Zana voleva fargli credito, don Peu voleva prestargli gli spiccioli: egli finse di stizzirsi. L'amico
credette che egli facesse lo splendido per cattivarsi l'animo di Zana, e guardò ridendo la fotografia.
In viaggio Paulu ricordava la figura alta e bella della vedova, il suo viso roseo, le labbra voluttuose;
ma pensava anche alla piccola Annesa, all'edera tenace e soffocante della quale egli solo conosceva
gli abbracci e dalla quale sentiva di non potersi liberare mai più.
«Zana è bella, ma fosse anche una donna onesta, non si potrebbe amare a lungo», pensava. «Annesa
è un tesoro nascosto, inesauribile: ogni suo bacio mi sembra il primo.»
Egli non diceva a se stesso che il segreto amoroso di Annesa stava tutto nella passione tragica che
egli le inspirava; non lo diceva, ma lo sentiva, e si lasciava prendere e avvolgere tutto da questa
passione come il ramo dell'edera. Più che amare si lasciava amare, e senza essere deliberatamente
infedele, guardava e desiderava le altre donne e si lasciava prendere da loro con piacere.
Così, senza dimenticare Annesa, ma pensando alla bella vedova, arrivò al villaggio. Grandi nuvole
rosee coprivano il sole, una mite luminosità dorava le colline coperte di stoppie, di là delle quali
sorgeva un monte calcareo che pareva di marmo rosa: piccole vacche nere s'abbeveravano all'esile
ruscello, e le figure dei pastori, vestiti di rosso e di nero, si disegnavano vivamente sul giallo della
collina. Ma all'avvicinarsi del paesetto, tutto diventava triste; la strada polverosa, l'aria irrespirabile
per l'odore delle immondezze. La chiesetta precedeva di un centinaio di metri il paese, e sorgeva in
mezzo ad un campo arido, sparso di cumuli di pietre, di roccie sovrapposte, di massi che formavano
circoli, coni, piramidi. Pareva che un popolo primitivo fosse passato in quel campo, tentando
costruzioni che aveva poi abbandonato incomplete: tutto era silenzio e desolazione.
Le zampe del cavallo affondavano nella polvere e nelle immondezze. Casupole di pietra, fabbricate
sulla roccia, si accumulavano intorno a qualche costruzione nuova; donne scalze e in cuffia,
bambini laceri, ragazzetti seminudi, tutto un popolo che pareva sbucato da un sottosuolo lurido e
buio, animava la strada polverosa: tutti sussurravano nel vedere don Paulu Decherchi che distribuiva
saluti dall'alto del suo cavallo.
Nel passare davanti ad una casa antica, meno povera delle altre, egli si irrigidì, fece caracollare il
cavallo, e guardò le finestruole munite d'inferriata. In quella casetta abitava la sorella del Rettore,
una vecchia molto ricca, la quale appunto doveva prestare i denari al cavaliere spiantato. Ma
nessuno apparve alla finestra ed egli passò oltre; il suo amico abitava in fondo alla straducola, in
una casetta costruita sopra la roccia, in fondo ad un cortile aperto.
Ballore Spanu era assente, ma la sua famiglia, composta della madre e di sette sorelle nubili, la più
giovane delle quali aveva passato la trentina, accolse l'ospite con vive manifestazioni di simpatia.
«Ballore è in campagna», disse la madre, una vecchia piccola e grossa, col viso giallognolo quasi
completamente nascosto da una benda nera. «C'è un incendio, in un bosco vicino alle nostre tanche,
e Ballore mio è andato per aiutare a smorzarlo. Ma tornerà verso sera. E i suoi parenti come stanno,
don Paulu? E donna Rachele? Ah, ricordo ancora quando ella venne alla nostra festa: era sposa;
sembrava un garofano, tanto era bella.»
Le sette <I>bajanas</I> [14] s'affollavano intorno a Paulu, e chi gli serviva il caffè, chi gli porgeva
il catino per lavarsi. Si rassomigliavano tutte in modo sorprendente; piccole, grosse, col viso grande,
giallognolo, e folte sopracciglia nere riunite sopra il naso aquilino.
Grandi casse nere e rossicce, scolpite con arte primitiva, un letto a baldacchino e una vecchia panca
nera, arredavano la camera che riceveva luce dalla porta: alcune galline entravano ed uscivano
liberamente.
Paulu bevette il caffè, si lavò, ascoltò le chiacchiere della vecchia, la quale gli raccontò che litigava
da sette anni con un vicino, per un diritto di passaggio in una tanca.
«Sette anni, figlio mio. Solo gli avvocati m'hanno già succhiato più di duemilatrecento scudi. Ma è
per il puntiglio, capirà: pur di vincer la lite, andrei a chieder l'elemosina.»
Verso sera egli uscì. Ma le chiacchiere della vecchia, l'assenza dell'amico, gli sguardi delle sette
vecchie zitelle dalle sopracciglia selvagge, lo avevano mortalmente rattristato. Vagò per il paese,
domandandosi se doveva far visita al Rettore, che non conosceva ancora. Il cielo si copriva di
nuvole, il paesetto, al confronto del quale Barunèi pareva a Paulu una cittadina graziosa, dava l'idea
di un covo di mendicanti, cupo sotto il cielo cupo.
Gli uomini tornavano dai campi e dai pascoli, alcuni a piedi, altri su piccoli cavalli bianchi o neri: e
parevano venir di lontano, silenziosi e stanchi come cavalieri erranti.