso, mi sembrava di aver un cuor
di leone, o per meglio dire una faccia tosta di cuoio. Ebbene, mi corico, dormo, nel sogno mi pare di
esser a casa, di parlare con mia madre... Tutto mi sembrava facile. Mi sveglio, parto, arrivo a casa: e
mi sentivo sempre lieto, pieno di speranza e di coraggio. Chiamo mia madre in disparte, e sento
salirmi alle labbra le parole che già avevo preparate. Essa mi guarda, ed ecco, improvvisamente,
sento battermi forte il cuore, e un nodo mi chiude la gola. Ah, no, zio Martinu mio, è impossibile, io
non posso parlare, anche volendolo. Potrei commettere un delitto, ma rivelare quella cosa ai miei
parenti, no. Non è possibile.»
«Ritenta», provò a dire il vecchio. Ma Elias ebbe un gesto di ripulsione, quasi di rivolta.
«Ah, no!», disse a voce alta. «Non mi tentate, zio Martinu mio; è una cosa superiore alle mie forze:
potrei andare mille volte, senza mai riuscirvi.»
«È vero», disse il vecchio, e parve colpito da un ricordo. «Mi rammento un fatto», aggiunse poco
dopo. «Veramente era cosa più grave assai, ma l'uomo era anche assai più forte di te, coraggioso,
spregiudicato, violento. Doveva commettere un delitto (e ne aveva già commessi altri); doveva
ammazzare un uomo onesto. Gli sembrava una cosa naturale, facilissima, ed in cuor suo era più che
deciso. Arriva il giorno, l'ora designata: egli va in casa dell'uomo onesto, lo trova a cena, può
ucciderlo senza alcun pericolo. Ma l'uomo onesto lo guarda, e basta questo perché l'altro non possa
sollevare il braccio. E questo avviene due, tre, dieci volte.»
Mentre il vecchio parlava, Elias lo divorava con gli occhi, dimenticando il suo affanno nell'ascoltare
quella storia: ah, egli la conosceva già, quella storia, non solo, ma sapeva che l'uomo violento era lo
stesso zio Martinu. Tutti del resto la conoscevano da anni, quella storia, e aggiungevano che l'uomo
onesto, venuto anche lui a conoscerla, chiamò a sé zio Martinu e gli diede da lavorare, lo fece suo
pastore e poi custode delle sue <I>tancas</I>. D'allora in poi zio Martinu era diventato il braccio
destro, il servo più fedele dell'uomo che voleva uccidere.
Ed Elias provò un senso di sollievo; in fondo egli si vergognava della sua debolezza e delle sue
indecisioni continue; ma se un uomo di ferro come zio Martinu Monne nella sua fiera giovinezza
non era riuscito a vincer la potenza d'uno sguardo onesto, come poteva lui, povero debole fanciullo,
vincer l'orrore della confessione ai suoi, ciò che gli sembrava un delitto?
«Il fatto che ti ho raccontato», aggiunse il vecchio, «non ha, certo, confronto con la tua storia; ma
dimostra egualmente come al disopra di noi ci sia una forza che noi non possiamo vincere. Tuttavia
se tu puoi, Elias Portolu, cerca di fare qualche cosa!»
«Io non posso far nulla, zio Martinu!», disse Elias scoraggiato.
«Tu forse desideri che mi intrometta io...», cominciò il vecchio, pensoso, dopo breve silenzio; ma
Elias gli strinse il braccio e protestò fieramente:
«Mai, zio Martinu! Mai, mai! Ah, non mi fate il torto di credere che io ci abbia neppur pensato. Non
solo, zio Martinu, ma se voi rivelate il mio segreto, io non vi guarderò più in viso».
«Tu hai ragione; non è conveniente. Vero!»
«Cosa dunque mi consigliate?»
«Io ti ho già consigliato, Elias Portolu. Fa qualche cosa, muoviti, sii previdente.»
«Io prevedo, zio Martinu. Lascerò compier gli eventi. Poi, se non potrò resistere, farò quanto ieri
sera vi dissi.»
«E tu farai male», disse il vecchio alzandosi. «Tenta da ogni lato, Elias, figlio mio; il fatto che ti
raccontai è finito in bene, per l'indecisione d'un uomo; ma il tuo potrà finir male. Tu sai scrivere;
ebbene, scrivi, poiché tuo fratello sa leggere. Intendetevi, prevedete il futuro. Io non ti dico altro.»
Una luce di speranza balenò ancora agli occhi di Elias.
«Sì. Scriverò.»
Si separarono, senza darsi altro appuntamento, ed Elias s'avviò alla capanna col cuore un po'
sollevato. «Sì, sì», ripeteva fra sé, «scriverò a Pietro come fanno i signori; gli dirò ogni cosa, ed egli
è ragionevole e ascolterà: ho penna e carta; darò la lettera a Mattia... no, la porterò io stesso, la darò
a mia madre perché gliela consegni in proprie mani. Sì, va bene.»
Per lunga ora della notte pensò e ripensò come scrivere la lettera; sapeva già come cominciarla e
come finirla; il resto era facile. Anche il mattino seguente si svegliò ostinatamente fermo nel suo
proposito; appena poté si recò nel suo posto favorito, dove aveva nascosti i suoi libri e la penna e un
tubolo di canna pieno d'inchiostro, e preparò ogni cosa. Sedette accanto ad una pietra elevata, cercò
la miglior posizione e la posizione era ottima per poter scrivere comodamente poi stette un po'
pensieroso.
Il ruscello lì accanto mormorava fra i giunchi; una brezza piacevole serpeggiava fra i sambuchi e le
alte erbe destandovi lunghi fruscii. Vaghi rumori, sfumati, vicini, lontani, animavano la
<I>tanca</I>, sotto la cerula luminosità del puro mattino.
Elias pensava, con le mani non più bianche ferme sul foglio di carta ordinaria steso sulla pietra.
D'improvviso sollevò il capo, e stette come ad ascoltare una voce lontana; poi prese il foglio, la
penna, il tubolo, rimise tutto nel nascondiglio, e ritornò verso la capanna. Non poteva vincer la forza
superiore di cui gli aveva parlato zio Martinu.
<B>V.</B>
Venne l'estate. Tutta la <I>tanca</I> diventò d'un bel giallo pallido, tranne nelle macchie e lungo la
riva del ruscello dove la vegetazione prese un rigoglio tropicale. Che profonde dolcezze di sfondi
c'erano adesso laggiù, nei mattini splendenti, nei crepuscoli d'oro-roseo, nelle notti brillanti di stelle,
purissime, quando la luna nuova calava misteriosamente sui boschi taciti!
Elias si struggeva d'amore e di tristezza, ma non faceva un proposito, non un passo che arrestasse gli
avvenimenti. Intanto il tempo passava; Pietro aveva avuto una magnifica raccolta, e le nozze
dovevano celebrarsi tra pochi giorni. Elias non aveva più riveduto zio Martinu, e non cercava di
rivederlo; ne aveva quasi paura, perché invece di conforto il vecchio, che pure passava per un
sapientone, gli aveva messo l'inferno nell'anima.
«E s'egli avesse ragione?», si chiedeva talvolta; ma tosto si ribellava a questo pensiero, anche perché
sentiva di non aver la forza di agire, di muoversi, di rivelare il suo segreto, e sopratutto di
attraversare la felicità di Pietro.
Ma il ricordo e il desiderio di Maddalena e il pensiero che fra poco ella sarebbe inesorabilmente
perduta per lui, lo struggevano. Cercava di combattere contro il suo cuore e contro i suoi sensi, di
ridersi della sua passione, di essere forte come zio Portolu voleva; che diavolo! ce ne son tante
donne nel mondo; eppoi si può vivere anche senza di esse, anche senza amore; anzi un uomo
veramente uomo deve ridersi di queste cose!
Ma la battaglia era vana; e senza la figura di Maddalena tutto l'orizzonte di Elias si vuotava e si
oscurava. Intanto, come a San Francesco egli aveva ardentemente desiderato la lontananza, la
solitudine, il silenzio della <I>tanca</I>, adesso anelava al giorno delle nozze di Pietro. Così
almeno tutto sarebbe finito, per sempre. Gli pareva che <I>dopo</I> guarirebbe, ritrovando pace e
salute. Perché si sentiva deperire anche fisicamente. L'ardore di quei lunghi giorni luminosi e la
frescura insidiosa delle chiare notti odorose lo annientavano e gli davano la febbre.
Nella sua tristezza egli aveva posto odio agli uomini; anche suo padre e Mattia lo disgustavano, e
quindi li fuggiva, vagava tutto il giorno attraverso la gialla e ardente solitudine della <I>tanca</I>, e
passava le notti all'aperto.
Se dormiva al meriggio, dopo aver letto e riletto i suoi libri santi, si svegliava con la testa cerchiata
da un grave dolore; e poi di notte non poteva dormire. Allora restava a lungo nei suoi nascondigli,
accoccolato sulle pietre, guardando il tramonto della luna sui boschi, o immerso in un'atonia
dolorosa. Zio Portolu, la vecchia volpe, vedeva benissimo lo stato d'animo e di corpo del figliolo,
senza riuscire a indovinarne la causa, e se ne accorava, e sgridava acerbamente Elias nei pochi
momenti che restavano insieme.
«Perché ti nascondi?», gli urlava. «Che vita è questa? Se mediti un delitto, còmpilo e sia finita; se
sei innamorato, appiccati. Uomo sei tu? Un fuscello sei, una statuetta di cacio di vacca! Non vedi
che non puoi stare in gambe, e che il tuo viso è verde come una rana?»
«Sto male», diceva Elias, non per scusarsi, ma perché aveva una folle paura che zio Portolu venisse
ad indovinare il suo segreto.
«Se stai male, cúrati o muori; io non voglio vedere gente debole attorno a me, voglio vedere dei
leoni, voglio veder delle aquile, e tu sei una lucertola.»
«Lasciami in pace, babbo mio», supplicava Elias, allontanandosi infastidito.
«Va al diavolo! Va al diavolo!», gli urlava dietro zio Portolu; ma quando si trovava solo, il vecchio
si rattristava, si sentiva anche lui il cuore piccolo come quello d'un uccellino.
«Sta a vedere che Elias s'ammala. Ah, no. San Francesco mio, pigliatevi me, ma lasciate vivi e forti
i miei figliuoli! I miei figliuolini! i miei colombi! Gli uccellini miei! Ah, che essi siano felici, e che
zio Portolu muoia pure disperato. Elias, Elias, perché non ti curi? Che farò io senza di te? Farò
venire tua madre, ti farò tornare con essa in paese; ed essa ti metterà a letto e ti farà le medicine con
le erbe, col sale, con le sante medaglie, come essa le sa fare.»
Intanto Elias errava qua e là, triste, disperato, irritato contro se stesso e contro gli altri. Una notte zio
Portolu, attraversando la <I>tanca</I>, lo vide appollaiato su una roccia, in contemplazione della
luna.
«Che egli faccia delle magie? Che mediti un delitto? Che voglia farsi frate?», si chiese il vecchio,
fissando il figliuolo, con gli occhi arrossati più che mai dal calore di quelle abbaglianti giornate.
«San Francesco mio, <I>Santu Franzischeddu meu</I>, guaritemi questo figliuolino.»
Ritornò verso la capanna molto angosciato: ah, invero, lo strano procedere di Elias gli avvelenava la
gioia delle nozze di Pietro, che dovevano celebrarsi la domenica seguente. Intanto Elias, dall'alto
della roccia, con gli occhi vitrei fissi e come affascinati dal puro splendore della luna, restava
immobile, immerso in confuse visioni. Era lo stordimento, il ronzìo, la vaga vertigine provata la
prima sera del ritorno nel cortiletto di casa sua. Il vento leggero che stormiva nei boschi, lontano, gli
sembrava una voce confusa, ora dolce, ora paurosa. Che diceva? che diceva il vento? Che
mormorava la selva? Egli avrebbe voluto sentir distinta quella voce, e si angosciava, s'inteneriva,
s'irritava, non riuscendovi. Gli pareva la voce di prete Porcheddu, di Maddalena, di sua madre, di
zio Martinu; ricordava il sogno fatto la prima sera del ritorno e quello in riva all'Isalle, e altri sogni,
altre visioni lontane. E provava in fondo all'anima un'angoscia confusa, per quella voce che non
poteva sentire, per quei sogni, per altre cose che non riusciva a ricordare.
La luna gli batteva sul volto, sugli occhi, dandogli un incantesimo di sogno. Intanto, sulla linea dei
boschi, sui lontani orizzonti, il cielo svaniva in uno splendore di perla: le greggie pascolavano
ancora, in lontananza, spandendo nella solitudine notturna il melanconico tintinnio delle loro
campanelle. Mai Elias si era sentito triste come in quella notte. Gli accadeva anche un cosa insolita;
ricordava cioè i giorni, i mesi, gli anni passati in <I>quel luogo</I>; li ricordava con dolore
umiliante, come non li aveva mai ricordati; e confusamente pensava:
«Ah, se non avessi peccato né frequentato i mali compagni, non sarei stato in <I>quel luogo</I>,
avrei conosciuto Maddalena prima di Pietro, e adesso non sarei così infelice. Mi hanno domato, è
vero, ma mi hanno reso debole come una femminuccia. E dire che io racconto sempre le memorie di
<I>quel luogo</I> e me ne vanto! Svergognato, Elias Portolu, svergognato!».
E gli pareva d'arrossire, e di nuovo i suoi pensieri si confondevano: tornavano le visioni, le voci
confuse, la figura di prete Porcheddu, quella di Maddalena, quella di zio Martinu, ed altre figure
vedute in quel luogo. E l'angoscia confusa che gli gravava sul cuore diventava ognor più pesante,
schiacciante come un macigno. Finalmente gli parve di afferrare il ricordo e sentire la voce: un
brivido gli passò per le spalle, il suo viso diventò livido, i denti batterono.
«Fra tre giorni ella si sposa: tutto è finito!», gridò fra sé. «È questo che mi uccide, ed io non faccio
nulla, non mi muovo, non oso...»
Lo prese un impeto di disperazione, una follia di propositi arditi.
«Io vado, io mi muovo. Non voglio morire: io l'amo, ed essa mi ama, me lo disse laggiù, in riva
all'Isalle... no, mentre tornavamo... infine me lo disse, ed io l'ho baciata, ed essa è mia, è mia, è
mia... Io vado... Ah, fratello mio, ammazzami se tu vuoi, ma essa è mia. Ora scendo, corro, vado a
Nuoro, accomodo le cose. Si può tutto accomodare: zio Martinu ha ragione; ma bisogna che faccia
presto.»
Si mosse; tosto freddi brividi lo assalirono, salendogli dalla punta dei piedi e serpeggiandogli per
tutto il corpo; sedette di nuovo in faccia alla luna, col viso cinereo, battendo i denti. Ricordava
anche il suo voto, la sera che aveva pianto come un bimbo ai piedi di San Francesco; ma oramai
quei propositi erano lontani: gli pareva di esser vinto dalla passione e di non poter più resistere.
Pensava:
«Allora mi sembrava che il giorno delle nozze non arriverebbe mai: ora invece è vicino, è doman
l'altro: bisogna che mi muova».
«Ma perché non posso muovermi?», chiese poi a se stesso, in un momento di lucidità. «Cerco di
muovermi e non posso: mi sento le membra pesanti come pietre. E questi brividi? Ho la febbre,
devo ammalarmi.»
«Ah», pensò poi con terrore, «e se mi ammalo? Se non posso muovermi? E se intanto... Ah, no, no,
io vado, io vado.»
S'alzò pesantemente, scese dalla roccia e s'incamminò barcollando, attraverso le stoppie e il fieno
scintillanti e odoranti alla luna.
Si sentiva sempre il melanconico tintinnio delle greggie, la lontana voce del vento nel bosco. Egli
andava: avrebbe voluto correre, ma non poteva, e ogni tanto si fermava, con un cupo ronzìo e acuti
fischi dentro le orecchie.
D'un tratto si lasciò cadere per terra, sotto un albero, tra i cui rami vedeva la luna guardarlo con un
occhio luminoso quasi abbagliante. Quell'occhio di luna fu la sua ultima percezione; dopo non sentì
che un acuto dolore al ciglio sinistro, e gli sembrò che gli avessero dato un colpo di scure; e il
ronzìo entro le orecchie aumentava. Ma nel suo sogno malefico continuava a camminare, dicendo le
più strane cose. Gli pareva di attraversare un luogo pieno di roccie mostruose, di cespugli spinosi, di
cardi secchi, illuminato da una luce azzurrognola di luna.
Nel delirio ricordava perfettamente dove era diretto e che cosa voleva; ma benché corresse,
arrampicandosi sulle roccie, saltando i cespugli, sudato, affaticato, angosciato, non riusciva ad
allontanarsi da quel luogo misterioso. E ne provava un'ira, un dolore da non dirsi. Tutte le giunture
gli dolevano, sentiva la schiena rotta, i piedi, le mani, le tempia pulsanti, e tutta la persona inondata
di sudore; e andava, andava sempre, su per quelle roccie che gli davano un senso di spavento, di
raccapriccio, in quel chiarore livido di luna invisibile che lo circondava d'una luce strana, più triste e
spaventosa delle tenebre. Quanto tempo durò quella sua lotta immane contro le roccie, i cespugli, i
cardi, quella sua ira indistinta, quel suo spasimo opprimente, quella sua paura di invisibili mostri, di
quella luce orrenda, non seppe precisarlo mai. Altre visioni non meno mostruose, ma confuse,
incalzanti, che s'intrecciavano, si dissolvevano, ritornavano, come nuvole spinte dal vento, lo
avvolsero, lo torturarono.
Giunse infine un momento nel quale l'anima, stanca e vinta, affondò in uno scuro abisso
d'incoscienza, mentre il corpo continuava a soffrire; poi come una triste luce di alba scese
nell'abisso, e crebbe e crebbe, e l'anima percepì la sofferenza del corpo, ma senza più sogni, e il
febbricitante riaprì gli occhi alla realtà.
Si trovò in casa sua, sul suo letto dalla rozza coperta di lana, nell'umile cameretta bianca. Una luce
melanconica di crepuscolo scendeva dalla finestruola semichiusa: dal viottolo giungevano liete
grida di bimbi, e dal cortiletto, dalla cucina, dalle stanzette attigue veniva un sommesso suono di
voci. Doveva esserci molta gente: che dicevano? che facevano? C'era Maddalena? E Pietro? S'erano
sposati?
Elias si sentì gelare; ma oramai il delirio era passato, e anche se Maddalena non ancora sposa gli
fosse venuta davanti, egli non le avrebbe detto nulla. Desiderò anzi che le nozze fossero compiute;
ma con questo desiderio lo assalì una violenta tristezza, e invocò la morte.
Ma invece della morte tornava la vita, tornavano le inquietudini. Aveva parlato nel suo delirio? Che
era accaduto? Come lo avevano trovato? Come lo avevano trasportato? Maddalena lo aveva
veduto? Lo aveva compassionato, Maddalena? A quest'idea della pietà di lei, si sentì intenerire,
desiderò ancora la morte.
In quel punto entrò zia Annedda: vide tosto il miglioramento di Elias e si chinò sul guanciale
sorridendo di gioia e di pietà.
«Saprà?», si domandò Elias abbassando le palpebre livide.
«Figlio mio! Come ti senti?», chiese la madre, posandogli una mano sulla fronte.
«Così.»
«Dio sia benedetto. Hai avuto una gran febbre, Elias. Quasi quasi sospendevano gli sponsali...»
«Ella sa!», pensò egli con dolore.
«Ma stamattina stavi già un po' meglio. Tuo fratello s'è sposato alle dieci.»
«Essi non sanno nulla!»
Ma questo pensiero non bastò a sollevarlo dall'indicibile dolore che le parole della madre gli
davano. Perché in fondo egli sperava ancora: che cosa sperava? Non lo sapeva neppur lui; sperava
l'ignoto, l'impossibile, ma sperava.
Ora tutto era finito. Chiuse gli occhi e non aprì più bocca, e non sentì oltre le parole della madre. Si
sentiva tutto il corpo indolenzito e pesante, immobile come una pietra, e gli pareva che se anche
avesse voluto muoversi non avrebbe potuto.
Tutto era finito.
Zia Annedda lo lasciò ancora solo; nell'aprire ch'ella fece l'uscio, dalla cucina e dal cortiletto
giunsero ad Elias più distinte le voci degli invitati, e qualche sommessa risata. Egli riaprì gli occhi,
guardò le pareti ove moriva la melanconica luminosità del crepuscolo, pensò alla gioia degli altri,
che non si davano pena per lui, e sentì più grave il suo grave dolore, la sua solitudine, la sua fine. E
pianse silenziosamente, perdendosi in un dolore più oscuro della morte.
Intanto la notizia del suo miglioramento, portata in giro da zia Annedda, tolse dall'anima della
famiglia e dei pochi invitati (tutti parenti degli sposi) l'ombra che il malore di Elias vi gettava. Il più
lieto fu naturalmente zio Portolu.
«San Francesco sia lodato», disse, balzando in piedi. «Se il mio figliuolo moriva io non gli sarei
sopravvissuto. Andiamo a vederlo, a tenergli compagnia, andiamo.»
Per la tristezza egli non aveva neppure bevuto, e neppure aveva rifatto le quattro treccioline dei suoi
capelli; ma era pulito, con gli scarponi unti di sego, il costume nuovo fiammante. Solo Maddalena
parve restar indifferente, con le larghe palpebre di Madonna abbassate con rassegnazione: ella
sedeva accanto allo sposo, nel cortiletto, e parlava poco, guardandosi gli anelli e spesso cambiandoli
da un dito all'altro. Pietro era felice; aveva il volto raso, gli occhi lucenti, le labbra rosse; e nella sua
veste da sposo, col candido colletto della camicia trapuntato e con le punte rivoltate sul corpetto di
velluto turchino, sembrava quasi bello.
«Andiamo, andiamo», diceva zio Portolu, smanioso di rivedere Elias. E appena aperto l'uscio della
cameretta cominciò a dir barzellette, ridendo col suo riso forzato, senza accorgersi del dolore
mortale che paralizzava il figlio.
«Lo vedete <I>su bellu mannu</I>, [13] il fiorellino di casa nostra, che voleva morire proprio il
giorno in cui suo fratello si sposava? Son cose da farsi queste? Eh, ma io ti ho veduto sulle pietre,
l'altra sera, e dissi fra me: "il colombo vuole ammalarsi". Poi andiamo, lo troviamo lì sotto
quell'albero, come morto, e lo dobbiamo portar qui sopra un carro. Se son cose da farsi! Ah, tu hai il
volto bianco come la cenere, Elias, eh, eh, vuoi da bere? Eh, eh, il vino guarisce tutti i mali. Tuo
fratello s'è sposato, lo sai? Ti alzerai, poi, e berremo alla salute degli sposi.»
«Lascialo in pace», disse zia Annedda con voce sommessa, tirandogli la falda del cappotto. Ed egli
tacque, fissando con tristezza gli occhi chiusi di Elias.
Gli sposi erano rimasti nel cortile, circondati dai parenti: in verità la conversazione non era molto
animata; si sentiva ancora intorno una pesantezza, una noia, che il contegno timido e freddo della
sposa non riusciva certo a dissipare.
Qualche monello impertinente si affacciava al portone, gridando, chiedendo dolci, lanciando pietre
al muro. In cucina la madre della sposa e un'altra parente preparavano la cena: zia Annedda andava
e veniva, dal cortile alla cucina, dalla cucina alla camera di Elias, in punta di piedi, bianca e calma
in viso. Che Elias doveva migliorare ella lo sapeva: credendo ch'egli avesse «preso qualche
spavento» gli aveva preparato e fatto bere un'acqua speciale, poi gli aveva appeso al collo una
medaglia santa, aveva acceso la lampada a San Francesco, e infine aveva pronunziato le <I>parole
verdi</I>, scongiuro per sapere se il malato doveva vivere o morire. Le <I>parole verdi</I> avevan
risposto ch'egli doveva vivere; San Francesco sia lodato e Dio sia benedetto in tutte le sue sante
volontà.
A poco a poco la gente se ne andò; rimasero solo due fratelli e la madre della sposa, e una vicina
amica di zia Annedda. La cena fu più melanconica del pranzo; si sentiva Elias gemere di tanto in
tanto, e un velo di tristezza gravava su tutti.
«Sembra d'assistere ad una cena funebre», disse zio Portolu, sforzandosi a ridere, ma si sentiva triste
e gli pareva di malaugurio per gli sposi la melanconia che aveva velato quel giorno di nozze.
Quando si assicurò che niente mancava nella mensa, zia Annedda entrò da Elias portandogli una
scodella di brodo.
«Sollevati un po' e bevi, figlio mio», disse amorevolmente, raffreddando il brodo col cucchiaio.
Ma Elias fece una smorfia di raccapriccio e allontanò con la sua la mano di sua madre.
«Elias, figlio mio, bevi, fa il savio: bevi, ché ti farà bene
«No, no, no...», ripeteva egli infantilmente lamentoso.
«Suvvia, fa il savio: se resti così ti ammalerai davvero, e farai peccato mortale, perché il Signore
vuole che conserviamo la salute.»
Egli aprì due grandi occhi pieni d'angoscia e di sofferenza fisica.
«Lasciatemi in pace, lasciatemi morire in pace», disse.
Zia Annedda uscì e rientrò seguita da Maddalena: appena vide la sposa, Elias cominciò a tremare
visibilmente, e non ebbe né il desiderio né la forza di nascondere il suo turbamento. Solo cercò di
mormorare un augurio: «Buona fortuna...», ma le parole gli morirono in gola.
«Elias, perché fai così? Perché non prendi qualche cosa?», disse Maddalena, fredda e ferma. «Non
sei più un ragazzino. Perché addolori tua madre? Su, fa il savio, come dice lei.»
Egli si sollevò immediatamente, prese la scodella e bevette, ansando e tremando tutto come una
foglia. Dopo gli fecero bere del vino, ed egli cadde tosto in un sopore leggero gradevole che in
breve si cambiò in sonno tranquillo.
Ma a notte alta si svegliò, e appena sveglio, nonostante il benessere fisico che il sonno gli aveva
procurato, sentì un impeto d'angoscia indicibile, una disperazione profonda. Maddalena era là, sotto
lo stesso tetto, e Pietro era felice.
Elias sentì che per lui, se era finita la gioia della vita, cominciava lo spasimo della lotta contro la
gelosia, il peccato, il dolore. Intorno e dentro di lui incombeva una terribile oscurità: ed egli sentì
ancora un bisogno pazzo di alzarsi, muoversi, camminare, andare lontano. Era il suo destino.
«Io vado», pensò, «bisogna che vada, che mi muova, che me ne vada lontano, che non ritorni più
qui: altrimenti sono un uomo perduto. Ahi, ahi...»
Si volse contorcendosi; strinse i pugni e batté la fronte sul guanciale, morsicandosi le labbra per
soffocare i singulti e i gemiti, col desiderio rabbioso di strapparsi il cuore, prenderlo dentro il pugno
e sbatterlo al muro.
<B>VI.</B>
S'avanzava l'autunno, portando una dolce melanconia nella <I>tanca</I>. Nei giorni vaporosi il
paesaggio pareva più vasto, con misteriosi confini oltre il velato limite dell'orizzonte; e una
solitudine più intensa gravava sulle tanche; gli alberi, le pietre, i cespugli assumevano qualche cosa
di grave come se anch'essi sentissero la tristezza autunnale. Grandi corvi lenti e melanconici
solcavano il cielo pallido; l'erba di autunno rinasceva sulle stoppie annerite dalle abbondanti piogge
cadute ultimamente.
In uno di questi giorni velati, ancora tiepidi ma tristi, Elias si trovava solo seduto sul limitare della
capanna. Leggeva uno dei soliti libriccini di preghiere e di meditazioni. La greggia pascolava in
lontananza; qualche grazioso agnellino d'autunno, bianco come la neve, belava con lamenti di
bimbo viziato.
Elias leggeva e aspettava zio Martinu Monne, che aveva mandato a chiamare per chiedergli un
consiglio.
«Questa volta», pensava, «questa volta voglio seguire il consiglio del vecchio: egli ha esperienza
della vita, e forse avrei fatto bene a seguire sin dal principio i suoi consigli. Basta», aggiunse poi fra
sé, sospirando. «Ora tutto è finito.»
Finalmente la grande figura del vecchio apparve nello sfondo vaporoso del sentieruolo, avanzandosi
dritta e rigida verso la capanna.
Elias balzò in piedi, rimise il libriccino e andò incontro a zio Martinu. Sebbene sapesse la
<I>tanca</I> deserta, ricordando sempre il proverbio che <I>ogni piccola macchia può nascondere
piccole orecchie</I>, e volendo parlare con sicurezza, condusse il vecchio in un luogo aperto, per
gran tratto privo di macchie e di roccie. Solo qualche pietra giaceva fra le stoppie, e su due pietre
appunto Elias e il vecchio sedettero.
Cominciarono col parlare di cose indifferenti; di ciò che aveva fatto zio Martinu in tutto il tempo
che non s'era lasciato vedere, delle pecore, degli agnelli, d'un toro che era stato rubato in una
<I>tanca</I> vicina. Ma d'un tratto il vecchio fissò Elias in volto e cambiò accento.
«Perché m'hai fatto chiamare, Elias Portolu? Cosa c'è di nuovo?»
Elias vibrò tutto, arrossì e si guardò intorno: non vide nessuno; il bosco, le roccie e le macchie
tacevano negli sfondi vaporosi, sotto il torpore del cielo velato.
«Voglio chiedervi un consiglio, zio Martinu...»
«Altre volte mi hai chiesto consiglio e non l'hai seguìto.»
«Adesso è diverso, zio Martinu. E forse avrei fatto bene a seguirlo allora il vostro consiglio: basta,
ora tutto è finito. Io desidero farmi prete, zio Martinu. Cosa mi dite voi?»
Il vecchio guardò in lontananza, pensieroso.
«Tu sei ancora innamorato?»
«Più che mai!», proruppe Elias: e a poco a poco la sua voce si fece esile, lamentosa, quasi voce di
pianto. «A volte mi sembra d'impazzire. Essa è bella; ah, se vedeste come è bella, ora! Io mi
propongo sempre di non tornare a casa, di non vederla, di non guardarla; ma il demonio mi spinge,
zio Martinu mio; e anch'essa mi guarda, ed io ho paura. Bisogna cercare un rimedio; altrimenti
accadrà quello che voi avete detto.»
«Perché non prendi moglie?»
«Ah, non me ne parlate!», disse Elias, atteggiando il viso a raccapriccio. «La maltratterei, lo sento,
forse diventerei cattivo, e il demonio mi vincerebbe ancora di più.»
«Maria Maddalena dunque ti guarda?»
«Ah, non fate nomi, zio Martinu! Sì, ella mi guarda.»
«Ma dunque non è una donna onesta?»
«Io credo che sia onesta, ma essa non ama suo marito, non lo ha mai amato, e suo marito non la
tratta bene: si è stancato presto, zio Martinu; e poi egli si ubriaca spesso e allora diventa cattivo. Si
bisticciano spesso.»
«Così presto?»
«Eh, in queste cose si comincia presto. Ma appunto perché lei non gli vuol bene, ho paura che Pietro
finirà col bastonarla. Egli non vuole che esca di casa, che vada da sua madre, che chiacchieri con le
vicine.»
«È geloso?»
«No, non è geloso, non lo è mai stato, ma è collerico, beve troppo, abusa del suo benestare.»
«Ah, Elias, Elias! Cosa ti avevo detto io? Se tu avessi seguìto il mio consiglio!», esclamò il vecchio;
ma tosto scosse la testa e aggiunse: «Del resto, chi sa? forse anche con te sarebbe stata la stessa
cosa».
«Ah no! Cosa dite voi?», disse Elias con fervore mentre un doloroso sogno gli splendeva negli
occhi. «Io avrei adorato i suoi pensieri, i suoi desiderii...»
«Oh, lascia correre! Si dice così, ma viene un giorno nel quale ci si stanca di tutto, e specialmente
della donna. Credi tu, Elias Portolu, che questo tuo capriccio duri anch'esso a lungo? Verrà un
tempo in cui ne riderai. Ella avrà dei figli, si sciuperà, non ti guarderà più, diventerà come tante altre
paesane madri di famiglia, sporca di vesti, vecchia, sciatta, brutta.»
«Voi v'ingannate, zio Martinu. Questo è il guaio: ella non avrà mai dei figli, si conserverà a lungo
bella e fresca.»
«Cosa ne sai tu, Elias Portolu?»
«Lo ha detto mia madre, che s'intende di queste cose. Nel malumore di Pietro credo entri soprattutto
ciò. Ah, zio Martinu, non mi tradite se vi confido tante cose, che non direi neppure al confessore.»
«Se tu credevi ch'io potessi tradirti, non dovevi chiamarmi! Ne ho sentito altre che così! Del resto»,
disse poi il vecchio, «non importa che ella non abbia figli, si sciuperà lo stesso.»
«Non credetelo, zio Martinu! È una di quelle donne che con l'andar degli anni, anche se non sono
felici, diventano sempre più belle. In casa non c'è lavoro; se il marito la tratta male, gli altri,
specialmente mia madre, l'adorano; ella starà bene materialmente, sarà sempre bella. Del resto io
non l'amo per la sua bellezza! La amo perché... <I>è lei!</I>..
«Invecchierà. Invecchierete!»
«Ah, da qui ad allora c'è del tempo! Che dite mai voi! voi che siete un sapientone? Non sapete
dunque cosa è la gioventù? Finiremo col cadere in peccato mortale, e allora?»
«Ma credi tu, Elias Portolu, che facendoti prete tutto finisca? L'uomo, il giovane, non morrà in te,
potrai cadere lo stesso, e allora non sarà più un peccato, ma un sacrilegio.»
«Ah no! cosa dite mai?», disse Elias con orrore. «Allora sarà diversa cosa. Essa non mi guarderà
più; eppoi io mi farò mandare in un villaggio.»
«Bene, tutto questo va bene, figlio mio. Ma lasciate da parte tutte le altre cose, dimmi, tu non sei più
un ragazzo: ti vorranno poi? A farsi prete ci vuole tempo, ci vogliono studi, ci vuol danaro; chi sa se
tutto si potrà superare, chi sa se tu intanto potrai vincere la tentazione!»
«Una volta ch'io abbia annunziato il mio proposito, non temo più: ella non mi guarderà più, io mi
vincerò. Non sono più un ragazzo, è vero, ma non ho poi trent'anni come quel pastore che vendette
la sua greggia e che si fece prete in meno di tre anni.»
«Tutto questo va bene; io però dico un'altra cosa: che i preti che si fanno tali per dispiaceri, e
specialmente per dispiaceri amorosi, non mi piacciono punto. Bisogna cominciar da ragazzi,
bisogna farsi per vocazione.»
«La vocazione ce l'ho e ce l'avevo. Mi è venuta da ragazzo e poi mi è ritornata quando ero in
<I>quel luogo</I>. E non pensate, zio Martinu, che se mi faccio prete, ciò sia per poltroneria, per
guadagnare, per viver bene, come tanti altri. È perché credo in Dio e voglio vincer le tentazioni del
mondo.»
«Non basta, Elias Portolu. L'uomo che si fa sacerdote non deve respingere solo il male, ma fare il
bene. Deve vivere tutto per gli altri, deve, in una parola, farsi prete per gli altri e non per sé. Mentre
tu ti fai prete per te solo, per salvar l'anima tua, non quella degli altri. Pensaci bene, Elias Portolu:
ragione ho, sì o no?»
Elias si fece pensieroso: sentiva che il vecchio sapiente aveva ragione, sì, ma non voleva, non
poteva darsi per vinto.
«Infine», disse, «voi mi sconsigliate, zio Martinu? Ma pensate anche voi se fate bene o male:
interrogate la vostra coscienza.»
Zio Martinu, che non si scomponeva mai, parve colpito dall'ultima osservazione di Elias: gli occhi
acuti guardarono lontano, verso l'orizzonte vaporoso, mentre la rude anima assorta sentiva voci
arcane vibrare in quel gran silenzio di deserto.
«La mia coscienza mi direbbe di salire in collera contro di te, Elias Portolu», disse dopo un
momento di silenzio. «Come dice tuo padre, tu non sei un uomo, sei un fuscello, una canna che si
piega al primo urto di vento. Ecco che perché sei innamorato di una donna che non puoi possedere,
che non hai voluto possedere, ecco che vuoi diventare un cattivo sacerdote, mentre potresti essere
un uomo abile al bene. Aquile, bisogna essere, non tordi, Elias: ha ragione padre tuo!»
E mentre Elias restava oppresso sotto queste rudi osservazioni, il vecchio proseguì:
«Sai tu che cosa sia il dolore, Elias Portolu? Ah tu credi di aver bevuto tutto il fiele della vita perché
sei stato in carcere e perché ti sei innamorato della sposa di tuo fratello? Che cosa è ciò? È nulla: un
uomo deve sputare su queste piccole cose. Il dolore è ben altro, Elias, è ben altro. Hai tu provato
l'angoscia di dover commettere un delitto? E poi il rimorso? E la miseria, sai tu cosa sia la miseria?
E l'odio sai cosa sia? E veder il nemico, il rivale trionfatore, impossessarsi del tuo e poi
perseguitarti? E sei stato tradito? dalla donna, dall'amico, dal parente? E hai accarezzato per anni ed
anni un sogno, e poi te lo sei veduto sparire davanti come una nuvola? Ed hai provato cosa sia
l'arrivare poi a non creder più a nulla, a non sperare più in nulla, a veder tutto vuoto intorno a te? Il
non credere in Dio, o il crederlo ingiusto e odiarlo perché ti ha aperto tutte le vie e poi te le ha
chiuse tutte ad una ad una, lo sai che cosa voglia dire, Elias Portolu, lo sai tu?».
«Zio Martinu, voi mi fate spavento», mormorò Elias.
«Vedi che uomo sei! Ti spaventi al solo sentir parlare del dolore dell'uomo. Va, alzati e va, Elias
Portolu, va! va! va! Sei giovine, sei sano, va e guarda in faccia la vita: aquila, sii, non tordo. Del
resto il Signore è grande, e spesso ci riserba delle gioie che noi neppure immaginiamo. L'uomo non
deve mai disperare. Chi sa se fra un anno tu non sii felice e non rida del tuo passato? Va.»
Come suggestionato, Elias si alzò e si dispose ad allontanarsi: ma il vecchio disse:
«Eh, solo mi lasci? Non mi conduci dunque alla capanna: giuncata e latte non me ne dài?»
«Andiamo, zio Martinu: sono stordito come una pecora matta.»
Si avviarono silenziosi; nella capanna Elias diede al vecchio del latte, del vino, pane ed uva, e
parlarono ancora di cose indifferenti. Prima di lasciarsi zio Martinu tornò improvvisamente
sull'argomento:
«Del resto c'è sempre tempo: quando avrai veramente saputo cosa sia la vita, se vuoi ritirarti ritirati
pure. Ma ricordati quello che ti ho detto: meglio essere uomo del mondo abile al bene, che uomo del
Signore portato al male. Addio, abbiti cura».
Elias rimase triste, ma calmo; gli pareva anzi di sentirsi forte, e di vergognarsi della sua passata
debolezza.
«Il vecchio cinghiale ha ragione: bisogna esser uomini», pensava, «bisogna essere aquile e non tordi.
Voglio esser forte: buon cristiano; sì, ma forte.» E per parecchi giorni si sentì triste, ma non
disperato, e fece di tutto per levarsi di testa le idee melanconiche.
L'autunno era straordinariamente mite e dolce nella <I>tanca</I>. Il cielo s'era rasserenato,
assumendo quella dolcezza tenera, inesprimibile, del cielo dell'autunno sardo. Negli orizzonti
lontani, negli sfondi un po' lattiginosi, pareva ci fosse il mare; in certe sere l'orizzonte diventava
tutto d'un roseo latteo madreperlaceo, con qualche nuvola d'un azzurro pallido che sembrava una
vela navigante. Sulle chiarità del cielo il bosco si disegnava con una tinta cupa e umida: le foglie
non cadevano che dai cespugli, ma qualche quercia, smarrita nella vastità della <I>tanca</I>,
cominciava ad indorarsi. E l'erba tenera e fitta cresceva ricoprendo le stoppie brune; qualche fiore
selvatico, specialmente vicino all'acqua, apriva i melanconici petali violetti.
E il sole spandeva tepori grati in ogni cantuccio, sulle macchie, sui muri, sulle roccie; e in quella
dolcezza di sole, sotto il tenero cielo, con i suoi prati d'erba breve e fina, la <I>tanca</I> sembrava
sempre più vasta, sconfinata, coi limiti perduti in riva ai placidi mari dell'orizzonte.
La vita nell'ovile proseguiva calma e, in quella stagione, poco faticosa.
Zio Portolu si assentava spesso e Mattia menava vita un po' selvatica e taciturna. Amava molto la
greggia, i cani, il cavallo, Mattia: il gatto e il capretto, che diventava capro, gli andavano sempre
dietro, ed egli parlava con loro come con amici. Da qualche tempo si trovava occupatissimo a
fabbricare arnie di sughero, volendo nella seguente primavera formarsi un alveare. Era di gusti
semplici e non aveva alcun vizio, ma era superstizioso e un po' pauroso. Credeva ai morti e agli
spiriti erranti; e nelle lunghe notti della <I>tanca</I>, seguendo il gregge aveva più volte impallidito
sembrandogli di veder guizzi misteriosi nell'aria, animali strani che passavano di corsa senza destare
alcun rumore, e nella voce lontana del bosco, in quella immensa solitudine di macchie e di roccie,
sentiva spesso lamenti arcani, sospiri e susurri.
Elias invidiava un po' il carattere e la semplicità del fratello.
«Eccolo», pensava, «egli è sempre calmo come un bimbo di sette anni. A che pensa? che desidera?
Egli non ha mai sofferto e forse non soffrirà mai: egli non è un forte, ma è sempre più forte di me.»
In quello scorcio d'autunno, però, dopo il colloquio con zio Martinu, gli parve d'avere finalmente
acquistata una certa energia; se non altro riusciva a dominarsi ed a far buoni propositi per l'avvenire.
Ma un giorno, rientrando in paese, trovò burrasca fra Pietro e Maddalena. In quel tempo Pietro
seminava il frumento, la cui semente era stata serbata in un'arca sarda antica di legno nero posta
nella camera degli sposi. Ora a Pietro sembrava che una certa quantità di questa semente fosse
venuta meno, ed aveva cominciato a mormorare contro la moglie.
«Cosa vuoi che ne abbia fatto?», diceva Maddalena, assai offesa. «Focacce o dolci? Tu sai che in
casa tua non ci sono segreti, e c'è qui tua madre che vede ogni mio gesto.»
«Essa ha ragione, figlio mio», confermava zia Annedda. «Il frumento non può esser venuto meno:
che potevamo farcene?»
«Voi lo sapete, donne! Voi fate e disfate, avete bisogni segreti, sciocchezze, e per levarvi i capricci
ricorrete alle provviste e decimate il vostro e ingannate il povero marito, che lavora tutto l'anno per
voi.»
Pietro parlava al plurale; ma Maddalena sapeva che ogni parola era rivolta a lei.
«Parla con me», disse inviperita, «non cercar tua madre. Il frumento era in camera nostra.»
«E di lì è mancato.»
«Vuol dire che son stata io?»
«Sì», urlò Pietro.
«Immondezza!»
«Immondezza chi? Io? La vedete, la figlia di Arrita Scada! Maledetta l'ora che ti ho presa!»
Questo ed altri vituperi. In quel punto rientrò Elias, e zia Annedda uscì nel cortile per aiutarlo a
scaricare le bisaccie dal cavallo. Elias sentì il diverbio e provò una stretta al cuore.
«Che cosa hanno?», domandò a denti stretti. «Da che cosa se l'hanno presa? Ah!», disse a voce alta,
dopo aver ascoltato qualche sommessa parola di sua madre, «è un'infamia. Pietro sta diventando
matto? E la nostra casa sta diventando la casa dello scandalo! È tempo di finirla!»
«Siamo anzi al principio!», disse Pietro, fattosi alla porta, con occhi scintillanti d'ira. «E tu ficcati
nei fatti tuoi, se non vuoi prendere tu pure la tua parte.»
«Uomo!», gridò Elias, «da', attenzione a quello che dici.»
«Da' attenzione tu. Io sono un uomo; ma tu sei un corno, e bada di non immischiarti nei fatti miei.»
«Finitela, figli miei, finitela. Cosa è questo? Questo non era mai accaduto in casa mia!», disse zia
Annedda, lamentosa e pallidissima.
«Io sono il padrone», diceva Pietro con burbanza, «bisogna che lo sentiate; il padrone sono io, e se
c'è gente che vuol comandare, io sono pronto a schiacciarla come si fa con le cavallette.»
Entrarono in cucina, e Maddalena, nel veder Elias, nel sentire le parole di Pietro e di zia Annedda, si
mise a piangere. Questo finì di irritare Elias contro Pietro, e Pietro contro Maddalena.
«Sì, lagrimuccie voglio. Donne, donne! Buone azioni voglio, altrimenti d'ora in avanti c'è gente che
farà amicizia col bastone.»
«Prova un po', vigliacco!», gridò Maddalena, ergendosi minacciosa. «Miserabile, calunniatore,
vigliacco...»
Pietro si fece rosso d'ira e le si slanciò contro gridando:
«E ripeti, ripeti, se puoi...».
«Tu sei ubriaco...»
«Finiscila, figlio mio!», gridarono a una voce Elias e zia Annedda, fermandolo.
E Maddalena singhiozzava e ripeteva:
«Calunniatore, vile, vile, vile...».
«Ora vi faccio vedere se sono ubriaco o se son vile!», urlò Pietro divincolandosi; e le andò sopra e le
diede uno schiaffo.
Elias si fece livido; si sentì tremare: per fortuna zia Annedda lo fermò, e Pietro ebbe ancora la
prudenza di andarsene, altrimenti sarebbe accaduto un disastro.
«Questo è per cominciare», gridò Pietro dal cortile, con voce rabbiosa ma ironica. «Potevi
sposartelo tu, fratello mio, quel gioiello! Adesso vado e mi ubriaco e se quando ritorno c'è qualcuno
che vuol sollevare neppure un dito, vedremo chi è il leone e chi la lucertola.»
E uscì. Maddalena aveva cessato di piangere appena ricevuto lo schiaffo; s'era fatta bianca come un
cadavere e tremava tutta d'ira e di dolore, ma aveva istantaneamente capito che se non mutava
metodo veniva a causare gravi disgrazie in famiglia.
«La colpa è mia», disse con voce tremante. «Scusatemi, ma non accadrà più; giacché mi son presa la
croce, saprò sopportarla. Perdonatemi, perdonate lo scandalo, perdonate alla mia lingua. Ah!», disse
poi, mentre Elias pallido e silenzioso la divorava con gli occhi e zia Annedda chiudeva il portone,
«che non ne sappiano nulla mia madre e i miei fratelli!»
«Essa è una santa!», pensava Elias. «Ah, egli non se la meritava; egli è una bestia feroce!»
«Avresti dovuto sposartela tu!» Queste parole di Pietro gli risuonavano nella mente, nel cuore, nel
fremito di tutto il sangue sconvolto.
«Che ho fatto io! che ho fatto io! Che errore irrimediabile! Ora essi sono infelici, perché lei non lo
ama, ed egli deve essere irritato per questo, ed io... cosa sono io? Io sono più infelice di loro, ed io
l'amo più di prima, ed io...»
Sentiva un impetuoso desiderio di prendersi Maddalena fra le braccia e di portarsela via. Era tempo,
era tempo! Chi li divideva? Che cosa li divideva?
Ma zia Annedda rientrò, ed egli tornò alla realtà.
Durante il resto della sera ebbe però occasione di trovarsi solo con Maddalena; ella lavorava
silenziosa, seduta accanto alla porta spalancata; gravi sospiri di tanto in tanto le salivano dal cuore,
ed aveva le palpebre violette, Elias usciva, tornava, non si decideva a partire: un fascino fatale lo
attirava verso quella porta spalancata, lo costringeva ad aggirarsi intorno alla giovine donna come
una farfalla intorno alla fiamma. Egli credeva Maddalena affannata forse più di quanto ella lo era, e
si struggeva del dolore di lei più che del suo. Rimpianti vani, inutili rimorsi, ira contro Pietro,
desideri fatali lo stordivano; avrebbe dato la vita, in quei momenti di passione, per confortar
Maddalena, ma intanto non riusciva a dirle una parola, e si irritava segretamente contro la sua
timidezza.
«Non te ne vai?», gli chiedeva zia Annedda supplichevole. «Parti, figlio mio, va, che è tempo. Va,
che ti aspettano; va.»
«Sempre andrò!», egli rispose alfine, seccato.
«Ah, figlio mio, tu vuoi fare uno scandalo! Va, va. Tuo fratello ritornerà ubriaco; farete di nuovo
scandalo. Ah, figliuoli miei, voi siete senza timor di Dio, e la tentazione vi raggira!»
Maddalena sospirò quasi gemendo, ed Elias fu colpito dalle parole della madre. Era vero: il
demonio lo tentava, ed egli aspettava con acre desiderio il ritorno del fratello per insultarlo, per
fargli scontare il dolore e l'umiliazione di Maddalena. E non bastava; egli guardava già Maddalena
con occhi diversi dal come l'aveva fin allora guardata. Ebbe coscienza di tutto e provò un impeto di
terrore.
«Io sto per perdermi, per perderci!», pensò. «A che è valso il mio sacrifizio? Ho ceduto a mio
fratello la sposa per non vederlo infelice, e adesso sono io, io medesimo, che voglio renderlo
disgraziato. Ma è possibile che io sia capace di tanto? Io? Io?», si interrogava poi con meraviglia.
Gli sembrava di esser diventato un ladro, e si stupiva e si spaventava del suo improvviso
mutamento. «Bisogna che me ne vada, e che non ritorni più», pensò finalmente.
Si decise e partì, con sollievo di sua madre, che aspettava quel momento con trepidanza. Maddalena
rimase al suo posto, e non sollevò neppure quelle sue larghe palpebre violacee di Madonna
addoloratissima; ma egli nel partire l'avvolse in uno sguardo disperato, e s'avviò con la morte nel
cuore.
Un dolore grave, tragico, lo prese da quel giorno: cominciò a disperare di se stesso e di tutto, e ad
odiare i suoi simili. Fino ad allora la sua disperazione e il suo bisogno di solitudine avevano avuto
qualche cosa di mite e di buono; ora diventavano cattivi, acri, accompagnati come erano da un
istintivo desiderio di vendetta. Elias Portolu sentiva che la sorte, la malvagia sfinge che tormenta gli
uomini, era stata ingiusta con lui: egli aveva cercato di fare il bene, sacrificando se stesso, e invece
il bene gli si era convertito in male. Perché? Quale fatalità aveva il diritto di giuocarsi così degli
uomini? Nella immensa solitudine della <I>tanca</I>, sotto il pallido cielo d'autunno, nel
misterioso dolore del paesaggio deserto, dei fumosi orizzonti, l'anima del pastore si proponeva i
terribili quesiti degli uomini raffinati, ma non riusciva a darsi spiegazione. Gli restava solo il dolore,
e nel dolore non solo si smarriva la fede, ma cominciava ad agitarsi il mostro della ribellione.
Più d'una volta Elias, errando presso i confini della <I>tanca</I>, aveva intraveduto zio Martinu,
quel vecchio pagano, la cui rigida figura dominava e nello stesso tempo formava una cosa stessa col
forte triste e fatale paesaggio: ma sempre lo aveva sfuggito irosamente.
«È una vecchia bestia», pensava. «Che cosa è il dolore? Che cosa è il dolore? Lui, il vecchio di
pietra, si è riso di me, ma con tutti i suoi delitti e le sue disgrazie e la sua sapienza non sa ch'io
soffro più in un giorno che lui in tutta la sua vita. Che non mi venga più davanti con le sue prediche
perché lo ammazzo con la scure.»
Eppure sentiva che il vecchio non gli aveva fatto del male; anzi, se avesse seguìto i suoi consigli!...
Ma egli era irritato contro tutti, e soprattutto contro se stesso, e sentiva un crudele bisogno di far
male a qualcuno, fosse pure ad un bambino, per provarne non piacere, ma dolore.
Infatti frequentava l'ovile un ragazzino, figlio d'un pastore vicino, gente molto povera. Era un po'
scemo, ma buono, lacero, così magro e nero che sembrava una statuina di bronzo. Veniva quasi ogni
giorno alla capanna dei Portolu, e si trastullava quieto col gatto, col porchetto, coi cani: Elias gli
dava spesso pane, frutta e latte, ed anche vino; ed il ragazzino gli si era affezionato. Ma un giorno
scontò tutto. Elias si trovava solo nella capanna ed era d'umore terribile perché la sera prima Mattia
aveva portato brutte notizie di casa: Pietro s'ubriacava ogni volta che rientrava dal lavoro, e
insultava e maltrattava Maddalena. Il bimbo venne coi passettini silenziosi dei suoi piedini scalzi,
abbracciò il cane, poi entrò nella capanna.
«Cosa vuoi?», chiese Elias rudemente.
«Dammi latte!»
«Non ne abbiamo.»
«Dammi latte, dammi latte, dammi latte», cominciò a dire il ragazzino, e non la finiva mai.
Elias provò un'irritazione fisica invincibile: prese il piccolo per il braccio e lo cacciò fuori, a calci,
lontano, insultandolo come un adulto e ingiungendogli di non ritornare più. Il bambino se ne andò
via quasi con dignità, senza dir parola; ma dopo qualche momento Elias lo sentì piangere in
lontananza; un pianto desolato, disperato, che vibrava tristemente nella solitudine; e provò una
voluttà d'ira contro se stesso, un impeto violento di mordersi i pugni fino a sangue. Quel pianto gli
sembrava l'eco del dolore suo stesso: una infinita disperazione lo avvolse.
«Io sono un animale, io sono perduto. Ma che gli altri sono diversi da me? Siamo tutti malvagi: con
la differenza che gli altri non hanno scrupoli e godono, ed io soffro perché sono stato uno sciocco,
perché ho fatto del bene a chi non lo meritava.»
Gli risorgevano anche, con insistenza, dal profondo dell'anima i ricordi di <I>quel luogo</I>; e gli
pareva che il dolore sofferto per la condanna fosse stato nulla in paragone del dolore che provava
ora. Intanto, però, il ricordo del dolore passato aumentava il presente; particolari dimenticati gli
ritornavano in mente con acredine; il ricordo delle umiliazioni, delle angherie, delle persecuzioni
degli <I>aguzzini</I>, com'egli chiamava le guardie del penitenziario, lo faceva arrossire d'ira. Ah,
se ne avesse avuto in mano qualcuno, in quei momenti, nella <I>tanca</I> solitaria!...
«Lo farei a pezzi», pensava, digrignando i denti, «e poi mi leccherei il sangue dal coltello.»
Infine pareva che una bestia feroce s'agitasse entro quel giovine pallido, dall'apparenza mite, che
spesso si vedeva seduto sul limitare della capanna, a gambe aperte, coi gomiti sulle ginocchia,
immerso nella lettura di libricciuoli sacri.
Intanto veniva il freddo, l'immensa tristezza dell'inverno nella solitudine; e la costituzione
malandata di Elias se ne risentiva profondamente. I lunghi giorni di pioggia, di neve e di strapazzi, -
giacché è nell'inverno che il pastore sardo, il cui gregge e lui stesso vivono senza riparo, lavora e
soffre di più - il disagio della capanna sempre piena di fumo e di vento, la lotta contro gli elementi,
finirono con l'esaurire le forze fisiche e morali di Elias.
In quel tempo, durante certe nevicate che facevano morire assiderate le pecore, ritornò al giovine
l'idea di farsi prete. Ma come diversa da prima! Nell'aspra lotta contro gli elementi e contro se
stesso, si disperava più che mai, sentiva un ribelle desiderio di vita comoda, un bisogno di tregua, e
vedeva il suo unico scampo nel cambiare stato.
E intanto un malefico fascino lo attirava spesso in paese, nella casetta tiepida ove Maddalena
lavorava accanto al fuoco. Una pace relativa regnava adesso fra gli sposi: Maddalena almeno era
diventata prudente, e qualche volta s'udiva solo la voce avvinazzata di Pietro. Ma fosse ella felice o
no, Elias non era più in grado di badarci. Il mal seme aveva germogliato: giorno per giorno il vaso
s'era colmato d'una goccia di più e stava per traboccare: Elias s'abbandonava segretamente e
interamente alla sua passione. Pensava:
«Non lo saprà mai nessuno, e tanto meno lei: ma vederla, ma guardarla, chi me lo impedisce? Che
male faccio? Non ho altra gioia. E non ho diritto ad un po' di gioia?».
E la vedeva spesso, e la guardava, e istintivamente desiderava che ella se ne accorgesse; ed ella se
ne accorgeva sin troppo, e incoscientemente corrispondeva ai suoi sguardi. E quando i loro sguardi
s'incontravano, un brivido, una sospensione di vita, una vertigine di triste piacere li toglieva a se
stessi.
Erano vicini a perdersi: mancava loro solo l'occasione. Sul finire dell'inverno Elias fu preso da un
vero delirio d'amore; non ragionava più; e fra le atroci sofferenze provava una triste felicità nel
sentirsi riamato da Maddalena. Tutto ciò che prima gli sembrava peccato e dolore ora gli pareva
diritto, gioia; tutto ciò che prima gli destava orrore ora lo attirava vertiginosamente.
L'ultimo giorno di carnevale egli, Pietro, Maddalena e le altre due giovani donne si mascherarono.
Gli sposi eran di buon accordo, anzi Pietro era allegro oltre ogni dire. Zia Annedda si oppose
debolmente al progetto di quella mascherata, ma non le badarono. Col suo semplice buon senso la
piccola vecchia disapprovava le mascherate, i balli, i traviamenti carnevaleschi; e si fece promettere
da Maddalena di non ballare, almeno, specialmente con altre maschere sconosciute, e specialmente i
balli <I>civili</I>, quelli che permettono alle coppie di stringersi e toccarsi.
Maddalena e le amiche vestivano da <I>gatte</I>, indossavano cioè gonnelle scure, una allacciata
alla vita, l'altra al collo, e avevano la testa imbacuccata con uno scialle; gli uomini erano mascherati
da <I>turchi</I>, con larghe sottane bianche strette ai ginocchi, e corsetti femminili, di broccato a
vivi colori, messi all'inverso, allacciati dietro e con la parte del dorso sul petto.
Uscirono, un momento che la straducola era deserta, e scesero nelle vie dove Nuoro assume aspetto
di piccola città: le donne procedevano un po' timidamente, tentando di cambiar passo, paurose
d'esser riconosciute, soffocando sotto la maschera di cera le loro risate di gioia puerili.
E gli uomini andavano rozzamente avanti, quasi ad aprir la strada alle compagne: di tanto in tanto
Pietro emetteva un grido selvaggio, gutturale, allungando il collo come un galletto. Allora Elias
ricordava gli urli di gioia dei cavalieri diretti a San Francesco in un puro mattino di maggio. Il cuore
gli batteva; fin dal primo momento egli, che sapeva un po' di balli <I>civili</I> per averli imparati
in <I>quel luogo</I>, aveva detto a se stesso:
«Ballerò con Maddalena».
Non importava il divieto di zia Annedda, la promessa di Maddalena: egli era arso dal desiderio di
ballare con lei, e sarebbe passato su qualunque ostacolo per riuscire nel suo intento.
Una forza selvaggia e ribelle si agitava in lui: come un tempo riusciva a dominarsi ed a voler il bene
altrui, ora sentiva tutta l'audacia del male, e voleva appagare i suoi peggiori istinti. Sentiva il volto
ardergli sotto la maschera, e il costume stretto e fastidioso gli dava calore a tutte le membra. Inoltre
la giornata era tiepida, velata, e nella soavità dell'aria si sentiva già la promessa della primavera.
Le vie erano affollate; mascherate barocche e triviali andavano su e giù, tra un nugolo rumoroso di
monelli sporchi che urlavano improperi e parole indecenti. Maschere sole, vestite a vivi colori,
passavano, seguite dallo sguardo indagatore e beffardo degli operai e dei borghesi: passavano
signore, bimbe, serve dai corsetti sanguinanti: gruppi di paesani ubriachi si pigiavano in certi tratti
del Corso; e musiche melanconiche di chitarra e fisarmonica salivano e vibravano in quell'aria
tiepida e velata che rendeva i suoni più distinti come in un crepuscolo d'autunno.
Tanto bastava per stordire l'anima di Elias, avvezzo alle grandi solitudini della <I>tanca</I>. Invano
egli credeva di aver conosciuto il mondo e di esser pronto ad ogni cosa perché aveva varcato il mare
e visto la triste moltitudine di <I>quel luogo</I>: ah, adesso bastava quel piccolo carnevale nuorese,
quella folla variopinta, quella melanconica quadriglia pianta da una fisarmonica errante, perché la
sua anima si smarrisse in quel mondo non suo, e le cose gli apparissero diverse. Gli pareva che tutta
quella gente che camminava parlava e rideva fosse felice, anzi ubriaca di felicità, ed anche lui si
abbandonava senza scrupolo alla follia dei suoi desideri, ad un irresistibile bisogno di gioia e di
piacere.
Adesso lui e Pietro camminavano tenendosi in mezzo le compagne, proteggendole contro gli urti e
le villanie dei monelli: Maddalena procedeva in mezzo, ma ogni tanto si sporgeva in avanti e
guardava ora il marito, ora Elias, che corrispondeva sempre allo sguardo di quegli occhi ardenti e
obliqui sotto la maschera.
«Facciamo qualche cosa, fermiamoci; andare su e giù così è una stupidaggine», disse Elias alla sua
compagna.
«Come volete», rispose questa; e comunicò a Maddalena il desiderio del giovine. Tutti si fermarono.
«Cosa dobbiamo fare?», domandò Maddalena.
«Ballare. Ecco, là ballano, andiamo.»
«Tuo fratello vuol ballare», disse Maddalena a Pietro.
«No
«Sì», dissero le donne.
«Mia madre non vuole.»
«Balliamo il ballo sardo.»
E le tre donne balzarono avanti con gioia, correndo verso il punto ove si ballava al suono della
fisarmonica. Un circolo di gente, paesani, monelli, operai, quasi tutte faccie pallide e brutte, intente,
insolenti, circondava alcune coppie di maschere che ballavano urtandosi e ridendo.
Un uomo, vestito da donna, col viso rosso barbuto, con la maschera rigettata all'indietro sul collo,
suonava dandosi una grave importanza, con gli occhi fissi sui tasti della fisarmonica. Era una
<I>polka</I> suonata con abbastanza maestria, ma triste, melanconica come una musica
d'organetto.
Le nostre maschere ruppero il circolo dei curiosi e penetrarono nello spazio ove si ballava, mentre
alcune coppie si fermavano ansanti, stanche ma non sazie di piacere. Nessuno protestò contro i
nuovi venuti; anzi subito un uomo vestito da frate, col volto tinto di giallo, invitò al ballo una delle
nostre mascherine che accettò senza tanti complimenti. Elias si trovò a fianco di Maddalena;
fremeva per il desiderio di ballare, ma ora, al giusto momento, non osava per paura di Pietro.
«Suona il ballo sardo», gridò questi al suonatore.
E il suonatore sollevò gli occhi, fissò un momento la maschera turca, ma non smise.
«Silenzio!», gridarono le coppie che passavano ballando davanti a Pietro.
«Ebbene, silenzio!», diss'egli come a se stesso, tutto mortificato.
«Ballate anche voi, su!», disse la mascherina che ballava col frate, passando davanti alle compagne.
«Balliamo, sì, balliamo; cosa facciamo così?», supplicò leziosamente l'altra mascherina, rivolta a
Pietro.
Egli la guardò negli occhi, aprì le braccia e disse:
«Bene, balliamo, altrimenti tu muori dalla voglia; ma bada che io non so ballare, e se ti pesterò i
piedi sarà a conto tuo». La prese fra le braccia e cominciò a saltare e girare comicamente con lei: per
fortuna un mascherone, con un lungo cappotto d'orbace stretto ai fianchi da una corda, venne a
liberare la mascherina, pregando Pietro di cedergliela. Allora egli indietreggiò, si fermò, e vide che
Elias e Maddalena ballavano assieme.
«Eh, essi sanno ballare!», disse fra sé, bonariamente. «Se li vedesse zia Annedda, in verità mia che li
bastonerebbe!»
Elias e Maddalena ballavano bene, composti: ma non badavano molto al ballo, dopo essersi quasi
senza avvedersene trovati l'una nelle braccia dell'altro, storditi da un'ebbrezza senza nome. Elias si
sentiva battere quasi angosciosamente il cuore, e Maddalena vedeva roteare vertiginosamente
intorno a sé quel circolo di visi pallidi, brutti, insolenti.
«Io vorrei parlare, ma cosa devo dirle?», pensava Elias cingendole con una stretta disperata il busto,
sotto la gonnella scura che le scendeva dal collo. Ma invano cercava con angoscia una parola, una
sola parola da dirle. Solo sentiva un impeto pazzo di sollevarla fra le sue braccia, di rompere quel
circolo di sciocchi curiosi, di fuggir via, lontano, nella solitudine, urlando in un sol grido tutto il suo
dolore e la sua passione. Ma Pietro era là, fermo, terribile come una sfinge sotto la sua maschera che
rideva di un riso grottesco, ed Elias, da qualche tempo, aveva una strana paura di suo fratello.
Sapeva, Pietro? Indovinava? Possibile fosse così stupido da non leggere negli occhi del fratello la
crudele passione che lo divorava?
«E che m'importa?», pensava Elias, dopo essersi fatto con terrore quelle domande. «Che egli veda e
che mi ammazzi pure; mi farà un piacere.»
E non sentiva alcun rancore verso Pietro; solo aveva paura, e spesso anche una strana, puerile
compassione del fratello.
«Egli è più disgraziato di me perché ama sua moglie ed essa non lo ama», pensava. «Pietro, fratello
mio, che errore abbiamo commesso!»
Mentre ballava, travolto dall'impeto dei suoi desideri folli, ripensava confusamente tutti questi
pensieri; e provava passione, pietà, paura, dolore e piacere nello stesso tempo. Il suono della
fisarmonica, i rumori della folla, quella fantasmagoria di visi e di colori, il moto, la maschera, il
contatto di Maddalena lo stordivano e gli ardevano il sangue. Ci fu un momento in cui non vide più:
si chinò ansando e disse a Maddalena qualche cosa che ella non intese, ma che le fece sollevare gli
occhi verso quelli di lui. Egli la guardò a lungo, disperatamente; e da quel momento non ebbe più
che un solo pensiero fisso, divorante.
Il ballo cessò; il circolo dei curiosi si disfece, e le nostre maschere ripresero ad errare per le vie, tra
la folla. Poi la sera calò, pallida e velata: e seguendo come in un sogno i compagni, Elias si trovò
nel viottolo, davanti alla casetta silenziosa, in faccia alla siepe immobile nel crepuscolo. Il gatto
fermo sulla finestruola, con gli occhi fissi lontano pareva immerso nella contemplazione delle
montagne grigie e violacee che chiudevano l'orizzonte. Si vedeva il fuoco ardere nel focolare.
Zia Annedda aspettava seduta nel cortiletto, con le mani intrecciate sotto il grembiale; pregava
scongiurando la tentazione che poteva travolgere i suoi figliuoli mascherati (per lei la maschera era
un simbolo del demonio); e all'irrompere della compagnia trasalì lievemente. Forse un maligno
spirito interno le sussurrava che la sua preghiera era vana; che il demonio vinceva, che col rientrare
dei suoi figliuoli mascherati, il peccato mortale entrava nella casetta sin allora pura.
«Vi siete divertiti? Era tempo di tornare!», disse tutta lamentosa.
«Abbiamo tardato», confermò Maddalena, ma senza rimpianto. «Venite, venite, io muoio dal
caldo.»
E precedé le compagne su per la scaletta esterna: intanto Elias si toglieva la maschera, e Pietro, che
se l'era già tolta sin dal primo entrare, correva alla brocca dell'acqua e sollevandola beveva
avidamente.
«Che sete hai!», disse zia Annedda,
«Sete e fame, mamma mia; datemi da mangiare, ché poi me ne vado al <I>seranu.</I> [14]»
E andò verso la tavola fissata al muro, su cui stava il canestro col pane e con gli avanzi delle
vivande. (Quel giorno i Portolu avevano avuto un lauto desinare; fave bollite col lardo, e
<I>cattas</I>, specie di frittelle di pasta lievitata, con uova, latte e acquavite.)
«Tu sei matto», disse zia Annedda. «San Francesco ti consoli, cosa pensi di fare? Tu cenerai con
noi, poi andrai a dormire: non son notti da uscire, queste. Va e spogliati.»
«Macché, macché, mamma mia! Il carnevale viene una sola volta all'anno! Io andrò al ballo, e ci
verrà anche il mio fratello Elias. Eh, non è già l'anno scorso che eravamo assieme!»
Elias, tutto roseo e bello nel suo travestimento femmineo, s'oscurò in viso. Le parole del fratello gli
causavano dolore? O si vergognava per l'impeto di gioia che gli destava il progetto di Pietro, di
voler passare fuori la notte?
«Tu t'inganni, se credi ch'io venga al ballo», disse; poi fece forza a se stesso e aggiunse: «sarebbe
meglio che non ci andassi neppure tu».
«Lo senti, Pietro?»
«No, io ci vado. Ecco, ora io ceno, poi dopo vado. E ci verrai tu pure, Elias; vedrai che
divertimento. Vieni e cena.»
«No, no, anzi vado a spogliarmi.»
«Datemi del vino, mamma mia. Ah, se sapeste quanto ci siamo divertiti! Abbiamo... no, non
abbiamo ballato, non ci credete, magari ve lo dicano!», esclamò Pietro, mangiando grossi bocconi.
«Eh, bisogna godere la gioventù: eppoi che male c'è? eppoi io non so ballare, ma mi diverto lo
stesso. Eh, quelle donne, poi, come si divertono. Oh, quel frate! E quel cappottone? Eh! eh!», diceva
ridendo come fra sé.
«Ebbene, fa attenzione di non macchiare il corsetto, almeno, che San Francesco ti consoli! Vuoi del
formaggio? Ah, la tentazione vi trasporta, ragazzi miei; ma poi viene la quaresima. Andrete voi
almeno a confessarvi?»
Elias trasalì. Da qualche secondo egli stava fermo sulla porta, indeciso, come intento ad una voce
lontana.
«Se tu cenassi con Pietro, e dopo andassi fuori con lui?», gli diceva questa voce. «Senti tua madre?
Andrai tu a confessarti?»
Ma egli non poteva, non poteva dar retta a questa voce: ah, la tentazione lo vinceva, lo stringeva; era
mille volte più forte di lui. Inutile combatterla, perché essa aveva già vinto, e da molto tempo. Egli
andò e si spogliò; poi sedette nel cortile, al posto dove prima stava sua madre, e fu preso da un solo
desiderio: come Pietro se n'andasse; e da una sola paura: che Pietro restasse a casa. Ma Pietro, poco
dopo che le amiche di Maddalena se ne furono andate, uscì nel cortile e disse al fratello:
«Non vieni, dunque?».
«No
«Sei uno stupido. Io vado e mi diverto: mi aprirai il portone?»
Elias non rispose: tutto ripiegato su se stesso, coi gomiti sulle ginocchia e la testa fra le mani,
fremeva internamente di dolore e di piacere, e già non osava più guardare il fratello. E Pietro se ne
andò.
«Vieni a cena», disse zia Annedda due volte, facendosi sulla porta.
«Non ne ho voglia; mi sento male», rispose Elias; e rimase lunga ora immobile, sempre così,
ripiegato e col capo fra le mani.
Dentro sentiva Maddalena chiacchierare allegramente, come non l'aveva mai sentita, con voce
mutata; raccontava a zia Annedda tutti i particolari della mascherata, e rideva, e doveva aver gli
occhi lucenti, il viso acceso, l'anima ubriaca. Poi le due donne si ritirarono, e tutto fu silenzio
intorno ad Elias. Il fuoco ardeva sempre nel focolare; una quiete paurosa era nell'aria, nel cortiletto
tranquillo, nella notte velata.
Egli si sollevò; aveva la schiena rotta, il cuore pulsante; il sangue gli passava a ondate sul dorso,
sulla nuca, balzandogli alla testa, ottenebrandogli i pensieri. In questo stato di incoscienza salì senza
far rumore la scaletta e batté un lievissimo colpo all'uscio di Maddalena. Ella doveva vegliare
perché rispose subito:
«Chi è?».
«Apri», diss'egli con voce sommessa, «sono io; devo dirti una cosa.»
«Aspetta», ella rispose senza inquietarsi.
E poco dopo aprì.
«Che vuoi? Ti senti molto male, Elias, cos'hai?» Dicendo così lo guardò e impallidì. Forse avea
aperto innocentemente, ma, adesso, vedendolo così sbiancato in viso e con gli occhi da pazzo, intese
ogni cosa e si turbò.
Egli entrò e chiuse l'uscio: ed ella, che avrebbe potuto gridare e salvarsi, tacque e non si mosse.
<B>VII.</B>
Pietro ritornò molto tardi, ubriaco fracido. Elias gli aprì il portone, poi si ritirò, ma prima che fosse
giorno egli era già di nuovo nel cortile, e albeggiava appena quando partì per l'ovile.
Era un'alba triste, cinerea, ma non fredda: il cielo s'era coperto d'una sola nuvola caliginosa,
immobile, che pesava come una volta di pietra grigia sui paesaggi morti. Elias cavalcava solo,
smarrito in quel silenzio di morte. Non s'udiva una voce, non si moveva una fronda: anche i
rigagnoli, lungo l'orlo dei sentieri, passavano verdi, freddi, silenziosi. Elias aveva in volto il colore
di quel cielo lividognolo, e gli occhi cerchiati, verdi, freddi e tristi come l'acqua dei rigagnoli.
Gli sembrava di destarsi appena da un sogno divino e mostruoso nello stesso tempo; e un mostro di
felicità e di angoscia gli frugava il cuore. La felicità però, se felicità poteva dirsi, non andava mai
separata da un senso d'angoscia, mentre nei momenti, ed erano i più, nei quali il dolore del delitto
commesso vinceva, nulla valeva a raddolcirlo.
La parte buona e credente dell'anima di Elias si ridestava tutta d'un tratto, in quell'alba quaresimale
triste e minacciosa, e si smarriva e si atterriva davanti alla realtà del fatto compiuto.
«Non è vero, è stato un sogno», egli pensava, stringendo la briglia con le dita aggranchite dal
terrore.
«Un sogno. Oh che non ho sognato in riva all'Isalle, e nella <I>tanca</I>, quante volte? Ma no, no,
no! Che dici a te stesso, Elias Portolu? Miserabile, sei pazzo, il più vile, il più abietto degli uomini.»
Ma mentre così si rimproverava ricadeva nel ricordo, e tutte le sue membra trasalivano di piacere e
il viso si rischiarava; poi ridiventava più inquieto di prima, un'onda di vergogna e di rimorso gli
penetrava per ogni vena; e di nuovo il terrore e impeti folli di percuotersi, di schiaffeggiarsi, di
mordersi i pugni lo assalivano come cani arrabbiati.
Allora ricominciavano gl'improperi.
«Un vile, un miserabile, un pazzo sei, Elias Portolu, avanzo di galera, che cosa potevano aspettarsi
da te tua madre, tuo padre, i tuoi fratelli? Hai insucidato la tua casa stessa, hai tradito tuo fratello,
tua madre, te stesso. Caino, Giuda, vile, pezzente, immondezza. Che cosa farai tu, adesso; che, cosa
ti resta a fare e non darti un colpo di scure?»
E ricadeva nel ricordo, e sentiva che ormai amava Maddalena fino alla morte, e che alla prima
occasione sarebbe ricaduto; ed a questo pensiero gli si rizzavano i capelli per l'orrore. Così fece il
viaggio. Oltrepassando il varco della <I>tanca</I> sollevò lentamente gli occhi e guardò come
trasognato il paesaggio che gli si stendeva davanti, silenzioso e verde, di un triste verde invernale: le
roccie, la linea del bosco, grave ed immobile sul cielo grigio, tutto gli parve mutato, tutto
corrucciato contro di lui.
«Che ho fatto io? Che ho fatto io? Come sopporterò lo sguardo di mio padre?»
Eppure lo sopportò, non solo, ma dovette ascoltare i discorsi di zio Portolu, che lo ferivano
crudelmente.
«Ti sei divertito, agnello? Eh, ti si vede dal viso: tu hai il viso in color del lievito; devi esserti
mascherato, ed hai ballato, ed hai vegliato e ti sei divertito; te lo leggo negli occhi, figliuolino mio.
E tuo padre era qui, a lavorare, a tender l'orecchio contro i malfattori, mentre tu ti divertivi. Ma va;
eh, non credere che io sia invidioso; è il tuo tempo, e il mio è passato, ed ora è la quaresima. E zia
Annedda cosa fa? ah, essa mi ha mandato le focaccie e le frittelle: ah, essa non dimentica il vecchio
pastore. E Madelenedda mia cosa fa? Si diverte? Sì, lasciamola divertire, la piccola colomba; essa è
una santa, come zia Annedda; eh, le rassomiglia, più che i suoi figliuoli.»
«Ah, s'egli sapesse!», pensava Elias fremendo; ogni parola del padre lo colpiva al cuore. Intanto gli
pareva di non potersi abbandonare ai suoi pensieri alla presenza di zio Portolu, e appena poté andò
in cerca di solitudine e, senza confessarselo, desiderò d'incontrare zio Martinu. Ma il vecchio non
c'era. Attraversando la <I>tanca</I> Elias incontrò solo il fratello Mattia, che errava tranquillo e
taciturno, armato d'una lunga pertica. Nessun altro. Sotto quel gran cielo morto, nell'immobilità
d'ogni cosa, le tanche sembravano ancor più deserte e sconfinate.
Elias ripensava alla mascherata, ai rumori, ai colori della folla, al ballo con Maddalena; e ogni più
piccolo ricordo lo faceva tremare. Ah, tutti quelli ch'egli aveva veduto erano felici, e lui solo era
condannato ad errare nella solitudine, e la felicità si cangiava per lui in tormento. Ricominciò a
ribellarsi; eppoi giacché il primo passo era fatto, giacché l'anima sua era inesorabilmente perduta,
perché non continuare a godere?
«Sono un idiota», pensava. «Maddalena non può più vivere senza di me, me lo ha detto, ed io le ho
giurato che sarò sempre suo. Perché devo renderla infelice? Non faremo altro male sulla terra;
vivremo sempre come marito e moglie, e Pietro non soffrirà mai nulla per colpa nostra.» E il suo
viso si rischiarava al sogno di tanta felicità; ma subito, improvvisamente, sentiva l'orrore del suo
sogno, e avrebbe voluto rotolarsi per terra, smuover le roccie, urlare al cielo il suo peccato, sbatter la
testa contro le pietre, per dimenticare, per levarsi dalla mente i desideri e i ricordi.
Al cader della sera fu vinto da una tristezza, da un languore invincibile. Cominciò a guardare
l'orizzonte, verso Nuoro, col desiderio di tornare, di veder Maddalena; vederla almeno da lontano, e
stringerle almeno la mano, o chinare almeno la testa sul suo grembo e piangere come un bambino.
«Io vado, io vado», mormorava, come la notte in cui la febbre lo aveva stramazzato sotto un albero.
«Io vado, io vado.»
E vi fu un momento nel quale s'avviò; ma fatto il primo passo s'accorse che lo spingeva, non il solo
desiderio di veder da lontano Maddalena, ma il peccato mortale, il demonio, il mostro della
ricaduta.
«Dove vai, Elias Portolu? Possibile che tu non sia un uomo?» E non andò; ma ebbe paura di se
stesso e della sua debolezza; e gli venne il pensiero di gettarsi ai piedi di suo padre, di confessargli
tutto e di implorare:
«Legatemi, padre, chiudetemi fra due roccie; non mi lasciate partire, non mi lasciate solo, aiutatemi
contro il demonio».
«Ahimè, egli mi ammazza se gli dico questo!», pensò poi; «e avrebbe ragione di schiacciarmi col
piede, come una rana.»
Per alcuni giorni combatté così; vintosi la prima sera gli fu meno terribile vincersi gli altri giorni in
seguito, e non fece ritorno a Nuoro. Ma le forze lo abbandonavano, una tristezza mortale non gli
concedeva riposo né di giorno né di notte: e sentiva che ritornando in paese e rivedendo Maddalena
non avrebbe più resistito contro la tentazione.
Allora andò nuovamente in cerca di zio Martinu, attraversò la <I>tanca</I>, saltò il muro e s'inoltrò
nel bosco. Era una notte limpidissima di luna; il vento passava sull'alto degli alberi, suscitando un
fremito sonoro e continuo; ma dentro il bosco, sotto i soveri, non si muoveva una foglia. La luna
passava tra i rami, limpida, tranquilla; negli sfondi d'argento altri profili di boschi si disegnavano
neri come montagne. Pareva la selva dei racconti delle fate.
Elias camminava; i suoi occhi acuti distinguevano gli scoscendimenti del terreno, i tronchi
nell'ombra, ogni piccola macchia; da lontano vide che la capannuccia di zio Martinu era illuminata,
e improvvisamente, nella tristezza che lo sospingeva, si sentì sollevato.
Ah! finalmente poteva dire a qualcuno l'orribile segreto che gli schiacciava il cuore, e chieder aiuto
e consiglio; ma arrivato alla capanna salutò zio Martinu e ripiombò nella disperazione. Che poteva
fargli quel vecchio? Che dirgli? Il fatto era fatto, e cascasse il mondo non c'era rimedio. E quello
che doveva succedere succederebbe lo stesso, qualunque fosse il consiglio del vecchio.
Ricordò quante volte zio Martinu gli aveva dato buoni consigli; egli se n'era sentito sempre
sollevato, ma giammai aveva potuto seguire quei consigli. Pensando a ciò, si lasciò cader seduto
presso il fuoco, con tal visibile espressione di dolore sul viso che zio Martinu indovinò subito ogni
cosa.
«Dove eravate?», disse Elias. «Vi ho cercato tante volte.»
«Perché mi hai cercato, Elias Portolu?»
«Da tanto tempo che non vi vedevo.»
«E ora dove vai, così di notte?»
«Vengo qui, zio Martinu.»
«Sei stato in paese?»
«No, dopo l'ultimo giorno di carnevale.»
«Mi hai cercato dopo?»
«Sì», disse Elias; poi sentì che zio Martinu indovinava ogni cosa, e arrossì.
«Tu sei sparuto», disse zio Martinu fissandolo in viso, «tu porti in faccia il segno del peccato
mortale. Perché cercarmi, se non avevi più bisogno di consiglio?»
Come altre volte Elias sollevò gli occhi spalancati, spauriti e smarriti, incontro agli occhi di
cinghiale del vecchio, selvaggi eppur dolci ad un tempo: e zio Martinu sentì scuotersi quel suo
cuore di pietra. Gli parve che Elias Portolu, quel ragazzo bello e debole come una donna, nell'ora
della bufera si rifugiasse in lui come l'agnellino sotto il sovero.
«Perché rimproverarlo?», pensò; «egli soffre, si vede, egli diventa rosso; batter su lui è come batter
la scure contro una canna.» Tuttavia gli chiese con voce rude.
«Perché sei venuto, ora, Elias Portolu? Che cosa vuoi che ti dica? Avessi tu seguìto i miei primi
consigli!»
«Parole! parole!», proruppe Elias, con vera disperazione. «Cosa ne sappiamo noi se, seguendo io i
vostri primi consigli, mio fratello non mi avrebbe ammazzato? Eppure non l'avrei offeso come l'ho
offeso adesso; ed ora egli non mi torcerà un capello. Così vanno le cose del mondo, zio Martinu! Ed
è la sorte, è il demonio che ci perseguita.»
«Perché sei dunque venuto?»
«Ebbene, sì», proseguì Elias, sempre più disperato e irritato, «sì, sono venuto per chiedervi ancora
consiglio, e sono certo che il vostro consiglio sarà buono; e sono venuto per chiedervi aiuto e sono
certo che voi, per impedirmi di tornare a Nuoro finché la tentazione non avrà cessato di
tormentarmi, sarete capace di legarmi, di nascondermi; ma cosa ne so io se potrò seguire il vostro
consiglio, se mentre mi legherete non cercherò di mordervi le mani e di scappare e andare a fare
quello che vuole il demonio?»
«Il demonio! Il demonio!», disse il vecchio alzando le spalle con disprezzo. «Tu ce l'hai col
demonio! Sono stufo di sentirti parlare così. Chi è il demonio? Il demonio siamo noi.»
«Voi non credete al demonio? E in Dio?»
«Io non credo a nulla, Elias Portolu! Ma quando ho chiesto un consiglio l'ho seguìto, e quando ho
chiesto un aiuto ho baciato la mano che me lo dava, non l'ho morsicata; che la vipera ti morsichi,
Elias Portolu!»
Elias sorrise tristemente.
«Era un modo di dire, zio Martinu.»
«Bene: per modo di dire allora io ti dico che, giacché vieni a chiedere consigli per non seguirli, ed a
chiedermi di legarti per poi mordermi la mano, era inutile che ti movessi, Elias Portolu. Tu credi al
demonio: ebbene, afferralo per le corna e legalo, ma bada che non ti morda.»
Il vecchio era beffardo, e più che dalle sue parole dal suo accento sprizzava quel pungente sarcasmo
che solo gli Orunesi sanno dare alle loro parole. Un'angoscia infantile si diffuse sul volto di Elias.
«Zio Martinu», disse supplichevole, «è tutta questa la vostra sapienza? di ammazzare un disperato?»
«Ah. Elias Portolu, io non sono un sapiente; ma so che a ciascuno va messa la scarpa secondo il suo
piede. Tu, che credi in Dio e nel demonio, sei venuto a chieder consiglio a me che credo solo nella
forza dell'uomo; hai errato, ed ho errato anch'io dandoti dei consigli che non erano conformi alla tua
indole: ecco fin dove arriva la mia sapienza, Elias! Ah, l'asino è più savio di me! Chi sa, ti dirò
anch'io, che invece di giovarti, non ti abbia recato danno? Tu devi andare presso un uomo di Dio e
chiedergli consiglio. Ma sei sempre in tempo. Ecco cosa ti dico.»
Elias sentì che il vecchio aveva ragione, e subito si ricordò di prete Porcheddu e del colloquio avuto
una notte di luna come quella, sulle alture di San Francesco.
«Io conosco un uomo di Dio, infatti», disse; «una volta mi diede buoni consigli e mi rese forte
contro la tentazione: è un uomo allegro, che si diverte, ma in fondo è uomo di coscienza. E furbo!
Anche lui, come voi, zio Martinu, ha indovinato subito il mio segreto, mentre non lo ha indovinato
nessuno di quelli con cui vivo ogni giorno. Io andrò da prete Porcheddu.»
«È Nuorese?»
«Non è Nuorese, ma vive a Nuoro.»
«Ebbene, vacci, vacci subito.»
«Ho paura, zio Martinu.»
«Di che hai paura, piccola lepre?», gridò il vecchio.
«Ho paura di trovarmi solo con Maddalena», rispose Elias con gli occhi smarriti.
«Ah, Elias Portolu, tu mi fai ridere! Che animale sei tu? Sei una lepre? un gallo? una gallina? una
lucertola?»
«Uomo mortale sono!»
«Ebbene», gridò zio Martinu, «io verrò con te, non ti lascerò solo: oramai tu sei diventato seccante
e, pur di non vederti più, se vuoi, ti porto all'inferno.»
Questa promessa fece sorridere Elias e lo calmò: vedeva finalmente uno spiraglio di luce davanti a
sé. Pensava:
«Sì, mi confesserò, mi comunicherò, salverò l'anima mia».
Il dolore e la passione non lo abbandonavano un solo istante, e il pensiero di dover rinunziare per
sempre a Maddalena, ora che ella era tutta sua, gli dava un accoramento ineffabile; ma il primo
passo fuor della via del peccato oramai era fatto, e gli altri apparivano men difficili.
L'indomani mattina zio Martinu venne a prenderlo, ed entrambi s'avviarono a piedi verso Nuoro.
Lungo il viaggio non scambiarono venti parole: durante la notte Elias aveva fatto il suo esame di
coscienza, ed ora, strada facendo, ripeteva a se stesso i suoi peccati e i suoi buoni propositi; ma a
misura che si avvicinavano al paese si sentiva oppresso da un'angoscia mortale.
«Sentite», disse ad un tratto, «se date retta a me, zio Martinu, non andiamo a casa.»
«Ah, che uomo costui!», esclamò il vecchio, come parlando fra sé. «Egli va a confessarsi per paura
di sé, non per timor di Dio, e non saprà vincersi mai.»
«Ebbene, no, andiamo pure a casa!», disse Elias, quasi indispettito.
Per fortuna Maddalena era fuori; ma egli sentì quanto era debole perché si rattristò nel non vederla,
e non osò chiedere ove fosse. Poi lui ed il vecchio si recarono da prete Porcheddu, e attesero il suo
ritorno dal coro. Prete Porcheddu era beneficiato cantore e non sperava certo di diventar canonico;
ciò nonostante viveva comodamente servito con amore dalla vecchia sorella Anna, in una casetta
ancora arredata all'uso del natio villaggio, con alti letti di legno a baldacchino, e arche di legno nero
e scranne col fondo di paglia.
Dal villaggio gli mandavano grosse provviste di vino, di noci, di cipolle e fagiuoli e frutta secche; e
la vecchia Anna sapeva preparare ogni sorta di conserve, di dolci di miele e di sapa, e il caffè più
squisito di Nuoro.
Quando venne a sapere che quel giovane dallo sguardo inquieto, che cercava prete Porcheddu, era
figliuolo di zia Annedda Portolu, gli fece assai buona accoglienza: ah, essa conosceva quella santa
vecchietta perché una volta le aveva curato una mano ammalata, e senza voler ricompensa.
«Per le anime, per le piccole anime del purgatorio!», diceva zia Annedda ai suoi infermi.
Finalmente prete Porcheddu rientrò; era sempre lo stesso, rosso ed allegro, ed accolse Elias con
esclamazioni di gioia, ma guardandolo fisso e maliziosamente.
«Anche lui indovina!», pensò il giovane, e si sentì impallidire di vergogna e d'angoscia.
«Devo parlarle...», mormorò.
«E questa vecchia quercia?», chiese prete Porcheddu, volgendosi verso zio Martinu. «Andiamo,
andiamo sopra, Annesa, porta il caffè, ed anche altro, se ne hai.»
«Adesso io me ne vado», disse zio Martinu. «Ti aspetterò a casa tua, Elias Portolu. Buon giorno,
signor prete; le raccomando questo giovanotto.» Ma prete Porcheddu non lo lasciò andare finché zia
Annesa non ebbe versato un calice di acquavite, poi un altro calice ancora.
Poi zio Martinu tornò dai Portolu e attese seduto accanto al focolare. Quando Elias rientrò,
Maddalena era ancora assente, ed egli ne fu contrariato, ma non più come un'ora prima. No. Ora
avrebbe voluto rivederla per dimostrare a se stesso ed un po' anche a zio Martinu, quanto oramai era
forte; l'avrebbe guardata senza passione né desiderio, con occhi puri e pentiti.
Ed invero qualche cosa di nuovo, una fiamma pura e ardita, gli brillava adesso nello sguardo; ma il
suo viso era di un pallore mortale e le mani gli tremavano. Zio Martinu lo guardò a lungo, in
silenzio, poi gli domandò se dovevano ripartire subito. Elias vinse il desiderio di mettere a prova la
sua forza rivedendo Maddalena e ripartì.
«Mi sono confessato», disse al vecchio appena furono soli, «ritornerò fra due settimane per
comunicarmi, e perché prete Porcheddu deve darmi una risposta.»
«Che risposta?»
«Mi faccio prete», disse Elias abbassando la voce. «Ah, è tempo! Quella è la mia strada.»
Il vecchio non rispose: pareva che la sua anima fosse nuovamente lontana dall'anima di Elias, e che
nulla più gli premesse dei fatti del giovane. Elias però non se ne risentì; anche l'anima sua oramai
era così lontana dal vecchio e dalle cose tutte del passato!
Una specie di estasi lo avvolgeva: tutte le angoscie, le inquietudini, le vergogne, le indecisioni erano
cessate; davanti a sé vedeva una via bianca e piana come lo stradale che percorrevano, e uno sfondo
nitido, sereno, simile all'orizzonte turchino di quella pura mattina.
«Prete Porcheddu se ne interessa, farà tutto lui, e fra due o tre settimane tutto sarà pronto»; diceva
con voce turbata, parlando più a se stesso che a zio Martinu. «E tutto andrà bene, vedrete. Ci
vorranno spese ma mio padre ha denari e non gli parrà neppur vero di aiutarmi.»
«E va bene, e va bene; se quella è la tua via, prendila una buona volta», disse zio Martinu.
Giunti all'ovile si separarono, ed Elias neppure ringraziò quell'uomo che lo aveva condotto a
salvamento; solo gli disse:
«Lasciatevi vedere, zio Martinu».
Il vecchio non promise nulla e non si lasciò vedere; e un mese dopo Elias lo scorse da lontano, ma
lo scansò.
«Oh, oh!», pensò zio Martinu con un sorriso strano negli occhietti da cinghiale, «se egli sta per farsi
uomo di Dio, in verità che comincia bene!»
Che accadeva ad Elias? Un mese era trascorso, la quaresima finiva, e prete Porcheddu l'aspettava
ancora invano. Nei primi giorni dopo la confessione il giovane era vissuto fra cielo e terra; tutto il
passato veniva posto in oblio; tutto l'avvenire si presentava dolce. Egli si sentiva rinascere con la
purezza e la dolcezza con cui intorno a lui rinasceva la natura in quel principio di primavera:
pregava continuamente e aspettava con ansia soave che quelle due settimane passassero. Il viso gli
si era rischiarato: gli occhi avevano un'espressione e una trasparenza infantile.
Ma quindici giorni di attesa erano troppi: ah, prete Porcheddu non doveva conoscere bene il cuore
umano, com'egli si vantava, se poteva credere che la gioia della confessione durasse due settimane
in un cuore travolto dalle passioni. Il tempo passava, gettando un velo sulla gioia di Elias; arrivò un
giorno, nella seconda settimana, in cui egli si sentì ripiombare nella tristezza; era come la mano d'un
invisibile mostro che lo afferrava per la nuca e lo sospingeva verso un abisso.
Il giorno dopo Elias pensò di ritornare in paese, di gettarsi ai piedi di prete Porcheddu: ma se prima
rivedeva Maddalena? Un fremito lo percorse a questa domanda. Ah, era inutile, era inutile. Egli
amava sempre Maddalena e non poteva dimenticarla. Nel momento in cui credeva d'aver vinto, di
aver sepolto il suo cuore, i sensi, il passato, la passione lo afferrava più tenacemente e lo travolgeva
come una foglia nel turbine. E la mano di quel mostro invisibile, che lo premeva alla nuca,
continuava a spingerlo verso il peccato. Il volto gli si rifece livido, gli occhi foschi.
Un giorno, mentre stava per caso vicino al varco della <I>tanca</I>, pensoso e triste, vide una cosa
straordinaria. Quella mattina, al solito, Mattia era andato a Nuoro; doveva ritornare verso il
meriggio, e adesso il tiepido meriggio di marzo regnava sulla <I>tanca</I>. Era una dolce ora di
sole, di sogni; non si sentiva voce umana, non si vedeva anima viva nella vastità della pianura; il
vento tiepido passava curvando l'erba calda di sole.
Ed ecco che invece di Mattia, sulla cavalla balzana seguìta ancora dal puledro oramai grande, Elias
vide arrivare Maddalena. Era un'allucinazione? Un sogno della sua mente inferma? Maddalena non
era mai venuta sola all'ovile. Elias guardò pallido, stravolto. Era lei, era lei: erano quegli occhi
ardenti, fissi nei suoi, anche da lontano, con potenza magnetica.
Neppure per un attimo egli ebbe il desiderio, né la forza di andarsene: solo si lasciò cader seduto sul
muro. E Maddalena arrivò senza affrettarsi; ma oltrepassato appena il varco, smontò agilmente e
s'avvicinò ad Elias: tremava tutta e lo guardava con passione folle. Ah, che espressione e che luce
avevano i suoi occhi scuri, ardenti, socchiusi, veduti di sotto in su come li vedeva Elias! egli non li
dimenticò mai, e in quel momento sentì che quello sguardo gli dava una gioia di cui un solo attimo
valeva per un'eternità della gioia provata la settimana scorsa.
«E Mattia?», domandò.
«È rimasto in paese; l'ho persuaso a lasciarmi venire: Pietro non c'è, tua madre pure è scesa al
chiuso per coglier olive e ritornerà all'imbrunire.»
«Maddalena, tu ci perdi! Perché sei venuta?»
Ella gli si chinò sopra delirante.
«E tu perché non ritorni? Perché non ritorni, Elias? Elias! Elias! Elias!», continuò a gemergli sul
viso, prendendoglielo fra le mani, con crescente delirio, «non vedi che muoio? Giacché non vieni tu,
son venuta io!» E gli coprì il viso di baci: egli non vide più e balzò delirando dello stesso delirio di
lei: e furono di nuovo perduti.
Per tutta la quaresima prete Porcheddu attese invano Elias; ne domandò notizie e seppe che il
giovane ritornava spesso in paese, ed allora cadde in sospetto.
«Deve esser ricaduto!», pensò. «E io faccio una bella figura con monsignore, adesso che le pratiche,
perché quel giovane entrasse in seminario, mi erano riuscite bene. Prete! Prete! altro che prete vuol
farsi! Eppure bisogna metter riparo, perché altrimenti, oltre il resto, può succedere una tragedia in
quella casa.» Allora egli stesso andò in cerca di Elias finché riuscì a trovarlo.
«Ti ho atteso», gli disse, guardandolo fisso negli occhi. Ma gli occhi di Elias, freddi e malvagi,
sfuggirono lo sguardo dell'uomo di Dio: e il suo viso era sparuto, arso dalla passione e dal peccato.
«Non ho potuto,»
«Perché non hai potuto?»
«Ho pensato bene; sono indegno di comunicarmi, e la mia decisione, per il resto, non è ancora ben
presa. C'è tempo, prete Porcheddu!»
«C'è tempo, Elias? Cosa dici tu, Elias! Guai a chi aspetta l'indomani! Tu sei ricaduto in peccato, il
demonio ti trascina.»
«No, io non sono in peccato! Cosa viene a contarmi?», disse Elias con indifferenza.
Prete Porcheddu ne provò sgomento; avrebbe preferito che Elias confessasse il suo peccato, anche
ribellandosi, anche bestemmiando; ma quella freddezza, quella dissimulazione erano il colmo della
perdizione.
«Elias, Elias!», disse con voce turbata. «Bada dove tu vai, ritorna in te... Guai a chi semina nella
carne perché mieterà corruzione, e beato chi semina nello spirito perché mieterà vita eterna...»
Elias scosse la testa più volte.
«Io non intendo queste cose: le intendono solo i sacerdoti; del resto io non sono in peccato, io non
faccio male a nessuno; se lo levi dalla testa, prete Porcheddu.»
«Tu non intendi queste cose, Elias, ma puoi prevedere le conseguenze del tuo peccato. Pensa, pensa,
se un giorno si verrà a sapere; che orrore, che tragedia! Pensa a tua madre, a tuo padre! Pensa che il
peccato non può stare a lungo nascosto, perché dove c'è fuoco c'è fumo.»
«Io non sono in peccato», ripeteva l'altro con ostinata freddezza. «Non può accader nulla quando
non c'è nulla.»
Di qui non si moveva. Prete Porcheddu lo lasciò, disperato di salvarlo; tuttavia Elias fu
profondamente colpito da questo colloquio. La sua era una così orribile felicità, amareggiata dal
rimorso, dalla paura, dall'orrore del peccato! Tutte le cose che prete Porcheddu gli aveva detto egli
le pensava e se le ripeteva continuamente; ma non poteva o non cercava di vincersi. Dopo il piacere
provava tutto lo strazio del dolore, del rimorso e del disgusto; ma tornava a cercare la sua colpevole
felicità per sfuggire a quel dolore, a quel rimorso. Inoltre egli, nei momenti più tristi della sua
disperazione, cominciava a sentir disgusto e disprezzo per Maddalena.
«È lei la tentazione», disse fra sé, dopo il colloquio con prete Porcheddu. «È lei che mi ha perduto:
perché è venuta? Perché mi ha tentato? Non pensa a Dio, alla vita eterna, quella donna?»
Poi si pentiva di quel disprezzo, ricordava come Maddalena lo amava, e si sentiva trascinato verso
di lei da una tenerezza ancor più profonda, da un amore ancor più ardente. Ma la parola di prete
Porcheddu aveva gettato buon seme; il rimorso e il dolore si fecero più intensi nel cuore di Elias, ed
egli ricominciò a pensare che doveva cercar pace altrove che non vicino a Maddalena.
«Un giorno saremo vecchi», le disse una volta, «che faremo allora? Ci perdonerà Iddio?»
«Non parliamo di queste cose!», diss'ella indispettita. «Oh che forse vuoi farti prete, come dicevi
nella festa di San Francesco?» E rise.
Egli trasalì e non rispose, ma il suo disgusto e la sua irritazione contro Maddalena crebbero. Se ella
gli avesse risposto a tono, dimostrando speranza nella misericordia del Signore, egli si sarebbe
commosso e l'avrebbe amata di più, ma le beffe e il dispetto di lei gliela resero per un momento
odiosa. Da quella sera cominciarono ad avere delle piccole questioni, ora per questo, ora per quello;
dopo essersi separati, Elias si pentiva delle sue parole, ma rivedendo Maddalena, ricominciava.
«Senti, Elias», ella gli disse alla fine, «tu sei irritato e mi maltratti ingiustamente; ed anche io, sotto
il ferro rovente delle tue parole, spesso non so quel che mi dico. Finiamo con non intenderci più,
mentre non possiam vivere una senza l'altro. È meglio che per qualche tempo non ci vediamo: ti
pare? Tanto più che dobbiamo per un po' lasciarci...»
«No, è meglio anzi vederci più spesso, e litigare e finire per l'odiarci e separarci per sempre.»
«Elias!», diss'ella impallidendo. «Perché parli così? Perché dobbiamo odiarci e separarci per
sempre?»
«Perché siamo in peccato mortale.»
Ella si fece mortalmente triste.
«E non lo sapevi prima, Elias Portolu? Adesso è troppo tardi!»
«Perché è troppo tardi?»
«Perché io sono madre di un tuo figlio...»
Anche lui cambiò di colore, e un turbine di affetti diversi lo invase: coprì Maddalena di baci, le
disse pazze parole, le chiese perdono, le promise tutto ciò che essa volle.
Si separarono decisi di non rivedersi intimamente fino alla nascita del bimbo; ed Elias,
perdutamente innamorato, si sentiva finalmente felice, come non lo era stato da molto tempo.
<B>VIII.</B>
Si era allora d'autunno; il cielo diventava sempre più fresco e profondo, l'aria trasparente; grandi
pioggie avevano reso la terra e l'atmosfera purissime. Parve anche ad Elias d'immergersi in un
lavacro; anche lui ridiventò puro, i pensieri gli si schiarirono e per parecchio tempo passò giorni
felici.
In quei giorni sereni egli se ne stava lunghe ore sotto un albero coricato supino, guardando il cielo
azzurro attraverso i rami, ascoltando la voce lontana del bosco, il roteare del torrente, il richiamo
degli uccelli.
E pensava sempre a Maddalena, ma diversamente dal come ci pensava prima; ora l'amava
castamente, come nei primi giorni in cui l'aveva conosciuta, o meglio come uno sposo che pensa
alla sposa madre del figliuol suo. E pensava anche a questo figliuolo.
«Sarà maschio», diceva fra sé. «Appena grandicello verrà qui con noi, con me; lo terrò sempre con
me, mi farò amare da lui assai, assai.»
E si sentiva tutto felice; ma spesso un'ombra lo turbava:
«E se Pietro lo vorrà con sé? Egli lo crederà suo figlio, lo prenderà seco, ne farà un contadino, si
farà amare come padre».
«No, no!», pensava poi. «Io gli dirò: "lasciami il bambino, io non prenderò mai moglie e gli lasce
tutto il mio avere; lo farò studiare, lo farò mio". Pietro cederà e il mio bambino mi amerà.» A poco a
poco l'idea di questo bambino lo prese tutto; formava già dei pazzi progetti e cominciò a pensar più
a lui che a Maddalena.
Un giorno Mattia giunse a spron battuto, portando all'ovile la lieta novella.
«Babbo mio, fratello mio, Maddalena avrà un figliuolo: mia madre ha detto la preghiera a
Sant'Anna, e il figliuolo sarà maschio.»
E sorrideva tutto felice; pareva lui il padre. E zio Portolu per poco non pianse di gioia, e cominciò a
laudare San Francesco, Nostra Signora di Valverde, Nostra Signora del Rimedio e non so quanti
altri Santi.
«Ah, la colomba! Lo dicevo io che non poteva farci il torto di rimaner sterile. Ah, il piccolo Portolu,
il nuovo colombo, quando dunque lo vedremo?», diceva ogni tanto.
«Eh, disse Mattia ridendo. «Voi vorreste che nascesse subito subito e che fosse già qui a guidar le
pecore!»
Elias si sentiva batter forte il cuore, e pensava non senza dolore: «Se essi sapessero!» ma in fondo
era lieto e, strana cosa, quasi contento di aver dato quella felicità ai suoi. E come zio Portolu, non
vedeva l'ora che il bimbo nascesse.
Intanto i giorni passarono, ritornò il freddo, la nebbia, la neve; venne un inverno rigidissimo, ed
Elias, che era assai freddoloso, ricominciò a sentirsi a disagio nell'ovile. Come nell'anno passato,
desiderava la dolcezza del focolare, di una vita chiusa e comoda. «Oh, che dolcezza!», pensava,
«passare le lunghe sere accanto al fuoco, vicino a Maddalena!» Ma adesso non la sognava come
l'anno passato, con passione fremente; no, la vedeva accanto ad una culla, e sentiva una <I>ninna-
nanna</I> nostalgica che gli ricordava quelle della sua infanzia. Così, senza ch'egli se ne sapesse
dire il perché, il ritmo del suo cuore si rallentava di giorno in giorno: una forza misteriosa che non
era più né rimorso, né terrore, né disgusto, né stanchezza, né paura, operava lentamente entro di lui:
da lontano, nei freddi giorni dell'ovile, desiderava ancora di trovarsi accanto a Maddalena, ma
quando la rivedeva non provava più la terribile felicità dell'anno passato. E pensava:
«Forse perché è in questo stato; ma, dopo nato il bimbo, tornerò ad amarla come prima».
Un giorno, però, zia Annedda disse ad Arrita Scada, in presenza di Elias: «Elias dice che non
prenderà mai moglie; Mattia non lo vogliono perché è semplice; bisognerà dunque che Maddalena
ci dia molti figliuoli, non è vero, Arrita Scada? altrimenti chi popolerà il focolare quando noi
saremo morti?».
Ed Elias provò un intenso disgusto, un colpo al cuore, pensando che quei figliuoli potevano essere
suoi; oh, no, bastava uno!
«Mai! mai!», gridò fra sé.
Ai primi di quaresima andò da prete Porcheddu e si confessò: non dimostrava più il pentimento, il
dolore e il fervore dell'anno passato, ma si diceva fermamente deciso a non cader più in peccato
mortale.
Sembrava un altro; prete Porcheddu vide bene che l'incendio della passione era smorzato in lui, ma
lo guardò a lungo, pensieroso, e scosse più volte la testa.
«Ora ti sembra così», disse, «ma, vedrai, se non ti salvi adesso, ti perderai di nuovo. Profitta di
questo momento di grazia.»
«Che cosa vuol dire, prete Porcheddu?»
«Non ricordi ciò che volevi fare l'anno passato? Io feci le pratiche necessarie e pareva che tutto
dovesse riuscir bene...»
«Ah, so ciò che vuol dire», mormorò Elias, abbassando gli occhi come un fanciullo. «Ma ora!...»
«Ebbene, e ora?... Cosa vuol dire ciò? Non ci hai pensato più?»
«Sì, ci ho pensato spesso; ma credo che ora sia troppo tardi, e che io non sia più degno...»
«Non è mai tardi per la misericordia di Dio, Elias Portolu: pensaci bene, se vuoi salvarti.»
Elias, pensoso, a capo chino, fu colpito da un ricordo; si rivide nella <I>tanca</I>, in una sera grigia
e silenziosa, e rivide la rigida figura di zio Martinu e ne sentì ancora le parole.
«Prete Porcheddu», disse, «e se dopo, quando io fossi prete, la tentazione mi tormentasse ancora?
Non sarebbe peggio?»
«No, Elias Portolu, oramai io ti conosco: tu vincerai la tentazione, o meglio la tentazione non ti
molesterà più. Perché per te la tentazione è quella donna, ed essa, vedendoti sacerdote, non ti tenterà
più.»
«Chi sa!», disse Elias con tristezza.
«D'altronde ti si potrà mandare in un paese lontano e, se tu vorrai, non la rivedrai mai più.»
«Sì, dopo. Ma intanto!»
«Intanto? Non temere; tu andrai in seminario ed io ti farò studiare; non potrai andar in casa tua che a
certe ore, di giorno, e, se tu lo vorrai, non cadrai mai più in tentazione. Deciditi, Elias Portolu, non
perder tempo; pensa che dobbiamo morire, che la nostra vita è tanto breve, che abbiamo un'anima
sola e che dobbiamo salvarla.» Dicendo queste parole prete Porcheddu fissava Elias, quasi
volendolo suggestionare; e infatti d'un tratto lo vide impallidire e quasi mancare; ma tosto Elias
sollevò il viso e gli occhi gli si accesero.
«Ebbene», disse commosso, «faccia lei quello che crede; m'affido a lei, prete Porcheddu; in casa non
dirò nulla finché tutto non sia deciso.»
«Bene, va. Ti prometto che fra otto giorni tutto sarà concluso; intanto ti consiglio di frequentare
assai la chiesa. Va, figliuolo mio, e sta allegro. Vedrai che ti parrà di rinascere ad un'altra vita.»
Elias se ne andò, ma non poté stare allegro: ah, no, gli pareva di sognare, non sentiva più la gioia
infantile, senza causa, che aveva provato l'anno avanti, dopo la confessione; anzi ora si rattristava e
lagrime amare gli offuscavano gli occhi. Eppure era fermamente deciso; ma la sua tristezza veniva
appunto dalla sua ferma decisione. Non era più il sogno, adesso, era la realtà; ed egli, nel primo
momento della sua risoluzione, non poteva staccarsi dal passato senza sentir sanguinare il cuore. Era
l'addio a tutte le cose che formavano la sua vita; era quindi la sua vita stessa che se ne andava, con
le abitudini, le gioie, i dolori, le passioni, gli errori, i piaceri.
Per parecchi giorni visse nell'amaritudine di questo addio: specialmente nella <I>tanca</I>, la
tristezza lo stringeva fino a renderlo freddo, insensibile ad ogni altra cosa, che non fosse il suo addio
ai luoghi ed alle cose fra cui aveva tanto amato e sofferto.
«Io non vedrò più questo, io non farò più questa», pensava, e un nodo gli serrava la gola. Ma la sua
decisione era ferma, e più i giorni passavano, più egli s'abituava all'idea di lasciare tutto e di
cominciare una nuova vita. A poco a poco, quando ebbe segretamente detto addio ad ogni più
piccola cosa, ad ogni albero, ad ogni pietra, alle bestie ed agli uomini, le idee gli si rischiararono e
cominciò a vedere nell'avvenire.
Ritornando in paese se ne andava in chiesa e vi restava lunghe ore, e assisteva con intensità alle
funzioni religiose. Il suono dell'organo, la solenne lamentazione dei canti liturgici, le vesti dei
sacerdoti, tutto lo incantava: e pensando che un giorno anche lui canterebbe quelle preghiere che gli
davano uno struggimento di dolcezza, e che indosserebbe quegli abiti luminosi e santi, dimenticava
tutto il passato e si sentiva felice. Ma rientrando a casa si turbava ancora, specialmente davanti a
Maddalena.
«Che dirà quando saprà?», pensava continuamente. Gli pareva di non amarla più, tanto più che essa
era diventata quasi deforme, gialla e gonfia in viso; ma si sentiva legato a lei da un nodo
indissolubile e aveva paura di rompere questo legame.
«Che penserà? Che dirà? Si dispererà? Ah, forse le farà male, forse sarebbe meglio attendere.» E
pensava ancora, e sempre con tenerezza, al bimbo che doveva venire, ma da questo lato si sentiva
contento della sua decisione; il nuovo stato non gli impediva di amare il fanciullo, anzi poteva più
che mai prenderlo con sé, educarlo, farne un uomo dabbene e creargli un avvenire. Ma un giorno ne
parlò con prete Porcheddu, e questi scosse la testa:
«Non pensarci», gli disse, «perché fai male a pensarci. Anzitutto il bimbo è ancora nella mente del
Signore, ma quando anche nascesse e crescesse, tu devi tenerlo lontano, perché potrebbe essere
sempre un legame pericoloso fra te e <I>lei</I>. Il sacerdote non deve aver né figliuoli, né moglie,
né famiglia; non deve pensare alle ricchezze e alle cose terrene; egli è sposo della Chiesa e i suoi
figliuoli sono la povertà, il dovere, le buone opere. Pensaci bene, Elias Portolu; se tu ti senti
attaccato ancora alle cose del mondo, non fare il passo che devi fare: devi pensare solo a salvar
l'anima tua e non altro».
«Lei vuol farmi diventar santo», disse Elias sorridendo, ma in fondo sentiva che prete Porcheddu
aveva ragione e si rattristava di dover dire addio al suo povero sogno di padre. Ma neppure questo lo
smuoveva oramai dalla decisione presa.
Gli otto giorni passarono; le pratiche di prete Porcheddu erano arrivate a buon porto; monsignor
vescovo s'interessava molto di questo giovine pastore che voleva dedicarsi a Dio per vocazione, e lo
ammetteva subito in seminario a mezzo posto gratuito. Dietro consiglio di prete Porcheddu, Elias
scrisse al vescovo una garbata letterina di ringraziamento, e ciò finì d'entusiasmare monsignore.
«Monsignore vuol conoscerti, Elias Portolu; ora non ti resta che dar la notizia ai tuoi.»
«Ah, disse Elias sospirando. «Io ho una paura...»
«Quale?»
«Che la cosa faccia male a quella donna. Se si potesse aspettare!»
Prete Porcheddu scosse la testa.
«Tu vuoi aspettare? Tu sei ancora attaccato alle cose del mondo? Ah, ah, questo mi dispiace!»
«Ebbene», disse Elias con fermezza, «voglio dimostrarle che non sono più attaccato a nulla. Oggi
stesso do in casa la notizia.»
«Tuo padre è in paese?»
«Sì
«E tuo fratello Pietro?»
«Pure lui.»
«Bene, dopo che avrete pranzato di' loro che restino in casa; verrò io e parleremo tutti assieme.»
«Io non so come ringraziarla!», esclamò Elias con riconoscenza. «Dio solo la pagherà.»
«Bene, bene; di questo ne parleremo appunto con Dio, un altro giorno; ora va in pace.»
Elias se ne andò, ma non poté rientrare a casa fino all'ora del pranzo; si sentiva il cuore grosso, la
gola stretta. Ah, la realtà del suo sogno s'avvicinava, lo circondava già, lo premeva, lo staccava
violentemente dal mondo, dalla giovinezza, dal piacere, dalla famiglia, dalla vita sino allora vissuta.
Ed egli ne provava un dolore infinito; ma neppure per un attimo gli venne in mente di
indietreggiare.
Rientrò, pranzò distratto con gli occhi sempre rivolti alla porta; e ogni tanto, udendo rumore di passi
nel viottolo, trasaliva. Maddalena lo osservava e non poté trattenersi dal chiedergli che cosa aveva e
chi aspettava.
«Una persona», egli rispose. «Anzi vi prego tutti di stare qui, giacché questa persona deve parlare
con voi.»
«Anche con me?», domandò Maddalena. «Chi è? Chi è?»
«Con tutti. Vedrete chi è.»
Lo incalzarono di domande, ma egli non rispose ed uscì nel cortile. Maddalena fu presa da una
inquietudine che non cercò di nascondere neppure davanti a Pietro, e cominciò anch'essa a guardar
verso la porta, ascoltando se mai qualcuno veniva dal viottolo.
«Chi sarà mai questa persona?», diceva ogni tanto come fra sé. Da qualche tempo si era ben accorta
del mutamento di Elias, e il timore ch'egli fosse innamorato di altra donna e pensasse d'ammogliarsi
la rendeva gelosa e sofferente.
«Egli vuole ammogliarsi», pensava quel giorno, «e la persona che aspetta deve essere il paraninfo
che viene a domandarci il permesso di lasciargli chiedere la sposa per Elias. Ah, doveva giungere
questo giorno! Ah, così presto! Egli non aspetta neppure la sua creatura. Dio, Dio mio, aiutatemi,
datemi forza voi che siete misericordioso. Non fatemi morire, non castigatemi prima dell'ora
Una grave sofferenza le si disegnò sul viso pallido, e le sue palpebre, quelle larghe palpebre che si
abbassavano con rassegnato dolore, diventarono violette.
Quando Elias rientrò con prete Porcheddu la guardò ed ebbe paura; anche lui si fece pallido e sentì
un freddo di morte per il sangue.
Ma prete Porcheddu canterellava, guardandosi attorno, salutando con barzellette e goffi inchini; e
volle restare in cucina, sebbene zia Annedda tutta premurosa insistesse per salir nella camera di
Maddalena.
«Dunque, come si va, zio Portolu?»
«Con due gambe come le galline, prete Porcheddu mio!»
«E i figliuoli, i figliuoli, fanno da bravi? Son sempre colombi?»
«Ah, sì!», esclamò zio Portolu spalancando gli occhietti rossi. «Come i miei figliuoli ce ne son
pochi, grazie a San Francesco.» Elias si sforzava a sorridere, ma prete Porcheddu gli vedeva un
angoscioso smarrimento in viso, e dopo un po' di chiacchiere guardò Maddalena, ammiccò e disse:
«E fra poco avremo un altro colombo, non è vero? Eh, eh, San Francesco vi vuol bene, zio Portolu:
tutte le grazie di Dio sono con voi. Ed ora ascoltatemi: cosa direste voi se vostro figlio Elias si
facesse prete?».
Tutti rimasero storditi, perché se prete Porcheddu parlava così la cosa era già decisa. Chi poteva
aspettarselo? Maddalena sollevò gli occhi, e un fugace rossore le rischiarò il viso: dopo quanto
aveva temuto, le parole di prete Porcheddu le sembravano una lieta novella: Elias era perduto per
lei, ma ella poteva ancora rassegnarsi poiché altra donna non l'avrebbe avuto.
Ed Elias s'accorse della gioia di lei. Allora si calmò e osservò meglio l'impressione che la domanda
del sacerdote destava nei suoi. Pareva si trattasse di uno scherzo: Pietro sorrideva: zia Annedda,
seduta vicino a prete Porcheddu, col volto intento e le orecchie tese, sorrideva; il selvatico volto di
zio Portolu sorrideva.
Elias s'avvide che la cosa detta da prete Porcheddu destava tanta gioia nei suoi parenti da sembrar
loro un sogno; e d'un tratto sentì anche lui tale un impeto di gioia che si mise a ridere come un
bambino.
<B>IX.</B>
Due anni sono trascorsi. La gente ha cessato di mormorare, di ridere, di meravigliarsi nel vedere
Elias Portolu, l'ex pastore, vestito da seminarista. D'altronde egli non sembra affatto un giovine di
ventisei anni, e tanto meno un ex pastore; la clausura ha rifatte candide le sue mani e la sua faccia; il
suo viso sbarbato, d'un pallore perlaceo, sembra quello d'un adolescente.
Nelle grandi funzioni religiose, quando egli indossava il camice di merletto annodato da un largo
nastro azzurro, pareva un angelo melanconico, con una piega di suprema ma dolce tristezza nella
bocca di rosa pallida; molte fanciulle paesane, ed anche qualche signorina, lo guardavano un po'
troppo a lungo, con molto interesse. Ma egli non se ne accorgeva; i suoi occhi verdognoli si
smarrivano in lontane visioni. Che vedeva egli allora, quando l'organo gemeva sonoro e i canti
liturgici salivano con una lamentazione nostalgica di beni perduti e con l'invocazione accorata di
beni ignoti? Vedeva il passato, la <I>tanca</I>, la solitudine; ricordava la sua passione? Sì, egli
vedeva e ricordava tutto, e si accorava di non potersi distaccare dal passato, come aveva creduto e
sperato, e ciò che l'attaccava ancora al dolore e alla gioia delle passioni umane era la visione
continua di quella giovine donna inginocchiata in fondo alla chiesa, fra la porpora dilagante della
folla paesana. Era Maddalena, bella e splendida nel suo costume di sposa; fra le braccia teneva il
bambino coperto dalla mantiglia di scarlatto orlata di seta azzurra; e il bimbo, quando la madre gli
faceva danzar davanti al visetto gli amuleti di argento e corallo appesi al suo piccolo collo, alzava le
manine di rosa e sorrideva socchiudendo gli occhi verdognoli luminosi.
Elias vedeva continuamente davanti a sé la sua creatura sorridente, e la amava con tenerezza
accorata, e amando il bimbo amava la madre, e soffriva spesso nella lotta vana contro quei suoi
amori terreni.
La sua intelligenza naturale, intanto, s'andava educando: due anni di studio indefesso, di letture
continue, di buona volontà, lo avevano messo al livello dei chierici che studiavano da tanti anni
prima di lui. A poco a poco s'era abituato alla vita chiusa, all'obbedienza cieca, alla disciplina: cose
che sulle prime l'avevano quasi soffocato: il passato gli pareva un sogno, ma un sogno al quale era
tenacemente attaccato.
Si sentiva triste, soprattutto nei giorni in cui si recava a casa sua, dove zia Annedda lo accoglieva
con tenera soggezione; sfuggiva con cura gli occhi di Maddalena, e aveva paura di toccare il
bambino, o se lo costringevano ad accarezzarlo, lo faceva timidamente; ma trasaliva nel vederlo, e il
desiderio di prenderlo fra le braccia, di baciarlo, di farlo sorridere, di guardargli i primi dentini, di
stringergli ambe le manine, ambi i piedini entro una delle sue mani, lo struggeva.
«No, no», ripeteva fra sé, «bisogna vincere.»
Anche la presenza di Maddalena, sebbene ella non gli avesse mai rivolto un rimprovero, ma che
spesso lo guardava con tenerezza dolente, gli rimescolava il sangue; essa era più piacente che mai,
tutta intenta al figliuoletto, della cui vita sola pareva vivere; ed Elias non poteva distaccare la figura
di lei da quella del bambino.
Sentiva che, se fosse rimasto libero - poiché si sentiva già legato a Dio, sebbene non avesse ricevuto
ancora i primi ordini - sarebbe ricaduto immancabilmente. Così come era, riusciva a vincer persino
il suo pensiero, ma la lotta spesso era straziante e lo lasciava mezzo morto d'angoscia. In quei giorni
si sentiva dunque assai triste, e disperava della vita e di se stesso; mai però aveva un momento di
ribellione e di pentimento per la decisione presa.
A volte le forze gli venivano meno; sogni struggenti, nel sonno e nella veglia, lo assalivano,
peggiori d'ogni tentazione. Quasi ogni notte sognava il passato, la <I>tanca</I>, l'ovile, la casetta,
Maddalena, e spesso anche il bambino; e sempre gli sembrava di essere ancora pastore e libero; però
un'oppressione cupa e un ricordo che non riusciva ad afferrare, ma assai doloroso, gli rendevano
quei sogni simili ad un incubo. Eppure non era di questi sogni ch'egli si angosciava, ma dei sogni
fatti ad occhi aperti, delle visioni dolci e funeste che lo serravano in cerchi insidiosi. «No! no no!»,
ripeteva sempre, e scacciava i desideri vani, le immagini fatali, e si metteva a pregare ed a studiare;
ma quasi sempre, anche scacciati via cento volte, cento volte i tristi sogni tornavano.
Una notte egli studiava l'epistola di San Paolo ai Romani; era una notte d'aprile, limpida, lunare. Per
la finestra aperta entrava l'aria soffusa di dolcezza, e si vedeva una vivissima stella oscillare sul
cielo di cristallo. Elias si sentiva più triste del solito; la vita lo tentava e gli parlava e lo assaliva col
soffio puro di quella notte d'aprile; ricordanze ineffabili gli tornavano al pensiero, e nel suo sangue,
col rinascere della primavera, pareva germogliasse qualche cosa di nuovo e di inquietante.
«No, no, no...», ripeté fra sé, scuotendo il capo come per scacciarne i molesti pensieri. «Bisogna
dimenticare ogni cosa; studiare, andare avanti, Elias Portolu.» Si strinse la testa fra le mani e
s'immerse nella lettura: intorno era un profondo silenzio, e solo in lontananza, ma molto lontano,
quasi veniente dalla remota campagna, ondeggiava un melanconico canto nuorese. Elias leggeva,
rileggeva, meditava, ripeteva a memoria i versetti.
«...La carità sia senza simulazione; aborrite il male e attenetevi fermamente al bene.
...Non siate pigri nello studio; siate ferventi nello spirito, serventi al Signore.
...Allegri nella speranza, pazienti nell'afflizione, perseveranti nell'orazione.
...Benedite quelli che vi perseguitano; benediteli, e non li maledite.
...Non rendete ad alcuno male per male; procurate cose oneste nel cospetto di tutti gli uomini.
...A me la vendetta, io renderò la retribuzione, dice il Signore.
...Non esser vinto dal male, anzi vinci il male per lo bene.»
Come era fiera e dolce la voce dell'Apostolo! Era come un rombo di tuono e come voce pura di
fontana gorgogliante nella quiete notturna; ma veniva troppo di lontano, troppo dall'alto, come
rombo di tuono, come mormorio di fontana ascoltato in sogno. Elias l'ascoltava; e se ne sentiva tutto
avvolto e rinfrescato come da un fragrante sudario; ma, ahimè, era un sudario di velo vaporoso, che
il soffio di quella molle notte d'aprile bastava a lacerare.
Ecco, il lontano canto sardo si fece un po' meno lontano; tra il coro melanconico saliva una voce
armoniosa di tenore, nella quale tremolava tutta la voluttà e la dolcezza di quella notte lunare. Elias
sollevò il capo, colto da un improvviso incantesimo. Dove mai aveva sentito quella voce? Una
ricordanza quasi fisica lo fece trasalire. Ricordava di aver vissuto un'altra notte come quella, di aver
sentito quel canto, di esser stato triste come adesso lo era. Dove? Quando? Come? S'alzò,
s'appoggiò alla finestra, sotto il purissimo raggio della luna allo zenit. La brezza portava lontane
fragranze: egli rabbrividì e ricordò la notte in cui aveva pianto di passione ai piedi di San Francesco.
La voce dell'Apostolo non parlava più; il velo era caduto: che erano mai l'eternità, la morte, la
vanità d'ogni umana passione, il bene, il male, la perfezione, la vita eterna, davanti alla gioia
fuggente di quella notte d'aprile, di quel soffio di brezza, di quel canto d'amore? Ed Elias fu vinto; la
vita lo riafferrò tutto: ed egli cadde inginocchiato alla finestra, sotto la luna, e pianse come un
bambino colto da un supremo delirio di disperazione.
Una folle preghiera saliva nel suo pianto.
«Signore, tu lo vedi, io sono debole e vile; abbi pietà di me, mio Dio, perdonami, dammi requie,
strappami il cuore dal petto. Io sono uomo, non mi posso vincere; perché tu mi hai fatto così debole,
o Signore? Ho sempre sofferto nella mia vita, e quando ho dovuto, vinto dalla mia debole natura,
cercar la felicità, ho peccato, ho calpestato i tuoi precetti, sono stato più pagano e malvagio dei
Gentili; ma ho tanto sofferto. Dio mio; e soffro ancora tanto che la misura è colma. Dio mio, Dio
mio, Dio mio!», proseguiva singhiozzando, col viso stravolto inondato di lagrime salate, «abbi
misericordia di me, perdonami, aiutami, dammi la pace del cuore... dammi un po' di bene... un po' di
dolcezza: non ne ho diritto, Dio mio? Non sono una creatura umana? Se ho peccato, perdonami, se
tu sei misericordioso: se tu sei grande, Signore, perdonami e dammi un po' di bene, un po' di
gioia...»
A poco a poco le lagrime gli si esaurirono, e quello sfogo gli fece bene, lo calmò. Passato l'eccesso
della disperazione, si vergognò di aver pianto, ma pensò: «mio padre dice che sono i vili a piangere;
e che un Sardo, un Nuorese, non deve piangere; ma fa così bene! Altrimenti ci si schianta, in certe
ore!».
Ebbe anche vergogna e paura della sua preghiera, che era quasi una sfida a Dio; e chiese perdono e
si rassegnò; ma il domani mattina ebbe un'impressione fortissima di spavento, di sorpresa, di dolore
ed anche di gioia, quando gli vennero a dire che Pietro suo fratello era ritornato di campagna con
una forte infiammazione ai reni, e che il suo stato era piuttosto grave.
«Se morrà, io potrò sposare Maddalena!», subito pensò.
Aveva Dio esaudito la sua preghiera? Ah no! Egli indietreggiò spaventato della sua bestemmia,
davanti all'immagine di un Dio tanto mostruoso, quale lo creava in quel momento la sua fantasia.
Non era possibile.
«Come io sono vile!», pensava recandosi frettoloso a casa sua. «No, non mi salverò mai più: io sono
composto di male.»
E si angosciava, più per i suoi mali pensieri che per la malattia di Pietro; e si pentiva e si insultava;
eppure, giunto a casa e saputo che il fratello era rientrato malato sin dal giorno prima, provò una
specie di delusione, tanto in fondo lo lusingava l'idea strana che Dio avesse ascoltato la sua
preghiera.
Lo stato di Pietro era davvero grave; egli gemeva di continuo, livido in volto, con le fattezze
scomposte da una intensa sofferenza. Tre giorni prima aveva dovuto percorrere grandi distanze a
piedi, per raggiungere un suo bue smarrito; l'ansia, la fatica, il calore, una predisposizione al male,
lo avevano atterrato. Aveva i piedi gonfi e sanguinanti, le mani graffiate dai rovi e dalle pietre.
Una grave costernazione regnava in casa Portolu; Maddalena piangeva sinceramente; zia Annedda
aveva acceso due lampade e detto le <I>parole verdi</I>; e le <I>parole verdi</I> avevano risposto
che Pietro doveva morire.
Giorni terribili seguirono per Elias. Andava dal fratello, lo guardava, si aggirava per la camera
torcendosi silenziosamente le mani, costernato di non poter far nulla per la salvezza di Pietro; non
volgeva mai lo sguardo a Maddalena né al bimbo, e se ne andava disperato; e pregava ore ed ore
fervorosamente perché il malato guarisse. Ma spesso, pur nel fervore delle sue preghiere, trasaliva e
un gelo mortale gli fermava il sangue: ah, qual mostro lo assaliva? Perché, appena egli si
dimenticava un istante, quel mostro gli susurrava parole di gioia, gli dava desideri colpevoli,
mostrandogli di continuo l'immagine del fratello morto, sepolto?
«È il demonio», pensò una sera, «ma non vincerà, no, non vincerà mai più! Ebbene, che Pietro
muoia, se egli deve morire; sì, per quanto ciò sia orribile, Satana, io adesso desidero la morte di mio
fratello per dimostrarti che tu non vincerai su di me. Mai più! mai più! Sono più forte di te, Satana;
il mio corpo è debole e tu potrai spezzarlo, ma l'anima mia non la vincerai mai più.»
Quella notte Pietro morì. Elias gli chiuse gli occhi, gli fece il segno della croce sul viso, aiutò zia
Annedda a lavare e rivestire il cadavere.
Poi vegliò tutta la notte presso il fratello morto. Ogni tanto s'alzava, gli si chinava sul viso, e lo
guardava a lungo, con la folle speranza che non fosse morto, o avesse da un momento all'altro a
muoversi e risorgere.
Ma il volto barbuto e livido, con le palpebre abbassate, restava immoto come una paurosa maschera
di bronzo. Elias sentiva, forse per la prima volta in vita sua - giacché non aveva mai veduto così da
vicino e così a lungo un cadavere - tutta l'inesorabile grandezza della morte. Ricordava Pietro vivo,
ridente; ah, era bastato un soffio per gettarlo lì, immobile, muto per sempre! Per sempre! «Domani a
quest'ora anche questa spoglia sarà sparita dal mondo!», pensava; e non sapeva persuadersi che tutto
finisse così, che anche lui, e i genitori, e il fratello, e Maddalena, e il bimbo, sarebbero un giorno
scomparsi. Poi ricadeva inginocchiato ai piedi del letto, e il suo dolore si cambiava in conforto.
«Sì, tutto finisce», pensava. «E non soffriremo più. Perché agitarsi tanto? Tutto finisce: l'anima sola
resta; salviamola.»
E più che mai si sentiva forte contro la tentazione ed il male; poi ritornava a ricordare il fratello
vivo; alla loro infanzia, alla giovinezza, all'offesa mortale che gli aveva recato, e si accorava e i
singulti gli serravano la gola.
«Ora che è morto», si domandava, «saprà come l'ho offeso? E mi perdonerà?»
Ma queste domande lo riconducevano ai ricordi; rivedeva Maddalena in quella stessa camera dove
ora riposava il morto, e insidiosamente lo vinceva un'improvvisa dolcezza al pensiero che adesso
egli poteva amarla senza peccato; ma subito ricacciava questa tentazione, e chinandosi ancora sul
viso del cadavere tornava ad immergersi nella visione della morte. Così passò la notte.
All'alba prese un po' di sonno; e sognò Pietro, vivo, che veniva nella <I>tanca</I> (come sempre,
gli pareva d'essere ancora pastore). Pietro veniva a cavallo, e aveva il volto livido e gli occhi chiusi
come li aveva il cadavere.
«Che hai?», domandò Elias con terrore.
«Il bimbo è morto; vengo a dirtelo», rispose Pietro. «Ritorna in paese perché sei tu che devi
seppellirlo.»
Elias provò tanto spavento e tanta angoscia che fece uno sforzo per svegliarsi; ma svegliandosi si
sentì ancora angosciato come nel sogno. Era giorno fatto. Sentì il bimbo piangere, e tosto pensò con
dolore:
«Che anche lui debba morire? Che il sogno sia un avviso.? Le disgrazie non vengono mai sole; ed io
credo ai sogni».
Gli pareva oramai che tutte le disgrazie fossero possibili, vicine, inevitabili; e vinto da una grande
tristezza andò a vedere il bambino.
Il bambino piangeva. Maddalena, già vestita da vedova (e la veste nera la rendeva graziosa, così
giovane e fresca com'ella era) cercava di calmarlo, parlandogli a voce bassa. Molti parenti erano già
venuti; la casa era tutta immersa nel buio.
Elias s'avanzò silenziosamente, quasi furtivo, nella penombra della camera.
«Cos'hai?», domandò chinandosi sul bambino. «Perché piange?», domandò poi a Maddalena.
Il bambino lo guardò coi grandi occhi lagrimosi, e stette un po' zitto, con la boccuccia aperta e
tremante; poi ricominciò a piangere; anche Maddalena sollevò gli occhi verso gli occhi di Elias, ed
anche la sua bocca ebbe un tremito.
«Zitto, zitto, bello mio», disse con voce tremante, cullando il bimbo fra le sue braccia, «fa da buono,
ecco zio Elias che non vuole che tu pianga...» Ma d'un tratto anch'essa chinò il viso sulle spalle del
bambino, e si mise a piangere sconsolatamente.
«Ebbene, Maddalena, che è questo?», disse Elias fuori di sé.
Poi si allontanò come spinto da una mano invisibile: quella scena gli rimescolava il sangue; sentiva
che il pianto di Maddalena non era solo per la morte del marito, e lo sguardo di lei, sempre tenero e
ardente, gli penetrava il cuore.
«Ah», pensava, seduto in un cantuccio, nel circolo dei parenti, «prete Porcheddu ha ragione: il
bimbo ci legherà sempre, sempre: bisogna che io non lo veda, non lo avvicini, altrimenti mi perdo
ancora, e adesso più che mai.»
E tutta quella gente che entrava ed usciva dicendo cose banali lo annoiava a morte: desiderava
ardentemente che tutto fosse finito, i funerali compiuti, i tre giorni delle condoglianze passati, per
trovarsi solo col suo dolore e le sue tentazioni.
«Ahimè!», pensava, «se la tentazione è già così forte mentre il cadavere di mio fratello è ancora lì,
quasi ancora caldo, che sarà poi? No, no, no!», si proponeva con rabbia. «Vincerò io; devo vincere e
vincerò.»
Ma la lotta era cominciata, e ben terribile. Il primo, il secondo, il terzo giorno, coi funerali, le
condoglianze, le cerimonie del lutto sardo, passarono come un brutto sogno.
Finalmente Elias si ritrovò nella sua cella, sul suo lettuccio, stanco, prostrato, solo. Aveva sempre
nella memoria la notte in cui leggeva l'epistola di San Paolo; e il ricordo della sua disperata
preghiera gli ritornava fisso come un rimorso.
«Ne sono stato duramente castigato!», pensava. «Eppure chi conosce le vie del Signore? Se egli
avesse voluto esaudirmi? Se fosse quella la mia vita? Perché non posso aver io il diritto alla felicità
terrestre? Non sono uomo come gli altri?»
E il sogno insidioso lo vinceva: l'aria di primavera, pura e fragrante, saliva alla sua cella; e dalla
finestra appariva uno sfondo di cielo così profondo, così azzurro! Non era egli uomo come gli altri?
Aveva peccato! Ebbene, e quale degli uomini non pecca? E chi per questo si condanna ad un eterno
castigo?
«Ecco, ecco, io lascio il seminario; c'è la scusa che mio fratello è morto, che in casa adesso si ha
bisogno di me. La gente chiacchiererà un poco, ma di che cosa la gente non chiacchiera? Fra un
anno nessuno dirà più nulla e allora!...» Ah, che dolcezza! Era mai possibile tanta dolcezza? Ma sì,
che finalmente era possibile!
«Perché io sono così stupido da esitare un solo istante?», si domandava meravigliato di se stesso e
dei vani tormenti che si dava. E si sentiva il cuore pieno di gioia; ma d'un tratto il cuore gli si
vuotava, ed egli ripiombava tutto nella disperazione.
«No! no! no! Perché vaneggio in questo modo? È così che vinci la tentazione, Elias Portolu? Son
questi i tuoi voti? No, no, no; vincerò io; va indietro, Satana, ti vincerò, ti vincerò!»
E stringeva i pugni come per una lotta vera. E così passavano le ore, i giorni, le notti e i mesi.
Un giorno gli annunziarono che fra poco gli verrebbero impartiti i primi ordini: egli non se ne
rallegrò, né se ne rattristò. Oramai gli pareva d'aver acquistato esperienza e di non doversi più
illudere. Ricordava i primi tempi del suo amore, quando sperava che il matrimonio di Pietro con
Maddalena sarebbe bastato per guarirlo dalla passione. Invece!...
«No, non voglio illudermi», pensava. «Resterò uomo e soggetto alle passioni: no, la salvezza non è
negli ostacoli fra noi ed il peccato, ma nella forza nostra e nella nostra volontà.»
Quando andò a casa sua per partecipare la notizia, per fortuna trovò tutta la famiglia riunita; c'era
anche Mattia (ora i Portolu avevano un servo, non potendo zio Berte e il figliuolo accudire da soli a
tutti i lavori dell'ovile e della campagna) e il parente Jacu Farre, che dopo la morte di Pietro
frequentava molto la casa.
Jacu Farre era un <I>principale</I>, possedeva armenti, terre, cavalli e alveari; ed era scapolo;
aveva posto un grande affetto all'orfano di Pietro, e i Portolu lo trattavano coi guanti, nella speranza
ch'egli lasciasse i suoi beni al bambino. Elias lo trovò dunque fra i suoi; teneva il bimbo seduto su
un suo ginocchio e gli diceva:
«Ecco che trottiamo a cavallo; andiamo alla festa, eh, Berteddu?».
Il bambino rideva. Elias ne fu contrariato; guardò il Farre, che nonostante la sua pinguedine era un
bell'uomo, guardò il bimbo, guardò Maddalena ed ebbe un impeto di gelosia; ma si dominò tosto e
diede la notizia. Per i Portolu, e specialmente per zia Annedda, che il dolore per la morte di Pietro
aveva invecchiata di dieci anni, rendendola sorda del tutto, la buona novella portata da Elias fu
come un raggio di sole.
«San Francesco sia lodato!», disse zio Portolu. «Io aspettavo questo giorno; se non avessi avuto
questa speranza mi sarei ammazzato. Ah, voi sorridete! Tu sorridi, Jacu Farre! ah, tu non sai com'è
il cuore di zio Portolu!» E sospirò più volte. Elias diventò cupo; pensò:
«Mio padre parla sul serio; se io mi ritirassi non sopravviverebbe al dolore».
Solo Maddalena non parve rallegrarsi della notizia: le larghe palpebre abbassate con maggior
espressione di rassegnato dolore, non guardò una sola volta Elias, ma egli non s'illuse un momento
sui sentimenti di lei.
«Mi ama sempre», pensava, andandosene. «Jacu Farre le farà invano la corte: essa è mia, è mia
soltanto: vorrà cercarmi, farà di tutto per parlarmi, per distogliermi, ne sono certo. Che farò io?»
Non lo sapeva, come del resto non sapeva come e quando Maddalena avrebbe potuto avere un
colloquio con lui; ma intanto aspettava, e quest'attesa lo preparava alla lotta, o almeno lo premuniva
contro la debolezza di una sorpresa. Se gli dicevano che qualche persona lo cercava, si sentiva
battere il cuore e pensava: «È lei!» e poi, vedendo che non era lei, respirava e si rattristava nello
stesso tempo: se andava a casa sua, aveva paura d'incontrar Maddalena sola, entrava guardingo, e
poi si sentiva contrariato vedendo che Maddalena non era sola.
«Perché bisogna finirla!», diceva a se stesso per scusarsi. «Bisogna parlare e finirla una buona
volta.»
Ma passò parecchio tempo e Maddalena non lo molestò.
«Si è rassegnata: tanto meglio! Chi sa? forse mi sono ingannato, forse ella pensa più a Jacu Farre
che a me!», egli si diceva; e gli pareva di esserne contento, ma in fondo provava uno strano e
infondato dolore.
Un pomeriggio d'ottobre, però, due o tre giorni prima di quello fissato per la cerimonia degli ordini,
mentre egli stava studiando nella sua cella, vennero a dirgli che lo cercavano.
«È lei!», pensò turbato.
Non era lei, ma era un ragazzetto del vicinato, mandato da lei: «Che prete Elias», lo chiamavano g
così, «andasse subito subito a casa perché c'era bisogno di lui».
«È mamma?», chiese Elias.
«Non lo so.»
«È forse malato il bimbo?»
«Non lo so.»
«Va; vengo subito.»
E andò, col cuore stretto da un presentimento, Maddalena infatti stava sola in casa: zia Annedda era
andata in campagna, il bimbo dormiva. Il viottolo era deserto e intorno alla casetta regnava la
dolcezza, la pace infinita del velato pomeriggio autunnale.
Appena Maddalena vide Elias si turbò vivamente, e sentì che invano aveva preparato un lungo
discorso, pieno di logica persuasiva: il tempo nel quale ella era andata alla <I>tanca</I> e con un
bacio aveva vinto Elias, oramai era lontano: adesso aveva soggezione e forse anche paura dell'abito
del suo antico amante, e forse in lei adesso parlava più forte il calcolo che la passione. Ad ogni
modo si turbò e si confuse: fece sedere Elias, gli servì, come sempre, il caffè pronto per lui, poi gli
domandò senza guardarlo:
«Domenica dunque è la cerimonia?».
«E non lo sapevi?»
«Sì, lo sapevo.»
Silenzio.
«Perché mi hai fatto venire?», domandò lui finalmente.
«Perché?», ella disse, come interrogando se stessa. «Ah, aspetta, il bimbo si sveglia. Ah, Berteddu
mio, sta quieto: vengo, vengo: ecco che c'è zio Elias.» S'alzò, andò, prese il bambino e lo portò con
sé. Elias ebbe paura.
«Elias», ella cominciò, «tu forse immagini ciò che io voglio dirti.» Egli scosse la testa. «Non ti dice
nulla questa creatura innocente? E la tua coscienza non ti dice nulla? Interrogala; sei ancora in
tempo. Iddio, che vede tutto, non sarà più contento che tu, invece di fare quello che stai per fare,
renda il padre a questo bambino innocente?»
Tacque, guardandolo e aspettando la risposta. Elias pose la mano, e questa mano tremava, sulla
testina del bimbo, accarezzandolo inconsciamente.
«Che cosa vuoi che ti dica? Oramai è troppo tardi, Maddalena», mormorò.
«No, non è tardi, non è tardi!»
«È tardi, ti dico: lo scandalo sarebbe enorme; mi direbbero pazzo.»
«Ah», diss'ella con amarezza, «e per le male lingue del mondo tu non ascolti la tua coscienza?»
«Ma la mia coscienza mi dice di seguire la via che sto per seguire, Maddalena!», diss'egli, grave,
senza mai sollevar gli occhi, e sempre accarezzando il piccolo Berte. «Tanto, dimmi, ammesso che
io mi spogli di quest'abito e ti sposi, potremo mai dire che questo bambino è figlio mio?»
«Davanti al mondo, Elias! Davanti al mondo egli non sarà mai tuo figliuolo, ma tu potrai
egualmente procedere verso di lui come verso il tuo figliuolo!»
«Gli vorrò bene lo stesso, ne avrò cura lo stesso: nessuno, nel nuovo stato, m'impedirà di fare il mio
dovere a suo riguardo.»
«No, no», diss'ella, cominciando a disperarsi, e chinando e scuotendo la testa, «no, no, non è lo
stesso, non è la stessa cosa!»
«È la stessa cosa, te lo dico io, Maddalena...»
«Lo dici tu, ma non è la stessa cosa. Eppoi!», proruppe ella, sollevando con fierezza la testa. «E per
me, Elias! E per me? Non pensi a me?»
«Non posso», egli mormorò.
«Non puoi? E perché non puoi, Elias? Sei sempre in tempo! Possibile che tu non ricordi nulla?»
«Non posso ricordare. Eppoi ti ripeto, è troppo tardi.»
«Non è tardi, non è tardi...», ella ripeteva, torcendosi le mani, disperata di non saper dire le parole
che aveva preparato.
Ed era abbastanza accorta per non avvedersi che Elias era turbato, che aveva cambiato colore, che la
sua mano tremava sul capo del bimbo, che bastava un po' di audacia per vincerlo: e sentiva
desiderio di alzarsi, di cingergli il collo con le braccia e di parlargli come gli aveva parlato nella
<I>tanca</I>: ma una forza superiore la teneva ferma e quasi non le permetteva di guardarlo. Si
sentiva timida e impacciata come una fanciulla al primo colloquio d'amore. E il colloquio continuò
a procedere miseramente, e miseramente finì.
Maddalena ripeté in cento modi le cose già dette; ricordò ad Elias il passato, gli disse che lo amava
sempre, che sarebbe vissuta e morta pensando a lui; ma oramai ella non aveva più l'accento toccante
della passione, e tutte le sue parole e le sue ragioni non valevano lo sguardo col quale aveva vinto
Elias nella <I>tanca</I>: ed egli sentì tutto questo e poté vincere.
Si separarono senza aversi neppure sfiorato la mano; ma quando Elias fu solo sentì che la sua era
stata una vittoria ben facile e misera.
«S'ella mi avesse tentato forse sarei ancora cadut, pensava. «Ah, perch'ella rimase fredda rimasi
freddo anch'io. Ma forse, adesso che ha cominciato, tornerà ancora all'assalto, perché mi ama, e non
è solo per dare un padre al bambino, ma per riavere il mio amore che ella mi tenta.»
E si sentiva triste, turbato, debole; eppure non disperava della grazia di Dio e, con la voluttà amara
con cui i fanatici si percuotono il corpo, egli desiderava che Maddalena lo perseguitasse e lo
tentasse ancora, fortemente, per spasimare e per esperimentare la sua forza di resistenza.
<B>X.</B>
Ma ella non lo tentò oltre. Egli ricevette i primi ordini, continuò a studiare e in breve fu consacrato
sacerdote e poté dire la prima messa. In casa sua fecero festa come per nozze: parenti e amici gli
portarono doni come ad uno sposo; si sgozzarono pecore e agnelli, si fece banchetto, si cantò
improvvisando versi per il giovane sacerdote. Zio Portolu vestiva tutto di nuovo, aveva i capelli
unti, le treccioline rifatte; e ascoltava la gara dei poeti estemporanei, tenendo sulle ginocchia il
piccolo Berte che gli chinava melanconicamente la testina sul petto.
«Che hai, agnellino mio?», chiese zia Annedda, chinandosi sul piccino. «Sonno hai?»
Il bambino scosse la testa; i suoi occhioni glauchi erano tristi. Zia Annedda andò e prese con due
dita un dolce di pasta di miele in forma d'uccellino, e chinandosi di nuovo sul nipotino glielo porse.
«Prendi; ecco l'uccellino; non addormentarti, sai.»
Il bimbo prese il dolce svogliatamente, senza sollevar la testa dal petto del nonno, e accostò alle
labbra il becco dell'uccellino, ma non lo mangiò.
«Hai sonno?», chiese zio Portolu, guardandolo. «Non hai dormito, stanotte, uccellino mio? Su,
scuotiti, ascolta che belle canzoni! Quando sarai grande anche tu canterai così. Ti porterò a cavallo
alla <I>tanca</I> e canteremo assieme.»
Ma il piccino, che sempre s'entusiasmava all'idea di andare alla <I>tanca</I>, non si scosse. A
pranzo non volle mangiare, e non si staccò dal nonno, sul cui petto teneva sempre appoggiata la
testa.
«Mi pare che tuo figlio sia malato», gridò il Farre a Maddalena.
Prete Elias trasalì, guardò il bambino e immediatamente ricordò il sogno avuto la notte in cui
vegliava il cadavere di Pietro. Maddalena accarezzò il bambino, lo interrogò, lo prese fra le braccia
e lo portò sul lettuccio dove una volta dormiva Elias.
«Ha sonno e adesso dorme», disse rientrando.
Ma prete Elias non s'acquietò: avrebbe voluto alzarsi, andar dal bambino, esaminarlo; e invece non
poté muoversi e dovette nascondere la sua inquietudine.
Ascoltava i cantori, sorrideva lievemente per certi versi ben riusciti, ma non parlava, non rideva.
Vedeva il Farre, quel ricco e grosso parente che parlava ansando, andare e venire per la casa, dando
ordini, immischiandosi in ogni cosa come fosse il padrone, parlando spesso con Maddalena; e ne
provava gelosia, e accorgendosi di questa gelosia s'irritava contro se stesso, ma taceva.
Dopo il pranzo entrò quasi furtivamente presso il bimbo, si chinò e lo guardò a lungo, e vedendolo
dormire soavemente, con la boccuccia semiaperta, con l'uccellino dolce fra le manine, provò un
impeto di tenerezza, e lo baciò religiosamente. Sollevandosi ricordò il giorno e la notte delle nozze
di Maddalena, e la malattia e il dolore ch'egli aveva sofferto su quel lettuccio.
«Le cose del mondo!», pensò. «Chi avrebbe mai creduto che dovevano accader queste cose?»
Rientrando in cucina sentì il Farre che discorreva del bimbo con Maddalena, intenta a preparare del
caffè.
«Tu non hai cura di lui», le diceva. «Non vedi che sta poco bene? È viso di bimbo sano, quello? No.
Io farò venire il dottore e vedrai che ho ragione.»
«Che gliene importa?», disse Elias fra sé, con amarezza e con gelosia. «Spetta a me curarmene, e
non a lui.»
Uscì nel cortile, dove i poeti ricominciavano a cantare, e sedette accanto al padre; e parve ascoltare
la gara estemporanea, ma pensava sempre al Farre, a Maddalena, al bimbo, e si rattristava e
s'irritava, e s'accorgeva di un suo nuovo desiderio: che Maddalena restasse vedova: non aveva mai
pensato che, se lei si rimaritava, egli non avrebbe più autorità sul bambino.
«Sposerà il Farre», pensava, «ed io non potrò più amare il mio figliuolo: mi saranno contati i baci e
le carezze che potrò fargli.» E il suo pensiero si smarriva nell'avvenire, in cose del tutto estranee al
ministero nel quale era quel giorno entrato.
Finita la festa, rientrato in seminario, s'accorse di tutti i pensieri vani, delle gelosie, delle tristezze
provate durante la giornata, e un forte scontento di sé lo prese.
«È inutile, è inutile», pensava, voltandosi e rivoltandosi sul letto. «La carne è attaccata all'osso, ed io
non mi distaccherò mai dalle cose del mondo: sarò un cattivo sacerdote, come sono stato un cattivo
secolare, perché non sono un buon cristiano. Ecco tutto.»
Intanto accadde ciò che egli prevedeva. Il Farre domandò la mano di Maddalena, e subito cominciò
ad occuparsi del bambino come di cosa sua. Fece venire il medico, e il medico avendo dichiarato
che il bimbo era anemico, il grosso uomo comprò le medicine, e quanto altro occorreva per la salute
del piccolo Berte: prete Elias vedeva e taceva, ma dentro di sé si rodeva di gelosia; molte volte,
quando era solo, ed anche stando in chiesa, si sorprendeva a pensare a quella grossa figura d'uomo
sano e rosso, dalla pronunzia lenta, dalla parola ansante, e sentiva di odiarlo.
Un giorno il Farre lo invitò al suo ovile.
«Verrà anche zio Portolu», disse, «e prenderemo il bimbo, che gli farà bene, e ci spasseremo.»
Sulle prime Elias fu per rifiutare impetuosamente; poi si dominò e accettò.
Ma soffrì molto durante quella gita: il Farre portava il bambino con sé sul suo cavallo, sul davanti
della sella, e Berteddu gli appoggiava la testina sul petto e gli rivolgeva cento domande se vedeva
un corvo volare gracchiando, un passero levarsi da una macchia, un cespuglio carico di bacche
scarlatte, una quercia verdeggiante di ghiande. Il Farre gli spiegava ogni cosa con pazienza, e ogni
tanto gli dava un bacio.
«Vedi, quello è un pero selvatico; guarda, guarda, ha più frutti che foglie; ti piacciono eh, le pere
selvatiche, piccolo porcellino, eh, eh? E quelle cose grigie lunghe, che sembrano candelabri? E
quelle lì sai cosa sono? Sono fusti di <I>canna gurpina</I>, [15] buoni a far cannelli da pipa. I
pastori si fanno le pipe così. Eh, i pastori non sono come i signori, sai, che vanno dal mercante e
comprano le cose belle e fatte: i pastori <I>s'arrangiano</I>: e tu ti farai pastore, eh?»
«Io mi farò pastore, sì», disse il bambino indolentemente, «e farò le pipe con quelle canne là.»
«Eh, no, eh, no! Lo sentite, babbo Portolu, il bimbo vuol farsi pastore! Non è vero che invece lo
faremo dottore?»
Erano inezie; eppure Elias, che veniva cavalcando accanto al Farre, ne soffriva fanciullescamente.
Che aveva da vederci, quell'uomo estraneo, nell'avvenire del suo bambino? No, no, egli non avrebbe
mai permesso che colui s'immischiasse nella vita e nel destino del suo figliuolo. Ma, anche questo
era un sogno; la realtà lo incalzava già con le parole di zio Portolu, il quale diceva al piccolo Berte:
«Ah, tu vuoi farti pastore, piccolo colombo? E perché vuoi farti pastore? Non sai che i pastori
dormono spesso all'aperto e soffrono il freddo? Vedi zio Elias? S'è fatto prete; perché se fosse
rimasto pastore sarebbe morto di freddo. No, ti faremo dottore, non pastore. Eh, non comanderai tu!
C'è zio Farre che ti farà filar dritto, e se farai da cattivo zio Farre non scherzerà».
«E cosa è quello?», domandò Berteddu, indicando un albero, senza ascoltare le parole del nonno.
Ma le aveva ascoltate Elias, quelle energiche parole, e s'era sentito colpito nell'anima.
Da quel giorno la sua gelosia crebbe morbosamente: invano egli cercava di dominarsi, invano
pensava:
«Jacu Farre avrà dei figli, ed allora dimenticherà e forse disamerà il mio: allora Berte sarà tutto mio:
lo prenderò in casa, gli farò seguire una buona via, lo renderò felice».
No, No. Erano tutti sogni. Il presente incalzava, la realtà era dura. Elias soffriva; ed era un dolore
diverso da tutti gli altri fin allora provati, ma non meno profondo. Egli tornava a disperarsi ed a
ripetere la solita lamentazione:
«Non troverò mai pace; sono dannato. Qualunque cosa io faccia è errore. E forse ho errato a non dar
ascolto a Maddalena; forse Dio voleva ch'io mettessi riparo al peccato, invece di dedicarmi
indegnamente a Lui. Ah, prete Porcheddu aveva ragione: il peccato è una pietra che non ci leveremo
mai di dosso; ed io sono dannato al peso eterno del dolore perché ho peccato gravemente».
Così i suoi giorni continuavano a scorrere melanconici e tormentosi. Ah, non era questa la vita
quieta e santa che egli aveva sognato! Intanto si aspettava da un giorno all'altro che si rendesse
vacante qualche parrocchia nei villaggi vicini, per mandarvelo; ed egli lo sapeva, e soffriva già
pensando alla lontananza. Lui lontano, il Farre avrebbe sposalo Maddalena, e si sarebbe
impossessato completamente del bambino. Era finito, era tutto finito! Ma no, no, non era tutto
finito. No, egli sentiva che da lontano avrebbe continuamente pensato al suo figliuolo, rodendosi di
tenerezza, di desiderio, di gelosia, e che forse andava a cominciare una nuova vita di passione e di
dolore, ben diversa da quella che era suo dovere di condurre.
Tutti i giorni andava a casa sua, e insolitamente cercava di amicarsi il bambino, portandogli dolci,
trastullandolo e viziandolo: si accorgeva che era una debolezza, questa, anzi una piccolezza, poiché
era spinto a far così non dal suo amore paterno, ma dal bisogno d'impedire che Berte si affezionasse
al Farre; ma non poteva far altrimenti.
Però vedeva con dolore che Berte restava per lo più indifferente, indolente e taciturno; non
mangiava quasi mai i dolci, si stancava subito dei giocattoli e dei trastulli, e s'impermaliva per ogni
più piccola cosa. Del resto, era così con tutti; ed Elias s'accorgeva che il piccino era malato, e si
struggeva di vederlo così e di non poterlo far guarire.
Fece venire un medico, non quello consultato dal Farre, e provò una triste soddisfazione quando il
nuovo dottore dichiarò il bimbo affetto da un malore latente, che non era anemia, e ordinò diverso
medicamento.
«Lo vedi?», disse Elias a Maddalena, con un cattivo trionfo negli occhi.
«Lo vedo!», ella rispose tristemente, preoccupata soltanto dello stato del bambino.
Il nuovo medico e il nuovo medicamento non impedirono però che l'infiammazione latente nei
delicati visceri del bimbo si manifestasse presto. Un giorno prete Elias trovò Berte coricato sul
lettuccio della camera terrena; il bambino aveva una febbre altissima e delirava, con gli occhioni
smarriti e il viso ardente. Maddalena lo vegliava, costernata e disperata, e zia Annedda aveva già
ricorso ai suoi medicamenti, santi finché si vuole, ma perfettamente inutili.
Ella aveva una reliquia speciale per guarire la febbre: la passò sul corpo ardente del bimbo e recitò
con fervore diverse preghiere, a Dio, allo Spirito Santo, a Nostra Signora della Misericordia, a
Nostra Signora del Rimedio, a Maria di Valverde, a Maria del Monte, a Maria del Miracolo, alle
Anime Sante, a San Basilio, a Santa Lucia, al Sangue Santo, ai Santi Innocenti; ma la febbre non
fece che aumentare.
Allora fu richiamato il primo medico; egli dichiarò che lo stato del bimbo era gravissimo, ma non
disperato se non sopravveniva il tifo. Elias ascoltava, pallido, ritto presso il finestrino: in quel punto
vide il Farre venir su dal viottolo e strinse istintivamente i pugni.
«Egli viene, eccolo!», pensò. «Egli viene per accrescere il mio dolore! Forse il bimbo morrà, ed io
non posso avvicinarmi al suo lettuccio, non posso dargli le ultime carezze, le cure estreme, mentre
tutto ciò sarà permesso a colui. Eccolo, eccolo che viene! Ebbene, io me ne vado, altrimenti se egli
entra qui e si avvicina al bimbo, al bambino mio che muore, non rispondo più dei miei atti.»
Se n'andò infatti assieme col medico; nel cortile s'incontrarono col Farre che si mostrò addolorato e
s'informò dello stato del bimbo.
«Il bambino sta male; lasciatelo in pace assieme con la madre!», disse Elias ruvidamente.
Il Farre lo guardò un po' stupito, ma non rispose.
Il medico invitò Elias ad una passeggiata giù per lo stradale; il giovane prete lo seguì volentieri; ma
mentre l'altro parlava, egli guardava lontano, verso lo sfondo della valle, con gli occhi smarriti in un
sogno doloroso. Vedeva il Farre seduto presso il letto del bimbo, e Maddalena triste e pallida, che si
curvava sul piccolo malato per spiarne la crescente sofferenza. Il grosso fidanzato la confortava, poi
stendeva la mano ad accarezzare il piccino e gli parlava amorosamente.
Il medico intanto parlava d'una ragazza grassa e rosea che avevano incontrato presso la fontana.
«Dicono sia l'amante del tale, quella ragazza. Che fianchi! Però non è ben fatta, precisamente. Ma
sarà vero che è l'amante del tale? Ne ha sentito parlare, prete Elias?»
Elias lo guardò con rabbia. Come mai il medico poteva fargli queste domande, quando il suo
bambino moriva e il Farre gli faceva da padre?
«Cosa mi dice!», esclamò. «Perché mi fa queste domande?»
«Ma non son domande che si fanno agli uomini del mondo? Oh che non è un uomo del mondo
anche lei?»
Ah sì! anche lui era un uomo del mondo! Purtroppo era ancora un uomo del mondo, e come tale si
sentiva morso dal dolore, dal dispetto, dalla gelosia.
Verso sera tornò da Maddalena e la trovò disperata perché lo stato del bimbo si faceva sempre più
grave. Ella stava in cucina preparando qualche cosa presso il focolare.
«La mamma è di là?», chiese Elias, andando verso la cameretta ove giaceva il bambino.
«Sì
Egli avrebbe voluto domandare se c'era anche il Farre, ma non poteva. Sentiva che <I>egli</I> era
là, seduto presso il letticciuolo; ne vedeva distintamente la grossa persona, ne sentiva il respiro
ansante; e provava un'angoscia quasi morbosa. Eppure quando aprì l'uscio e vide il Farre seduto
presso il letticciuolo, con la grossa persona un po' ripiegata in avanti, silenzioso, ansante, trasecolò
come spaventato da un'improvvisa apparizione.
«Il bimbo muore, ed egli è là e non mi lascia avvicinare, non mi lascia vederlo né accarezzarlo!»,
pensò amaramente. Infatti s'avvicinò appena al dappiedi del letto e guardò quasi timidamente il
malatino.
«Sta male, sta male», disse il Farre con dolore, come parlando fra sé.
Elias si fermò un momento, poi se ne andò senza aver detto una parola. Passò una notte orribile, e
l'indomani mattina per tempo fu di nuovo là: attraversando il viottolo si lusingava di trovare il
bimbo migliorato, e il suo volto s'illuminava di speranza. Entrò, con passo agile attraversò il cortile,
la cucina, spinse l'uscio. E tosto il suo viso si fece livido. Il Farre era di nuovo là, seduto presso il
letticciuolo del bambino, con la grossa persona ripiegata in avanti, silenzioso, ansante.
Maddalena piangeva. Appena vide Elias gli venne avanti, asciugandosi le lagrime col grembiale, e
singhiozzando gli disse che il bimbo moriva. Elias la guardò dall'alto in basso, livido, cupo; non
avanzò un passo, non parlò; e poco dopo uscì. Zia Annedda lo seguì in cucina, poi nel cortile e gli
domandò esitando:
«Elias, figlio mio, che hai? Sei tu pure malato?»,
Egli si fermò presso il portone, si volse, e parole amare contro il Farre e contro Maddalena, che
permetteva al fidanzato di star sempre là presso il malatino, gli vennero alle labbra; ma vide il
piccolo viso di sua madre così pallido, così angosciato, che mormorò:
«No, non mi sento male». E se ne andò.
«Che cosa ha egli detto? Non l'ho sentito», disse fra sé zia Annedda. «Sta male anche lui? Che cosa
ha? Aiutateci voi, San Francesco mio!»
Da quel momento cominciò per Elias una vera ossessione. Appena si trovava libero andava
invariabilmente, quasi senza accorgersene, a casa sua. Anche prima d'arrivare al viottolo sentiva che
il Farre era là al suo posto; tuttavia s'ostinava a sperare il contrario ed entrava. E l'odiosa figura era
là, sempre là.
Poco per volta fu preso da una specie di delirio. Veniva col desiderio di chinarsi sul bimbo, di
baciarlo, di curarlo colle sue mani, di dirgli parole affettuose: gli pareva che la forza del suo amore
sarebbe bastata per guarirlo; e invece veniva, e bastava appena che vedesse il Farre per sentirsi
paralizzato; non osava neppure posar la mano sulla fronte del piccolo moribondo, mentre entro di sé
urlava di dolore e di rabbia.
La sera del settimo giorno della malattia di Berte, zia Annedda gli venne incontro piangendo.
«Non passerà la notte», mormorò.
«Il Farre è ancora là, mamma?»
«Non c'è.»
Egli si slanciò nella cameretta, scostò Maddalena che piangeva silenziosamente presso il lettuccio, e
si chinò ansioso sul bimbo. E il bimbo moriva; il piccolo volto, già sì grazioso e pieno, era livido,
scarno, improntato di una straziante sofferenza. Pareva il viso d'un vecchietto moribondo.
Elias non osò toccarlo né baciarlo, preso tutto da un improvviso stupore. Come davanti al cadavere
del fratello Pietro ebbe la visione della morte, e s'accorse che sino a quel momento gli era parso
impossibile che Berte morisse. Invece moriva. Perché moriva? Come moriva? La fine di ogni cosa,
di ogni passione? E allora perché egli odiava il Farre? Perché soffriva?
«Figlio mio, piccolo figlio mio», gemette fra sé, «tu muori ed io non ti ho amato, ed io, invece di
amarti, di curarti, di strapparti alla morte, mi sono perduto in un vano rancore, in una vana gelosia...
Ed ora tutto finisce, e non c'è più tempo, non c'è più tempo a nulla...»
Lo assalì un impetuoso desiderio di prendere fra le braccia il piccino, di portarselo via, di salvarlo?
Come? Non sapeva come, ma gli pareva che bastasse stendere le braccia, protendere la sua persona
sul corpicciuolo del bimbo, per tener lontana la morte. In quel punto entrò il Farre e s'avvicinò
lentamente al letto: Elias sentì il grave passo, l'alito ansante, e istintivamente s'allontanò.
Il Farre riprese il suo posto; e ancora una volta Elias sentì fra sé e l'anima del suo bambino che se
n'andava un ostacolo insormontabile. Si mise in fondo alla camera, accanto al finestrino, e i suoi
occhi lampeggiarono d'un fosco bagliore verde. Pensava delirando:
«Perché egli è là? Perché mi ha tolto di là? Mi ha cacciato, mi ha spinto. Con qual diritto? È suo o
mio il bimbo? È mio, è mio, non suo! Adesso vado, lo prendo a schiaffi, quel grosso otre, lo caccio
di là, perché devo starci io, non lui. Vado, vado, lo schiaffeggio, lo ammazzo: voglio bere il suo
sangue, perché lo odio, perché mi ha tolto tutto, tutto, tutto, perché quando c'è lui,. io arrivo a
desiderar la morte del mio bambino».
Ma per qualche minuto non si mosse dal suo posto; poi entrò in cucina, disse a sua madre:
«Ritornerò fra poco», e se ne andò via rapidamente.
Rientrando nella sua cella gli parve di svegliarsi da un sogno; e riebbe coscienza della sua vita, del
suo stato e del suo dovere. S'inginocchiò e si mise a pregare ed a chiedere perdono a Dio del suo
delirio.
«Perdonatemi, Signore, perdonatemi per la vita eterna, giacché in questa non sono degno di
perdono. Io non riposerò mai; sono dannato a soffrire, ma ogni castigo è piccolo per il fallo che ho
commesso. Sì, sì, fatemi pure soffrire come merito, ma datemi la forza di compiere i miei doveri,
toglietemi dal cuore ogni vana passione. Dal canto mio prometto che farò di tutto per vincermi: viva
o no il bambino andrò a vederlo il meno possibile. È forse mio? No. Io non devo aver nulla su
questa terra; né figli, né parenti, né beni, né passioni. Devo esser solo; solo davanti a voi, Dio mio,
Signore grande e misericordioso.»
Ma un'ora dopo lo avvertirono in fretta che andasse a casa sua; ed egli corse, pallido e col cuore in
tumulto. Era notte; una notte d'autunno, velata, silenziosa: la luna nuotava lentamente fra tenui
vapori, circondata di una immensa aureola d'oro sbiadito; un silenzio profondo, una pace arcana e
triste, qualche cosa di misterioso era nell'aria.
Elias sentiva che il bambino era morto, ed entrato nella cucina vide, infatti, seduta presso il focolare
Maddalena che piangeva tragicamente, stringendosi ogni tanto il capo fra le mani. Pareva una
schiava a cui avessero tolto tutto, libertà, patria, idoli, famiglia. Elias sentì l'immenso dolore della
donna, e pensò:
«In questo momento forse ella crede che la perdita del bambino sia il castigo della sua colpa; e non
sa che da questo dolore, invece, ella uscirà purificata e che troverà la via del bene. Le vie del
Signore sono grandi, sono infinite!». Ma mentre così pensava, si guardava attorno per la cucina
semioscura e tra le poche persone ivi raccolte non vedendo il Farre, pensava con dolore che l'uomo
forse era ancora là, accanto al bambino morto.
Entrò. Il Farre non c'era. Solo zia Annedda, pallidissima, ma calma, senza piangere, senza far
rumore, lavava e vestiva il morticino. Elias le diede qualche aiuto: dalla cassa prese le calzettine e le
scarpette del bambino, e calzandolo sentì che i piedini esangui, assottigliati dalla malattia, erano
ancora morbidi e tiepidi.
Finché il morticino non fu vestito e accomodato fra i guanciali, e finché zia Annedda rimase là,
Elias si tenne calmo, ma appena fu solo provò un brivido per tutta la persona, sentì il volto e le mani
raffreddarglisi, e s'inginocchiò e nascose il viso sulla coltre del letticciuolo.
Finalmente, finalmente era solo col suo bambino; nessuno più poteva toglierglielo, nessuno più
poteva mettersi fra loro. E sul suo infinito accoramento sentiva calare un tenue velo di pace, e quasi
di gioia - simile alla vaporosità di quella misteriosa notte autunnale - perché l'anima sua si trovava
finalmente sola, purificata dal dolore, sola e libera da ogni umana passione, davanti al Signore
grande e misericordioso.
FINE
Note:
[1] Si sa che in molti paesi sardi s'usa un pane speciale (<I>carta di musica</I>) che dura più
settimane senza guastarsi.
[2] In Sardegna il titolo di zio si dà a tutte le persone del popolo un po' avanzate in età.
[3] Suocera del figlio o della figlia.
[4] Vastissimo terreno chiuso.
[5] Il prodotto.
[6] Voce per chiamare i cani.
[7] Dolce nuorese di mandorle, zucchero e miele.
[8] Maggio, maggio, bene vieni,
Con tutto sole e amore,
Con la palma e col fiore
E con la margheritina.
[9] Minestra densa che si può mangiare fredda.
[10] Cucchiai.
[11] Recipienti di sughero.
[12] Proverbio sardo: <I>cada mettichedda juchet orichedda</I>.
[13] Il <I>bello grande</I>, il molto bello, bellissimo.
[14] Veglione popolare.
[15] Canna volpina.
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