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TITOLO: Costantinopoli
AUTORE: Edmondo De Amicis
CURATORE:
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Costantinopoli" di Edmondo De Amicis,
Fratelli Treves editori,
Milano 1877
CODICE ISBN: non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 16 settembre 2002
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Vittorio Volpi, [email protected]
REVISIONE:
Catia Righi, [email protected]
PUBBLICATO DA:
Marco Calvo, http://www.mclink.it/personal/MC3363/
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COSTANTINOPOLI
DI
EDMONDO DE AMICIS
Quarta Edizione
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI.
1877
AI MIEI CARI AMICI DI PERA
ENRICO SANTORO
GIOVANNI ROSSASCO E FAUSTO ALBERI
Amigos, es este mi último libro de viaje;
desde adelante no escucharé mas que las
inspiraciones del corazón.
Luis de Guevara, Viaje en Egypto.
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L’ARRIVO
L’emozione che provai entrando in Costantinopoli mi fece quasi dimenticare tutto quello che
vidi in dieci giorni di navigazione dallo stretto di Messina all’imboccatura del Bosforo. Il mar Jonio
azzurro e immobile come un lago, i monti lontani della Morea tinti di rosa dai primi raggi del sole,
l’Arcipelago dorato dal tramonto, le rovine d’Atene, il golfo di Salonico, Lemno, Tenedo, i
Dardanelli, e molti personaggi e casi che mi divertirono durante il viaggio, si sbiadirono per modo
nella mente, dopo visto il Corno d’oro, che se ora li volessi descrivere, dovrei lavorare più
d’immaginazione che di memoria. Perchè la prima pagina del mio libro m’esca viva e calda
dall’anima, debbo cominciare dall’ultima notte del viaggio, in mezzo al mare di Marmara, nel punto
che il capitano del bastimento s’avvicinò a me e al mio amico Yunk, e mettendoci le mani sulle
spalle, disse col suo schietto accento palermitano: Signori! Domattina all’alba vedremo i primi
minareti di Stambul.
Ah! ella sorride, mio buon lettore, pieno di quattrini e di noia; ella che, anni sono, quando le
saltò il ticchio d’andare a Costantinopoli, in ventiquattr’ore rifornì la borsa e fece le valigie, e partì
tranquillamente come per una gita in campagna, incerto fino all’ultimo momento se non fosse
meglio prendere invece la via di Baden-Baden! Se il capitano del bastimento ha detto anche a lei:
Domani mattina vedremo Stambul lei avrà risposto flemmaticamente: Ne ho piacere. Ma
bisogna aver covato quel desiderio per dieci anni, aver passato molte sere d’inverno guardando
melanconicamente la carta d’Oriente, essersi rinfocolata l’immaginazione colla lettura di cento
volumi, aver girato mezza l’Europa soltanto per consolarsi di non poter vedere quell’altra mezza,
essere stati inchiodati un anno a tavolino con quell’unico scopo, aver fatto mille piccoli sacrifizi, e
conti su conti, e castelli su castelli, e battagliole in casa; bisogna infine aver passato nove notti
insonni sul mare, con quell’immagine immensa e luminosa davanti agli occhi, felici tanto da provar
quasi un sentimento di rimorso pensando alle persone care che si sono lasciate a casa; e allora si
capisce che cosa voglion dire quelle parole: – Domani all’alba vedremo i primi minareti di Stambul;
e invece di rispondere flemmaticamente: ne ho piacere si picchia un pugno formidabile sul
parapetto del bastimento.
Un gran piacere per me e per il mio amico era la profonda certezza che la nostra immensa
aspettazione non sarebbe stata delusa. Su Costantinopoli infatti non ci son dubbi; anche il
viaggiatore più diffidente ci va sicuro del fatto suo; nessuno ci ha mai provato un disinganno. E non
c’entra il fascino delle grandi memorie e la consuetudine dell’ammirazione. È una bellezza
universale e sovrana, dinanzi alla quale il poeta e l’archeologo, l’ambasciatore e il negoziante, la
principessa e il marinaio, il figlio del settentrione e il figlio del mezzogiorno, tutti hanno messo un
grido di maraviglia. È il più bel luogo della terra a giudizio di tutta la terra. Gli scrittori di viaggi,
arrivati là, perdono il capo. Il Perthusier balbetta, il Tournefort dice che la lingua umana è
impotente, il Pouqueville crede d’esser rapito in un altro mondo, il La Croix è innebriato, il visconte
di Marcellus rimane estatico, il Lamartine ringrazia Iddio, il Gautier dubita della realtà di quello che
vede; e tutti accumulano immagini sopra immagini, fanno scintillare lo stile e si tormentano invano
per trovare un’espressione che non riesca miseramente al disotto del proprio pensiero. Il solo
Chateaubriand descrive la sua entrata in Costantinopoli con un’apparenza di tranquillità d’animo
che reca stupore; ma non tralascia di dire che è il più bello spettacolo dell’universo; e se la celebre
Lady Montague, pronunziando la stessa sentenza, ci premette un forse, è da credersi che l’abbia
fatto per lasciare tacitamente il primo posto alla propria bellezza, della quale si dava molto pensiero.
C’è persino un freddo tedesco il quale dice che le più belle illusioni della gioventù e i sogni stessi
del primo amore sono pallide immagini in confronto del senso di dolcezza che invade l’anima alla
vista di quei luoghi fatati; e un dotto francese afferma che la prima impressione che fa
Costantinopoli è lo spavento. Immagini chi legge il ribollimento che dovevano produrre tutte queste
parole di foco, cento volte ripetute, nel cervello d’un bravo pittore di ventiquattr’anni, e in quello
d’un cattivo poeta di vent’otto! Ma nemmeno queste lodi illustri di Costantinopoli ci bastavano, e
cercavamo le testimonianze dei marinai. E anch’essi, povera gente rozza, per dare un’idea di quella
bellezza, sentivano il bisogno d’esprimersi con qualche similitudine o parola straordinaria, e la
cercavano volgendo gli occhi qua e e stropicciando le dita, e facevano dei tentativi di descrizione
con quel suono di voce che par che venga di lontano e quei gesti larghi e lenti con cui la gente del
popolo esprime la meraviglia quando non le bastano le parole. Entrare con una bella mattinata in
Costantinopoli –, ci disse il capo dei timonieri –, credete a me, signori: è un bel momento nella vita
d’un uomo.
Anche il tempo ci sorrideva; era una notte serena e tepida; il mare accarezzava con un
mormorìo leggerissimo i fianchi del bastimento; gli alberi e i più minuti cordami si disegnavano
netti ed immobili sul cielo coperto di stelle; non pareva nemmeno che si navigasse. A prora v’era
una folla di turchi sdraiati che fumavano beatamente il loro narghilè col viso rivolto alla luna, la
quale faceva un contorno d’argento ai loro turbanti bianchi; a poppa un visibilio di gente d’ogni
paese, fra cui una compagnia famelica di commedianti greci che s’erano imbarcati al Pireo. Vedo
ancora, in mezzo a una nidiata di bambine russe che vanno a Odessa colla madre, il visetto della
piccola Olga, tutta meravigliata ch’io non capisca la sua lingua e indispettita d’avermi fatto tre volte
la medesima domanda senza ottenere una risposta intelligibile. Ho da una parte un grosso e sucido
prete greco, col cappello a staio rovesciato, che cerca col canocchiale l’arcipelago di Marmara;
dall’altra un ministro evangelico inglese, rigido e freddo come una statua, che in tre giorni non ha
ancora detto una parola guardato in faccia anima viva; davanti, due belle signorine ateniesi colla
berrettina rossa e le treccie giù per le spalle, che appena uno le guarda, si voltano tutte due insieme
verso il mare per farsi vedere di profilo; un po’ più inun negoziante armeno che fa scorrere tra le
dita le pallottoline del rosario orientale, un gruppo d’ebrei vestiti del costume antico, degli albanesi
colle sottanine bianche, un’istitutrice francese che fa la malinconica, qualcuno di quei soliti
viaggiatori di nessuna tinta, che non si capisce di che paese siano che mestiere facciano; e in
mezzo a questa gente, una piccola famiglia turca composta d’un babbo in fez, d’una mamma velata
e di due bambine coi calzoncini, tutti e quattro accovacciati sotto una tenda, a traverso un mucchio
di materasse e di cuscinetti variopinti, in mezzo a una corona di carabattole d’ogni forma e d’ogni
colore.
Come si sentiva la vicinanza di Costantinopoli! C’era una vivacità insolita. Quasi tutti i visi che
s’intravvedevano al lume delle lanterne, erano visi allegri. Le bambine russe saltellavano intorno
alla madre gridando l’antico nome russo di Stambul: Zavegorod! Zavegorod! Passando accanto
ai crocchi, si udivano qua e i nomi di Galata, di Pera, di Scutari, di Bujukderé, di Terapia, che
luccicavano alla mia fantasia come le prime scintille d’un grande foco d’artifizio sul punto
d’accendersi. Anche i marinai erano contenti d’avvicinarsi a quel luogo dove, com’essi dicevano, si
dimenticano almeno per un’ora tutte le noie della vita. Persino a prora, in mezzo a quel biancume di
turbanti, c’era un movimento straordinario: anche quei mussulmani pigri e impassibili vedevano già
cogli occhi della immaginazione ondulare all’orizzonte i fantastici contorni di Ummelunià, la madre
del mondo, «la città», come dice il Corano, «di cui un lato guarda la terra e due guardano il mare.»
Pareva che il bastimento, anche senza la forza motrice del vapore, avrebbe dovuto andare innanzi da
sè, spinto dall’impeto dei desiderii e delle impazienze che fremevano sulle sue tavole. Di tratto in
tratto mi appoggiavo al parapetto per guardare in mare, e mi pareva che cento voci confuse mi
parlassero col mormorìo delle acque. Erano tutte le persone che mi amano, che dicevano: Va, va,
figliuolo, fratello, amico, va; va a goderti la tua Costantinopoli; te la sei guadagnata, sii felice, e Dio
t’accompagni.
Soltanto verso la mezzanotte i viaggiatori cominciarono a scendere sotto coperta. Il mio amico
ed io scendemmo gli ultimi e a passo di formica, perchè ci ripugnava d’andare a chiudere fra quattro
pareti un’allegrezza a cui pareva angusto il circuito della Propontide. Quando fummo a metà della
scaletta sentimmo la voce del capitano che c’invitava a salire la mattina seguente sul ponte riserbato
al comando. – Siano su prima del levar del sole, – gridò affacciandosi alla botola –; faccio buttare in
mare chi ritarda.
Una minaccia più superflua non è mai stata fatta dopo che mondo è mondo. Io non chiusi
occhio. Credo che il giovane Maometto II, in quella famosa notte di Adrianopoli, in cui disfece il
letto a furia di voltarsi e di rivoltarsi, agitato dalla visione della città di Costantino, non abbia fatto
tanti rivoltoloni quanti ne feci io nella mia cuccetta in quelle quattr’ore d’aspettazione. Per
dominare i miei nervi, provai a contare fino a mille, a tener l’occhio fisso sulle ghirlande bianche
che l’acqua rotta dal bastimento sollevava intorno all’occhio del mio camerino, a canterellare delle
ariette cadenzate sul rumore monotono della macchina a vapore; ma era inutile. Avevo la febbre, mi
sentivo mancare il respiro e la notte mi pareva eterna. Appena vidi un barlume di giorno, saltai giù;
Yunk era già in piedi; ci vestimmo in furia, e salimmo in tre salti sopra coperta.
Maledizione!
C’era la nebbia.
Una nebbia fitta copriva l’orizzonte da tutte le parti; pareva imminente la pioggia; il grande
spettacolo dell’entrata in Costantinopoli era perduto; il nostro più ardente desiderio, deluso; il
viaggio in una parola, sciupato!
Io rimasi annichilito.
In quel punto comparve il capitano col suo solito sorrisetto sulle labbra.
Non ci fu bisogno di parlare; appena ci vide, capì, e battendoci una mano sulla spalla, disse in
tuono di consolazione:
Niente, niente. Non si sgomentino, signori. Benedicano anzi questa nebbia. In grazia della
nebbia loro faranno la più bella entrata in Costantinopoli che abbiano mai potuto desiderare. Fra
due ore avremo un sereno meraviglioso. Riposino sulla mia parola.
Mi sentii tornare la vita.
Salimmo sul ponte del Comando.
A prora tutti i turchi erano già seduti a gambe incrociate sui loro tappeti, col viso rivolto verso
Costantinopoli. In pochi minuti tutti gli altri viaggiatori usciron fuori, armati di canocchiali d’ogni
forma, e si appoggiarono, stesi in una lunga fila, al parapetto di sinistra, come alla balaustrata d’una
galleria di teatro. Tirava un’arietta fresca; nessuno parlava. Tutti gli occhi e tutti i canocchiali si
rivolsero a poco a poco verso la riva settentrionale del mare di Marmara. Ma non si vedeva ancor
nulla.
La nebbia però non formava che una fascia biancastra all’orizzonte, sopra la quale splendeva il
cielo sereno e dorato.
Diritto dinanzi a noi, nella direzione della prora, appariva confusamente il piccolo arcipelago
delle nove Isole dei Principi, le Demonesi degli antichi, luogo di piaceri della Corte al tempo del
Basso Impero, ed ora luogo di ritrovo e di festa degli abitanti di Costantinopoli.
Le due rive del mar di Marmara erano ancora completamente nascoste.
Soltanto dopo un’ora che s’era sul ponte si vide...
Ma è impossibile intender bene la descrizione dell’entrata in Costantinopoli, se non si ha chiara
nella mente la configurazione della città. Supponga il lettore d’aver davanti a l’imboccatura del
Bosforo, il braccio di mare che separa l’Asia dall’Europa e congiunge il mar di Marmara col mar
Nero. Stando così s’ha la riva asiatica a destra e la riva europea a sinistra; di qui l’antica Tracia, di
l’antica Anatolia. Andando innanzi, infilando cioè il braccio di mare, si trova a sinistra, appena
oltrepassata l’imboccatura, un golfo, una rada strettissima, la quale forma col Bosforo un angolo
quasi retto, e si sprofonda per parecchie miglia nella terra europea, incurvandosi a modo di un corno
di bue; donde il nome di Corno d’oro, ossia corno dell’abbondanza, perchè v’affluivano, quand’era
porto di Bisanzio, le ricchezze di tre continenti. Nell’angolo di terra europea, che da una parte è
bagnato dal mar di Marmara e dall’altra dal Corno d’oro, dov’era l’antica Bisanzio, s’innalza, sopra
sette colline, Stambul, la città turca. Nell’altro angolo, bagnato dal Corno d’oro e dal Bosforo,
s’innalzano Galata e Pera, le città franche. In faccia all’apertura del Corno d’oro, sopra le colline
della riva asiatica, sorge la città di Scutari. Quella dunque, che si chiama Costantinopoli, è formata
da tre grandi città divise dal mare, ma poste l’una in faccia all’altra, e la terza in faccia alle due
prime, e tanto vicine tra loro, che da ciascuna delle tre rive si vedono distintamente gli edifizii delle
altre due, presso a poco come da una parte all’altra della Senna e del Tamigi nei punti dove sono più
larghi a Parigi e a Londra. La punta del triangolo su cui s’innalza Stambul, ritorta verso il Corno
d’oro, è quel famoso Capo del Serraglio, il quale nasconde fino all’ultimo momento, agli occhi di
chi viene dal mar di Marmara, la vista delle due rive del Corno, ossia la parte più grande e più bella
di Costantinopoli.
Fu il Capitano del bastimento, che col suo occhio di marinaio scoperse per il primo il primo
barlume di Stambul.
Le due signore ateniesi, la famiglia russa, il ministro inglese, Yunk, io ed altri, che andavamo
tutti a Costantinopoli per la prima volta, stavamo intorno a lui stretti in un gruppo, silenziosi,
stancandoci gli occhi inutilmente sopra la nebbia, quand’egli stese il braccio a sinistra, verso la riva
europea, e gridò: – Signori, ecco il primo spiraglio.
Era un punto bianco, la sommità d’un minareto altissimo, di cui la parte di sotto rimaneva
ancora nascosta. Tutti vi appuntarono su i canocchiali e si misero a frugare cogli occhi in quel
piccolo squarcio della nebbia come per farlo più largo. Il bastimento filava rapidamente. Dopo
pochi minuti si vide accanto al minareto una macchia incerta, poi due, poi tre, poi molte che a poco
a poco prendevano il contorno di case, e la fila s’allungava, s’allungava. Dinanzi a noi e sulla nostra
destra, tutto era ancora coperto dalla nebbia. Quella che s’andava scoprendo allora, era la parte di
Stambul che s’allunga, formando un arco di circa quattro miglia italiane, sulla riva settentrionale del
mar di Marmara, fra il Capo del Serraglio e il Castello delle Sette Torri. Ma tutta la collina del
Serraglio era ancora velata. Dietro le case spuntavano l’un dopo l’altro i minareti, altissimi e
bianchi, e le loro sommità, illuminate dal sole, erano color di rosa. Sotto le case cominciavano a
scoprirsi le vecchie mura merlate, di color fosco, rafforzate, a distanze eguali, da grosse torri, che
formano intorno a tutta la città una cintura non interrotta, contro la quale si rompono le onde del
mare. In poco tempo rimase scoperto un tratto di città lungo due miglia; ma, dico il vero, lo
spettacolo non corrispondeva alla mia aspettazione. Eravamo nel punto in cui il Lamartine domandò
a stesso: È questa Costantinopoli? e gridò: Che delusione! Le colline erano ancora
nascoste, non si vedeva che la riva, le case formavano una sola fila lunghissima, la città pareva tutta
piana. Capitano! esclamai anch’io –; è questa Costantinopoli? Il capitano m’afferrò per un
braccio, e accennando colla mano dinanzi a sè: Uomo di poca fede! gridò –; guardi lassù.
Guardai! e mi fuggì un’esclamazione di stupore. Un’ombra enorme, una mole altissima e leggiera,
ancora coperta da un velo vaporoso, si sollevava al cielo dalla sommità d’un’altura, e rotondeggiava
gloriosamente nell’aria, in mezzo a quattro minareti smisurati e snelli, di cui le punte inargentate
scintillavano ai primi raggi del sole. Santa Sofia! gridò un marinaio; e una delle due signore
ateniesi disse a bassa voce: Hagia Sofia! (La santa sapienza). I turchi a prora s’alzarono in piedi.
Ma già dinanzi e accanto alla grande basilica, si sbozzavano a traverso la nebbia altre cupole
enormi, e minareti fitti e confusi come una foresta di gigantesche palme senza rami La moschea
del Sultano Ahmed! gridava il capitano, accennando –; la moschea di Bajazet, la moschea
d’Osman, la moschea di Laleli, la moschea di Solimano. Ma nessuno lo sentiva più. Il velo si
squarciava rapidamente, e da ogni parte balzavan fuori moschee, torri, mucchi di verzura, case su
case; e più andavamo innanzi, più la città s’alzava e mostrava più distinti i suoi grandi contorni
rotti, capricciosi, bianchi, verdi, rosati, scintillanti; e la collina del serraglio disegnava g intera la
sua forma gentile sopra il fondo grigio della nebbia lontana. Quattro miglia di città, tutta la parte di
Stambul che guarda il mare di Marmara, si stendeva dinanzi a noi, e le sue mura fosche e le sue case
di mille colori si riflettevano nell’acqua terse e nitide come in uno specchio.
A un tratto il bastimento si fermò.
Tutti s’affollarono intorno al capitano domandando perchè. Egli ci spiegò che per andare
innanzi bisognava aspettare che svanisse la nebbia. La nebbia infatti nascondeva ancora
l’imboccatura del Bosforo come una fitta cortina. Ma dopo meno d’un minuto, si poté proseguire,
andando però cautissimamente.
Ci avvicinavamo alla collina dell’antico serraglio.
Qui la curiosità mia e di tutti diventò febbrile.
– Si volti in là –, mi disse il capitano – e aspetti a guardare quando tutta la collina ci sia davanti.
Mi voltai e fissai gli occhi sopra uno sgabello che mi pareva che ballasse.
– Eccoci! – esclamò il Capitano dopo qualche momento.
Mi voltai. Il bastimento s’era fermato.
Eravamo in faccia alla collina, vicinissimi.
È una grande collina tutta vestita di cipressi, di terebinti, d’abeti e di platani giganteschi, che
spingono i rami fuori delle mura merlate fino a far ombra sul mare; e in mezzo a questo mucchio di
verzura s’alzano disordinatamente, separati e a gruppi, come sparsi a caso, cime di chioschi,
padiglioncini coronati di gallerie, cupolette inargentate, piccoli edifizii di forme gentili e strane,
colle finestre ingraticolate e le porte a rabeschi; tutto bianco, piccino, mezzo nascosto, che lascia
indovinare un labirinto di giardini, di corridoi, di cortili, di recessi; un’intera città chiusa in un
bosco; separata dal mondo, piena di mistero e di tristezza. In quel momento vi batteva su il sole, ma
la ricopriva ancora un velo leggerissimo. Non vi si vedeva nessuno, non vi si sentiva il più leggiero
rumore. Tutti i viaggiatori stavano là cogli occhi fissi su quel colle coronato dalle memorie di
quattro secoli di gloria, di piaceri, d’amori, di congiure e di sangue; reggia, cittadella e tomba della
grande monarchia ottomana; e nessuno parlava, nessuno si moveva. Quando a un tratto il secondo
del bastimento gridò: – Signori, si vede Scutari!
Ci voltammo tutti verso la riva asiatica. Scutari, la Città d’oro, era là sparsa a perdita d’occhi
sulle sommità e per i fianchi delle sue grandi colline, velata dai vapori luminosi del mattino, ridente,
fresca come una città sorta allora al tocco d’una verga fatata. Chi può descrivere quello spettacolo?
Il linguaggio con cui descriviamo le città nostre non serve a dare una idea di quella immensa varietà
di colori e di prospetti, di quella meravigliosa confusione di città e di paesaggio, di gaio e d’austero,
d’europeo, d’orientale, di bizzarro, di gentile, di grande! S’immagini una città composta di
diecimila villette gialle e purpuree, e di diecimila giardini lussureggianti di verde, in mezzo a cui
s’alzano cento moschee candide come la neve; di sopra, una foresta di cipressi enormi: il più grande
cimitero dell’Oriente; alle estremità, smisurate caserme bianche, gruppi di case e di cipressi,
villaggetti raccolti sui poggi, dietro ai quali ne spuntano altri mezzo nascosti fra la verzura; e per
tutto cime di minareti e sommità di cupole biancheggianti fino a mezzo il dorso d’una montagna che
chiude come una gran cortina l’orizzonte; una grande città sparpagliata in un immenso giardino,
sopra una riva qui rotta da burroni a picco, vestiti di sicomori, digradante in piani verdi, aperta in
piccoli seni pieni d’ombra e di fiori; e lo specchio azzurro del Bosforo che riflette tutta questa
bellezza.
Mentre stavo guardando Scutari, il mio amico mi toccò col gomito per annunziarmi che aveva
scoperto un’altra città. E vidi infatti, voltandomi verso il mar di Marmara, sulla stessa riva asiatica,
al di di Scutari, una lunghissima fila di case, di moschee e di giardini dinanzi a cui era passato il
bastimento, e che fino allora eran rimasti nascosti dalla nebbia. Col canocchiale si discernevano
benissimo i caffè, i bazar, le case all’europea, gli scali, i muri di cinta degli orti, le barchette sparse
lungo la riva. Era Kadi-Kioi, il villaggio dei giudici, posto sulle rovine dell’antica Calcedonia, già
rivale di Bisanzio; quella Calcedonia fondata seicento ottantacinque anni prima di Cristo dai
Megaresi, ai quali fu dato dall’oracolo di Delfo il soprannome di ciechi per avere scelto quel sito
invece della riva opposta dove sorge Stambul. E tre città ci disse il Capitano –; le contino sulle
dita perchè a momenti ne salteranno fuori delle altre.
Il bastimento era sempre immobile fra Scutari e la collina del Serraglio. La nebbia nascondeva
affatto il Bosforo da Scutari in là, e tutta Galata e tutta Pera che stavano dinanzi a noi. Ci passavano
accanto dei barconi, dei vaporini, dei caicchi, dei piccoli legni a vela; ma nessuno li guardava. Tutti
gli occhi erano fissi sulla cortina grigia che copriva la città franca. Io fremevo d’impazienza e di
piacere. Ancora pochi momenti, e lo spettacolo meraviglioso, che strappa un grido dall’anima!
Appena potevo tener fermo agli occhi il canocchiale, tanto mi tremava la mano. Il capitano mi
guardava, pover’uomo, e godeva della mia emozione, e fregandosi le mani esclamava:
– Ci siamo! ci siamo!
Finalmente incominciarono ad apparire dietro al velo prima delle macchie bianchiccie, poi il
contorno vago d’una grande altura, poi uno sparso e vivissimo luccichio di vetrate percosse dal sole,
e infine Galata e Pera in piena luce, un monte, una miriade di casette di tutti i colori, le une sulle
altre; una città altissima coronata di minareti, di cupole e di cipressi; sulla sommità i palazzi
monumentali delle Ambasciate, e la gran torre di Galata; ai piedi il vasto arsenale di Tophanè e una
foresta di bastimenti; e diradando sempre la nebbia, la città s’allungava rapidamente dalla parte del
Bosforo, e balzavano fuori borghi dietro borghi, distesi dall’alto dei colli fino al mare, vasti, fitti,
picchiettati di bianco dalle moschee; file di bastimenti, piccoli porti, palazzi a fior d’acqua,
padiglioni, giardini, chioschi, boschetti; e confusi nella nebbia lontana, altri borghi di cui si
vedevano soltanto le sommità dorate dal sole; uno sbarbaglio di colori, un rigoglio di verde, una
fuga di vedute, una grandezza, una delizia, una grazia da far prorompere in esclamazioni insensate.
Sul bastimento tutti erano a bocca aperta: viaggiatori, marinai, turchi, europei, bambini. Non si
sentiva uno zitto. Non si sapeva più da che parte guardare. Avevamo da una parte Scutari e Kadi-
Kioi; dall’altra la collina del Serraglio; in faccia Galata, Pera, il Bosforo. Per vedere ogni cosa,
bisognava girare sopra stessi; e giravano, lanciando da tutte le parti degli sguardi fiammeggianti,
e ridendo e gesticolando senza parlare, con un piacere che ci soffocava. Che bei momenti, Dio
eterno!
Eppure il più grande e il più bello rimaneva da vedere. Noi eravamo ancora immobili al di qua
della punta del Serraglio; senza oltrepassare la quale non si può vedere il Corno d’oro, e la più
meravigliosa veduta di Costantinopoli è sul Corno d’oro. Signori, stiano attenti esclamò il
capitano prima di dar l’ordine d’andare avanti; – ora viene il momento critico. In tre minuti siamo in
faccia a Costantinopoli!
Provai un senso di freddo.
Si aspettò qualche altro momento.
Ah! come mi saltava il cuore! Con che febbre nell’anima aspettavo quella benedetta parola:
Avanti!
– Avanti! – gridò il capitano.
Il bastimento si mosse.
Andiamo! Re, principi, Cresi, potenti e fortunati della terra, in quel momento io ebbi
compassione di voi; il mio posto sul bastimento valeva tutti i vostri tesori, e non avrei venduto un
mio sguardo per un impero.
Un minuto un altro minuto si passa la punta del Serraglio intravvedo un enorme spazio
pieno di luce e un’immensità di cose e di colori la punta è passata... Ecco Costantinopoli!
Costantinopoli sterminata, superba, sublime! Gloria alla creazione ed all’uomo! Io non avevo
sognato questa bellezza!
Ed ora descrivi, miserabile! profana colla tua parola questa visione divina! Chi osa descrivere
Costantinopoli? Chateaubriand, Lamartine, Gautier, che cosa avete balbettato? Eppure le immagini
e le parole s’affollano alla mente e fuggono dalla penna. Vedo, parlo, scrivo, tutto ad un tempo,
senza speranza, ma con una voluttà che m’innebria. Vediamo dunque. Il Corno d’oro, diritto dinanzi
a noi, come un largo fiume; e sulle due rive, due catene d’alture su cui s’innalzano e s’allungano
due catene parallele di città, che abbracciano otto miglia di colli, di vallette, di seni, di promontorii;
cento anfiteatri di monumenti e di giardini; una doppia immensa gradinata di case, di moschee, di
bazar, di serragli, di bagni, di chioschi, svariati di colori infiniti; in mezzo ai quali migliaia di
minareti dalla punta lucente s’alzano al cielo come smisurate colonne d’avorio; e sporgono boschi
di cipressi che discendono in striscie cupe dalle alture al mare, inghirlandando sobborghi e forti; e
una possente vegetazione sparsa si rizza e ribocca da ogni parte, impennacchia le cime, serpeggia
fra i tetti e si curva sulle sponde. A destra, Galata con dinanzi una selva di antenne e di bandiere;
sopra Galata, Pera che disegna sul cielo i possenti contorni dei suoi palazzi europei; dinanzi, un
ponte che unisce le due rive, corso da due opposte folle variopinte; a sinistra, Stambul, distesa sulle
sue larghe colline, ognuna delle quali sorregge una moschea gigantesca dalla cupola di piombo e
dalle guglie d’oro: Santa Sofia, bianca e rosata; Sultano Ahmed, fiancheggiata da sei minareti;
Solimano il Grande, coronata di dieci cupole; Sultana Validè, che si specchia nelle acque; sulla
quarta collina, la moschea di Maometto II; sulla quinta, la moschea di Selim; sulla sesta, il serraglio
di Tekyr; e al disopra di tutte le altezze, la torre bianca del Seraschiere che domina le rive dei due
continenti dai Dardanelli al mar Nero. Di dalla sesta collina di Stambul e di da Galata non si
vedono più che profili vaghi, punte di città e di sobborghi, scorci di porti, di flotte e di boschi, quasi
svaniti in una atmosfera azzurrina, che non paiono più cose reali, ma inganni dell’aria e della luce.
Come afferrare i particolari di questo quadro prodigioso? Lo sguardo si fissa per qualche momento
sulle rive vicine, sopra una casetta turca o sopra un minareto dorato; ma subito si rilancia in quella
profondità luminosa e spazia a caso fra quelle due fughe di città fantastiche, seguito a stento dalla
mente sbalordita. Una maestà infinitamente serena è diffusa su tutta quella bellezza: un non so che
di giovanile e d’amoroso, che risveglia mille rimembranze di racconti di fate e di sogni primaverili;
un che d’aereo, d’arcano e di grande, che rapisce la fantasia fuori del vero. Il cielo, sfumato a
finissime tinte opaline ed argentee, contorna con una nettezza meravigliosa tutte le cose; il mare,
color di zaffiro, tutto picchiettato di gavitelli porporini, fa tremolare i lunghi riflessi bianchi dei
minareti; le cupole scintillano; tutta quella immensa vegetazione s’agita e freme all’aria della
mattina; nuvoli di colombi svolazzano intorno alle moschee; migliaia di caicchi dipinti e dorati
guizzano sulle acque; il venticello del Mar Nero porta i profumi di dieci miglia di giardini; e quando
inebriati da questo paradiso, e già dimentichi d’ogni altra cosa, ci si volta indietro, si vede con un
sentimento nuovo di meraviglia la riva dell’Asia che chiude il panorama colla bellezza pomposa di
Scutari e colle cime nevose dell’Olimpo di Bitinia; il mar di Marmara sparso d’isolette e
biancheggiante di vele; e il Bosforo coperto di navi, che serpeggia fra due file interminabili di
chioschi, di palazzi e di ville, e si perde misteriosamente in mezzo alle più ridenti colline
dell’Oriente. Ah sì! Questo è il più bello spettacolo della terra; chi lo nega è ingrato a Dio e ingiuria
la creazione; una più grande bellezza soverchierebbe i sensi dell’uomo!
Passata la prima emozione, guardai i viaggiatori: tutte le faccie erano mutate. Le due signore
ateniesi avevano gli occhi inumiditi; la signora russa, nel momento solenne, s’era stretta sul cuore la
piccola Olga; persino il freddo prete inglese faceva sentire per la prima volta la sua voce,
esclamando di tratto in tratto: – wonderful! wonderful! – (stupendo stupendo!).
Il bastimento s’era fermato poco lontano dal ponte; in pochi minuti vi si radunò intorno un
visibilio di barchette e irruppe sopra coperta una folla di facchini turchi, greci, armeni ed ebrei, che
bestemmiando un italiano dell’altro mondo, s’impadronirono delle nostre robe e delle nostre
persone.
Dopo un tentativo inutile di resistenza, diedi un abbraccio al capitano, un bacio a Olga, un
addio a tutti e scesi col mio amico in un caicco a quattro remi, che ci condusse alla dogana, di dove
ci arrampicammo per un labirinto di stradicciuole fino all’albergo di Bisanzio, sulla sommità della
collina di Pera.
CINQUE ORE DOPO
La visione di stamattina è svanita. Quella Costantinopoli tutta luce e tutta bellezza è una città
mostruosa, sparpagliata per un saliscendi infinito di colline e di valli; è un labirinto di formicai
umani, di cimiteri, di rovine, di solitudini; una confusione non mai veduta di civiltà e di barbarie,
che presenta un’immagine di tutte le città della terra e raccoglie in tutti gli aspetti della vita
umana. Non ha veramente di una grande città che lo scheletro, che è la piccola parte in muratura; il
resto è un enorme agglomeramento di baracche, uno sterminato accampamento asiatico, in cui
brulica una popolazione che non fu mai numerata, di gente d’ogni razza e d’ogni religione. È una
grande città in trasformazione, composta di città vecchie che si sfasciano, di città nuove sorte ieri,
d’altre città che stanno sorgendo. Tutto v’è sossopra; da ogni parte si vedono le traccie d’un
gigantesco lavoro: monti traforati, colli sfiancati, borghi rasi al suolo, grandi strade disegnate; un
immenso sparpagliamento di macerie e d’avanzi d’incendi sopra un terreno perpetuamente
tormentato dalla mano dell’uomo. È un disordine, una confusione d’aspetti disparati, un succedersi
continuo di vedute imprevedibili e strane, che dà il capogiro. Andate in fondo a una strada signorile,
è chiusa da un burrone; uscite dal teatro, vi trovate in mezzo alle tombe; giungete sulla sommità
d’una collina, vi vedete un bosco sotto i piedi, e un’altra città sulla collina in faccia; il borgo che
avete attraversato poc’anzi, lo vedete, voltandovi improvvisamente, in fondo a una valle profonda,
mezzo nascosto dagli alberi; svoltate intorno a una casa, ecco un porto; scendete per una strada,
addio città! siete in una gola deserta, da cui non si vede altro che cielo; le città spuntano, si
nascondono, balzan fuori continuamente sul vostro capo, ai vostri piedi, alle vostre spalle, vicine e
lontane, al sole, nell’ombra, fra i boschi, sul mare; fate un passo avanti, vedete un panorama
immenso; fate un passo indietro, non vedete più nulla; alzate il capo, mille punte di minareti;
scendete d’un palmo, spariscon tutti e mille. Le strade, infinitamente reticolate, serpeggiano fra i
poggi, corrono su terrapieni, rasentano precipizi, passano sotto gli acquedotti, si rompono in vicoli,
discendono in gradinate, in mezzo ai cespugli, alle roccie, alle rovine, alle sabbie. Di tratto in tratto,
la gran città piglia come un respiro nella solitudine della campagna, e poi ricomincia più fitta, più
colorita, più allegra; qui pianeggia, là s’arrampica, più in là precipita, si disperde e poi si riaffolla; in
un luogo fuma e strepita, in un altro dorme; in una parte rosseggia tutta, in un’altra parte è tutta
bianca, in una terza vi domina il color d’oro, una quarta presenta l’aspetto d’un monte di fiori. La
città elegante, il villaggio, la campagna, il giardino, il porto, il deserto, il mercato, la necropoli, si
alternano senza fine innalzandosi l’uno sull’altro, a scaglioni, in modo che da certe alture si
abbracciano con uno sguardo solo, sopra una sola china, tutte le varietà d’una provincia. Un’infinità
di contorni bizzarri si disegna da ogni parte sul cielo e sulle acque, così fitti, co pazzamente
spezzettati e dentellati dalla meravigliosa varietà delle architetture, che si confondono agli occhi
come se tremolassero e s’intricassero gli uni cogli altri. In mezzo alle casette turche si alza il
palazzo europeo; dietro il minareto, il campanile; sopra la terrazza, la cupola; dietro la cupola, il
muro merlato; i tetti alla chinese dei chioschi sopra i frontoni dei teatri, i balconi ingraticolati degli
arem di rimpetto ai finestroni a vetrate, le finestrine moresche in faccia ai terrazzi a balaustri, le
nicchie delle madonne sotto gli archetti arabi, i sepolcri nei cortili, le torri fra i tugurii; le moschee,
le sinagoghe, le chiese greche, le cattoliche, le armene, le une sulle altre, come se facessero a
soverchiarsi, e in tutti i vani, cipressi, pini a ombrello, fichi e platani che stendono i rami sopra i
tetti. Una indescrivibile architettura di ripiego asseconda gli infiniti capricci del terreno con un
tritume di case tagliate a spicchi, in forma di torri triangolari, di piramidi diritte e rovesciate,
circondate di ponti, di puntelli e di fossi, ammucchiate alla rinfusa, come massi franati da una
montagna. A ogni cento passi tutto muta. Qui siete in una strada d’un sobborgo di Marsiglia;
svoltate: è un villaggio asiatico; tornate a svoltare: è un quartiere greco; svoltate ancora: è un
sobborgo di Trebisonda. Alla lingua, ai visi, all’aspetto delle case riconoscete di aver cangiato di
stato; sono spicchi di Francia, striscie d’Italia, screziature d’Inghilterra, innesti di Russia. Sulla
immensa faccia della città si vede rappresentata ad architetture e a colori la grande lotta che si
combatte fra la famiglia cristiana che riconquista e la famiglia islamitica che difende colle ultime
sue forze la terra sacra. Stambul, una volta tutta turca, è assalita da ogni parte da quartieri cristiani,
che la rodono lentamente lungo la sponda del Corno d’oro e del Mar di Marmara; dall’altra parte la
conquista procede in furia: le chiese, i palazzi, gli ospedali, i giardini pubblici, gli opifici, le scuole
squarciano i quartieri musulmani, soverchiano i cimiteri, si avanzano di collina in collina, e già
disegnano vagamente sul terreno sconvolto la forma d’una grande città che un giorno coprirà la riva
europea del Bosforo come quella d’ora copre le rive del Corno d’oro. Ma da queste osservazioni
generali distraggono ad ogni passo mille cose nuove: in una via il convento dei dervis, in un’altra la
caserma di stile moresco, il caffè turco, il bazar, la fontana, l’acquedotto. In un quarto d’ora bisogna
cangiar dieci volte d’andatura: scendere, arrampicarsi, saltellar giù per una china, salire per una
scalinata di macigni, affondar nella mota e scansar mille ostacoli, aprendosi la via ora tra la folla,
ora tra gli arbusti, ora tra i cenci appesi, ora turandosi il naso, ora aspirando ondate d’aria odorosa.
Dalla gran luce d’un sito aperto, donde si vede il Bosforo, l’Asia e un cielo infinito, si cala con
pochi passi nell’oscurità triste d’una rete di vicoli fiancheggiati da case cadenti ed irti di sassi come
letti di ruscelli; da un verde fresco e ombroso, in un polverio soffocante, saettato dal sole; da
crocicchi pieni di rumore e di colori, in recessi sepolcrali, dove non è mai sonata una voce umana;
dal divino Oriente dei nostri sogni, in un altro Oriente lugubre, immondo, decrepito che supera ogni
più nera immaginazione. Dopo un giro di poche ore non si sa più dove s’abbia la testa. A chi ci
domandasse improvvisamente che cos’è Costantinopoli, non si saprebbe rispondere che mettendosi
una mano sulla fronte per quetare la tempesta dei pensieri. Costantinopoli è una Babilonia, un
mondo, un caos. È bella? Prodigiosa. È brutta? Orrenda. Vi piace? Ubbriaca. Ci stareste? Chi lo sa!
Chi può dire che starebbe in un altro astro? Si ritorna a casa pieni d’entusiasmo e di disinganni,
rapiti, stomacati, abbarbagliati, storditi, con un disordine nella mente che somiglia al principio
d’una congestione cerebrale, e che si queta poi a poco a poco in una prostrazione profonda e in un
tedio mortale. Si son vissuti parecchi anni in fretta, e ci si sente invecchiati.
E la popolazione di questa città mostruosa?
IL PONTE
Per vedere la popolazione di Costantinopoli bisogna andare sul ponte galleggiante, lungo circa
un quarto di miglio, che si stende dalla punta più avanzata di Galata fino alla riva opposta del Corno
d’oro, in faccia alla grande moschea della sultana Validè. L’una e l’altra riva sono terra europea; ma
si può dire che il ponte unisce l’Europa all’Asia, perchè in Stambul non v’è d’europeo che la terra,
ed hanno colore e carattere asiatico anche i pochi sobborghi cristiani che le fanno corona. Il Corno
d’Oro, che ha l’aspetto d’un fiume, separa, come un oceano, due mondi. Le notizie degli
avvenimenti d’Europa, che circolano per Galata e per Pera, vive, chiare, minute, commentate, non
giungono all’altra riva che monche e confuse come un eco lontano; la fama degli uomini e delle
cose più grandi dell’Occidente, s’arresta dinanzi a quella poc’acqua, come dinanzi a un baluardo
insuperabile; e su quel ponte dove passano centomila persone al giorno, non passa ogni dieci anni
un’idea.
Stando là, si vede sfilare in un’ora tutta Costantinopoli. Sono due correnti umane inesauribili,
che s’incontrano e si confondono senza posa dal levar del sole al tramonto, presentando uno
spettacolo del quale non sono certamente che una pallida immagine i mercati delle Indie, le fiere di
Niinj-Norgorod e le feste di Pekino.
Per veder qualche cosa bisogna fissarsi un piccolo tratto del ponte e non guardare che lì; se si
vaga cogli occhi, la vista s’abbarbaglia e la testa si confonde. La folla passa a grandi ondate, ognuna
delle quali offre mille colori, ed ogni gruppo di persone rappresenta un gruppo di popoli.
S’immagini pure qualunque più stravagante accozzo di tipi, di costumi e di classi sociali; non si
giungerà mai ad avere un’idea della favolosa confusione che si vede nello spazio di venti passi e
nel giro di dieci minuti. Dietro una frotta di facchini turchi, che passano correndo, curvi sotto pesi
enormi, s’avanza una portantina intarsiata di madreperla e d’avorio, a cui fa capolino una signora
armena; e ai due lati un beduino ravvolto in un mantello bianco e un vecchio turco col turbante di
mussolina e il caffettano color celeste, accanto al quale cavalca un giovane greco seguito dal suo
dracomanno colla zuavina ricamata, e un dervis col gran cappello conico e la tonaca di pelo di
cammello, che si scansa per lasciar passare la carrozza d’un ambasciatore europeo, preceduta da un
battistrada gallonato. Tutto questo non si vede, s’intravvede. Prima che vi siate voltati indietro, vi
trovate in mezzo a una brigata di Persiani col berrettone piramidale d’astrakan, passati i quali vi
vedete dinanzi un ebreo insaccato in un lungo vestito giallo aperto sui fianchi; una zingara
scapigliata, che porta un bambino in un sacco appeso alla schiena; un prete cattolico, con bastone e
breviario; mentre in mezzo a una folla confusa di greci, di turchi e d’armeni, s’avanza gridando:
Largo! – un grosso eunuco a cavallo che precede una carrozza turca, dipinta a fiori e ad uccelli, con
dentro le donne d’un arem, vestite di violetto e di verde, e ravvolte in grandi veli bianchi; e dietro,
una suora di carità d’uno spedale di Pera, seguita da uno schiavo africano che porta una scimmia, e
da un raccontatore di storie in abito di negromante. E, cosa naturale, ma che par strana al nuovo
venuto, tutta questa gente così diversa s’incontra e passa oltre senza guardarsi, come la folla di
Londra; nessuno si ferma; tutti vanno a passo affrettato, e su cento visi, non se ne vede uno che
sorrida. L’albanese colle sottanine bianche e i pistoloni alla cintura, passa accanto al tartaro vestito
di pelle di montone; il turco a cavallo a un asino bardato con gran pompa, guizza fra due file di
cammelli; dietro all’aiutante di campo dodicenne d’un principino imperiale, piantato sopra un
corsiero arabo, barcolla un carro carico delle masserizie bizzarre d’una casa turca; la mussulmana a
piedi, la schiava velata, la greca colla berrettina rossa e le treccie giù per le spalle, la maltese
incapucciata nella faldetta nera, l’ebrea vestita dell’antichissimo costume della Giudea, la negra
ravvolta in uno scialle variopinto del Cairo, l’armena di Trebisonda tutta nera e velata come
un’apparizione funebre, si trovano qualche volta in una sola fila, come se vi si fossero messe
apposta, per prender risalto l’una dall’altra. È un musaico cangiante di razze e di religioni che si
compone e si scompone continuamente con una rapidità che si può appena seguire collo sguardo. È
bello tener gli occhi fissi sul tavolato del ponte, non guardando altro che i piedi: passano tutte le
calzature della terra, da quella d’Adamo agli stivaletti all’ultima moda di Parigi: babbuccie gialle di
turchi, rosse di armeni, turchine di greci, nere d’israeliti; sandali, stivaloni del Turkestan, ghette
albanesi, scarpette scollate, gambass di mille colori dei cavallari dell’Asia minore, pantofole
ricamate d’oro, alpargatas alla spagnuola, calzature di raso, di corda, di cenci, di legno, fitte in
maniera che mentre se ne guarda una, se ne intravvedono cento. A non badarci bene, c’è da essere
rovesciati a ogni passo. Ora è un portatore d’acqua con un otre colossale sul dorso, ora una signora
russa a cavallo, ora un drappello di soldati imperiali, vestiti alla zuava, che par che vadano
all’assalto, ora una squadra di facchini armeni che passano reggendo sulle spalle, a due a due, delle
lunghissime sbarre, a cui sono sospese delle balle smisurate di mercanzia; ora delle frotte di turchi
che si lanciano a destra e a sinistra del ponte per imbarcarsi sui piroscafi. È uno scalpiccio, un
fruscio, un sonare di voci esotiche, di note gutturali, d’aspirazioni, d’interjezioni incomprensibili, in
mezzo a cui le poche parole francesi o italiane che arrivano agli orecchi di tratto in tratto, fanno
l’effetto di punti luminosi in una tenebra fitta. Le figure che dan più nell’occhio in quella folla, sono
i Circassi, che vanno per lo più a tre, a cinque insieme, a passo lento; pezzi d’uomini barbuti, dalla
faccia terribile, che portano un grosso berrettone di pelo alla foggia dell’antica guardia napoleonica,
un lungo caffettano nero, un pugnale alla cintura e un cartucciere d’argento sul petto; vere figure di
briganti, ognuno dei quali pare che sia venuto a Costantinopoli per vendere una figliuola o una
sorella, e debba avere le mani intrise di sangue russo. Poi i siriani col loro vestito in forma di
dalmatica bizantina e il capo ravvolto in un fazzoletto rigato d’oro; i bulgari, vestiti d’un saio
grossolano, con un berretto incoronato di pelliccia; i giorgiani con un caschetto di cuoio verniciato e
la tunica stretta alla vita da un cerchio metallico; i greci dell’arcipelago coperti da capo a piedi di
ricami, di nappine e di bottoncini luccicanti. La folla di tanto in tanto radeggia un poco; ma subito
s’avanzano altre frotte serrate, ondate di papaline rosse e di turbanti bianchi, in mezzo ai quali
spuntano cappelli cilindrici, ombrelle e pettinature piramidali di signore europee, che par che
galleggino portate via da quel torrente musulmano. C’è da stupire soltanto a notare la varietà della
gente di religione. Qui luccica il cucuzzolo d’un padre cappuccino, torreggia il turbante alla
giannizzera d’un ulema, più in là ondeggia il velo nero d’un prete armeno. Passano degli iman colla
tunica bianca, delle monache stimmatine, dei cappellani dell’esercito turco, vestiti di verde, colla
sciabola al fianco, dei frati domenicani, dei pellegrini reduci dalla Mecca con un talismano appeso
al collo, dei gesuiti, dei dervis, e questo è strano davvero dei dervis che nelle moschee si
straziano le carni in espiazione dei peccati, e passando il ponte si riparano dal sole coll’ombrellino.
A starci bene attenti, seguono in quella confusione mille piccoli accidenti amenissimi. È un eunuco
che mostra il bianco dell’occhio a un zerbinotto cristiano, il quale ha guardato troppo curiosamente
dentro alla carrozza della sua padrona; è una cocotte francese, vestita coll’ultimo figurino, che
pedina il figliuolo d’un pascià ingioiellato e inguantato; è una signora di Stambul che finge di
aggiustarsi il velo per sbirciar lo strascico d’una signora di Pera; è un sergente di cavalleria in
uniforme di gala, che si ferma nel bel mezzo del ponte, si stringe il naso con due dita e slancia nello
spazio un guai a chi tocca, da mettere i brividi; è un ciurmadore che, preso un soldo da un povero
diavolo, gli fa sul viso un gesto cabalistico, che lo deve guarire del mal d’occhi; è una famiglia di
viaggiatori grandi e piccini, arrivata quel giorno stesso, che s’è smarrita in mezzo a una turba di
canaglia asiatica, e la madre cerca i bimbi che strillano, e gli uomini si fanno largo a spintoni. I
cammelli, i cavalli, le portantine, le carrozze, i buoi, le carrette, le botti rotolate, gli asini
sanguinolenti, i cani spelacchiati, formano delle lunghe file, che dividono per mezzo la folla.
Qualche volta passa un grosso pascià di tre code, sdraiato in una carrozza splendida, seguito a piedi
dal suo portapipa, dalla sua guardia e da un nero, e allora tutti i turchi salutano toccandosi la fronte e
il petto, e le mendicanti musulmane, orribili megere, col volto imbaccucato e il seno nudo, si
slanciano agli sportelli chiedendo l’elemosina. Gli eunuchi fuor di servizio, passano a due, a tre, a
cinque insieme, colla sigaretta in bocca; e si riconoscono alla molle corpulenza, alle lunghe braccia,
ai grandi abiti neri. Le belle bambine turche, vestite da maschietti, con calzoncini verdi e panciottini
rosati o gialli, corrono e saltellano con un’agilità felina, facendosi largo colle piccole mani tinte di
color di porpora. I lustrascarpe colla cassetta dorata, i barbieri ambulanti colla seggiola e la catinella
in mano, i venditori d’acqua e di dolci, fendono la calca in tutte le direzioni, urlando in greco ed in
turco. A ogni passo si vede luccicare una divisa militare: uffiziali in fez e calzoni scarlatti, col petto
costellato di decorazioni; palafrenieri del serraglio, che paiono generali d’armata; gendarmi con un
arsenale alla cintura; zeibek, o soldati liberi, con quegli enormi calzoni a borsa deretana, che danno
loro il profilo della venere ottentotta; guardie imperiali, con un lungo pennacchio bianco sul casco e
il petto coperto di galloni; guardie di città che girano colle manette fra le mani; guardie di città a
Costantinopoli! È come chi dicesse: gente incaricata di tener a segno l’oceano Atlantico. È bizzarro
il contrasto di tutto quell’oro e di tutti quei cenci, della gente sovraccarica di roba, che paion bazar
ambulanti, e della gente quasi nuda. Il solo spettacolo della nudità è una meraviglia. Si vedono tutte
le sfumature della pelle umana, dal bianco latteo dell’Albania al nero corvino dell’Africa centrale e
al nero azzurrognolo del Darfur; dei petti che, a picchiarli, par che debbano risonare come vasi di
bronzo, o sgretolarsi come forme di terra secca; schiene oleose, petrose, lignee, irsute come dorsi di
cinghiale; braccia rabescate di rosso e di blù, con disegni di rami e di fiori, e iscrizioni del Corano e
immagini grossolane di battelli, e di cuori attraversati da freccie. Ma in una prima passeggiata, per il
ponte, non c’è tempo modo d’osservare tutti questi particolari. Mentre guardate i rabeschi
d’un braccio, il vostro cicerone vi avverte che è passato un serbo, un montenegrino, un valacco, un
cosacco dell’Ukrania, un cosacco del Don, un egiziano, un tunisino, un principe d’Imerezia. C’è
appena tempo a tener d’occhio le nazioni. Pare che Costantinopoli sia sempre quella che fu: la
capitale di tre continenti e la regina di venti vicereami. Ma nemmeno quest’idea risponde alla
grandezza di quello spettacolo, e si fantastica un incrociamento d’emigrazioni, prodotto da qualche
enorme cataclisma che abbia sconvolto l’antico continente. Un occhio esperto discerne ancora in
quel mare magno i volti e i costumi della Caramania e dell’Anatolia, quei di Cipro e di Candia, quei
di Damasco e di Gerusalemme, il druso, il curdo, il maronita, il talemano, il pumacco, il croato, ed
altre innumerevoli varietà dell’innumerevole confederazione d’anarchie che si stende dal Nilo al
Danubio e dall’Eufrate all’Adriatico. Chi cerca il bello e chi cerca l’orrido, trovano qui egualmente
superati i loro più audaci desiderii: Raffaello rimarrebbe estatico e il Rembrandt si caccierebbe le
mani nei capelli. La più pura bellezza della Grecia e delle razze caucasee, è mescolata coi nasi
camusi e colle teste schiacciate; vi passano accanto figure di regine e faccie di furie; visi imbellettati
e visi sformati dai morbi e dalle ferite, piedoni colossali e piedini circassi lunghi come la mano,
facchini giganteschi, enormi pinguedini di turchi, e neri stecchiti come scheletri, larve d’uomini che
mettono pietà e raccapriccio; tutti gli aspetti più strani in cui si possano presentare al mondo la vita
ascetica, l’abuso della voluttà, le fatiche estreme, l’opulenza che impera e la miseria che muore. E
nondimeno la varietà di vestimenti è senza confronto più meravigliosa della varietà delle persone.
Chi sente i colori, ci ha da ammattire. Non ci son due persone vestite eguali. Sono scialli
attorcigliati intorno al capo, bendature di selvaggi, corone di cenci, camicie e sottovesti rigate e
quadrettate come il vestito d’arlecchino, cinture irte di coltellacci che salgono dai fianchi alle
ascelle, calzoni alla mammalucca, mezze mutande, gonnellini, toghe, lenzuoli che strascicano, abiti
ornati d’ermellino, panciotti che sembrano corazze d’oro, maniche a gozzo e a sgonfietti, vestiti
monacali e spudorati, uomini abbigliati da donna, donne che sembran uomini, pezzenti che sembran
principi, un’eleganza di stracci, una follìa di colori, una profusione di frangie, di gale, di frappe, di
svolazzi, d’ornamenti teatrali e bambineschi, che dà l’immagine d’un veglione dentro a un immenso
manicomio, in cui abbiano vuotate le loro casse tutti i rigattieri dell’universo. Sopra il mormorìo
sordo, che esce da questa moltitudine, si sentono gli strilli acuti dei ragazzi greci, carichi di giornali
d’ogni lingua; le grida stentoree dei facchini, le risa sgangherate delle donne turche, le voci infantili
degli eunuchi, i trilli in falsetto dei ciechi che cantano versetti del Corano, il rumor cupo del ponte
che ondeggia, i fischi e le campanelle di cento piroscafi, di cui il vento abbatte tratto tratto il fumo
denso sopra la folla, in modo che per qualche minuto non si vede più nulla. Questa mascherata di
popoli scende nei vaporini che partono ogni momento per Scutari, per il villaggio del Bosforo e per
i sobborghi del Corno d’oro; si spande per Stambul, nei bazar, nelle moschee, nei borghi di Fanar e
di Balata, fino ai quartieri più lontani del mar di Marmara; irrompe sulla riva franca, a destra verso i
palazzi del Sultano, a sinistra verso gli alti quartieri di Pera, di dove poi ricasca sul ponte per le
innumerevoli stradicciuole che serpeggiano lungo i fianchi delle colline; e allaccia così l’Asia e
l’Europa, dieci città e cento sobborghi, in una rete di faccende, d’intrighi e di misteri, dinanzi a cui
l’immaginazione si sgomenta. Pare che questo spettacolo debba mettere allegrezza. E non è vero.
Passata la prima meraviglia, i colori festosi si sbiadiscono: non è più una grande processione
carnevalesca che ci passa dinanzi; è l’umanità intera che sfila con tutte le sue miserie, con tutte le
sue follìe, coll’infinita discordia delle sue credenze e delle sue leggi; è un pellegrinaggio di popoli
decaduti e di razze avvilite; una immensità di sventure da soccorrere, di vergogne da lavare, di
catene da rompere; un cumulo di tremendi problemi scritti a caratteri di sangue, e che non si
scioglieranno che con torrenti di sangue; e questo immenso disordine rattrista. E poi il senso della
curiosità è prima rintuzzato che soddisfatto da questa sterminata varietà di cose strane. Che
misteriosi rivolgimenti accadono nell’anima umana! Non era passato un quarto d’ora dal mio arrivo
sul ponte, che stavo appoggiato alle spallette, rabescando sbadatamente un pezzo di trave colla
matita, e dicendo a me stesso, tra uno sbadiglio e l’altro, che c’è qualchecosa di vero in quella
famosa sentenza della Stael, che il viaggiare è il più triste dei piaceri.
STAMBUL
Per riaversi da questo sbalordimento, non c’è che infilare una delle mille stradicciuole che
serpeggiano su per i fianchi delle colline di Stambul. Qui regna una pace profonda, e si può
contemplare tranquillamente in tutti i suoi aspetti quell’Oriente misterioso e geloso, che sull’altra
riva del Corno d’oro non si vede che a tratti fuggitivi in mezzo alla confusione rumorosa della vita
europea. Qui tutto è schiettamente orientale. Dopo un quarto d’ora di cammino non si vede più
nessuno e non si sente più alcun rumore. Di qua e di son tutte casette di legno, dipinte di mille
colori, nelle quali il primo piano sporge sopra il piano terreno, e il secondo sul primo; e le finestre
hanno dinanzi una specie di tribune, invetriate da ogni parte, e chiuse da grate di legno a
piccolissimi fori, che paiono altrettante casette appese alle case principali, e danno alle strade un
aspetto singolarissimo di tristezza e di mistero. In alcuni luoghi le strade sono così strette, che le
parti sporgenti delle case opposte quasi si toccano, e così si cammina per lunghi tratti all’ombra di
quelle gabbie umane, proprio sotto i piedi delle donne turche che vi passano una gran parte della
giornata, non vedendo che una striscia sottilissima di cielo. Le porte son tutte chiuse; le finestre del
pian terreno, ingraticolate; tutto spira diffidenza e gelosia; par di attraversare una città di monasteri.
Tratto tratto sentite uno scoppio di risa, e alzando il capo, vedete per qualche spiraglio un nodo di
treccie o un occhietto scintillante che subito sparisce. In alcuni punti sorprendete una conversazione
vivace e sommessa da una parte all’altra della strada; ma cessa improvvisamente al rumore del
vostro passo. Passando, scompigliate per un momento chi sa che rete di pettegolezzi e d’intrighi.
Non vedete nessuno e mille occhi vi vedono; siete soli, e vi sentite come in mezzo a una folla;
vorreste passare inosservati, aleggerite il passo, camminate composti, misurate lo sguardo. Una
porta che s’apra o una finestra che si chiuda, vi riscuote bruscamente come un grande rumore. Pare
che queste strade debbano riuscire uggiose. Ma è tutt’altro. Una macchia verde in fondo da cui esce
un minareto bianco; un turco vestito di rosso che scende verso di voi; una serva nera ferma dinanzi a
una porta, un tappeto persiano appeso a una finestra, bastano a formare un quadretto così pieno di
vita e d’armonia, che stareste un’ora a contemplarlo. Della poca gente che vi passa accanto, nessuno
vi guarda. Soltanto qualche volta sentite gridare alle vostre spalle: Giaur! (Infedele); e
voltandovi, vedete sparire dietro un’imposta la testa d’un ragazzo. Altre volte s’apre la porticina
d’una di quelle casette: vi soffermate aspettando l’apparizione della bella d’un arem, e n’esce invece
una signora europea, con cappellotto e strascico, che mormora un adieu o un au revoir, e s’allontana
rapidamente, lasciandovi colla bocca aperta. In un’altra strada, tutta turca e tutta silenziosa, sentite a
un tratto uno squillo di corno e uno scalpitio di cavalli: vi voltate, che cos’è? Appena credete ai
vostri occhi. È un grande omnibus, che viene innanzi su due rotaie che non avevate vedute, pieno di
turchi e di franchi, col suo usciere in uniforme e coi suoi cartelli delle tariffe, come un tramway di
Vienna o di Parigi. La stonatura che fa quest’apparizione in una di queste strade, non si può
esprimere con parole: vi pare una burla o uno sbaglio, e vi vien da ridere, e guardate quel veicolo
stupiti come se non ne aveste mai visti. Passato l’omnibus, par che sia passata l’immagine viva
dell’Europa, e vi ritrovate in Asia come al cangiar di scena in un teatro. Da queste strade solitarie
riuscite in piazzette aperte, quasi interamente ombreggiate da un platano gigantesco. Da una parte
c’è una fontana, dove bevono dei cammelli; dall’altra un caffè, con una fila di materasse distese
dinanzi alla porta, e qualche turco sdraiato, che fuma; e accanto alla porta un gran fico, abbracciato
da una vite, i cui pampini spenzolano fino a terra, lasciando vedere tra foglia e foglia l’azzurro
lontano del mar di Marmara, e qualche veletta bianca. Una luce bianchissima e un silenzio mortale
danno a tutti questi luoghi un carattere così tra solenne e melanconico, che li rende indimenticabili,
anche a vederli una volta sola. Si va innanzi, innanzi, quasi attirati da quella quiete arcana, che entra
a poco a poco nell’anima come una leggera sonnolenza, e dopo breve tempo si perde ogni
sentimento della distanza e dell’ora. Si trovano dei vasti spazi colle traccie d’un grande incendio
recente; chine dove non sono che poche case sparpagliate, fra le quali cresce l’erba, e serpeggiano
dei sentieri da capre; punti elevati, da cui si abbracciano collo sguardo strade, vicoletti, giardini,
centinaia di case, e non si vede da nessuna parte una creatura umana, un nuvolo di fumo,
una porta aperta, il menomo indizio d’abitazione e di vita; tanto che si potrebbe credere d’essere
soli in quell’immensa città, e a pensarci un momento, s’è quasi presi dalla paura. Ma scendete la
china, arrivate in fondo a una di quelle stradette: tutto è cangiato. Siete in una delle grandi vie di
Stambul, fiancheggiata da monumenti, dove non bastano più gli occhi all’ammirazione. Camminate
in mezzo alle moschee, ai chioschi, ai minareti, alle gallerie arcate, alle fontane di marmo e di
lapislazzuli, ai mausolei dei sultani splendenti di rabeschi e d’iscrizioni d’oro, ai muri coperti di
musaici, sotto le tettoie di cedro intarsiato, all’ombra d’una vegetazione pomposa che supera i muri
di cinta e i cancelli dorati dei giardini, e riempie la via di profumi. Per queste vie s’incontrano a
ogni passo carrozze di pascià, ufficiali, impiegati, aiutanti di campo, eunuchi di grandi case, una
processione di servitori e di parassiti, che vanno e vengono fra i ministeri. Qui si riconosce la
metropoli del grande impero, e s’ammira in tutta la sua magnificenza. È per tutto una bianchezza,
una grazia d’architetture, un gorgoglio d’acque, una freschezza d’ombre, che accarezza i sensi come
una musica sommessa, e riempie la mente d’immagini ridenti. Per queste vie s’arriva alle grandi
piazze dove s’innalzano le moschee imperiali, e dinanzi a queste moli si rimane sgomenti. Ognuna
di esse forma come il nodo d’una piccola città di collegi, di spedali, di scuole, di biblioteche, di
magazzini, di bagni, che quasi non si avvertono, schiacciati come sono dalla cupola enorme a cui
fanno corona. L’architettura, che s’immaginava semplicissima, presenta invece una varietà di
particolari, che tira gli sguardi da mille parti. Sono cupolette rivestite di piombo, tetti di forme
bizzarre che s’alzano l’uno sull’altro, gallerie aeree, grandi portici, finestre a colonnine, archi a
festoni, minareti accannellati, cinti di terrazzini lavorati a giorno, con capitelli a stalattiti; porte e
fontane monumentali, che sembrano rivestite di trina; muri picchiettati d’oro e di mille colori; tutto
ricamato, cesellato, leggero, ardito, ombreggiato da quercie, da cipressi e da salici, da cui escono
nuvoli d’uccelli che vagano a lenti giri intorno alle cupole e riempiono d’armonia tutti i recessi
dell’immenso edifizio. Qui si comincia a provar qualchecosa che è più profondo e più forte del
sentimento della bellezza. Quei monumenti che sono come una colossale affermazione marmorea
d’un ordine d’idee e di sentimenti diverso da quello in cui siamo nati e cresciuti, che sono quasi
l’ossatura d’una razza e d’una fede ostile, che ci raccontano con un linguaggio muto di linee superbe
e di altezze temerarie le glorie d’un Dio che non è nostro e d’un popolo che ha fatto tremare i nostri
padri, incutono un rispetto misto di diffidenza e di timore, che sulle prime vince la curiosità, e ce ne
trattiene lontani. Si vedono, dentro ai cortili ombrosi, turchi che fanno le abluzioni alle fontane,
pezzenti accovacciati ai piedi dei pilastri, donne velate che passeggiano lentamente sotto le arcate;
tutto quieto, e come adombrato d’una tinta di mestizia e di voluttà, che non si capisce bene d’onde
derivi, e su cui la mente si ferma e lavora come sopra un enimma. Galata, Pera, quanto sono
lontane! Voi vi sentite soli in un altro mondo e in un altro tempo, nella Stambul di Solimano il
Grande e di Baiazet secondo, e provate un vivo sentimento di stupore quando, usciti da quella
piazza, e perduto d’occhio quel monumento smisurato della potenza degli Osmanli, vi ritrovate in
mezzo alla Costantinopoli di legno, meschina, cadente, piena di sudiciume e di miseria. Via via che
andate innanzi le case si scoloriscono, i pergolati si sfasciano, le vasche delle fontane si coprono di
muschio; trovate delle moschee nane, coi muri screpolati e i minareti di legno, circondate di rovi e
d’ortiche; dei mausolei in rovina, delle scale infrante, dei passaggi coperti ingombri di macerie, dei
quartieri decrepiti d’una tristezza infinita, dove non si sente altro rumore che il frullo dell’ali degli
sparvieri e delle cicogne, o la voce gutturale d’un muezzin solitario, che grida la parola di Dio
dall’alto d’un minareto nascosto. Nessuna città rappresenta meglio di Stambul la natura e la
filosofia del suo popolo. Tutto ciò che v’è di grande e di bello è di Dio o del sultano, immagine di
Dio sulla terra; tutto il rimanente è passeggiero e porta l’impronta d’una profonda trascuranza delle
cose mondane. La tribù dei pastori è diventata nazione; ma il suo amore istintivo della natura
campestre, della contemplazione e dell’ozio, ha conservato alla metropoli l’aspetto
dell’accampamento. Stambul non è una città, non lavora, non pensa, non crea; la civiltà sfonda le
sue porte e assalta le sue vie; essa sonnecchia e fantastica all’ombra delle moschee, e lascia fare. È
una città slegata, dispersa, deforme, che rappresenta piuttosto, la sosta d’una razza pellegrinante,
che la potenza d’uno Stato immobile; un immenso abbozzo di metropoli; un grande spettacolo
piuttosto che una grande città. E non se ne può avere una giusta immagine, se non si percorre intera.
Bisogna partire dalla prima collina, quella che forma la punta del triangolo, ed è bagnata dal mar di
Marmora. Qui è per così dire la testa di Stambul; un quartiere monumentale, pieno di memorie, di
maestà e di luce. Qui l’antico serraglio, dove sorgeva prima Bisanzio colla sua acropoli e il tempio
di Giove, e poi il palazzo dell’imperatrice Placidia e le terme d’Arcadio; qui la moschea di Santa
Sofia e la moschea d’Ahmed, e l’At-meidan che occupa lo spazio dell’Ippodromo antico, dove in
mezzo a un Olimpo di bronzo e di marmo, tra le grida d’una folla vestita di seta e di porpora,
volavano le quadrighe d’oro al cospetto degl’imperatori sfolgoranti di perle. Da questa collina si
scende in una valle poco profonda, dove si stendono le mura occidentali del serraglio, che segnano
il confine della Bisanzio antica, e s’alza la Sublime Porta, per la quale s’entra nel palazzo del gran
vizir e nel Ministero degli esteri: quartiere austero e silenzioso, in cui sembra raccolta tutta la
tristezza delle sorti dell’impero. Da questa valle si sale sulla seconda collina, dove sorge la moschea
marmorea di Nuri-Osmanié, luce d’Osmano, e la colonna bruciata di Costantino, che sosteneva un
Apollo di bronzo colla testa del grande Imperatore, ed era nel bel mezzo dell’antico foro, circondato
di portici, d’archi di trionfo e di statue. Al di di questa collina si apre la valle dei bazar, che dalla
moschea di Bajazet va fino a quella della sultana Validè, ed abbraccia un labirinto immenso di
strade coperte, piene di gente e di rumore, da cui s’esce colla vista annebbiata e colle orecchie
stordite. Sulla terza collina, che domina ad un tempo il mar di Marmara e il Corno d'oro,
giganteggia la moschea di Solimano, rivale di Santa Sofia, gioia e splendore di Stambul, come
dicono i poeti turchi, e la torre meravigliosa del Ministero della guerra, il quale s’alza sulle rovine
degli antichi palazzi dei Costantini, abitati un tempo da Maometto il conquistatore, poi convertiti in
serraglio delle vecchie sultane. Fra la terza e la quarta altura si stende come un ponte aereo l’enorme
acquedotto dell’imperatore Valente, formato da due ordini d’archi leggerissimi, vestiti di verzura,
che spenzola a ghirlande sopra la valle popolata di case. Si passa sotto l’acquedotto, si sale sulla
quarta collina. Qui, sulle rovine della chiesa famosa dei Santi Apostoli, fondata dall’imperatrice
Elena e rifabbricata da Teodora, s’eleva la moschea di Maometto II, circondata di scuole, d’ospedali
e d’alberghi da carovane; accanto alla moschea, il bazar degli schiavi, i bagni di Maometto e la
colonna granitica di Marciano, che porta ancora il suo cippo di marmo ornato delle aquile imperiali;
e vicino alla colonna il luogo dove era la piazza dell’Et-Meidan, in cui fu consumata la strage
famosa dei Giannizzeri. S’attraversa un’altra valle, coperta da un’altra città, e si sale alla quinta
collina, sulla quale è posta la moschea di Selim, presso all’antica cisterna di San Pietro, convertita
in giardino. Sotto, lungo il Corno d’oro, si stende il Fanar, quartiere greco, sede del patriarca, in cui
s’è rifugiata l’antica Bisanzio, coi discendenti dei Paleologhi e dei Comneni, e dove seguirono le
orrende carnificine del 1821. Si scende in una quinta valle, si sale sopra la sesta collina. Qui s’è già
sul terreno che occupavano le otto coorti dei quarantamila Goti di Costantino, fuori della cerchia
delle prime mura, le quali non abbracciavano che la quarta collina; e appunto nello spazio occupato
dalla coorte settima, che ha lasciato al luogo il nome di Hebdomon. Sulla sesta collina, rimangono
le mura del palazzo di Costantino Porfirogenete, dove si coronavano gl’imperatori, chiamato ora dai
turchi Tekir-Serai, palazzo dei principi. Ai piedi della collina, Balata, il ghetto di Costantinopoli,
quartiere immondo, che s’allunga sulla riva del Corno fino alle mura della città, e al di qua di
Balata, il sobborgo antico delle Blacherne, una volta ornato di palazzi dai tetti dorati, soggiorno
prediletto degl’imperatori, famoso per la gran chiesa dell’imperatrice Pulcheria e per il santuario
delle reliquie; ora pieno di rovine e tristezza. Alle Blacherne cominciano le mura merlate che dal
Corno d’oro corrono fino al mar di Marmara, abbracciando la settima collina, dov’era il foro boario,
e c’è ancora il piedestallo della colonna d’Arcadio: la collina più orientale e più grande di Stambul,
fra la quale e le altre sei scorre il piccolo fiume Lykus, che entra nella città presso la porta di Carisio
e si va a gettar nel mare vicino all’antico porto di Teodosio. Dalle mura delle Blacherne, si vede
ancora il sobborgo d’Ortaksiler, che scende dolcemente verso la rada, incoronato di giardini; al di
d’Ortaksiler il sobborgo d’Eyub, terra santa degli Osmanli, colla sua moschea gentile, e il suo vasto
cimitero ombreggiato da un bosco di cipressi e biancheggiante di mausolei e di tombe; dietro Eyub,
l’altopiano dell’antico campo militare, dove le legioni levavan sugli scudi i nuovi imperatori; e di
dall’altopiano, altri villaggi i cui vivi colori ridono vagamente in mezzo al verde dei boschetti
bagnati dalle ultime acque del Corno d’oro. Ecco Stambul. È divina. Ma il cuore si sgomenta a
pensare che questo sterminato villaggio asiatico si stende sulle rovine di quella seconda Roma, di
quell’immenso museo di tesori rapiti all’Italia, alla Grecia, all’Egitto, all’Asia minore, di cui il solo
ricordo abbaglia la mente come un sogno divino. Dove sono i grandi portici che attraversavano la
città dal mare alle mura, le cupole dorate, i colossi equestri che s’innalzavano sui pilastri titanici
dinanzi agli anfiteatri e alle terme, le sfingi di bronzo sedute sui piedestalli di porfido, i templi e i
palazzi che innalzavano i frontoni di granito in mezzo a un popolo aereo di numi di marmo e
d’imperatori d’argento? Tutto è sparito o trasformato. Le statue equestri di bronzo son state fuse in
cannoni; le rivestiture di rame degli obelischi, ridotte in monete; i sarcofagi delle imperatrici,
cangiati in fontane; la chiesa di Santa Irene è un arsenale, la cisterna di Costantino un’officina, il
piedestallo della colonna d’Arcadio una bottega di maniscalco, l’Ippodromo un mercato di cavalli;
l’edera e le macerie coprono le fondamenta delle reggie, sul suolo degli anfiteatri cresce l’erba dei
cimiteri, e poche iscrizioni calcinate dagli incendi o mutilate dalle scimitarre degl’invasori
rammentano che su quei colli vi fu la metropoli meravigliosa dell’impero d’Oriente. Su questa
immane rovina siede Stambul, come un’odalisca sopra un sepolcro, aspettando la sua ora.
ALL’ALBERGO
Ed ora i lettori vengano con me all’albergo a prendere un po’ di respiro.
Una gran parte di quello che ho descritto fin qui, il mio amico ed io lo vedemmo il giorno
stesso dell’arrivo: immagini chi legge come dovessimo aver la testa ritornando all’albergo sul far
della notte. Per strada non si disse una parola, e appena entrati nella camera, ci lasciammo cadere
sul sofà guardandoci in viso e domandandoci tutt’e due insieme:
– Che te ne pare?
– Che cosa ne dici?
– E pensare ch’io son venuto qui per dipingere!
– Ed io per scrivere!
E ci ridemmo sul viso in atto di fraterno compatimento.
Quella sera, in fatti, ed anche per varii giorni dopo, sua maestà Abdul-Aziz m’avrebbe potuto
offrire in premio una provincia dell’Asia Minore, che non sarei riuscito a metter insieme dieci righe
intorno alla capitale dei suoi Stati, tanto è vero che per descrivere le grandi cose bisogna farsi di
lontano, e per ricordarsene bene, averle un po’ dimenticate. E poi come avrei potuto scrivere in una
camera da cui si vedeva il Bosforo, Scutari e la cima dell’Olimpo? L’albergo stesso era uno
spettacolo. A tutte le ore del giorno, per le scale e pei corridoi, andava e veniva gente d’ogni paese.
Alla tavola rotonda sedevano ogni giorno venti nazioni. Desinando, non mi potevo levar dalla testa
d’essere un delegato del governo italiano, e di dover prendere la parola alle frutta su qualche grande
questione internazionale. C’erano visi rosei di lady, teste scapigliate d’artisti, grinte d’avventurieri
da batterci moneta sopra, testine di vergini bizantine a cui non mancava che il nimbo d’oro, faccie
bizzarre e sinistre; e ogni giorno cangiavano. Alle frutta, quando tutti parlavano, pareva d’essere
nella torre di Babele. Vi conobbi fin dal primo giorno parecchi russi infatuati di Costantinopoli.
Ogni sera ci ritrovavamo là, di ritorno dai punti estremi della città, e ognuno aveva un viaggio da
raccontare. Chi era salito in cima alla torre del Seraschiere, chi aveva visitato i cimiteri di Eyub, chi
veniva da Scutari, chi aveva fatto una corsa sul Bosforo; la conversazione era tutta ordita di
descrizioni piene di colori e di luce; e quando mancava la parola, i vini dolci e profumati
dell’Arcipelago facevano da suggeritori. C’erano pure alcuni miei concittadini, bellimbusti danarosi,
che mi fecero divorar molta stizza, perchè dalla minestra alle frutta non facevano che dire ira
d’Iddio di Costantinopoli: e che non c’eran marciapiedi, e che i teatri erano oscuri, e che non si
sapeva come passar la sera. Erano venuti a Costantinopoli per passar la sera. Uno di costoro aveva
fatto il viaggio sul Danubio. Gli domandai se gli era piaciuto il gran fiume. Mi rispose che in
nessuna parte del mondo si cucinava lo storione come sui piroscafi della reale e imperiale
Compagnia austriaca. Un altro era un tipo amenissimo di viaggiatore amoroso; uno di coloro che
viaggiano per sedurre, col taccuino delle conquiste. Era un contino lungo e biondo, largamente
dotato dell’ottavo dono dello Spirito Santo, che quando il discorso cadeva sulle donne turche,
chinava la testa con un sorriso misterioso, e non pigliava parte alla conversazione se non con mezze
parole troncate sempre artificialmente da una sorsata di vino. Arrivava tutti i giorni a desinare un
po’ più tardi degli altri, tutto ansante, coll’aria d’averla fatta al Sultano un quarto d’ora prima, e tra
un piatto e l’altro faceva passare di tasca in tasca, con molta cautela, dei bigliettini piegati, che
dovevano parere lettere d’odalische, ed erano sicurissimamente note d’albergo. Ma i soggetti che
s’inciampano in questi alberghi di città cosmopolite! Bisogna esserci stati per crederci. V’era un
giovane ungherese, sulla trentina, alto, nervoso, con due occhi diabolici e una parlantina febbrile, il
quale, dopo aver fatto il segretario d’un ricco signore a Parigi, era andato ad arruolarsi fra gli zuavi
francesi in Algeria, era stato ferito e preso prigioniero dagli Arabi, poi scappato nel Marocco, poi
ritornato in Europa e corso all’Aja a chiedere il grado d’ufficiale per andare a combattere contro gli
Accinesi; respinto all’Aja, aveva deciso d’arrolarsi nell’esercito turco; ma passando a Vienna per
venire a Costantinopoli, s’era preso una palla di pistola nel collo, in un duello per una donna, e
faceva vedere la cicatrice; respinto anche a Costantinopoli, cos’ho da fare? diceva je suis
enfant de l’aventure; bisogna bene ch’io mi batta; ho già trovato chi mi conduce alle Indie, e
mostrava il biglietto d’imbarco –; mi farò soldato inglese; nell’interno c’è sempre qualcosa da fare;
io non cerco che di battermi; che cosa m’importa di morire? Tanto ho un polmone rovinato. Un
altro bell’originale era un francese, la cui vita pareva non fosse altro che una perpetua guerra colla
posta: aveva una quistione pendente con la posta austriaca, colla francese, coll’inglese; mandava
articoli di protesta alla Neue Freie Presse; lanciava impertinenze telegrafiche a tutte le stazioni
postali del continente, aveva ogni giorno un diverbio a qualche finestrino di posta, non riceveva una
lettera a tempo, non ne scriveva una che arrivasse dov’era mandata, e raccontava a tavola tutte le
sue disgrazie e tutte le sue baruffe, concludendo sempre coll’assicurarci che la Posta gli avrebbe
accorciata la vita. Mi ricordo pure d’una signora greca, un viso di spiritata, vestita bizzarramente, e
sempre sola, che ogni sera si alzava da tavola a metà del desinare, e se n’andava dopo aver fatto sul
piatto un segno cabalistico di cui nessuno riuscì mai a capire il significato. Non ho più dimenticata
nemmeno una coppia valacca, un bel giovane sui venticinque anni e una giovanetta sul primo
sboccio, comparsi una sera sola, che erano indubitatamente due fuggiaschi; lui rapitore, lei
complice; perchè bastava fissarli un momento per farli arrossire, e ogni volta che s’apriva la porta,
scattavano come due molle. Di chi altri mi ricordo? di cento altri, se ci pensassi. Era una lanterna
magica. Ci divertivamo, il mio amico ed io, i giorni dell’arrivo d’un piroscafo, a veder entrare la
gente per la porta di strada: tutti stanchi, sbalorditi, qualcuno ancora commosso dallo spettacolo
della prima entrata; faccie che dicevano: – Che mondo è questo? Dove siamo venuti a cascare? – Un
giorno entrò un giovinetto, arrivato allora, che pareva matto dalla contentezza di essere finalmente a
Costantinopoli, sogno della sua infanzia, e stringeva con tutt’e due le mani la mano di suo padre; e
suo padre gli diceva con voce commossa: Je suis heureux de te voir heureux, mon cher enfant.
Poi passavamo le ore calde alla finestra a guardare la Torre della fanciulla, che s’alza, bianca come
la neve, sopra uno scoglio solitario del Bosforo, in faccia a Scutari; e mentre fantasticavamo sulla
leggenda del principe di Persia che va a succhiare il veleno dal braccio della bella sultana, morsicata
dall’aspide, da una finestra della casa in faccia, ogni giorno alla stess’ora, un ragazzo di cinque anni
ci faceva le corna. Tutto era curioso in quell’albergo. Fra le altre cose, dinanzi alla porta, trovavamo
ogni sera uno o due soggetti di faccia equivoca, che dovevano essere provveditori di modelle per i
pittori, e che pigliando tutti per pittori, a tutti domandavano a bassa voce: Una turca? una greca?
un’armena? un’ebrea? una nera?
COSTANTINOPOLI
Ma torniamo a Costantinopoli, e spaziamovi come gli uccelli nel cielo. Qui ci si può levare tutti
i capricci. Si può accendere il sigaro in Europa e andare a buttar la cenere in Asia. La mattina,
levandoci, possiamo domandarci: Che parte del mondo vedrò quest’oggi? Si può scegliere fra
due continenti e due mari. S’ha a nostra disposizione dei cavalli sellati in ogni piazzetta, delle
barchette a vela in ogni seno, dei piroscafi a cento scali; il caicco che guizza, la talika che vola, e un
esercito di ciceroni che parlano tutte le lingue d’Europa. Volete sentir la commedia italiana? veder
ballare i dervis? sentir le buffonate di Caragheuz, il pulcinella turco? udire le canzonette licenziose
dei teatrini di Parigi? assistere alle rappresentazioni ginnastiche degli zingari? farvi raccontare una
leggenda araba da un rapsodo? andare al teatro greco? sentir predicare un iman? veder passare il
Sultano? Chiedete e domandate. Tutte le nazioni sono al vostro servizio: l’armeno per farvi la
barba, l’ebreo per lustrarvi le scarpe, il turco per condurvi in barca, il nero per strofinarvi nel bagno,
il greco per porgervi il caffè, e tutti quanti per truffarvi. Per dissetarvi, passeggiando, trovate dei
gelati fatti colla neve dell’Olimpo; se siete golosi, potete bere dell’acqua del Nilo, come il Sultano;
se siete deboli di stomaco, acqua dell’Eufrate; se siete nervosi, acqua del Danubio. Potete desinare
come l’arabo nel deserto o come l’epulone alla Maison dorée. Per far la siesta, avete i cimiteri; per
stordirvi, il ponte della Sultana Validè; per sognare, il Bosforo; per passar la domenica, l’Arcipelago
dei Principi; per veder l’Asia Minore, il monte di Bulgurlù; per vedere il Corno d’Oro, la torre di
Galata; per veder ogni cosa, la torre del Seraschiere. Ma è una città ancora più strana che bella. Le
cose che non si presentarono mai insieme alla nostra mente, si presentano insieme al nostro
sguardo. Da Scutari parte la carovana per la Mecca e parte il treno diretto per Brussa, l’antica
metropoli; fra le mura misteriose del vecchio serraglio, passa la strada ferrata che va a Sofia; i
soldati turchi scortano il prete cattolico che porta il Santo Sacramento; il popolo fa festa nei
cimiteri; la vita, la morte, i piaceri, tutto s’allaccia e si confonde. V’è il movimento di Londra e la
letargia dell’ozio orientale, un’immensa vita pubblica e un impenetrabile mistero nella vita privata;
un governo assoluto e una libertà senza confini. Per i primi giorni non si raccapezza nulla; pare che
d’ora in ora o debba cessare quel disordine o seguire una rivoluzione; ogni sera, tornando a casa, ci
sembra di tornare da un viaggio; ogni mattina uno si domanda: Ma è proprio qui vicina Stambul?
Non si sa dove andare a battere il capo, un’impressione cancella l’altra, i desiderii s’affollano, il
tempo fugge; si vorrebbe restar tutta la vita, si vorrebbe partire il giorno dopo. E quando poi s’ha
da descriverlo questo caos? A momenti vi vien la tentazione di fare un fascio di tutti i libri e di tutti
i fogli che ho sul tavolino, e di buttare ogni cosa dalla finestra.
GALATA
Il mio amico ed io non mettemmo testa a partito che il quarto giorno dopo l’arrivo. Eravamo sul
ponte, di buon mattino, ancora incerti di quello che avremmo fatto nella giornata, quando Yunk mi
propose di fare una prima grande passeggiata, con una meta determinata, coll’animo tranquillo, per
osservare e studiare. Percorriamo, mi disse, tutta la riva settentrionale del Corno d’Oro, anche
a costo di camminare fino a notte. Faremo colezione in una taverna turca, faremo la siesta all’ombra
d’un platano e ritorneremo in caicco. – Accettai la proposta; ci provvedemmo di sigari e di spiccioli,
e data un’occhiata alla carta della città, ci avviammo verso Galata.
Il lettore che vuol conoscer bene Costantinopoli faccia il sacrifizio d’accompagnarci.
Arriviamo a Galata. Di qui deve cominciare la nostra escursione. Galata è posta sopra una
collina che forma promontorio tra il Corno d’Oro ed il Bosforo, dov’era il grande cimitero dei
Bizantini antichi. È la city di Costantinopoli. Son quasi tutte vie strette e tortuose, fiancheggiate da
taverne, da botteghe di pasticcieri, di barbieri e di macellai, da caffè greci ed armeni, da ufficii di
negozianti, da officine, da baracche; tutto fosco, umido, fangoso, viscoso, come nei bassi quartieri
di Londra. Una folla fitta e affaccendata va e viene per le vie, aprendosi continuamente per dar
passo ai facchini, alle carrozze, agli asini, agli omnibus. Quasi tutto il commercio di Costantinopoli
passa per questo borgo. Qui la Borsa, la Dogana, gli uffici del Lloyd austriaco, quelli delle
Messaggerie francesi; chiese, conventi, ospedali, magazzeni. Una strada ferrata sotterranea unisce
Galata a Pera. Se non si vedessero per le strade dei turbanti e dei fez, non parrebbe d’essere in
Oriente. Da tutte le parti si sente parlar francese, italiano e genovese. Qui i Genovesi sono quasi in
casa propria, e si danno ancora un po’ d’aria di padroni, come quando chiudevano il porto a loro
piacimento, e rispondevano col cannone alle minaccie degl’Imperatori. Ma della loro potenza non
rimangono più altri monumenti che alcune vecchie case sostenute da grossi pilastri e da arcate
pesanti, e l’antico edifizio dove risiedeva il Podestà. La Galata antica è quasi interamente sparita.
Migliaia di casupole sono state rase al suolo per far luogo a due lunghe strade: una delle quali
rimonta la collina verso Pera, e l’altra corre parallela alla riva del mare da un’estremità all’altra di
Galata. Per questa c’innoltrammo il mio amico ed io, rifugiandoci ogni momento nelle botteghe per
lasciar passare dei grandi omnibus, preceduti da turchi scamiciati che sgombravano la strada a colpi
di verga. A ogni passo ci suonava nell’orecchio un grido. Il facchino turco urlava: Sacun ha!
(Largo!); il saccà armeno, portatore d’acqua: Varme su! l’acquaiolo greco: Crio nero!
l’asinaio turco: – Burada!il venditore di dolci: – Scerbet! – il venditore di giornali: – Neologos!
il carrozziere franco: Guarda! Guarda! Dopo dieci minuti di cammino, eravamo assordati. A un
certo punto, con nostra meraviglia, ci accorgemmo che la strada non era più lastricata, e pareva che
il lastrico fosse stato levato di fresco. Ci fermammo a guardare, cercando d’indovinar la cagione. Un
bottegaio italiano ci levò la curiosità. Quella strada conduce ai palazzi del Sultano.
[Torre di Galata]
Pochi mesi prima passando di il corteo imperiale, il cavallo di sua maestà Abdul-Aziz era
scivolato e caduto, e il buon Sultano, irritato, aveva ordinato che fosse tolto immediatamente il
lastrico dal luogo della caduta fino al suo palazzo. In questo punto memorabile fissammo il termine
orientale del nostro pellegrinaggio, e voltate le spalle al Bosforo, ci dirigemmo, per una serie di
vicoli tetri e sudici, verso la torre di Galata. La città di Galata ha la forma d’un ventaglio spiegato, e
la torre, posta sul culmine della collina, rappresenta il suo perno. È una torre rotonda, altissima, di
color fosco, che termina in una punta conica, formata da un tetto di rame, sotto il quale ricorre un
giro di larghe finestre vetrate, una specie di terrazza coperta e trasparente, dove giorno e notte vigila
una guardia per segnalare il primo indizio d’incendio che apparisca nell’immensa città. Fino a
questa torre giungeva la Galata dei Genovesi, e la torre s’innalza appunto sulla linea delle mura che
separavano Galata da Pera; mura di cui non rimane più traccia. E neanche la torre non è più l’antica
torre di Cristo, eretta in onore dei Genovesi caduti combattendo; poichè la rifabbricò il sultano
Mahmut II, ed era già stata prima restaurata da Selim III; ma è pur sempre un monumento
incoronato della gloria di Genova, e un Italiano non può contemplarlo, senza pensare con un
sentimento d’alterezza a quel pugno di mercanti, di marinai e di soldati, orgogliosamente audaci ed
eroicamente cocciuti, che vi tennero su inalberata per secoli la bandiera della madre repubblica,
trattando da pari a pari cogl’Imperatori d’Oriente. Appena oltrepassata la torre, ci trovammo in un
cimitero musulmano.
[Cimitero di Galata]
Era quello che si chiama il cimitero di Galata: un grande bosco di cipressi, che dalla sommità
della collina di Pera scende ripidamente fino al Corno d’Oro, ombreggiando una miriade di
colonnette di pietra o di marmo, inclinate in tutte le direzioni, e sparse in disordine giù per la china.
Alcune di queste colonnette son terminate in forma di turbante rotondo, e serbano traccie di colori e
d’iscrizioni; altre son terminate in punta; molte rovesciate; alcune monche, col turbante portato via
di netto, e si crede che sian quelle dei giannizzeri, che il Sultano Mahmut volle sfregiare anche dopo
la morte. La maggior parte delle fosse sono indicate da un rialzamento di terra in forma di prisma, e
da due sassi confitti alle due estremità, sui quali, giusta la superstizione musulmana, devono sedere i
due angeli Nekir e Munkir per giudicare l’anima del defunto. Qua e si vedono dei piccoli
terrapieni circondati da un muricciolo o da una ringhiera, in mezzo ai quali s’alza una colonnetta
sormontata da un grosso turbante, e intorno altre colonnette minori: è un pascià o un gran signore,
sepolto in mezzo alle sue donne e ai suoi figliuoli. Dei piccoli sentieri serpeggiano e s’incrociano in
mille punti da un’estremità all’altra del bosco; qualche turco fuma la pipa seduto all’ombra; alcuni
ragazzi corrono e saltellano in mezzo ai sepolcri; qualche vacca pascola; centinaia di tortore
grugano fra i rami dei cipressi; passano gruppi di donne velate; e fra cipresso e cipresso, luccica giù
in fondo l’azzurro del Corno d’Oro rigato di bianco dai minareti di Stambul.
[Pera]
Usciamo dal cimitero, ripassiamo ai piedi della torre di Galata e infiliamo la strada principale di
Pera. Pera è alta cento metri sopra il mare, è ariosa ed allegra, e guarda il Corno d’Oro ed il Bosforo.
È la Westend della colonia europea; la città dell’eleganza e dei piaceri. La strada che percorriamo è
fiancheggiata da alberghi inglesi e francesi, da caf signorili, da botteghe luccicanti, da teatri, da
Consolati, da club, da palazzi d’ambasciatori; tra i quali giganteggia il palazzo di pietra
dell’ambasciata russa, che domina come una fortezza Pera Galata e il sobborgo di Funduclù, posto
sulla riva del Bosforo. Qui brulica una folla affatto diversa da quella di Galata. Sono quasi tutti
cappelli a staio e cappelletti piumati o infiorati di signore. Sono zerbinotti greci, italiani e francesi,
negozianti d’alto bordo, impiegati delle legazioni, ufficiali di navi straniere, carrozze
d’ambasciatori, e figurine equivoche d’ogni nazione. I turchi si fermano ad ammirare le teste di cera
delle botteghe dei barbieri, le turche si piantano colla bocca aperta davanti alle vetrine delle
modiste; l’europeo parla ad alta voce, sghignazza e scherza in mezzo alla strada; il musulmano, si
sente in casa d’altri, e passa colla testa meno alta che a Stambul. Tutt’a un tratto il mio amico mi
fece voltare indietro perchè guardassi Stambul: da quel punto, infatti, si vedeva lontano, dietro un
velo azzurrino, la collina del Serraglio, Santa Sofia e i minareti del Sultano Ahmed; un altro mondo
da quello in cui eravamo; e poi mi disse: Guarda qui, adesso. Abbassai gli occhi e lessi in una
vetrina: La dame aux camelias, Madame Bovary, Mademoiselle Giraud ma femme. E anche a me
quel rapido passaggio fece un senso vivissimo, e dovetti star un momento a pensarci sopra.
Un’altra volta fermai io il mio compagno e fu per mostrargli un caffè meraviglioso: un lungo e largo
corridoio oscuro, in fondo al quale, per una grande finestra spalancata, si vedeva a una lontananza
che pareva immensa, Scutari illuminata dal sole.
Andiamo innanzi per la gran strada di Pera, e siamo quasi arrivati in fondo, quando sentiamo
gridare da una voce tonante: – T’amo, Adele! t’amo più della vita! T’amo quanto si può amare sulla
terra! Ci guardiamo in faccia trasecolati. Di dove viene quella voce? Voltandoci, vediamo per le
fessure d’un assito un giardino pieno di sedili, un palco scenico e dei commedianti che fanno le
prove. Una signora turca, poco lontano da noi, guarda anch’essa per le fessure, e ride dai precordi.
Un vecchio turco che passa scrolla la testa in segno di compassione. All’improvviso la turca getta
un grido e fugge; altre donne intorno mettono uno strillo e voltan le spalle. Che è accaduto? È un
turco, un uomo sulla cinquantina, conosciuto da tutta Costantinopoli, il quale passeggia per le vie
nello stato in cui voleva ridurre tutti i musulmani il famoso monaco Turk sotto il regno di Maometto
IV: ignudo dalla testa ai piedi. Il disgraziato saltella sui ciottoli urlando e sghignazzando, e un
branco di monelli lo insegue facendo un baccano d’inferno. È da sperarsi che lo arresteranno,
dico al portinaio del teatro. Nemmen per sogno, mi risponde; son mesi che gira per la città
liberamente. Intanto vedo giù per la via di Pera gente che vien fuori dalle botteghe, donne che
scappano, ragazze che si coprono il viso, porte che si chiudono, teste che si ritirano dalle finestre. E
questo segue tutti i giorni e nessuno se ne dà pensiero!
Uscendo dalla via di Pera, ci troviamo dinanzi a un altro cimitero musulmano, ombreggiato da
un boschetto di cipressi e chiuso tutt’intorno da un alto muro. Se non ce l’avessero detto poi, non
avremmo mai indovinato il perchè di quel muro, che fu innalzato di fresco: ed è che il bosco sacro
al riposo dei morti era diventato un nido d’amori soldateschi! Andando oltre, infatti, trovammo
l’immensa caserma d’artiglieria innalzata da Scialil-Pascià: un solido edificio di forma rettangolare,
dello stile moresco del rinascimento turco, con una porta fiancheggiata da colonne leggere e
sormontata dalla mezzaluna e dalla stella d’oro di Mahmut, con gallerie sporgenti e finestrine ornate
di stemmi e di arabeschi. Dinanzi alla caserma passa la strada di Dgiedessy che è un prolungamento
di quella di Pera, di dalla strada si stende una vasta piazza d’armi, e didalla piazza d’armi altri
borghi. Qui, dove nei giorni feriali regna ordinariamente un profondo silenzio, la sera della
domenica passa un torrente di gente e una processione di carrozze, tutta la società elegante di Pera,
che va a spandersi nei giardini nelle birrerie e nei caffè didalla Caserma. In uno di questi caffè si
fece la nostra prima sosta; nel caffè della Bella vista, luogo di ritrovo del fiore della società perota, e
degno veramente del suo nome; perchè dal suo vasto giardino, che sporge come una terrazza sulla
sommità dell’altura, si vede sotto il grande sobborgo musulmano di Funduclù, il Bosforo coperto di
bastimenti, la riva asiatica sparsa di giardini e di villaggi, Scutari colle sue bianche moschee, una
bellezza di verde, d’azzurro, e di luce, che sembra un sogno. Ci levammo di con rammarico, e ci
parve a tutt’e due d’esser pitocchi a buttar sul vassoio otto miserabili soldi per due tazze di caffè,
dopo aver goduto quella visione di paradiso terrestre.
[Gran Campo dei Morti]
Uscendo dalla Bella vista ci trovammo in mezzo al Gran Campo dei morti dove è sepolta in
cimiteri distinti gente di tutti i culti, eccettuato l’ebraico. È un bosco fitto di cipressi, d’acacie e di
sicomori, nel quale biancheggiano migliaia di pietre sepolcrali, che da lontano paiono le rovine d’un
immenso edifizio. Tra albero e albero si vede il Bosforo e la riva asiatica. Fra le tombe serpeggiano
dei larghi viali in cui passeggiano dei greci e degli armeni. Su alcune pietre stanno seduti dei turchi
colle gambe incrociate, guardando il Bosforo. V’è un’ombra, un fresco e una pace che, al primo
entrarvi, si prova una sensazione deliziosa, come entrando d’estate in una grande cattedrale
semioscura. Ci arrestammo nel cimitero armeno. Le pietre sepolcrali son tutte grandi e piane,
coperte d’iscrizioni nel carattere regolare ed elegante della lingua armena, e su quasi tutte è scolpita
un’immagine che rappresenta il mestiere o la professione del morto. Sono martelli, seghe, penne,
scrigni, collane; il banchiere è rappresentato da una bilancia, il prete da una mitra, il barbiere da una
catinella, il chirurgo da una lancetta. Sopra una pietra vedemmo una testa spiccata dal busto, e il
busto grondante di sangue: era il sepolcro d’un assassinato o d’un giustiziato. Un armeno vi
dormiva accanto, sdraiato sull’erba, colla faccia in aria. Entrammo nel cimitero musulmano. Anche
qui una infinità di colonnette a file e a gruppi disordinati; alcune colla testa dipinta e dorata; quelle
delle donne terminate da un gruppo d’ornamenti in rilievo che rappresentano dei fiori; molte
circondate d’arbusti e di pianticelle fiorite. Mentre stavamo osservando una di queste colonne, due
turchi che tenevano per mano un bambino, ci passarono accanto, andarono innanzi altri cinquanta
passi, si fermarono dinanzi a un tumulo, vi sedettero sopra, e aperto un involto che portavano sotto
il braccio, si misero a mangiare. Io stetti ad osservarli. Quand’ebbero finito, il più avanzato in età
raccolse qualchecosa in un foglio di carta, – mi parve un pesce e del pane, – e con un atto rispettoso,
mise il piccolo pacco in un buco accanto al sepolcro. Dopo questo accesero tutti e due la pipa e
fumarono tranquillamente: il bambino s’alzò e si mise a scorrazzare per il cimitero. Quel pesce e
quel pane, ci fu spiegato poi, erano la parte di cibo che i turchi lasciavano in segno d’affetto al loro
parente, sepolto probabilmente da poco; e quel buco era l’apertura che si lascia nella terra vicino al
capo di tutti i sepolti musulmani, perchè possano udire i lamenti e i pianti dei loro cari e ricevere
qualche goccia d’acqua di rosa o sentir il profumo di qualche fiore. Finita la loro fumatina funebre, i
due turchi pietosi si alzarono, e ripreso per mano il bambino, disparvero in mezzo ai cipressi.
[Pancaldi]
Usciamo dal cimitero, ci troviamo in un altro quartiere cristiano, Pancaldi, attraversato da
strade spaziose, fiancheggiate da edifizi nuovi; circondato di villette, di giardini, di ospedali e di
grandi caserme; il sobborgo di Costantinopoli più lontano dal mare; visitato il quale, torniamo
indietro per ridiscendere verso il Corno d’Oro. Ma nell’ultima strada del sobborgo, assistiamo a uno
spettacolo nuovo e solenne: il passaggio d’un convoglio funebre greco. Una folla silenziosa si
schiera dalle due parti della strada: viene innanzi un gruppo di preti greci, colle toghe ricamate;
l’archimandrita con una corona sul capo e un lungo abito luccicante d’oro; dei giovani ecclesiastici
vestiti di colori vivi; uno stuolo di parenti e d’amici coi loro vestimenti più ricchi, e in mezzo a loro
una bara inghirlandata di fiori, sulla quale è distesa una giovanetta di quindici anni, vestita di raso e
tutta splendente di gioielli, col viso scoperto, un piccolo viso bianco come la neve, colla bocca
leggermente contratta in una espressione di spasimo, e due bellissime treccie nere distese sulle
spalle e sul seno. La bara passa, la folla si chiude, il convoglio s’allontana, e noi rimaniamo soli e
pensierosi in una strada deserta.
[San Dimitri]
Scendiamo dalla collina di Pancaldi, attraversiamo il letto asciutto d’un torrentello, saliamo su
per un altro colle, ci troviamo in un altro sobborgo: San Dimitri. Qui la popolazione è quasi tutta
greca. Si vedono da ogni parte occhi neri e nasi aquilini e affilati; vecchi d’aspetto patriarcale;
giovani svelti e arditi; donnine colle trecce sulle spalle; ragazzi dai visetti astuti che sgallettano in
mezzo alla via fra le galline e i maiali, riempiendo l’aria di grida argentine e di parole armoniose. Ci
avvicinammo a un gruppo di quei ragazzi che si baloccavano coi sassi, chiacchierando tutti ad una
voce. Uno di essi, sugli otto anni, il più indiavolato di tutti, che ogni momento buttava in aria il suo
piccolo fez gridando: Zito! Zito! (Viva! Viva!) si voltò improvvisamente verso un altro
monello seduto dinanzi a una porta e gridò: Checchino! Buttami la palla! Io lo afferrai per il
braccio con un movimento da zingaro rapitore di fanciulli e gli dissi: – Tu sei italiano! – No signore,
rispose, sono di Costantinopoli. E chi t’ha insegnato a parlare italiano? domandai. Oh
bella! rispose, la mamma. E dov’è la mamma? In quel punto mi s’avvicinò una donna con un
bimbo in collo, tutta sorridente, e mi disse ch’era pisana, moglie d’uno scalpellino livornese, che si
trovava a Costantinopoli da ott’anni, e che quel ragazzo era suo figlio. Se quella buona donna
avesse avuto un bel viso di matrona, una corona turrita sulla testa e un manto sulle spalle, non
avrebbe rappresentato più vivamente l’Italia ai miei occhi e al mio cuore. – Come vi ritrovate qui?–
le domandai; che ne dite di Costantinopoli? Che n’ho da dire? rispose sorridendo
ingenuamente. L’è una città che... a dirle il vero, mi ci par sempre l’ultimo giorno di carnovale. –
E qui, dando la stura alla sua parlantina toscana, ci fece sapere che pe’ musulmani il loro Gesù è
Maometto, che un turco può sposare quattro donne, che la lingua turca è bravo chi ne intende una
parola, e altre novità dello stesso conio; ma che dette in quella lingua, in mezzo a quel quartiere
greco, ci riuscirono più care di qualunque notizia più peregrina, tanto che prima di andarcene
lasciammo un piccolo ricordo d’argento nella manina del monello, e andandocene esclamammo tutti
e due insieme: – Ah! una boccata d’Italia, di tanto in tanto, come fa bene!
[Tataola]
Attraversammo una seconda volta la piccola valle, e ci trovammo in un altro quartiere greco,
Tataola, dove lo stomaco suonando a soccorso, cogliemmo l’occasione per visitare l’interno d’una
di quelle taverne innumerevoli di Costantinopoli, che hanno un aspetto singolarissimo, e son tutte
fatte ad un modo. È uno stanzone grandissimo, di cui si potrebbe fare un teatro, non rischiarato per
lo più che dalla porta di strada, e ricorso tutt’intorno da un alta galleria di legno a balaustri. Da una
parte v’è un enorme fornello dove un brigante in maniche di camicia frigge dei pesci, fa girare degli
arrosti, rimesta degl’intingoli, e s’adopera in altri modi ad accorciare la vita umana; dall’altra un
banco dove un’altra faccia minacciosa distribuisce vino bianco e vino nero in bicchieri a manico; in
mezzo e sul davanti, seggiole nane senza spalliera e tavolette poco più alte delle seggiole che
rammentano i bischetti dei calzolai. Entrammo un po’ vergognosi perchè v’era un gruppo di greci e
d’armeni di bassa lega, e temevamo che ci guardassero con curiosità canzonatoria; ma nessuno
invece ci degnò d’un’occhiata. Gli abitanti di Costantinopoli sono, io credo, la gente meno curiosa
di questo mondo; bisogna almeno essere Sultani o passeggiar nudi per le strade come il pazzo di
Pera, perchè qualcuno s’accorga che siete al mondo. Ci sedemmo in un angolo e stemmo ad
aspettare. Ma nessuno veniva. Allora capimmo che nelle taverne costantinopolitane c’è l’uso di
servirsi da sè. Andammo prima al fornello a farci dare un arrosto, Dio sa di che quadrupede, poi al
banco a prendere un bicchier di vino resinoso di Tenedo, e portato ogni cosa sopra la tavola che ci
arrivava al ginocchio, mostrandoci l’un l’altro il bianco degli occhi, si consumò il sacrificio.
Pagammo con rassegnazione, e usciti in silenzio per paura che ci uscisse dalla bocca un raglio o un
latrato, ripigliammo il nostro viaggio verso il Corno d’Oro.
[Kassim-pascià]
Dopo dieci minuti di cammino, ci trovammo daccapo in piena Turchia, nel grande sobborgo
musulmano di Kassim-pascià, in una vera città popolata di moschee e di conventi di dervis, piena
d’orti e di giardini, che occupa una collina e una valle, e si distende fino al Corno d’Oro,
abbracciando tutta l’antica baia di Mandracchio, dal cimitero di Galata fino al promontorio che
prospetta il sobborgo di Balata sull’altra riva. Dall’alto di Kassim-pascià si gode uno spettacolo
incantevole. Si vede sotto, sulla riva, l’immenso arsenale Ters-Kané: un labirinto di bacini,
d’opifici, di piazze, di magazzini e di caserme, che si stende per la lunghezza d’un miglio lungo
tutta la parte del Corno d’Oro che serve di Porto di guerra; il palazzo del Ministro della Marina,
elegante e leggero, che par che galleggi sull’acqua, e disegna le sue forme bianche sul verde cupo
del cimitero di Galata; il porto percorso da vaporini e caicchi pieni di gente, che guizzano in mezzo
alle corazzate immobili e alle vecchie fregate della Guerra di Crimea; e sulla sponda opposta,
Stambul, l’acquedotto di Valente che slancia i suoi archi altissimi nell’azzurro del cielo, le grandi
moschee di Maometto e di Solimano, e una miriade di case e di minareti. Per godere meglio questo
spettacolo ci sedemmo dinanzi a un caffè turco, e sorbimmo la quarta o la quinta delle dodici tazze
che, volere o non volere, stando a Costantinopoli, bisogna tracannare ogni giorno. Era un caf
meschino, ma come tutti i caffè turchi, originalissimo: non molto diverso, forse, dai primissimi
caffè dei tempi di Solimano il Grande, o da quelli in cui irrompeva colla scimitarra nel pugno il
quarto Amurat, quando faceva la ronda notturna per castigar di sua mano gli spacciatori del liquore
proibito. Di quanti editti imperiali, di quante dispute di teologi e lotte sanguinose è stato cagione
questo «nemico del sonno e della fecondità,» come lo chiamavano gli ulema austeri; questo «genio
dei sogni e sorgente dell'immaginazione», come lo chiamavano gli ulema di manica larga, ch'è ora,
dopo l'amore e il tabacco, il conforto più dolce d'ogni più povero Osmano! Ora si beve il caffè sulla
cima della torre di Galata e della torre del Seraschiere, il caffè in tutti i vaporini, il caffè nei cimiteri,
nelle botteghe dei barbieri, nei bagni, nei bazar. In qualunque parte di Costantinopoli uno si trovi
non ha che a gridare, senza voltarsi : Caffè-gì! (Caffettiere!) e dopo tre minuti gli fuma dinanzi
una tazza.
[Il Caffè]
Il nostro caffè era una stanza tutta bianca, rivestita di legno fino all'altezza d'un uomo, con un
divano bassissimo lungo le quattro pareti. In un angolo c'era un fornello su cui un turco dal naso
forcuto stava facendo il caffè in piccole caffettiere di rame, che vuotava man mano in piccolissime
tazze, mettendovi egli stesso lo zucchero; poichè da per tutto, a Costantinopoli, si fa il caffè apposta
per ogni avventore, e gli si porta bell'inzuccherato, con un bicchiere d'acqua che i Turchi bevono
sempre prima di avvicinare la tazza alle labbra. Ad una parete era appeso un piccolo specchio, e
accanto allo specchio una specie di rastrelliera piena di rasoi a manico fisso; poichè la maggior parte
dei caffè turchi sono ad un tempo botteghe di barbieri, e non di rado il caffettiere è anche cavadenti
e salassatore, e macella le sue vittime nella stanza medesima dove gli altri avventori pigliano il
caffè. Alla parete opposta era appesa un'altra rastrelliera piena di narghilè di cristallo coi lunghi tubi
flessibili, attorcigliati come serpenti, e di cibuk di terra cotta colle cannette di legno di ciliegio.
Cinque turchi pensierosi stavano seduti sul divano, fumando il narghilè; altri tre erano dinanzi alla
porta, accoccolati sopra bassissime seggiole di paglia senza spalliera, l'uno accanto all'altro, colle
spalle appoggiate al muro e colla pipa alle labbra; un giovane della bottega radeva il capo, davanti
allo specchio, a un grosso dervis insaccato in una tonaca di pelo di cammello. Nessuno ci guardò
quando sedemmo, nessuno parlava, e fuorchè il caffettiere e il suo giovane, nessuno faceva il
menomo movimento. Non si sentiva altro rumore che il gorgoglio dell'acqua dei narghilè, che
somiglia alla voce dei gatti quando fanno le fusa. Tutti guardavano diritto dinanzi a sè, cogli occhi
fissi, e con un viso che non esprimeva assolutamente nulla. Pareva un piccolo museo di statue di
cera. Quante di queste scene mi son rimaste impresse nella memoria! Una casa di legno, un turco
seduto, una bellissima veduta lontana, una gran luce e un gran silenzio: ecco la Turchia. Ogni volta
che questo nome mi passa per la mente, ci passano nello stesse punto quelle immagini, come un
mulino a vento e un canale all'udir nominare Olanda.
[Pialì-Pascià]
Di là, fiancheggiando un grande cimitero mussulmano, che dall'alto della collina di Kassim-
pascià scende fino a Ters-Kanè, rimontammo verso settentrione, scendemmo nella valletta di Pialì-
Pascià, piccolo sobborgo mezzo nascosto in mezzo alla verzura dei giardini e degli orti; e ci
fermammo dinanzi alla moschea che gli il nome. È una moschea bianca, sormontata da sei
cupole graziose, con un cortile circondato d'archi e di colonnine gentili, un minareto leggerissimo e
una corona di cipressi giganteschi. In quel momento tutte le casette circostanti erano chiuse, le
strade deserte, il cortile stesso della moschea, solitario; la luce e l'uggia del mezzogiorno
avvolgevano ogni cosa; e non si sentiva che il ronzìo dei tafani. Guardammo l'orologio: mancavano
tre minuti alle dodici: una delle cinque ore canoniche dei musulmani, in cui i muezzin s'affacciano al
terrazzo dei minareti per gridare ai quattro punti dell'orizzonte le formole sacramentali dell'Islam.
Sapevamo bene che non c'è minareto in tutta Costantinopoli sul quale, a quell'ora fissa, non
comparisca, puntuale come l'automa d'un orologio, l'annunziatore del profeta. Eppure ci pareva
strano che anche in quella estremità della città immensa, su quella moschea solitaria, a quell'ora, in
quel silenzio profondo, dovesse comparire quella figura e suonare quella voce. Tenni l'orologio in
mano, e guardando attentamente la lancetta dei minuti e la porticina del terrazzo del minareto, alta
quasi come un terzo piano d'una casa ordinaria, stetti aspettando con viva curiosità. La lancetta
toccò il sessantesimo trattino nero, e nessuno comparve. – Non viene ! – dissi. –
[Pialì-Pascià]
Eccolo! rispose Yunk. Era comparso. Il parapetto del terrazzo lo nascondeva tutto, fuorchè il
viso, di cui, per la lontananza, non si distingueva la fisonomia. Stette per qualche secondo
immobile; poi si tappò le orecchie colle dita, e alzando il volto al cielo, gridò con una voce lenta,
tremula e acutissima, con un accento solenne e lamentevole, le sacre parole, che risuonano, nello
stesso punto su tutti i minareti dell’Affrica, dell’Asia e dell’Europa: – Dio è grande! Non v’è che un
Dio! Maometto è il profeta di Dio! Venite alla preghiera! Venite alla salute! Dio è grande! Dio è un
solo! Venite alla preghiera! Poi fece un mezzo giro sul terrazzo e ripetè le stesse parole rivolto a
settentrione; poi a levante, poi a occidente, e poi disparve. In quel punto ci arrivarono all’orecchio
fioche fioche le ultime note d’un’altra voce lontana, che pareva il grido d’uno che chiedesse
soccorso, e poi tutto tacque, e rimanemmo anche noi per qualche minuto silenziosi, con un
sentimento vago di tristezza come se quelle due voci avessero consigliato la preghiera soltanto a
noi, e sparendo quel fantasma, fossimo rimasti soli nella valle come due abbandonati da Dio.
Nessun suono di campana mi ha mai toccato il cuore così intimamente; e soltanto quel giorno
compresi il perchè Maometto, per chiamare i fedeli alla preghiera, abbia preferito all’antica tromba
israelitica e all’antica tabella cristiana, il grido dell’uomo. E su quella scelta fu lungo tempo incerto;
onde poco mancò che tutto l’Oriente non pigliasse un aspetto assai diverso da quello che ha ora;
poichè s’era scelta la tabella, che poi si cangiò in campana, si sarebbe certo trasformato il minareto,
e uno dei tratti più originali e più graziosi della città e del paesaggio orientale sarebbe andato
perduto.
[Ok-Meidan]
Risalendo da Pialì-Pascià sulla collina, verso occidente, ci trovammo in un vastissimo spazio di
terreno brullo, da cui si vedeva tutto il Corno d’Oro e tutta Stambul, dal borgo d’Eyub alla collina
del serraglio; quattro miglia di giardini e di moschee, una grandezza e una leggiadria, da
contemplarsi in ginocchio come una apparizione celeste. Era l’Ok-meïdan, la piazza delle freccie,
dove andavano i Sultani a tirar dell’arco secondo l’uso dei re Persiani. Vi sono ancora sparse, a
distanze ineguali, alcune colonnine di marmo, segnate d’iscrizioni, che indicano i punti dove
caddero le freccie imperiali. V’è ancora il chiosco elegante, con una tribuna, da cui i sultani
tendevano l’arco. A destra, nei campi, si stendeva una lunga fila di pascià e di bey, punti viventi
d’ammirazione, coi quali il padiscià rendeva omaggio alla propria destrezza; a sinistra, dodici paggi
della famiglia imperiale, che correvano a raccogliere gli strali e a segnare il punto della caduta;
intorno, dietro gli alberi e i cespugli, qualche turco temerario venuto per contemplare di nascosto le
sembianze sublimi del Gran Signore; e sulla tribuna campeggiava nell’atteggiamento d’un atleta
superbo, Mahmut, il più vigoroso arciere dell’impero, di cui l’occhio scintillante faceva curvar la
fronte agli spettatori, e la barba famosa, nera come il corvo del Monte Tauro, spiccava di lontano sul
grande mantello candido, spruzzato del sangue dei Giannizzeri. Ora tutto è cangiato e diventato
prosaico: il Sultano tira colla rivoltella nei cortili del suo palazzo e sull’Ok-meïdan s’esercita al
bersaglio la fanteria. Da una parte v’è un convento di dervis, dall’altra un caffè solitario; e tutta la
campagna è desolata e malinconica come una steppa.
[Piri-Pascià]
Scendendo dall’Ok-meïdan verso il Corno d’Oro, ci trovammo in un altro piccolo sobborgo
musulmano, chiamato Piri-Pascià, forse da quel famoso gran vizir del primo Selim, che educò
Solimano il Grande. Piri-Pascià prospetta il sobborgo israelitico di Balata, posto sull’altra riva del
Corno. Non v’incontrammo che qualche cane e qualche vecchia turca mendicante. Ma questa
solitudine ci permise di considerare a nostro bell’agio la struttura del borgo. È una cosa singolare. In
quel borgo, come in qualunque altra parte di Costantinopoli uno s’addentri, dopo averla vista o dal
mare o dalle alture vicine, si prova la medesima impressione che a guardare un bello spettacolo
coreografico dal palco scenico dopo averlo visto dalla platea; ci si meraviglia che quell’insieme di
cose brutte e meschine possa produrre una così bella illusione. Non v’è nessuna città al mondo, io
credo, nella quale la bellezza sia così pura apparenza come a Costantinopoli. Veduta da Balata, Piri-
Pascià è una cittadina gentile, tutta colori ridenti, inghirlandata di verzura, che si specchia nelle
acque del Corno d’Oro come una ninfa, e desta mille immagini d’amore e di delizia. Entrateci, tutto
svanisce. Non sono che casupole rozze, tinte di coloracci da baracche di fiera; cortiletti angusti e
sucidi, che paiono ricettacoli di streghe; gruppi di fichi e di cipressi polverosi, giardini ingombri di
calcinacci, vicoli deserti, miseria, immondizie, tristezza. Ma scendete una china, saltate in un
caicco, e dopo cinque remate, rivedete la cittadina fantastica, in tutta la pompa della sua bellezza e
della sua grazia.
[Hasskioi]
Andando innanzi, sempre lungo la riva del Corno d’Oro, scendiamo in un altro sobborgo, vasto,
popoloso, d’aspetto strano, dove, fin dai primi passi, ci accorgiamo di non essere più in mezzo ai
musulmani. Da ogni parte si vedono bambini coperti di gore e di scaglie che si ravvoltolano per
terra; vecchie sformate e cenciose che lavorano colle mani scheletrite sugli usci delle case ingombre
di ciarpame e ferravecchi; uomini ravvolti in lunghi vestiti sudici, con un fazzoletto in brandelli
attorcigliato intorno alla testa, che passano lungo i muri in aspetto furtivo; visi macilenti alle
finestre; cenci appesi fra casa e casa; strame e belletta in ogni parte. È Hasskioi, il sobborgo
israelitico, il ghetto della riva settentrionale del Corno d’Oro, che fa fronte a quello dell’altra riva, al
quale lo congiungeva durante la guerra di Crimea un ponte di legno di cui non rimane più traccia. Di
qui comincia un’altra lunga catena di arsenali, di scuole militari, di caserme e di piazze d’armi, che
si stende fin quasi in fondo al Corno d’oro. Ma di questo non vedemmo nulla perchè ormai non ce
lo consentivano le gambe, la testa. Già tutte le cose vedute ci si confondevano nella mente; ci
pareva di essere in viaggio da una settimana; pensavamo a Pera lontanissima con un leggiero
sentimento di nostalgia, e saremmo tornati indietro, se non ci avesse trattenuto il proposito fatto
solennemente sul vecchio ponte, e se Yunk non m’avesse rianimato, secondo il suo solito,
intonando la gran marcia dell’Aida.
[Halidgi-Oghli]
Avanti dunque. Attraversiamo un altro cimitero musulmano, saliamo sopra un’altra collina,
entriamo in un altro sobborgo, nel sobborgo di Halidgi-Oghli, abitato da una popolazione mista;
una piccola città dove ad ogni svolto di vicolo, si trova una nuova razza e una nuova religione. Si
sale, si scende, si rampica, si passa in mezzo alle tombe, alle moschee, alle chiese, alle sinagoghe;
si gira intorno a cimiteri e a giardini; s’incontrano delle belle armene di forme matronali e delle
turche leggiere che sbirciano a traverso il velo; si sente parlar greco, armeno e spagnuolo, lo
spagnuolo degli ebrei –; e si cammina, si cammina. Si dovrà pure arrivare in fondo a questa
Costantinopoli! diciamo fra noi. Tutto ha un confine su questa terra! Già le case di Halidgi-
Oghli diradano, cominciano a verdeggiare li orti, non c’è più che un gruppo di abituri, vi passiamo
in mezzo, siamo finalmente arrivati...
[Sudludgé]
Ahimè! non siamo arrivati che a un altro sobborgo. È il sobborgo cristiano di Sudludgé, che
s’innalza sopra una collina, circondato di orti e di cimiteri; sulla collina ai piedi della quale metteva
capo il solo ponte che unisse anticamente le due rive del Corno d’oro. Ma questo sobborgo, come
Dio vuole, è l’ultimo, e la nostra escursione è finita. Usciamo di fra le case per cercare un luogo di
riposo; saliamo su per una altura ripida e nuda che s’alza alle spalle di Sudludgé, e ci troviamo
dinanzi al più grande cimitero israelitico di Costantinopoli: un vasto piano coperto d’una miriade di
pietre abbattute, le quali presentano l’aspetto sinistro d’una città rovinata dal terremoto, senza un
albero, senza un fiore, senza un filo d’erba, senza una traccia di sentiero: una solitudine desolata che
stringe il cuore, come lo spettacolo d’una grande sventura. Sediamo sopra una tomba, rivolti verso il
Corno d’oro, ed ammiriamo, riposando, il panorama immenso e gentile che ci si stende dintorno. Si
vede, sotto, Sudludgé, Halidgi-Oghli, Hasskioj, Piri-Pascià, una fuga di sobborghi chiusi fra
l’azzurro del mare e il verde dei cimiteri e dei giardini; a sinistra l’Okmeïdan solitario, e i cento
minareti di Kassim-Pascià; più lontano, Stambul, sterminata e confusa; di da Stambul, le somme
linee delle montagne dell’Asia, quasi svanite nel cielo; dinanzi, proprio in faccia a Sudludgé,
dall’altra parte del Corno d’oro, il borgo misterioso d’Eyub, di cui si distinguono uno per uno i
ricchi mausolei, le moschee di marmo, le chine ombrose sparse di tombe, i viali solitari, e i recessi
pieni di tristezza di grazia; e a destra d’Eyub altri villaggi che si guardan nell’acqua, e poi l’ultima
svolta del Corno d’oro, che si perde fra due alte rive rivestite d’alberi e di fiori. Spaziando collo
sguardo su quel panorama, stanchi, quasi in uno stato di dormiveglia, senz’accorgercene, mettiamo
in musica quella bellezza, canterellando non so che cosa; ci domandiamo chi sarà il morto su cui
siamo seduti; frughiamo con un fuscello dentro un formicaio; parliamo di mille sciocchezze; ci
diciamo di tratto in tratto: – Ma siamo proprio a Costantinopoli? –; poi pensiamo che la vita è breve
e che tutto è vanità; e poi ci piglian dei fremiti d’allegrezza; ma in fondo sentiamo che nessuna
bellezza della terra una gioia veramente intera, se contemplandola, non si sente nella propria
mano la manina della donna che si ama.
[In caicco]
Verso il tramonto scendiamo al Corno d’oro, entriamo in un caicco a quattro remi, e non
abbiamo ancora pronunziato la parola: – Galata! – che la barchetta gentile è già lontana dalla riva. E
il caicco è veramente la barchetta più gentile che abbia mai solcato le acque. È più lungo della
gondola, ma più stretto e più sottile; è scolpito, dipinto e dorato; non ha timone, sedili; vi si
siede sopra in cuscino o un tappeto, in modo che non riman fuori che la testa e le spalle; è terminato
alle due estremità in maniera da poter andare nelle due direzioni; si squilibra al menomo
movimento, si spicca dalla riva come una freccia dall’arco, par che voli a fior d’acqua come una
rondine, passa da per tutto, scivola e fugge specchiando nell’onde i suoi mille colori come un
delfino inseguito. I nostri rematori erano due bei giovani turchi col fez rosso, con una camicia
cilestrina, con un paio di grandi calzoni bianchissimi, colle braccia e colle gambe nude; due atleti
ventenni, color di bronzo, puliti, allegri e baldanzosi, che ad ogni remata mandavano innanzi la
barca di tutta la sua lunghezza; altri caicchi ci passavano accanto di volo, che appena si vedevano; ci
passavano vicino degli stormi d’anitre, ci roteavano sul capo degli uccelli, ci rasentavano delle
grandi barche coperte, piene di turche velate, e le alghe di tratto in tratto ci nascondevano ogni cosa.
Vista d’in fondo al Corno d’Oro, a quell’ora, la città presentava un aspetto nuovissimo. Non si
vedeva la riva asiatica, a cagione della curvatura della rada; la collina del Serraglio chiudeva il
Corno d’oro come un lunghissimo lago; le colline delle due rive sembravano ingigantite; e,
Stambul, lontana lontana, sfumata con una gradazione dolcissima di tinte cineree e azzurrine,
enorme e leggera come una città fatata, pareva che galleggiasse sul mare e si perdesse nel cielo. Il
caicco volava, le due rive fuggivano, i seni succedevano ai seni, i boschetti ai boschetti, i sobborghi
ai sobborghi; e via via che s’andava innanzi, tutto ci s’allargava e ci s’innalzava dintorno, i colori
della città illanguidivano, l’orizzonte s’infocava, le acque mandavano dei riflessi d’oro e di porpora,
e un profondo stupore ci entrava a poco a poco nell’anima, misto a una dolcezza indefinibile, che ci
faceva sorridere e non ci lasciava parlare. Quando il caicco si fermò allo scalo di Galata, uno dei
barcaioli ci dovette gridare negli orecchi: Monsù! Arrivar! – e ci destammo come da un sogno.
IL GRAN BAZAR
Dopo aver visto di volo tutta Costantinopoli, percorrendo le due rive del Corno d’oro, è tempo
di entrare nel cuore di Stambul, d’andar a vedere quella fiera universale e perpetua, quella città
nascosta, oscura, piena di meraviglie, tesori e di memorie, che si distende fra la collina di Nuri-
Osmanié e quella del Seraschiere, e si chiama il Grande Bazar.
Partiamo dalla piazza della moschea Sultana-Validè.
Qui forse si vorrebbe fermare più d’un lettore goloso per dare un’occhiata al Balik-Bazar,
mercato dei pesci, famoso fin dai tempi di quel vecchio Andronico Paleologo, il quale, com’è noto,
dal solo prodotto della pesca lungo le mura della città ricavava di che far fronte alle spese culinarie
di tutta la sua corte. La pesca, infatti, è ancora abbondantissima a Costantinopoli, e il Balik-Bazar,
nei suoi bei giorni, potrebbe offrire all’autore del Ventre de Paris il soggetto d’una descrizione
pomposa e appetitosa come le grandi mense dei vecchi quadri olandesi. I venditori son quasi tutti
turchi, e stanno schierati intorno alla piazza, coi pesci ammucchiati sopra stuoie distese in terra, o
sopra lunghe tavole, intorno a cui si disputano lo spazio una folla di compratori e un esercito di
cani. Là si ritrovano le triglie squisite del Bosforo, quattro volte più grosse di quelle dei nostri mari;
le ostriche dell’isola di Marmara, che i Greci e gli Armeni soli sanno cuocere a punto sulla brace; le
palamite e i tonni che son salati quasi esclusivamente dagli Ebrei; le alici che i Turchi impararono a
salare dai Marsigliesi; le sardelle di cui Costantinopoli provvede l’Arcipelago; gli ulufer, i pesci più
saporiti del Bosforo, che si pigliano al lume della luna; gli scombri del Mar Nero, che fanno sette
invasioni successive nelle acque della città, levando uno strepito che si sente dalle ville delle due
rive; isdaurid colossali, pesci spada enormi, rombi, o come li chiamano i Turchi, Kalkan-baluk,
pesci scudo, e altri mille pesci minori, che guizzano fra i due mari, inseguiti dai delfini e dai
falianos, e cacciati da innumerevoli alcioni, a cui strappano la preda dal becco i piombini. Cuochi di
pascià, vecchi buongustai musulmani, schiave e giovani di taverna, s’avvicinano alle tavole,
guardano i pesci in atto meditabondo, contrattano a monosillabi, e se ne vanno colla loro compra
appesa a uno spago, tutti gravi e taciturni, come se portassero la testa d’un nemico; a mezzogiorno
la piazza è sgombra, e i rivenditori son già sparsi per i caffè vicini, dove stanno fino al cader del
sole, sognando ad occhi aperti, colle spalle al muro, e il bocchino del narghilè tra le labbra.
Per andare al Gran Bazar, s’infila una strada che sbocca nel mercato dei pesci, tanto stretta che
le sporgenze delle case opposte quasi si toccano, e si va innanzi per un buon tratto in mezzo a due
file di botteghe basse ed oscure, dove si vende il tabacco «la quarta colonna della tenda della
voluttà» dopo il caffè, l’oppio ed il vino, o «il quarto sofà dei godimenti», anch’esso, come il caffè,
fulminato un tempo da editti di sultani e da sentenze di muftì, e cagione di torbidi e di supplizi, che
lo resero più saporito. Tutta la strada è occupata dai tabaccai. Il tabacco è messo in mostra sopra
assicciuole, a piramidi e a mucchi rotondi, ognuno sormontato da un limone. Sono piramidi di
latakié d’Antiochia, di tabacco del Serraglio biondo e sottilissimo che par seta della più fina, di
tabacco da sigarette e da cibuk, di tutte le gradazioni di sapore e di forza, da quel che fuma il
facchino gigantesco di Galata a quello che concilia il sonno alle odalische annoiate nei chioschi dei
giardini imperiali. Il tombeki, tabacco fortissimo, che darebbe al capo anche a un vecchio fumatore,
se il fumo non giungesse alla bocca purificato dall’acqua del narghilè, è chiuso in boccie di vetro
come un medicinale. I tabaccai son quasi tutti greci od armeni cerimoniosi, che affettano un certo
fare signorile; gli avventori tengono crocchio; vi si fermano degli impiegati del ministero degli
esteri e del Seraschierato; alle volte vi una capatina qualche pezzo grosso; vi si spolitica, si va a
raccogliervi la notizia e a raccontarvi il fattarello; è un piccolo bazar appartato e aristocratico, che
invita al riposo, e fa sentire, anche a passarvi soltanto, la voluttà della chiacchera e del fumo.
Andando innanzi, si passa sotto una vecchia porta ad arco, inghirlandata di pampini, e si riesce
in faccia ad un vasto edifizio di pietra, attraversato da una lunga strada diritta e coperta,
fiancheggiata da botteghe oscure, e ingombra di gente, di casse, di sacchi, di mucchi di mercanzie.
Entrando, si sente un odore d’aromi acutissimo, che quasi ributta indietro. È il bazar egiziano dove
sono raccolte tutte le derrate dell’India, della Siria, dell’Egitto e dell’Arrabia, che ridotte poi in
essenze, in pastiglie, in polveri, in unguenti, vanno a colorar visetti e manine d’odalische, a
profumar stanze e bagni e bocche e barbe e pietanze, a rinvigorire Pascià sfibrati, ad assopire spose
infelici, a istupidire fumatori, a spander sogni, ebbrezza ed obblìo nella città sterminata. Fatti pochi
passi in questo bazar, si comincia a sentir la testa pesante, e si fugge; ma la sensazione di quell’aria
calda e grave, e di quei profumi inebbrianti, ci accompagna ancora per un buon tratto all’aria libera,
e rimane poi viva nella memoria come una delle più intime e più significanti impressioni
dell’Oriente.
Uscendo dal bazar egiziano, si passa in mezzo a officine rumorose di calderai, a taverne
turche, che riempiono la strada di puzzi nauseabondi, a mille botteguccie e nicchiette e buchi
oscuri, dove si fabbrica e si vende una minutaglia infinita d’oggetti senza nome, e si arriva
finalmente al Grande Bazar.
Ma assai prima d’arrivarci, s’è assaliti e bisogna difendersi.
A cento passi dalla gran porta d’entrata, sono appostati, come bravi, i sensali dei mercanti, e i
sensali dei sensali, che alla prima occhiata v’hanno riconosciuto per forestiero, hanno capito che
andate al bazar per la prima volta, e indovinato presso a poco di che paese siete, tanto che assai di
rado sbagliano lingua nel dirigervi la parola.
S’avvicinano col fez in mano e col sorriso sulle labbra e v’offrono i loro servizi.
Allora segue quasi sempre un dialogo come questo.
– Non compro nulla – rispondete.
– Che importa, signore? Io non voglio che farle vedere il bazar.
– Non voglio vedere il bazar.
– Ma io l’accompagno gratis.
– Non voglio essere accompagnato gratis.
Ebbene, non l’accompagnerò che fino in fondo alla strada, per darle qualche informazione
che le sarà utile un altro giorno, quando verrà per comprare.
– Ma se non voglio neppur sentir discorrere di comprare!
– Parleremo d’altro, signore. È a Costantinopoli da molto tempo? È soddisfatto del suo
albergo? Ha ottenuto il permesso di visitare le moschee?
– Ma se vi dico che non voglio parlare, che voglio esser solo!
– Ebbene, la lascierò solo; la seguiterò alla distanza di dieci passi.
– Ma perchè mi volete seguitare?
– Per impedire che la truffino nelle botteghe.
– Ma se non entro nelle botteghe!
– Allora... per impedire che le diano noia per la strada.
Insomma, o bisogna rimetterci il fiato, o lasciarsi accompagnare.
Il grande bazar non ha nulla all’esterno che attiri l’occhio e faccia indovinare il di dentro. È un
immenso edifizio di pietra, di stile bizantino, di forma irregolare, circondato d’alte mura grigie, e
sormontato da centinaia di cupolette rivestite di piombo e traforate, che danno luce all’interno:
l’entrata principale è una porta arcata, senza carattere architettonico; dai vicoli intorno non si sente
nessun rumore; a quattro passi dalla porta si può credere ancora che dietro quei muri di fortezza non
ci sia altro che solitudine e silenzio. Ma appena entrati, si rimane sbalorditi. Non si è dentro a un
edifizio, ma in un labirinto di strade coperte da volte arcate e fiancheggiate da pilastri scolpiti e da
colonne; in una vera città, colle sue moschee, colle sue fontane, coi suoi crocicchi, colle sue
piazzette, rischiarata da una luce vaga come quella d’una foresta fitta in cui non penetri un raggio di
sole; e percorsa da una folla immensa. Ogni strada è un bazar, e quasi tutte metton capo in una
strada principale, coperta da una volta ad archi di pietre bianche e nere, e decorata d’arabeschi,
come una navata di moschea. In queste strade semioscure, in mezzo alla folla ondeggiante, passano
carrozze, cammelli e cavalieri, che fanno uno strepito assordante. In ogni parte si è apostrofati a
parole e a cenni. Il mercante greco chiama ad alta voce e gesticola in atto quasi imperioso; l’armeno,
altrettanto furbo, ma d’apparenza più modesta sollecita con maniere ossequiose; l’ebreo susurra le
sue offerte nell’orecchio; il turco silenzioso, accosciato sopra un cuscino sulla soglia della bottega,
non invita che cogli occhi e si rimette al destino. Dieci voci insieme vi chiamano: Monsieur!
Captan! Caballero! Signore! Eccellenza! Kyrie! Milord! Ad ogni svolta, per le porte laterali, si
vedono fughe d’arcate e di pilastri, lunghi corridoi, scorci di stradette, prospetti lontani e confusi di
bazar, e per tutto botteghe, merci appese ai muri e alle volte, mercanti affaccendati, facchini carichi,
gruppi di donne velate, un fermarsi e un disfarsi continuo di crocchi rumorosi, un rimescolìo di
gente e di cose, da dare il capogiro.
La confusione, però, non è che apparente. Questo immenso bazar è ordinato come una caserma,
e bastano poche ore per mettersi in grado di trovarci qualunque cosa vi si cerchi, senza bisogno di
guida. Ogni genere di mercanzia ha il suo piccolo quartiere, la sua stradetta, il suo corridoio, la sua
piazzuola. Sono cento piccoli bazar che mettono l’uno nell’altro, come le sale di un vastissimo
appartamento; ed ogni bazar è nello stesso tempo un museo, un passeggio, un mercato e un teatro,
nel quale si può veder tutto senza comprar nulla, prendere il caffè, godere il fresco, chiacchierare in
dieci lingue e fare agli occhi colle più belle donnine dell’Oriente.
Si può prendere un bazar a caso e passarci una mezza giornata senz’accorgersene: per esempio
il bazar delle stoffe e dei vestiti. È un emporio di bellezze e di ricchezze da perderci gli occhi, il
cervello e la borsa; e bisogna star in guardia, perchè il menomo capriccio può aver per conseguenza
di farci chiedere soccorso a casa per telegrafo. Si passeggia in mezzo a mucchi e a torri di broccati
di Bagdad, di tappeti di Caramania, di sete di Brussa, di tele dell’Indostan, di mussoline del
Bengala, di scialli di Madras, di casimir dell’India e della Persia, di tessuti variopinti del Cairo, di
cuscini rabescati d’oro, di veli di seta rigati d’argento, di sciarpe di tocca a righe azzurre e incarnate,
leggiere e trasparenti che paiono vaporose, di stoffe d’ogni forma e d’ogni disegno, in cui il
chermisino, il blu, il verde, il giallo, i colori più ribelli alle combinazioni simpatiche, si avvicinano e
s’intrecciano con un ardimento e un’armonia da far rimanere a bocca aperta; di tappeti da tavola
d’ogni grandezza, a fondo rosso o bianco, ricamati d’arabeschi, di fiori, di versetti del Corano, di
cifre imperiali, che si starebbe un giorno a contemplarli come le pareti dell’Alhambra. Qui si
possono ammirare ad una ad una tutte le parti del vestiario turco signorile, come nelle alcove d’un
arem, dalle cappe verdi, ranciate e color di giacinto, che coprono ogni cosa, fino alle camicie di seta,
ai fazzoletti ricamati d’oro e alle cinture di raso a cui non può giungere altro sguardo d’uomo che
quel del signore e dell’eunuco. Qui i caffettani di velluto rosso, contornati d’ermellino e coperti di
stelle; i bustini di raso giallo, i calzoncini di seta color di rosa, le sottovesti di damasco bianco
tempestate di fiori d’oro, i veli di sposa scintillanti di pagliuole d’argento, i casacchini di terzopelo
verde, orlati di piumino di cigno; le vesti greche, armene e circasse, di mille tagli capricciosi,
sovraccariche d’ornamenti, dure e splendenti come corazze; e in mezzo a tutti questi tesori, le stoffe
prosaiche di Francia e d’Inghilterra, dai colori sinistri, che ci fanno la figura della nota d’un sarto in
mezzo alle pagine d’un poema. Nessuno che ami una donna, può passare in quel bazar senza
considerare come una grande sventura di non essere millionario, e senza sentirsi per un momento
divampare nell’anima il furore del saccheggio.
Per liberarsi da queste idee, non c’è che a svoltare nel bazar delle pipe. Qui l’immaginazione è
ricondotta a desiderii più tranquilli. Sono fasci di cibuk di gelsomino, di ciliegio, d’acero e di
rosaio; bocchini d’ambra gialla del mar Baltico, levigati e luccicanti come il cristallo,
d’innumerevoli gradazioni di colore e di trasparenza, ornati di rubini e di diamanti; pipe di Cesarea,
colla cannetta fasciata di fili d’oro e di seta; borse da tabacco del Libano, a losanghe di varii colori,
rabescati di ricami splendenti; narghilè di cristallo di Boemia, d’acciaio e d’argento, di belle forme
antiche, damaschinati, niellati, tempestati di pietre preziose, con tubi di marocchino scintillanti di
dorature e d’anelli, fasciati nella bambagia, e perpetuamente custoditi da due occhi fissi, che
all’avvicinarsi d’ogni curioso si dilatano come occhi di civetta, e fanno morir sulle labbra la
richiesta del prezzo a chiunque non sia almeno vizir o pascià e non abbia dissanguato per qualche
anno una provincia dell’Asia Minore. Qui non viene a comprare che il messo della Sultana che vuol
dare un pegno di gratitudine al gran vizir arrendevole, o l’alto dignitario di Corte che, prendendo
possesso della nuova carica, è costretto, per suo decoro, a spendere cinquanta mila lire in una
rastrelliera di pipe; o l’ambasciatore del Sultano che vuol portare al Monarca europeo un ricordo
splendido di Stambul. Il turco modesto uno sguardo malinconico e passa oltre, parafrasando, per
consolarsi, la sentenza del Profeta: – il fuoco dell’inferno tuonerà come il muggito del cammello nel
ventre di colui che fuma in una pipa d’oro o d’argento.
Di qui si ricasca fra le tentazioni entrando nel bazar dei profumieri, che è uno dei più
schiettamente orientali e dei più cari al Profeta, il quale diceva: Donne, bambini e profumi –, per
dire i suoi tre più dolci piaceri. Qui si trovano le famose pastiglie del Serraglio che profumano i
baci, le cassule di gomma odorosa che staccano dal mastico le forti fanciulle di Chio, per mandarla
a rafforzar le gengive delle molli musulmane; le essenze squisite di bergamotto e di gelsomino, e
quelle potentissime di rosa, chiuse in astucci di velluto ricamato d’oro, d’un prezzo da far rizzare i
capelli; qui il collirio per le sopracciglia, l’antimonio per gli occhi, l’henné per le unghie, i saponi
che ammorbidiscono la cute delle belle siriane, le pillole che fanno cadere i peli dal volto delle
maschie circasse, le acque di cedro e d’arancio, i sacchetti di muschio, l’olio di sandalo, l’ambra
grigia, l’aloè per profumare le chicchere e le pipe, una miriade di polveri, d’acque e di pomate,
distinte con nomi fantastici e destinate ad usi indicibili, che rappresentano ciascuna un capriccio
amoroso, un proposito di seduzione, un raffinamento di voluttà, e spandono tutte insieme una
fragranza acuta e sensuale, che fa veder come in sogno dei grandi occhi languidi e delle manine
carezzevoli, e sentire un suono sommesso di respiri e di baci.
Tutte queste fantasie svaniscono entrando nel bazar dei gioiellieri, che è una stradetta oscura e
deserta, fiancheggiata da botteguccie d’aspetto meschino, in cui nessuno direbbe mai che sian
nascosti, come ci sono, dei tesori favolosi. Le gioie sono chiuse in cofani di legno di quercia,
cerchiati e corazzati di ferro, e posti sul davanti delle botteghe, sotto gli occhi dei mercanti: vecchi
turchi o vecchi ebrei, dalle lunghe barbe e dallo sguardo acuto, che par che penetri nelle tasche e
trapassi i portamonete. Qualcuno sta ritto dinanzi alla sua tana, e quando gli passate accanto, prima
vi ficca gli occhi negli occhi, poi con un rapido movimento vi mette sotto il viso un diamante di
Golconda o uno zaffiro d’Ormus o un rubino di Giamscid, che al menomo vostro cenno negativo,
ritira colla medesima rapidità con cui l’ha porto. Altri girano a passi lenti, vi fermano in mezzo alla
strada e, dopo aver rivolto intorno uno sguardo sospettoso, tirano fuor del seno un cencio sucido, e
lo spiegano, e vi fanno vedere un bel topazio del Brasile o una bella turchina di Macedonia,
guardandovi coll’occhio di demoni tentatori. Altri non fanno che darvi un’occhiata scrutatrice, e
non giudicandovi una faccia da pietre preziose, non si degnano di offrirvi nulla. Nessuno poi fa
l’atto d’aprire il cofanetto, se anche aveste la faccia d’un santo o l’aria d’un Creso. Le collane
d’opale, i fiori e le stelle di smeraldo, le mezzelune e i diademi contornati di perle d’Ofir, i
mucchietti abbarbaglianti di acque-di-mare, di crisoberilli, d’avventurine, di agate, di granate, di
lapislazzuli, rimangono inesorabilmente nascosti agli occhi dei curiosi senza quattrini, e
specialmente a quelli d’uno scrittore italiano. Tutt’al più egli può arrischiarsi a domandare il prezzo
di qualche tespí, o coroncina d’ambra, di sandalo o di corallo, da far scorrere tra le dita, come i
turchi, per ingannare il tempo negli intervalli dei suoi lavori forzati.
Per divertirsi bisogna entrare nelle botteghe dei franchi, mercanti di stoffe, dove c’è merce per
tutte le borse. Appena entrati, si ha intorno un cerchio di gente che non si capisce di dove sia
sbucata. Non è mai possibile l’aver che fare con un solo. Tra il mercante, i soci del mercante, i
sensali, i manutengoli e i tirapiedi, son sempre una mezza dozzina. Se non v’accoppa uno,
v’impicca l’altro: non c’è modo di scansare una brutta fine. E non si può dire con che arte, con che
pazienza, con che ostinazione, con che diabolici raggiri fanno comprare quello che vogliono.
Domandano d’ogni cosa un subisso: offrite il terzo: lasciano cader le braccia in segno di profondo
scoraggiamento, o si battono la fronte in atto disperato, e non rispondono; oppure si espandono in
un torrente di parole appassionate per toccarvi il cuore. Siete un uomo crudele, volete costringerli a
chiuder bottega, volete ridurli alla miseria, non avete compassione dei loro figliuoli, non capiscono
che cosa possano avervi fatto di male per trattarli in quella maniera. Mentre vi dicono il prezzo d’un
oggetto, un sensale d’una bottega vicina vi susurra nell’orecchio: – Non comprate, vi truffano. – Voi
credete che sia sincero, e invece è d’accordo col mercante; vi dice che vi truffano collo scialle, per
guadagnare la vostra fiducia, e farvi rompere il collo un minuto dopo, consigliandovi di comprare il
tappeto. Mentre esaminate la stoffa, essi si parlano a gesti, a occhiate, a colpi di gomito, a mezze
parole. Se sapete il greco, parlano turco; se sapete il turco, parlano armeno; se sapete l’armeno,
parlano spagnuolo; ma in qualche modo s’intendono e ve l’accoccano. Se poi tenete duro,
v’insaponano; vi dicono che parlate bene la loro lingua, che avete un fare da gentiluomo e che non
dimenticheranno mai più la vostra bella figura; vi discorrono del vostro paese, nel quale sono stati
molto tempo, perchè sono stati da per tutto; vi fanno il caffè, vi offrono d’accompagnarvi alla
dogana quando partirete, per impedire che vi facciano dei soprusi, ossia per truffar voi, la dogana e i
vostri compagni di viaggio, se ne avete; mettono sottosopra tutta la bottega, e non vi fanno punto il
viso arcigno se ve n’andate senza comprare: se non è quel giorno, sarà un altro; al bazar ci dovete
tornare, i loro cani da caccia vi riconosceranno; se non cadrete nelle loro mani, cadrete in quelle
d’un loro socio; se non vi peleranno come mercanti, vi scorticheranno come sensali; se non vi
aggiusteranno in bottega, vi serviranno la messa alla dogana; il colpo non può fallire. A che popolo
appartengono costoro? Non si capisce. A furia di parlar lingue diverse, han perduto il loro accento
primitivo; a forza di far la commedia, hanno alterati i tratti fisionomici della loro razza; son di che
paese si vuole, fanno il mestiere che si desidera, sono interpreti, guide, mercanti, usurai; e sopra
ogni cosa, artisti insuperabili nell’arte di scroccare l’universo.
I mercanti musulmani offrono un campo d’osservazioni affatto diverso. Fra loro si ritrovano
ancora quei vecchi turchi, ormai rari per le vie di Costantinopoli, che sono come la personificazione
del tempo dei Maometti e dei Bajazet, i resti viventi del vecchio edifizio ottomano, ch’ebbe il primo
crollo dalle riforme di Mahmut, e che di giorno in giorno, pietra per pietra, rovina e si trasforma.
Bisogna venire nel gran bazar e ficcare lo sguardo in fondo alle botteguccie più oscure delle
stradette più appartate, per ritrovare i vecchi turbanti enormi dei tempi di Solimano, dalla forma di
cupole di moschee; le faccie impassibili, gli occhi di vetro, i nasi adunchi, le lunghe barbe bianche,
gli antichi caffettani aranciati e purpurei, i grandi calzoni a mille pieghe stretti intorno alla vita dalle
sciarpe smisurate, gli atteggiamenti alteri e tristi dell’antico popolo dominatore, i visi istupiditi
dall’oppio o illuminati dal sentimento d’una fede ardente. Essi son in fondo alle loro nicchie,
colle braccia e colle gambe incrociate, immobili e gravi come idoli, e aspettano, senz’aprir bocca, i
compratori predestinati. Se le cose vanno bene, mormorano: Mach Allà! Sia lodato Iddio! –; se
vanno male: Olsun! Così sia –, e chinano la testa rassegnati. Alcuni leggono il Corano, altri
fanno scorrere fra le dita le pallettine del tespì, mormorando sbadatamente i cento epiteti d’Allà;
altri che han fatto buoni affari, bevono il loro narghilè, per dirla coll’espressione turca, girando
intorno lentamente uno sguardo voluttuoso e pieno di sonno; altri stanno curvi, cogli occhi socchiusi
e colla fronte corrugata come occupati da un profondo pensiero. A che cosa pensano? Forse ai loro
figliuoli morti sotto le mura di Sebastopoli o alle loro carovane disperse o alle loro voluttà perdute o
ai giardini eterni, promessi dal Profeta, dove all’ombra delle palme e dei granati, sposeranno le
vergini dagli occhi neri, che uomo genio non ha mai profanate. Tutti hanno qualchecosa di
bizzarro, tutti sono pittoreschi; ogni bottega è la cornice d’un quadro pieno di colori e di pensiero,
che fa balenare alla mente la storia intera d’una vita avventurosa e fantastica. Quest’uomo secco e
abbronzato, dai lineamenti arditi, è un arabo che ha guidato egli stesso dal fondo della sua patria
lontana i suoi cammelli carichi di gemme e d’alabastro, e s’è sentito più volte fischiare agli orecchi
le palle dei ladroni del deserto. Quest’altro dal turbante giallo e dall’aspetto signorile, ha
attraversato a cavallo le solitudini della Siria, portando le sete di Tiro e di Sidone. Questo nero col
capo ravvolto in un vecchio scialle di Persia, colla fronte rigata di cicatrici che gli fecero i
negromanti per salvarlo dalla morte, che tiene il viso alto, come se guardasse ancora le teste dei
colossi di Tebe e le cime delle Piramidi, è venuto dalla Nubia. Questo bel moro dalla faccia pallida
e dagli occhi neri, ravvolto in una cappa bianchissima, ha portato i suoi caic e i suoi tappeti dalle
ultime falde occidentali della catena dell’Atlante. Questo turco dal turbante verde e dal volto
estenuato ha fatto quest’anno stesso il grande pellegrinaggio, ha visto parenti ed amici morir di sete
in mezzo alle pianure interminabili dell’Asia Minore, è arrivato alla Mecca in fin di vita, ha fatto
sette volte strascinandosi il giro della Kaaba, ed è caduto in deliquio coprendo di baci furiosi la
Pietra nera. Questo colosso dal viso bianco, dalle sopracciglia arcate, dagli occhi fulminei, che par
più un guerriero che un mercante, e spira da tutta la persona l’ambizione e l’orgoglio, ha portato le
sue pelliccie dalle regioni settentrionali del Caucaso, dove, nei suoi begli anni, fece cader la testa
dalle spalle a più d’un Cosacco. E questo povero mercante di lane, dal viso schiacciato e dagli occhi
piccoli e obliqui, tarchiato e rude come un atleta, non è gran tempo che disse le sue preghiere
all’ombra dell’immensa cupola che protegge il sepolcro di Timur: egli è partito da Samarkanda, ha
valicato i deserti della grande Bukaria, è passato in mezzo alle orde dei turcomanni, ha attraversato
il Mar Morto, è sfuggito alle palle dei Circassi, ha ringraziato Allà nelle moschee di Trebisonda, ed
è venuto a cercar fortuna a Stambul, di dove ritornerà, vecchio, in fondo alla sua Tartaria, che gli sta
sempre nel cuore.
Uno dei bazar più splendidi è il bazar delle calzature, ed è forse anche quello che mette più
grilli nel capo. Sono due file di botteghe smaglianti che danno alla strada l’aspetto d’una sala di
reggia, o d’uno di quei giardini delle leggende arabe in cui gli alberi hanno le foglie d’oro e fiori di
perle. C’è da calzare tutti i piedini di tutte le corti dell’Asia e dell’Europa. Le pareti son coperte di
pantofole di velluto, di pelle, di broccato, di raso, dei colori più petulanti e delle forme più
capricciose, ornate di filigrana, contornate di lustrini, abbellite di nappine di seta e di piuma di
cigno, stelleggiate e infiorate d’argento e d’oro, coperte d’arabeschi intricati che non lasciano più
vedere il tessuto, e lampeggianti di zaffiri e di smeraldi. Ce n’è per le spose dei barcaiuoli e per le
belle del Sultano, da cinque e da mille lire il paio; ci sono le scarpette di marocchino che
premeranno i ciottoli di Pera, le babbuccie che striscieranno sui tappeti degli arem, gli zoccoletti che
faranno risonare i marmi dei bagni imperiali, le pianelline di raso bianco su cui s’inchioderanno le
labbra ardenti dei Pascià, e forse qualche paio di pantofole imperlate che aspetteranno ogni mattina
lo svegliarsi d’una bella Georgiana accanto al letto del Gran Signore. Ma che piedi possono entrare
in quelle babbuccie? Ve ne sono che paion tagliate ai piedi delle urì e delle fate; lunghe come una
foglia di giglio, larghe come una foglia di rosa, d’una piccolezza da far disperare tutta l’Andalusia,
d’una grazia da farsi sognare; non babbuccie, ma gioielli da tenersi sul tavolino; scatolini da
metterci dei dolci o dei bigliettini amorosi; da non poter immaginare che ci sia un piedino che
v’entri, senza desiderare di rivoltarselo un mese fra le mani affollandolo di domande e di vezzi.
Questo bazar è uno dei più frequentati dagli stranieri. Vi si vedono spesso dei giovani europei, che
hanno in un pezzetto di carta la misura d’un piedino italiano o francese, di cui forse sono alteri, e
che fanno un atto di stupore o di dispetto, riconoscendo che passa di molto la lunghezza d’una certa
babbuccina su cui han posto gli occhi; ed altri che, domandato il prezzo, e sentita una schiopettata,
scappano senza ribatter parola. Qui pure spesseggiano le signore mussulmane, le hanum dai grandi
veli bianchi, e occorre sovente di cogliere passando qualche frammento dei loro lunghi dialoghi coi
venditori, qualche parola armoniosa della loro bella lingua, pronunziata da una voce chiara e dolce
che accarezza l’orecchio come il suono d’una mandòla. Buni catscia verersin? Quanto vale
questo? Pahalli dir. È troppo caro. Ziadè veremèm. Non paghe di più. E poi una risata
fanciullesca e sonora, che mette voglia di pigliarle un pizzico di guancia e darle una presa di
monella.
Il bazar più ricco e più pittoresco è quello delle armi. Non è un bazar, è un museo, riboccante di
tesori, pieno di memorie e d’immagini che trasportano il pensiero nelle regioni della storia e della
leggenda, e destano un sentimento indescrivibile di meraviglia e di sgomento. Tutte le armi più
strane, più spaventose e più feroci che sono state brandite dalla Mecca al Danubio in difesa
dell’Islam, sono schierate e forbite, come se ce l’avessero appese poco prima le mani dei soldati
fanatici di Maometto e di Selim; e par di veder scintillare fra le loro lame gli occhi iniettati di
sangue di quei sultani formidabili, di quei giannizzeri forsennati, di quegli spahì, di quegli azab, di
quei silidar senza pietà e senza paura che seminarono l’Asia Minore e l’Europa di teste recise e di
corpi dilaniati. Là si ritrovano le scimitarre famose che tagliavano le penne in aria e spiccavan le
orecchie agli ambasciatori insolenti; i cangiari pesanti che d’un colpo fendevano il cranio e
scoprivano il cuore; le mazze d’armi che stritolavano i caschi serbi e ungheresi; gli yatagan dal
manico intarsiato d’avorio e tempestato d’amatiste e di rubini, che serbano ancora segnato a intagli
nella lama il numero delle teste troncate; i pugnali dai foderi d’argento, di velluto e di raso, coi
manichi di agata e d’avorio, ornati di granate, di corallo e di turchine, istoriati di versetti del Corano
in lettere d’oro, colle lame incurvate e ritorte che par che cerchino un cuore. Chi sa che in questa
armeria confusa e terribile non ci sia la scimitarra d’Orcano, o la sciabola di legno con cui il braccio
poderoso d’Abd-el-Murad, il dervis guerriero, spiccava d’un colpo le teste; o il famoso jatagan col
quale il Sultano Musa spaccò Hassan dalla spalla al cuore; o la sciabola enorme del gigantesco
bulgaro che appoggiò la prima scala alle mura di Costantinopoli; o la mazza con cui Maometto II
freddò il soldato rapace sotto le vôlte di Santa Sofia; o la gran sciabola damascata di Scanderberg
che fendette in due Firuz-Pascià sotto le mura di Stetigrad? I più formidabili fendenti e le più
orrende morti della storia ottomana s’affacciano alla mente, e par che proprio su quelle lame debba
esser rappreso quel sangue, e che i vecchi turchi rintanati in quelle botteghe, abbiano raccolto armi e
cadaveri sul terreno della strage, e custodiscano ancora gli scheletri sfracellati in qualche angolo
oscuro. In mezzo alle armi si vedono pure le grandi selle di velluto scarlatto e celeste, ricamate a
stelle e a mezzelune d’oro e di perle, i frontali impennacchiati, i morsi d’argento niellato e le
gualdrappe splendide come manti reali: bardature da cavalli delle Mille e una notte, fatte per
l’entrata trionfale d’un re dei genii in una città dorata del mondo dei sogni. Al di sopra di questi
tesori, sono sospesi alle pareti vecchi moschetti a ruota e a miccia, grosse pistole albanesi,
lunghissimi fucili arabi lavorati come gioielli, scudi antichi di scorza di tartaruga e di pelle
d’ippopotamo, maglie circasse, scudi cosacchi, celate mongoliche, archi turcassi, coltellacci da
carnefici, lamaccie di forme sinistre, ognuna delle quali pare la rivelazione d’un delitto, e fa pensare
agli spasimi di un’agonia. In mezzo a quest’apparato minaccioso e magnifico, siedono a gambe
incrociate i mercanti più schiettamente turchi del Grande Bazar, la più parte vecchi, d’aspetto tetro,
smunti come anacoreti e superbi come Sultani, figure d’altri secoli, vestiti alla foggia delle prime
egire, che sembrano risuscitati dal sepolcro per richiamare i nipoti imbastarditi alla austerità
dell’antica razza.
Un altro bazar da vedersi è quello degli abiti vecchi. Qui il Rembrant ci avrebbe preso
domicilio e il Goya speso la sua ultima peceta. Chi non ha mai visto una bottega di rigattiere
orientale non può immaginare che stravaganza di stracci, che pompa di colori, che ironia di
contrasti, che spettacolo ad un tempo carnevalesco, lugubre e schifoso, presenti questo bazar, questa
cloaca di cenci, in cui tutti i rifiuti degli arem, delle caserme, della corte, dei teatri, vengono ad
aspettare che il capriccio d’un pittore o il bisogno d’un pezzente li riporti alla luce del sole. Da
lunghe pertiche confitte nei muri, pendono vecchie uniformi turche, giubbe a coda di rondine,
dolman di gran signori, tuniche di dervis, cappe di beduini, tutte untume, brindelli e buchi, che
paiono state crivellate a colpi di pugnale e rammentano le spoglie sinistre degli assassinati che si
vedono sulle tavole delle Corte d’Assisie. In mezzo a questi cenci luccica ancora qua e qualche
rabesco d’oro; spenzolano vecchie cinture di seta, turbanti sciolti, ricchi scialli lacerati, bustini di
velluto a cui pare che la mano furiosa d’un ladro abbia strappato insieme il pelo e le perle,
calzoncini e veli che sono forse appartenuti a qualche bella infedele, la quale dorme cucita in un
sacco in fondo alle acque del Bosforo, ed altre vesti ed ornamenti di donna, di mille colori gentili,
imprigionati fra i grossi caffettani circassi, dai cartuccieri irruginiti, fra le lunghe toghe nere degli
ebrei, fra le rozze casacche e i pesanti mantelli, che hanno nascosto chi sa quante volte il fucile del
bandito o lo stile del sicario. Verso sera, alla luce misteriosa che scende dai fori della volta, tutti
quei vestiti appesi prendono una vaga apparenza di corpi d’impiccati; e quando in fondo a una
bottega si vedono scintillare gli occhi astuti d’un vecchio ebreo, che si gratta la fronte con una mano
adunca, si direbbe che è quella la mano che ha stretto i lacci, e si uno sguardo alla porta del
bazar, per paura che sia chiusa.
Non basterebbe una giornata di giri e di rigiri se si volessero veder tutte le stradette di questa
strana città. V’è il bazar dei fez, dove si trovano fez di tutti i paesi, da quelli del Marocco a quelli di
Vienna, ornati d’iscrizioni del Corano che preservano dagli spiriti maligni; i fez che le belle greche
di Smirne portano sulla sommità della testa, sopra il nodo delle treccie nere scintillanti di monete; le
berrettine rosse delle turche; fez da soldati, da generali, di sultani, da zerbinotti, di tutte le sfumature
di rosso e di tutte le forme, da quelli primitivi dei tempi d’Orcano fino al gran fez elegante del
Sultano Mahmut, emblema delle riforme e abbominazione dei vecchi mussulmani. V’è il bazar delle
pelliccie dove si trova la sacra pelle di volpe nera, che una volta poteva portare il solo Sultano o il
gran vizir; la martora con cui si foderavano i caffettani di gala; l’orso bianco, l’orso nero, la volpe
azzurra, l’astrakan, l’ermellino, lo zibellino, in cui altre volte i sultani profusero tesori favolosi. È
pure da vedersi il bazar dei coltellinai, non fosse che per pigliare in mano una di quelle enormi
forbici turche, colle lame bronzate e dorate, adorne di disegni fantastici d’uccelli e di fiori, che
s’incrociano ferocemente lasciando in mezzo un vano in cui potrebbe entrare la testa d’un critico
maligno. V’è ancora il bazar dei filatori d’oro, quello dei ricamatori, quello dei chincaglieri, quello
dei sarti, quello dei vasellami, tutti diversi l’un dall’altro di forma e di gradazione di luce; ma tutti
eguali in questo: che non vi si vede nè vendere, nè lavorare una donna. Tutt’al più può accadere che
qualche greca seduta per un momento davanti a una sartoria vi offra timidamente un fazzoletto
finito allora di ricamare. La gelosia orientale interdice la bottega al bel sesso come una scuola di
civetteria e un nascondiglio d’intrighi.
Ma ci sono ancora altre parti del gran bazar in cui uno straniero non può avventurarsi se non lo
accompagna un mercante o un sensale; e sono le parti interne dei piccoli quartieri in cui è divisa
questa città singolare, il di dentro dei piccoli isolati intorno a cui girano le stradette percorse dalla
folla. Se nelle stradette c’è pericolo di smarrirsi, là dentro è impossibile non perdersi. Da corridoi
poco più larghi d’un uomo, in cui bisogna chinarsi per non urtar nella volta, si riesce in cortiletti
grandi come celle, ingombri di casse e di balle, e appena rischiarati da un barlume; si scende a
tentoni per scalette di legno, si ripassa per altri cortili rischiarati da lanterne, si ridiscende sotto
terra, si risale alla luce del giorno, si cammina a capo basso per lunghi anditi serpeggianti, sotto
volte umide, in mezzo a muri neri e ad assiti muscosi, che conducono a porticine segrete, dalle quali
si ritorna inaspettatamente nel luogo di dove s’è partiti; e da per tutto ombre che vanno e che
vengono, spettri immobili negli angoli, gente che rimesta mercanzie o che conta denari; lumicini
che appaiono e dispaiono, voci e passi frettolosi che risuonano non si sa dove; e incontri inaspettati
di ostacoli neri che non si capisce che cosa siano, e giuochi di luce non mai veduti, e contatti
sospetti, e odori strani, che par di girare per i meandri d’una caverna di fattucchieri, e non si vede
l’ora d’esserne fuori.
Per solito i sensali fanno passare in questi luoghi gli stranieri per condurli a quelle botteghe, per
lo più appartate, nelle quali si vende un po’ di tutto: specie di Gran-bazar in miniatura, botteghe da
rigattieri signorili, curiosissime a vedersi, ma molto pericolose, perchè contengono tante e così
strane e così rare cose da far vuotare la borsa anche all’avarizia incarnata. Questi mercanti d’un po’
d’ogni cosa, furbacchioni matricolati, si sottintende, e poliglotti come i loro fratelli di banda, usano
nel tentare la gente un certo procedimento drammatico che diverte assai, e che di rado fallisce allo
scopo dell’attore. Le loro botteghe son quasi tutte stanzuccie oscure piene di casse e d’armadi, dove
bisogna accendere il lume e c’è appena posto da rigirarsi. Dopo avervi fatto vedere qualche vecchio
stipetto intarsiato d’avorio e di madreperla, qualche porcellana chinese, qualche vaso del Giappone,
il mercante vi dice che ha qualche cosa di speciale per voi, tira fuori un cassetto e vi rovescia sulla
tavola un mucchio di ninnoli: un ventaglio di penne di pavone, per esempio, un braccialetto di
vecchie monete turche, un cuscinetto di pelo di cammello colla cifra del Sultano ricamata in oro,
uno specchietto persiano dipinto d’una scena del libro di paradiso, una spatola di tartaruga con cui i
turchi mangiano la composta di ciliegie, un vecchio gran cordone dell’ordine dell’Osmaniè. Non c’è
nulla che vi piaccia? Rovescia un altro cassetto e questo è proprio un cassetto che aspettava voi
solo. È una zanna rotta d’elefante, un braccialetto di Trebisonda che pare una treccia di capelli
d’argento, un idoletto giapponese, un pettine di sandalo della Mecca, un gran cucchiaio turco
lavorato a rabeschi e a trafori, un antico narghilè d’argento dorato e istoriato, delle pietruzze dei
musaici di Santa Sofia, una penna d’airone che ha ornato il turbante di Selim III, il mercante ve lo
assicura da uomo d’onore. Non trovate nulla di vostro genio? E lui rovescia un altro cassetto, da cui
casca un ovo di struzzo del Sennahar, un calamaio persiano, un anello damaschinato, un arco di
Mingrelia col suo turcasso di pelle d’alce, un caschetto circasso a due punte, un tespì di diaspro, una
profumiera d’oro smaltato, un talismano turco, un coltello da cammelliere, una boccettina d’atar-
gull. Non c’è nulla che vi tenti, per Dio? Non avete regali da fare? Non pensate ai vostri parenti?
Non avete cuore per i vostri amici? Ma forse voi avete la passione delle stoffe e dei tappeti, e anche
in questo egli può servirvi da amico. Ecco un mantello rigato del Kurdistan, milord; ecco una
pelle di leone, ecco un tappeto d’Aleppo coi chiodini d’acciaio, ecco un tappeto di Casa-blanca
spesso tre dita che dura per quattro generazioni, guarentito; ecco, eccellenza, i vecchi cuscini, le
vecchie cinture di broccato e i vecchi copripiedi di seta, un po’ sbiaditi e un po’ tarlati, ma ricamati
come ora non si ricamano più, nemmeno a pagarli un tesoro. A lei, caballero, ch’è venuto qui
condotto da un amico, a lei dò questa vecchia cintura per cinque napoleoni, e mi rassegno a mangiar
pane e aglio per una settimana. – Se nemmeno da questo vi lasciate tentare, vi dirà nell’orecchio che
può vendervi la corda con cui i terribili muti del Serraglio hanno strangolato Nassuh Pascià, il gran
vizir di Maometto III; e se voi gli ridete sul viso dicendogli che non la bevete, la lascia cascare da
uomo di spirito, e fa l’ultimo tentativo buttandovi davanti una coda da cavallo di quelle che si
portavano davanti e dietro ai pascià; una marmitta di Giannizzero portata via da suo padre, ancora
spruzzata di sangue, il giorno stesso della strage famosa; un pezzo di bandiera di Crimea, colla
mezzaluna e le stelline d’argento; un vaso da lavarsi le mani, tempestato di agate; un bracierino di
rame cesellato; un collare di dromedario colle conchiglie e le campanelle, un frustino da eunuco di
cuoio d’ippopotamo, un corano legato in oro, una sciarpa del Korassan, un paio di babbuccie da
Cadina, un candelliere fatto con un artiglio d’aquila, tanto che infine la fantasia s’accende, i capricci
saltellano, e vi assale una matta voglia di buttar portamonete, orologio, pastrano, e gridare:
Caricatemi! –; e bisogna proprio esser figliuoli assestati o padri di giudizio per resistere alla
tentazione. Quanti artisti sono usciti di scannati come Giobbe e quanti ricconi ci hanno bucato il
patrimonio!
Ma prima che il gran bazar si chiuda bisogna ancora fare un giro per vedere il suo aspetto
dell’ultima ora. Il movimento della folla si fa più affrettato, i mercanti chiamano con gesti più
imperiosi, greci ed armeni corrono gridando per le strade con uno scialle o un tappeto sul braccio, si
formano dei gruppi, si contratta alla spiccia, i gruppi si sciolgono e si rifanno più lontano; i cavalli,
le carrozze, le bestie da soma passano in lunghe file diretti verso l’uscita. In quell’ora tutti i bottegai
con cui avete litigato senza cadere d’accordo, vi vaneggiano intorno, in quella mezza oscurità, come
pipistrelli; li vedete far capolino dietro le colonne, li incontrate alle svolte, vi attraversano la strada e
vi passano sui piedi guardando in aria, per rammentarvi colla loro presenza quel tal tessuto, quel
certo gingillo, e farvene rinascere il desiderio. Alle volte ne avete un drappello alle spalle: se vi
fermate, si fermano, se scantonate, scantonano, se vi voltate indietro incontrate dieci occhioni
dilatati e fissi che vi mangian vivo. Ma già la luce manca, la folla si dirada. Sotto le lunghe volte
arcate risuona la voce di qualche mezzuin invisibile che annunzia il tramonto da un minareto di
legno; qualche turco stende il tappeto dinanzi alla bottega e mormora la preghiera della sera; altri
fanno le abluzioni alle fontane. Già i vecchi centenarii del bazar delle armi hanno chiuso le grandi
porte di ferro; i piccoli bazar sono deserti, i corridoi si perdono nelle tenebre, le imboccature delle
strade paiono aperture di caverne, i cammelli vi giungono addosso all’impensata, la voce dei
venditori d’acqua muore sotto le arcate lontane, le turche affrettano il passo, gli eunuchi aguzzano
gli occhi, gli stranieri scappano, le imposte si chiudono, la giornata è finita.
*
* *
Ed ora io mi sento domandare da ogni parte: E Santa Sofia? E l’antico Serraglio? E i palazzi
del Sultano? E il castello delle Sette torri? E Abdul-Aziz? E il Bosforo? Descriverò tutto e con tutta
l’anima; ma prima ho ancora bisogno di spaziare un po’ liberamente per Costantinopoli, cambiando
d’argomento a ogni pagina, come là cangiavo di pensieri a ogni passo.
*
* *
[La luce]
E prima d’ogni cosa, la luce! Uno dei miei piaceri più vivi, a Costantinopoli, era di veder levare
e tramontare il sole, stando sul ponte della Sultana Validè. All’alba, in autunno, il Corno d’oro è
quasi sempre coperto da una nebbia leggiera, dietro alla quale si vede la città confusamente, come a
traverso que’ veli bianchi che si calano sul palco scenico per nascondere gli apparecchi d’una scena
spettacolosa. Scutari è tutta coperta: non si vedono che i contorni scuri ed incerti delle sue colline. Il
ponte e le rive sono deserte, Costantinopoli dorme: la solitudine e il silenzio rendono lo spettacolo
più solenne. Il cielo comincia a dorarsi dietro le colline di Scutari. Su quella striscia luminosa si
disegnano ad una ad una, precise e nerissime, le punte dei cipressi del vastissimo cimitero, come un
esercito di giganti schierati sopra le alture; e da un capo all’altro del Corno d’oro corre un lucicchio
leggerissimo che è come il primo fremito della grande città che risente la vita. Poi dietro ai cipressi
della riva asiatica, spunta un occhio di foco, e subito le sommità bianche dei quattro minareti di
Santa Sofia si colorano di rosa. In pochi momenti, di collina in collina, di moschea in moschea, fino
in fondo al Corno d’oro, tutti i minareti, l’un dopo l’altro, arrossiscono, tutte le cupole, una dopo
l’altra, s’inargentano, il rossore discende di terrazzo in terrazzo, il lucicchio s’allarga, il gran velo
cade, e tutta Stambul appare, rosata e risplendente sulle alture, azzurrina e violacea lungo le rive,
tersa e fresca, che pare uscita dalle acque. A misura che il sole s’alza, la delicatezza delle prime tinte
svanisce in un immenso chiarore, e tutto rimane come velato dalla bianchezza della luce fin verso
sera. Allora lo spettacolo divino ricomincia. L’aria è limpida tanto che da Galata si vedono
nettamente uno per uno gli alberi lontanissimi dell’ultima punta di Kadi-Kioi. Tutto l’immenso
profilo di Stambul si stacca dal cielo con una nitidezza di linee e un vigore di colori, che si
potrebbero contare, punta per punta, tutti i minareti, tutte le guglie, tutti i cipressi che coronano le
alture dal capo del Serraglio al cimitero d’Eyub. Il Corno d’oro e il Bosforo pigliano un
meraviglioso colore oltramarino: il cielo, color d’amatista a oriente, s’infuoca dietro Stambul,
tingendo l’orizzonte d’infiniti lumeggiamenti di rosa e di carbonchio che fanno pensare al primo
giorno della creazione; Stambul s’oscura, Galata s’indora, e Scutari, percossa dal sole cadente, tutta
scintillante di vetri, pare una città in preda alle fiamme. È questo il più bel momento per
contemplare Costantinopoli. È una rapida successione di tinte soavissime, d’oro pallido, di rosa e di
lilla, che tremolano e fuggono su per i fianchi dei colli e sulle acque, dando e togliendo ora all’una
ora all’altra parte della città il primato della bellezza e rivelando mille piccole grazie pudiche di
paesaggio che non osavano mostrarsi alla gran luce. Si vedono dei grandi sobborghi malinconici,
perduti nell’ombra delle valli; delle piccole città purpuree, che ridono sulle alture; villaggi e città
che languono, come se mancasse loro la vita; altre che muoiono tutt’a un tratto come incendi
soffocati; altre che, credute già morte, risuscitano improvvisamente, tutte in foco, e tripudiano
ancora per qualche momento sotto l’ultimo raggio del sole. Poi non rimangono più che due cime
risplendenti sulla riva dell’Asia: la sommità del monte Bulgurlù e la punta del capo che guarda
l’entrata della Propontide; son prima due corone d’oro, poi due berrettine di porpora, poi due rubini;
poi tutta Costantinopoli è nell’ombra, e dieci mila voci annunziano il tramonto dall’alto di dieci
mila minareti.
*
* *
[Gli uccelli]
Costantinopoli ha una gaiezza e una grazia sua propria, che le viene da un’infinità d’uccelli
d’ogni specie, per i quali i Turchi nutrono un vivo sentimento di simpatia e di rispetto. Moschee,
boschi, vecchie mura, giardini, palazzi, tutto canta, tutto gruga, tutto chiocchiola, tutto pigola; per
tutto si sente frullo d’ali, per tutto c’è vita e armonia. I passeri entrano arditamente nelle case e
beccano nella mano dei bimbi e delle donne; le rondini fanno il nido sulle porte dei caffè e sotto le
vôlte dei bazar; i piccioni, a sciami innumerevoli, mantenuti con làsciti di Sultani e di privati,
formano delle ghirlande bianche e nere lungo i cornicioni delle cupole e intorno ai terrazzi dei
minareti; i gabbiani volteggiano festosamente intorno ai caicchi, migliaia di tortorelle amoreggiano
fra cipressi dei cimiteri; intorno al castello delle Sette torri crocitano i corvi e rotano gli avvoltoi; gli
alcioni vanno e vengono in lunghe file fra il mar Nero e il mar di Marmara; e le cicogne gloterano
sulle cupolette dei mausolei solitari. Per il Turco ognuno di questi uccelli ha un senso gentile o una
virtù benigna: le tortore proteggono gli amori, le rondini scongiurano gl’incendi dalle case dove
appendono il nido, le cicogne fanno ogni inverno un pellegrinaggio alla Mecca, gli alcioni portano
in paradiso le anime dei fedeli. Così egli li protegge e li alimenta per gratitudine e per religione, ed
essi gli fanno festa intorno alla casa, sul mare e tra i sepolcri. In ogni parte di Stambul si è sorvolati,
circuiti, rasentati dai loro stormi sonori, che spandono per la città l’allegrezza della campagna e
rinfrescano continuamente nell’anima il sentimento della natura.
*
* *
[Le memorie]
In nessun’altra città d’Europa i luoghi e i monumenti leggendarii o storici muovono così
vivamente la fantasia come a Stambul, poichè in nessun’altra città essi ricordano avvenimenti così
recenti ad un tempo e così fantastici. Altrove, per ritrovar la poesia delle memorie, bisogna tornar
indietro col pensiero di parecchi secoli; a Stambul, basta retrocedere di pochi anni. La leggenda, o
ciò che ha natura ed efficacia di leggenda, è di ieri. Sono pochi anni che nella piazza dell’At-meidan
fu consumata l’ecatombe favolosa dei Giannizzeri; pochi anni che il mar di Marmara rigettò sulla
riva dei giardini imperiali i venti sacchi che racchiudevano le belle di Mustafà; che nel castello delle
Sette torri fu scannata la famiglia di Brancovano; che due capigì-basci trattenevano per le braccia gli
ambasciatori europei al cospetto del Gran Signore, del quale non appariva che mezzo il viso,
rischiarato da una luce misteriosa; e che fra le mura dell’antico serraglio cessò quella vita così
stranamente intrecciata d’amori, d’orrori e di follie, che ci pare già tanto lontana. Girando per
Stambul con questi pensieri, si prova quasi un sentimento di stupore al veder la città così quieta,
così ridente di vegetazione e di colori. Ah perfida! si direbbe, che cos’hai fatto di que’ monti di
teste e di quei laghi di sangue? Possibile che tutto sia già così ben nascosto, spazzato, lavato, che
non se ne ritrovi più traccia? Sul Bosforo, in faccia alla torre di Leandro che sorge dalle acque come
un monumento d’amore, sotto le mura dei giardini del Serraglio, si vede ancora il piano inclinato
per cui si facevano rotolare nel mare le odalische infedeli; in mezzo all’At-meidan la colonna
serpentina porta ancora la traccia della sciabolata famosa di Maometto il Conquistatore; sul ponte di
Mahmut si segna ancora il luogo dove il sultano focoso freddò con un fendente il dervis temerario
che gli scagliò in volto l’anatema; nella cisterna dell’antica chiesa di Balukli, guizzano ancora i
pesci miracolosi che vaticinarono la caduta della città dei Paleologhi; sotto gli alberi delle Acque
dolci d’Asia si accennano ancora i recessi dove una Sultana dissoluta imponeva ai favoriti d’un
istante un amore che finiva colla morte. Ogni porta, ogni torre, ogni moschea, ogni piazza,
rammenta un prodigio, una strage, un amore, un mistero, una prodezza di Padiscià o un capriccio di
Sultana; tutto ha la sua leggenda, e quasi per tutto gli oggetti vicini, le vedute lontane, l’odore
dell’aria e il silenzio, concorrono a portar l’immaginazione dello straniero, che s’immerge in quei
ricordi, fuori del suo secolo e della città dell’oggi e di stesso; tanto che accade sovente, a
Stambul, di riscotersi improvvisamente alla strana idea di dover tornare all’albergo. Come? si
pensa, – c’è un albergo?
*
* *
[Le rassomiglianze]
Nei primi giorni, fresco com’ero di letture orientali, vedevo da ogni parte i personaggi famosi
delle storie e delle leggende, e le figure che me li rammentavano, somigliavano qualche volta così
fedelmente a quelle che m’ero foggiate coll’immaginazione, ch’ero costretto a fermarmi per
contemplarle. Quante volte ho afferrato per un braccio il mio amico, e accennandogli una persona
che passava, gli dissi: Ma è lui, cospetto! non lo riconosci?Nella piazzetta della Sultana-Validè
ho visto molte volte il turco gigante che dalle mura di Nicea rovesciava i macigni sulle teste dei
soldati del Buglione; ho visto dinanzi a una moschea Umm Dgiemil, la vecchia megera della
Mecca, che spargeva i rovi e le ortiche dinanzi alla casa di Maometto; ho trovato nei bazar dei
librai, con un volume sotto il braccio, Digiemal-eddin, il gran dotto di Brussa, che sapeva a
memoria tutto il dizionario arabo; son passato accanto ad Aiscié, la sposa prediletta del Profeta, che
mi fissò in volto i suoi occhi lucenti e umidi come la stella nel pozzo; ho riconosciuto nell’At-
meidan la bellezza famosa della povera greca uccisa ai piedi della colonna serpentina da una palla
dei cannoni d’Orban; mi son trovato faccia a faccia, allo svolto d’una stradetta del Fanar, con Kara-
Abderrahman, il più bel giovane turco dei tempi d’Orkano; ho riconosciuto Coswa, la cammella di
Maometto; ho ritrovato Karabulut, il cavallo nero di Selim; ho visto il povero poeta Fighani
condannato a girare per Stambul legato a un asino, per aver ferito con un distico insolente il gran
vizir d’Ibrahim; ho trovato in un caffè Solimano il grosso, l’ammiraglio mostruoso, che quattro
schiavi robusti riuscivano appena a sollevar dal divano; Alì, il gran vizir, che non trovò in tutta
l’Arabia un cavallo che lo reggesse; Mahmut Pascià, l’ercole feroce che strozzò il figlio di
Solimano; e lo stupido Ahmet II che ripeteva continuamente: Kosc! Kosc! va bene, va bene
accovacciato dinanzi alla porta del bazar dei copisti, vicino alla piazza di Bajazet. Tutti i personaggi
delle Mille e una notte, gli Aladini, le Zobeidi, i Sindbad, le Gulnare, i vecchi mercanti ebrei
possessori di tappeti fatati e di lampade meravigliose, mi sfilarono dinanzi, come una processione di
fantasmi.
*
* *
[Il vestire]
Questo è veramente il periodo di tempo migliore per veder la popolazione musulmana di
Costantinopoli, perchè nel secolo scorso era troppo uniforme e sarà probabilmente troppo uniforme
nel secolo venturo. Ora si coglie quel popolo nell’atto della sua trasformazione, e perciò presenta
una varietà meravigliosa. Il progresso dei riformatori, la resistenza dei vecchi turchi, e le incertezze
e le transazioni della grande massa che ondeggia fra quei due estremi, tutte le fasi, insomma, della
lotta fra la nuova e la vecchia Turchia, sono fedelmente rappresentate dalla varietà dei vestimenti. Il
vecchio turco inflessibile porta ancora il turbante, il caffettano e le scarpe tradizionali di marocchino
giallo; e i più ostinati fra i vecchi un turbante più voluminoso. Il turco riformato porta un lungo
soprabito nero abbottonato fin sotto il mento e i calzoni scuri colle staffe, non conservando altro di
turco che il fez. Fra questi, però, i giovani più arditi hanno già buttato via il lungo soprabito nero,
portano panciotti aperti, calzoni chiari, cravattine eleganti, gingilli, mazza e fiori all’occhiello. Fra
quelli e questi, fra chi porta caffettano e chi porta soprabito, v’è un abisso; non v’è più altro di
comune che il nome; sono due popoli affatto diversi. Il turco del turbante crede ancora fermamente
al ponte Sirath, che passa sopra all’inferno, più sottile d’un capello e più affilato d’una scimitarra; fa
le sue abluzioni alle ore debite, e si rincasa al calar del sole. Il turco del soprabito si ride del Profeta,
si fa fotografare, parla francese e passa la sera al teatro. Fra l’uno e l’altro vi son poi i titubanti, dei
quali alcuni hanno ancora il turbante, ma piccolissimo, in modo che potranno inaugurare il fez senza
scandalo; altri portano ancora il caffettano, ma hanno g inaugurato il fez; altri vestono ancora
all’antica, ma non han più cintura babbuccie,colori vistosi; e a poco a poco butteranno via
tutto il resto. Le donne soltanto conservano tutte l’antico velo e il mantello che nasconde le forme;
ma il velo è diventato trasparente e lascia intravvedere un cappelletto piumato, e il mantello copre
spesso una veste tagliata sul figurino di Parigi. Ogni anno cadono migliaia di caffettani e sorgono
migliaia di soprabiti; ogni giorno muore un vecchio turco e nasce un turco riformato. Il giornale
succede al tespì, il sigaro al cibuk, il vino all’acqua concia, la carrozza all’arabà, la grammatica
francese alla grammatica araba, il pianoforte al timbur, la casa di pietra alla casa di legno. Tutto si
altera, tutto si trasforma. Forse tra meno d’un secolo bisognerà andar a cercare i resti della vecchia
Turchia in fondo alle più lontane provincie dell’Asia Minore, come si va a cercare quelli della
vecchia Spagna nei villaggi più remoti dell’Andalusia.
*
* *
[Costantinopoli futura]
Questo pensiero m’assaliva sovente, contemplando Costantinopoli dal ponte della Sultana-
Validè. Che cosa sarà questa città fra uno o due secoli, anche se i Turchi non siano cacciati
d’Europa? Ahimè! Il grande olocausto della bellezza alla civiltà sarà già consumato. Io la vedo
quella Costantinopoli futura, quella Londra dell’Oriente che innalzerà la sua maestà minacciosa e
triste sulle rovine della più ridente città della terra. I colli saranno spianati, i boschetti rasi al suolo,
le casette multicolori atterrate; l’orizzonte sarà tagliato da ogni parte dalle lunghe linee rigide dei
palazzi, delle case operaie e degli opifici, in mezzo a cui si drizzerà una miriade di camini altissimi
d’officine, e di tetti piramidali di campanili; lunghe strade diritte e uniformi divideranno Stambul in
diecimila parallelepipedi enormi; i fili del telegrafo s’incrocieranno come un’immensa tela di ragno
sopra i tetti della cit rumorosa; sul ponte della Sultana-Validè non si vedrà più che un torrente
nero di cappelli cilindrici e di berrette; la collina misteriosa del Serraglio sarà un giardino zoologico,
il Castello delle Sette torri un penitenziario, l’Ebdomon un museo di storia naturale; tutto sarà
solido, geometrico, utile, grigio, uggioso, e una immensa nuvola oscura velerà perpetuamente il bel
cielo della Tracia, a cui non s’alzeranno più preghiere ardenti occhi innamorati canti di
poeti. Quando quest’immagine mi si presentava, sentivo proprio una stretta al cuore; ma poi mi
consolavo pensando: – Chi sa che qualche sposa italiana del secolo ventunesimo, venendo qui a fare
il suo viaggio di nozze, non esclami qualche volta: Peccato! Peccato che Costantinopoli non sia
più come la descrive quel vecchio libro tarlato dell’ottocento che ritrovai per caso in fondo
all’armadio della nonna!
*
* *
[I cani]
E allora sarà anche sparita da Costantinopoli una delle sue curiosità più curiose, che sono i cani.
Qui proprio voglio lasciar correre un po’ la penna perchè l’argomento lo merita. Costantinopoli è un
immenso canile: tutti l’osservano appena arrivati. I cani costituiscono una seconda popolazione
della città, meno numerosa, ma non meno strana della prima. Tutti sanno quanto i Turchi li amino e
li proteggano. Non ho potuto sapere se lo facciano per il sentimento di carità che raccomanda il
Corano anche verso le bestie; o perchè li credano, come certi uccelli, apportatori di fortuna, o perchè
li amava il Profeta, o perchè ne parlano le loro sacre storie, o perchè, come altri pretende, Maometto
il Conquistatore si conduceva dietro un folto stato maggiore canino che entrò trionfante con lui per
la breccia di porta San Romano. Il fatto è che li hanno a cuore, che molti Turchi lasciano per
testamento delle somme cospicue per la loro alimentazione, e che quando il sultano Abdul-Mejid li
fece portar tutti nell’isola di Marmara, il popolo ne mormorò, e quando ritornarono, li ricevette a
festa, e il Governo, per non provocar malumori, li lasciò in pace per sempre. Però, siccome il cane,
secondo il Corano, è un animale immondo, e ogni turco, ospitandolo, crederebbe di contaminare la
casa, così nessuno degli innumerevoli cani di Costantinopoli ha padrone. Formano tutti insieme una
grande repubblica di vagabondi liberissimi, senza collare, senza nome, senza uffici, senza casa,
senza leggi. Fanno tutto nella strada; vi si scavano delle piccole tane, vi dormono, vi mangiano, vi
nascono, vi allattano i piccini, e vi muoiono; e nessuno, almeno a Stambul, li disturba
menomamente dalle loro occupazioni e dai loro riposi. Essi sono i padroni della via. Nelle nostre
città è il cane che si scansa per lasciar passare i cavalli e la gente. è la gente, sono i cavalli, i
cammelli, gli asini che fanno anche un lungo giro per non pestare i cani. Nei luoghi più frequentati
di Stambul, quattro o cinque cani raggomitolati e addormentati proprio nel bel mezzo della strada, si
fanno girare intorno per una mezza giornata tutta la popolazione d’un quartiere. E lo stesso accade a
Pera e a Galata, benchè qui siano lasciati in pace non già per rispetto, ma perchè sono tanti, che a
volerseli cacciare di fra i piedi, bisognerebbe non far altro che tirar calci e legnate dal momento che
s’esce di casa al momento che si ritorna. A mala pena si scomodano quando, nelle strade piane, si
vedono venire addosso una carrozza a tiro a quattro, che va come il vento, e non ha più tempo di
deviare. Allora si alzano, ma non prima dell’ultimo momento, quando hanno le zampe dei cavalli a
un filo dalla testa, e trasportano stentatamente la loro pigrizia quattro dita più lontano: lo
strettissimo necessario per salvare la vita. La pigrizia è il tratto distintivo dei cani di Costantinopoli.
Si accucciano in mezzo alle strade, cinque, sei, dieci in fila od in cerchio, arrotondati in maniera che
non paion più bestie, ma mucchi di sterco, e dormono delle giornate intere, fra un viavai e uno
strepito assordante, e non c’è acqua, sole, freddo che li riscuota. Quando nevica, rimangon
sotto la neve; quando piove, restano immersi nella mota fin sopra la testa, tanto che poi, alzandosi,
paiono cani sbozzati nella creta, e non ci si vede più occhi, orecchie, muso. A Pera e a
Galata, però, son meno indolenti che a Stambul, perchè ci trovano meno facilmente da mangiare. A
Stambul sono in pensione, a Pera e a Galata mangiano alla carta. Sono le scope viventi delle strade.
Quello che rifiutano i maiali, per loro è ghiottoneria. Fuor che i sassi mangiano tutto, e appena
hanno tanto in corpo da non morire, tornano a raggomitolarsi in terra e ridormono fin che non li
sveglia la fame. Dormono quasi sempre nello stesso luogo. La popolazione canina di Costantinopoli
è divisa per quartieri come la popolazione umana. Ogni quartiere, ogni strada è abitata, o piuttosto
posseduta da un certo numero di cani, parenti ed amici, che non se ne allontanano mai, e non vi
lasciano penetrare stranieri. Esercitano una specie di servizio di polizia. Hanno i loro corpi di
guardia, i loro posti avanzati, le loro sentinelle fanno la ronda e le esplorazioni. Guai se un cane
d’un altro quartiere, spinto dalla fame, s’arrischia nei possedimenti dei suoi vicini! Una frotta di
cagnacci insatanassati gli piomba addosso, e se lo coglie, lo finisce; se non può coglierlo, lo insegue
rabbiosamente fino ai confini del quartiere. Sino ai confini, non più in là; il paese nemico è quasi
sempre rispettato e temuto. Non si può dare un’idea delle battaglie, dei sottosopra che seguono per
un osso, per una bella, o per una violazione di territorio. Ogni momento si vede una frotta di cani
stringersi furiosamente in un gruppo intricato e confuso, e sparire in un nuvolo di polvere, e urli e
latrati e guaiti da lacerare le orecchie ad un sordo; poi la frotta si sparpaglia, e a traverso il polverìo
diradato si vedono distese sul terreno le vittime della mischia. Amori, gelosie, duelli, sangue, gambe
rotte e orecchie lacerate, son l’affare d’ogni momento. Alle volte se ne radunan tanti e fanno tali
baldorie davanti a una bottega, che il bottegaio e i garzoni son costretti ad armarsi di stanghe e di
seggiole e a fare una sortita militare in tutte le regole per sgombrare la strada; e allora si sentono
risonar teste e schiene e pancie, e ululati che fanno venir giù l’aria. A Pera e a Galata in specie,
quelle povere bestie sono tanto malmenate, tanto abituate a toccare una percossa ogni volta che
vedono un bastone, che al solo sentir battere sul ciottolato un ombrello o una mazzina, o scappano o
si preparano a scappare; ed anche quando sembra che dormano, tengono quasi sempre un occhio
socchiuso, un puntino impercettibile di pupilla, con cui seguono attentissimamente, anche per un
quarto d’ora filato, e a qualunque distanza, tutti i più leggieri movimenti di qualsiasi oggetto che
abbia apparenza d’un bastone. E son così poco assuefatti a trattamenti umani, che basta, passando,
accarezzarne uno, che dieci altri accorrono saltellando, mugolando, dimenando la coda, e
accompagnano il protettore generoso fino in fondo alla strada, cogli occhi luccicanti di gioia e di
gratitudine. La condizione d’un cane a Pera e a Galata è peggiore, ed è tutto dire, di quella d’un
ragno in Olanda, che è l’essere più perseguitato di tutto il regno animale. Non si può, vedendoli, non
credere che ci sia anche per loro un compenso dopo morte. Anch’essi, come ogni altra cosa a
Costantinopoli, mi destavano una reminiscenza storica; ma era un’amara ironia; erano i cani delle
caccie famose di Baiazet, che correvano per le foreste imperiali dell’Olimpo colle gualdrappine di
porpora e coi collari imperlati. Quale diversità di condizione sociale! La loro sorte infelice dipende
anche in parte dalla loro bruttezza. Sono quasi tutti cani della razza dei mastini o dei can lupi, e
ritraggono un po’ del lupo e della volpe; o piuttosto non ritraggono di nulla; sono orribili prodotti
d’incrociamenti fortuiti, screziati di colori bizzarri, della grandezza dei così detti cani da macellaio,
e magri che se ne possono contar le costole a venti passi. La maggior parte poi, oltre alla magrezza,
son ridotti dalle risse in uno stato che, se non si vedessero camminare, si piglierebbero per carcami
di cani macellati. Se ne vedono colla coda mozza, colle orecchie monche, col dorso spelato, col
collo scorticato, orbi d’un occhio, zoppi di due gambe, coperti di guidaleschi e divorati dalle
mosche; ridotti agli ultimi termini a cui si può ridurre un cane vivente; veri avanzi della fame, della
guerra e della vaga venere. La coda, si può dire che è un membro di lusso: è raro il cane di
Costantinopoli che la serbi intera per più di due mesi di vita pubblica. Povere bestie! metterebbero
pietà in un cuore di sasso; eppure si vedono qualche volta potati e rosicchiati in un modo così
strano, si vedono camminare con certi dondolamenti così svenevoli, con certi barcollii così
grotteschi, che non si possono trattenere le risa. E non son la fame la guerra le legnate il
loro peggiore flagello: è un uso crudele invalso da qualche tempo a Galata e a Pera. Sovente, di
notte, i pacifici peroti sono svegliati nei loro letti da un baccano indiavolato; e affacciandosi alle
finestre, vedon giù nella strada una ridda spaventevole di cani che spiccano salti altissimi, e fanno
rivoltoloni furiosi e battono capate tremende nei muri; e la mattina all’alba la strada è coperta di
cadaveri. È il dottorino o lo speziale del quartiere, che avendo l’abitudine di studiare la notte, e non
volendo esser disturbati dalla canea, si sono procurati una settimana di silenzio con una
distribuzione di polpette. Queste ed altre cagioni fanno che il numero dei cani diminuisca
continuamente a Pera e a Galata; ma a che pro? Intanto a Stambul crescono e si moltiplicano, sin
che non trovando più alimento nella città turca, migrano a poco a poco all’altra riva, e riempiono
nella famiglia sterminata tutti i vuoti che v’han fatto le battaglie, la carestia e il veleno.
*
* *
[Gli eunuchi]
Ma vi sono altri esseri, a Costantinopoli, che fanno più compassione dei cani, e son gli eunuchi,
i quali, come s’introdussero fra i turchi malgrado i precetti formali del Corano che condannano
questa infame degradazione della natura, sussistono ancora, malgrado la legge recente che ne
proibisce il traffico, poichè è più forte della legge la scellerata avidità dell’oro che fa commettere il
delitto, e l’egoismo spietato che se ne vale. Questi disgraziati s’incontrano ad ogni passo nelle
strade, come s’incontrano, ad ogni passo nella storia. In fondo a ogni quadro della storia turca,
campeggia una di queste figure sinistre, colle fila d’una congiura nel pugno; coperto d’oro o intriso
di sangue, vittima, o favorito, o carnefice, palesemente od occultamente formidabile, ritto come uno
spettro all’ombra del trono, o affacciato allo spiraglio d’una porta misteriosa. Così per
Costantinopoli, in mezzo alla folla affaccendata dei bazar, tra la moltitudine allegra delle Acque
dolci, fra le colonne delle moschee, accanto alle carrozze, nei piroscafi, nei caicchi, in tutte le feste,
in tutte le folle, si vede questa larva d’uomo, questa figura dolorosa, che fa colla sua persona una
macchia lugubre su tutti gli aspetti ridenti della vita orientale. Scemata l’onnipotenza della corte, è
scemata la loro importanza politica, come rilassandosi la gelosia orientale, è diminuita la loro
importanza nelle case private; i vantaggi del loro stato son quindi molto scaduti; essi non trovano
più che assai difficilmente nella ricchezza e nella dominazione un compenso alla loro sventura; non
si trovano più i Ghaznefer Agà che consentono alla mutilazione per diventar capi degli eunuchi
bianchi; tutti sono ora certamente vittime, e vittime senza conforti; comprati o rubati bambini, in
Abissinia od in Siria, uno su tre sopravvissuti al coltello infame, e rivenduti in onta alla legge, con
una ipocrisia di segretezza, più odiosa d’un aperto mercato. Non c’è bisogno di farseli indicare, si
riconoscono all’aspetto. Son quasi tutti d’alta statura, grassi, flosci, col viso imberbe e avvizzito,
corti di busto, lunghissimi di gambe e di braccia. Portano il fez, un lungo soprabito scuro, i calzoni
all’europea e uno staffile di cuoio d’ippopotamo, che è l’insegna del loro ufficio. Camminano a
lunghi passi, mollemente, come grandi bambini. Accompagnano le signore a piedi o a cavallo,
davanti e dietro le carrozze, quando uno, quando due insieme, e rivolgono sempre intorno un occhio
vigilante, che al menomo sguardo o atto irriverente di chi passa, piglia un’espressione di rabbia
ferina che mette paura e ribrezzo. Fuor di questi casi, il loro viso o non dice assolutamente nulla, o
non esprime che un tedio infinito d’ogni cosa. Non mi ricordo d’averne visto ridere alcuno. Ce ne
sono dei giovanissimi, che par che abbiano cinquant’anni; dei vecchi, che sembrano adolescenti
invecchiati in un giorno; dei molto pingui, tondi, molli, lucidi, che sembrano enfiati o ingrassati
apposta come bestie suine; tutti vestiti di panni fini, puliti e profumati come damerini vanitosi. Ci
sono degli uomini senza cuore che passando accanto a quei disgraziati li guardano e ridono. Costoro
credono forse che, essendo così come sono fin dall’infanzia, non comprendano la loro sventura. Si
sa invece che la comprendono e che la sentono; ma se anche non si sapesse, come si potrebbe
dubitarne? Non appartenere ad alcun sesso, non essere che una mostra d’uomo; vivere in mezzo agli
uomini e vedersene separati da un abisso; sentir fremere la vita intorno a sè, come un mare, e
dovervi rimanere in mezzo, immobili e solitarii come uno scoglio; sentire tutti i propri pensieri e
tutti i sentimenti strozzati da un cerchio di ferro che nessuna virtù umana potrà mai spezzare; aver
perpetuamente dinanzi un’immagine di felicità, a cui tutto tende, intorno a cui tutto gira, di cui tutto
si colora e s’illumina, e sentirsene smisuratamente lontani, nell’oscurità, in un vuoto immenso e
freddo, come creature maledette da Dio; essere anzi i custodi di quella felicità, la barriera che
l’uomo geloso mette fra i suoi piaceri ed il mondo, il puntello con cui assicura la sua porta, il cencio
con cui copre il suo tesoro; e dover vivere tra i profumi, in mezzo alle seduzioni, alla gioventù, alla
bellezza, ai tripudi, colla vergogna sulla fronte, colla rabbia nell’anima, disprezzati, scherniti, senza
nome, senza famiglia, senza madre, senza un ricordo affettuoso, segregati dall’umanità e dalla
natura, ah! dev’essere un tormento che la mente umana non può comprendere, come quello di vivere
con un pugnale confitto nel cuore. E questa infamia si sopporta ancora, questi sventurati
passeggiano per le vie di una città d’Europa, vivono in mezzo agli uomini, e non urlano, non
mordono, non uccidono, non sputano in viso all’umanità codarda che li guarda senza arrossire e
senza piangere, e fa delle associazioni internazionali per la protezione dei gatti e dei cani! La loro
vita non è che un supplizio continuo. Quando le donne non li trovano arrendevoli ai loro intrighi, li
odiano come carcerieri e come spie, e li torturano con una civetteria crudele, sino a farli diventar
furiosi o insensati, come il povero eunuco nero delle Lettere persiane quando metteva nel bagno la
sua signora. Tutto è sarcasmo per loro: portano dei nomi di profumi e di fiori, per allusione alle
donne di cui sono custodi: sono possessori di giacinti, guardiani di gigli, custodi di rose e di viole.
E qualche volta amano, gli sciagurati! perchè in loro delle passioni sono spenti gli effetti, non le
cause; e son gelosi, e si rodono e piangono lagrime di sangue; e qualche volta, quando uno sguardo
procace si fissa in volto alla loro donna, e s’accorgono che è corrisposto, perdon la ragione e
percuotono. Al tempo della guerra di Crimea un eunuco diede una frustata in viso ad un ufficiale
francese, e questi gli spaccò il cranio con una sciabolata. Chi può dire che cosa soffrano, come li
desoli la bellezza, come li strazii un vezzo, come li trafigga un sorriso, e quante volte mentre al loro
orecchio arriva il suono d’un bacio, la loro mano afferra il manico del pugnale! Non è meraviglia
che nel vuoto immenso del loro cuore non attecchiscano per lo più che le passioni fredde dell’odio,
della vendetta e dell’ambizione; che crescano acri, mordaci, pettegoli, pusillanimi, feroci; che siano
o bestialmente devoti o astutissimamente traditori, e che quando sono potenti, cerchino di vendicarsi
sull’uomo dell’affronto che fu fatto in loro alla natura. Ma per quanto siano intristiti, sentono
sempre nel cuore il bisogno prepotente della donna, e poichè non possono averla amante, la cercano
amica; si ammogliano; sposano delle donne incinte, come Sunbullù, il grand’eunuco di Ibraim I, per
avere un bambino da amare; si fanno un arem di vergini, come il grand’eunuco di Ahmed II, per
avere almeno lo spettacolo della bellezza e della grazia, l’amplesso affettuoso, un’illusione d’amore;
adottano una figliuola per aver un seno di donna su cui chinare la testa quando son vecchi, per non
morire senza sapere che cos’è una carezza, per sentire nei loro ultimi anni una voce amorosa dopo
aver sentito per tutta la vita il riso dell’ironia e del disprezzo; e non son rari quelli che, arricchiti alla
corte o nelle grandi case, dove esercitano insieme l’ufficio di capi degli eunuchi e d’intendenti, si
comprano, vecchi, una bella villetta sul Bosforo, e cercano di dimenticare, di sopire il sentimento
della propria sventura nell’allegrezza delle feste e dei conviti. Fra le molte cose che mi furon dette
di questi infelici, una mi è rimasta viva più di tutte nella memoria; ed è un giovane medico di Pera
che me l’ha raccontata. Confutando gli argomenti di chi crede che gli eunuchi non soffrano: Una
sera, mi disse, uscivo dalla casa d’un ricco musulmano, dov’ero andato a visitare per la terza
volta una delle sue quattro mogli malata di cuore. All’uscire come all’entrare m’aveva
accompagnato un eunuco gridando le solite parole: donne, ritiratevi! per avvertir signore e
schiave che un uomo era nell’arem, e che non dovevano lasciarsi vedere. Quando fui nel cortile,
l’eunuco mi lasciò, ed io mi diressi solo verso la porta. Nel punto che stavo per aprire, mi sentii
toccare il braccio, e voltandomi, mi vidi dinanzi, così tra il chiaro e lo scuro, un altro eunuco, un
giovanetto di diciotto o vent’anni, di aspetto simpatico, che mi guardava fisso con gli occhi umidi di
lagrime. Gli domandai che cosa voleva. Titubò un momento a rispondere, poi m’afferrò una mano
con tutt’e due le mani, e stringendomela convulsivamente mi disse con una voce tremante, in cui si
sentiva un dolore disperato: – Dottore! Tu che sai un rimedio per tutti i mali, non ne sapresti uno per
il mio? Io non so dire quello che produssero in me queste semplici parole; volli rispondere, mi
mancò la voce, e non sapendo nè che fare che dire, apersi bruscamente la porta e fuggii. Ma per
tutta quella sera e per molti giorni dopo, mi parve di vedere quel giovane e di sentir quelle parole, e
più d’una volta dovetti far forza a me stesso per non piangere di pietà. O filantropi, pubblicisti,
ministri, ambasciatori, e voi, signori deputati al Parlamento di Stambul e senatori della mezzaluna,
levate un grido, in nome di Dio, perchè questa sanguinosa ignominia, questa orrenda macchia
dell’onore umano, non sia più nel ventesimo secolo che una memoria dolorosa come le carneficine
della Bulgaria.
*
* *
[L’esercito]
Benchè sapessi, prima d’arrivare a Costantinopoli, che non ci avrei più ritrovato traccia dello
splendido esercito dei bei tempi antichi, pure, appena arrivato, cercai con vivissima curiosità i
soldati, mia perpetua simpatia. Ma, pur troppo, trovai la realtà peggiore dell’aspettazione. In luogo
delle antiche vestimenta ampie, pittoresche e guerriere, trovai le divise nere e attillate, i calzoni
rossi, le giacchettine scarse, i galloni da usciere, i cinturini da collegiale, e su tutte le teste, da quella
del Sultano a quella del soldato, quel deplorabile fez, che oltre ad esser meschino e puerile, in specie
sul cocuzzolo dei musulmani corpulenti, è cagione d’infinite oftalmie ed emicranie. L’esercito turco
non ha più la bellezza d’un esercito turco, non ha ancora la bellezza d’un esercito europeo; i soldati
mi parvero tristi, svogliati e sudici; saranno valorosi, ma non son simpatici. E quanto alla loro
educazione, mi basta questo: che ho visto sergenti e ufficiali soffiarsi il naso colle dita in mezzo alla
strada; che ho visto un soldato di guardia al ponte, dove è proibito di fumare, strappar il sigaro di
bocca a un viceconsole; e che nella moschea dei dervis giranti di via di Pera, un altro soldato, me
presente, per far capire a tre signori europei che bisognava levarsi il cappello, li scappellò tutti e tre
con una manata. E ho saputo che, ad alzar la voce in simili casi, il meno che possa capitare è
d’essere abbracciati come un sacco di cenci e portati di peso nel corpo di guardia. Per la qual cosa,
in tutto il tempo che rimasi a Costantinopoli, ho sempre dimostrato un profondo rispetto ai soldati.
E d’altra parte, cessai di meravigliarmi delle loro maniere, dopo aver visto coi miei occhi che cosa è
quella gente prima di vestir l’uniforme. Vidi un giorno passare per una strada di Scutari un centinaio
di reclute che venivano probabilmente dall’interno dell’Asia Minore. Mi fecero compassione e
ribrezzo. Mi parve di vedere quegli spaventosi banditi d’Hassan il pazzo, che attraversarono
Costantinopoli sulla fine del sedicesimo secolo, per andar a morire sotto la mitraglia austriaca nella
pianura di Pest. Vedo ancora quelle faccie sinistre, quelle lunghe ciocche di capelli, quei corpi
seminudi e arabescati, quegli ornamenti selvaggi, e sento il tanfo di serraglio di belve che lasciarono
nella via. Quando giunsero le prime notizie delle stragi di Bulgaria, pensai subito a loro.Debbono
essere i miei amici di Scutari, dissi in cuor mio. Essi però sono l’unica immagine pittoresca che
mi sia rimasta de’ soldati musulmani. Belli eserciti di Bajazet, di Solimano e di Maometto, chi vi
potesse rivedere per un minuto, dall’alto delle mura di Stambul, schierati sulla pianura di Daud-
Pascià! Ogni volta che passavo dinanzi alla porta trionfale d’Adrianopoli, quei belli eserciti mi si
affacciavano alla mente come una visione luminosa, e mi soffermavo a contemplare la porta, come
se di momento in momento dovesse apparire il pascià quartier mastro, araldo delle schiere imperiali.
Il pascià quartier mastro, in fatti, camminava alla testa dell’esercito, con due code di cavallo,
insegna della sua dignità. Dietro a lui, si vedeva di lontano un vivissimo luccichìo. Erano ottomila
cucchiai di rame confitti nei turbanti di ottomila giannizzeri, in mezzo ai quali ondeggiavano le
penne d’airone e scintillavano le armature dei colonnelli, seguiti da uno sciame di servi carichi di
armi e di vivande. Dietro ai giannizzeri veniva un piccolo esercito di volontarii e di paggi, colle
vesti di seta, colle maglie di ferro, coi caschi luccicanti, accompagnati da una banda di musici;
dietro ai paggi, i cannonieri, coi cannoni uniti da catene di ferro; e poi un altro piccolo esercito di
agà, di paggi, di ciambellani, di soldati feudatarii, piantati sopra cavalli corazzati e impennacchiati.
E questa non era che l’avanguardia. Sopra le schiere serrate sventolavano stendardi di mille colori,
ondeggiavano code di cavallo, s’urtavano lancie, spade, archi, turcassi, archibugi, in mezzo ai quali
si vedevano appena le faccie annerite dal sole delle guerre di Candia e di Persia; e i suoni scordati
dei tamburi, dei flauti, delle trombe e delle timballe, la voce dei cantanti che accompagnavano i
giannizzeri, il tintinnio delle armature, lo strepito delle catene, le grida di: Allà, si confondevano in
un frastuono festoso e terribile, che dal campo di Daud-Pascià si spandeva fino all’altra riva del
Corno d’oro.
Oh! pittori e poeti che avete studiato amorosamente quel bel mondo orientale, svanito per
sempre, aiutatemi a far uscir intero dalle vecchie mura di Stambul l’esercito favoloso di Maometto
III.
L’avanguardia è passata: un altro sfolgorìo s’avanza. È il Sultano? No, il Nume non è forse
ancora uscito dal tempio. Non è che il corteo del vizir favorito. Sono quaranta agà vestiti di
zibellino, su quaranta cavalli dalle gualdrappe di velluto e dalle redini d’argento, a cui tien dietro
una folla di paggi e di palafrenieri pomposi, che conducono a mano altri quaranta corsieri, bardati
d’oro, carichi di scudi, di mazze e di scimitarre.
Viene innanzi un altro corteo. Non è ancora il Sultano. Sono i membri della Cancelleria di
Stato, i grandi dignitari del Serraglio, il gran tesoriere, accompagnati da una banda di suonatori e da
uno sciame di volontarii coi berretti purpurei ornati d’ale d’uccelli, vestiti di pelliccie, di taffettà
incarnato, di pelli di leopardo, di kolpak ungheresi, e armati di lunghe lancie fasciate di seta e
inghirlandate di fiori.
Un’altra onda di cavalli sfolgoranti esce dalla porta d’Adrianopoli. Non è ancora il Sultano. È il
corteo del gran vizir. Vien prima una folla d’archibugieri a cavallo, di furieri e d’agà benemeriti del
gran Signore, e poi altri quaranta agà del gran vizir in mezzo a una foresta di mille e duecento lancie
di bambù impugnate da mille e duecento paggi, e altri quaranta paggi del gran vizir vestiti di color
ranciato e armati d’archi e di turcassi ricamati d’oro, e altri duecento giovanetti divisi in sei schiere
di sei colori, in mezzo ai quali cavalcano governatori e parenti del primo ministro, seguiti da una
turba di palafrenieri, d’armigeri, d’impiegati, di servi, di paggi, d’agà dalle vesti dorate e di
vessilliferi dalle bandiere di seta; e ultimo il Kiaya, ministro dell’interno, in mezzo a dodici sciaù,
esecutori di giustizia, seguiti dalla banda del gran vizir.
Un’altra folla sbocca fuori dalle mura. Non è ancora il Sultano. È una folla di sciaù, di furieri,
d’impiegati, vestiti di assise splendide, che fanno corteo ai giureconsulti, ai mollà, ai muderrì, a cui
tien dietro il gran cacciatore per le caccie al falcone, all’avoltoio, allo sparviero ed al nibbio, seguito
da una fila di cavalieri che portano in sella i gatti pardi ammaestrati alla caccia, e da una processione
di falconieri, di scudieri, di squartatori, di guardiani di furetti, di drappelli di trombettieri e di mute
di cani ingualdrappati e ingioiellati.
Un’altra folla compare. Gli spettatori accalcati si prostrano: è il Sultano! Non è ancora il
Sultano; non è la testa, ma il cuore dell’esercito; il focolare del coraggio e dell’ira sacra, l’arca
santa, il carroccio dei musulmani, intorno a cui s’alzeranno mucchi di cadaveri e scorreranno
torrenti di sangue, la bandiera verde del Profeta, l’insegna delle insegne, tolta alla moschea del
Sultano Ahmed, che sventola in mezzo a una turba feroce di dervis coperti di pelli d’orso e di leone,
in mezzo a una corona di sceicchi predicatori dall’aspetto ispirato, ravvolti in mantelli di pelo di
cammello; fra due schiere d’emiri, discendenti di Maometto, coronati di turbanti verdi, che levano
tutti insieme un clamore minaccioso e sinistro di evviva, di ruggiti, di preghiere, di canti.
Esce un’altra ondata d’uomini e di cavalli. Non è ancora il Sultano. È uno stuolo di sciaù che
brandiscono i loro bastoni inargentati per far largo al giudice di Costantinopoli e al gran giudice
d’Asia e d’Europa, i cui turbanti enormi torreggiano al disopra della folla; sono il vizir favorito e il
vizir caimacan, coi turbanti stelleggiati d’argento e gallonati d’oro; sono tutti i vizir del divano,
dinanzi ai quali ondeggiano le code di cavallo tinte di henné, appese in cima a lancie rosse ed
azzurre; e infine i giudici dell’esercito e un codazzo sterminato di servi vestiti di pelli di leopardo e
armati di stocco, e paggi e armigeri e vivandieri.
Un altro barbaglio di colori e di splendori annunzia un altro corteo: è il Sultano finalmente!
Non è ancora il Sultano. È il gran vizir, vestito d’un caffettano purpureo foderato di zibellino;
montato sopra un cavallo coperto d’acciaio e d’oro, seguito da uno sciame di servi in abito di
velluto rosso, attorniato da una folla di alti dignitari e di luogotenenti generali dei giannizzeri, fra i
quali biancheggia il muftì, come un cigno in mezzo a uno stormo di pavoni; e dietro a costoro, fra
due schiere di lancieri dai giustacuori dorati, fra due file d’arcieri dai pennacchi a mezzaluna, i
palafrenieri sfarzosi del serraglio che conducono per mano una frotta di cavalli arabi, turcomanni,
persiani, caramaniani, dalle selle di velluto, dalle nappine di canutiglia, dalle redini dorate, dalle
staffe damaschinate, carichi di scudi e d’armi scintillanti di rubini e di smeraldi; e infine due
cammelli consacrati, uno dei quali porta il Corano e l’altro una reliquia della Kaaba.
Passato il corteo del gran vizir, scoppia una musica fragorosa di trombe e di tamburi, gli
spettatori fuggono, il cannone tuona, uno stuolo di battistrada irrompe fuor della porta mulinando le
scimitarre, ed ecco in mezzo a una selva fitta di lancie, di pennacchi e di spade, tra uno sfolgorio
abbagliante di caschi d’oro e d’argento, sotto un nuvolo di stendardi di raso, ecco il Sultano dei
Sultani, il re dei re, il distributore delle corone ai principi del mondo, l’ombra di Dio sulla terra,
l’imperatore e signore sovrano del mar bianco e del mar nero, della Rumelia e dell’Anatolia, della
provincia di Sulkadr, del Diarbekir, del Kurdistan, dell’Aderbigian, dell’Agiem, dello Sciam, di
Haleb, d’Egitto, della Mecca, di Medina, di Gerusalemme, di tutte le contrade dell’Arabia e
dell’Yemen e di tutte le altre provincie conquistate dai suoi gloriosi predecessori ed augusti antenati
o sottomesse alla sua gloriosa maestà dalla sua spada fiammeggiante e trionfatrice. Il corteo solenne
e tremendo passa lentamente, aprendo a quando a quando un piccolo spiraglio; e allora
s’intravvedono i tre pennacchi imperlati del turbante del Dio, il viso pallido e grave e il petto
lampeggiante di diamanti; poi il cerchio si richiude, la cavalcata s’allontana, le scimitarre
minacciose s’abbassano, gli spettatori atterriti rialzano la fronte, la visione è svanita.
Al corteo imperiale tien dietro una folla d’ufficiali di corte, di cui uno porta sul capo lo sgabello
del Sultano, un altro la sciabola, un altro il turbante, un altro il mantello, un quinto la caffettiera
d’argento, un sesto la caffettiera d’oro; passano altre schiere di paggi; passa il drappello degli
eunuchi bianchi, passano trecento ciambellani a cavallo, vestiti di caffettani candidi; passano le
cento carrozze dell’arem dalle ruote inargentate, tratte da buoi inghirlandati di fiori o da cavalli
bardati di velluto, e fiancheggiate da una legione d’eunuchi neri; passano trecento schiere di mule
che portano i bagagli e il tesoro della corte, passano mille cammelli carichi di acqua, passano mille
dromedarii carichi di viveri; passa un esercito di minatori, d’armaioli e d’operai di Stambul,
accompagnati da bande di buffoni e di giocolieri; e in fine passa il grosso dell’esercito combattente:
le orte dei giannizzeri, i silidar gialli, gli azab porporini, gli spahí dalle insegne rosse, i cavalieri
stranieri dagli stendardi bianchi, i cannoni che vomitano blocchi di marmo e di piombo, le milizie
feudatarie dei tre continenti, i volontarii selvaggi delle estreme provincie dell’impero; nuvoli di
bandiere, selve di pennacchi, torrenti di turbanti, valanghe di ferro, che vanno a rovesciarsi
sull’Europa come una maledizione di Dio, lasciando dietro di un deserto sparso di macerie
fumanti e di piramidi di teschi.
*
* *
[L’ozio]
Benchè in qualche ora del giorno Costantinopoli paia molto operosa, in realtà è forse la città più
pigra dell’Europa. Per questo, turchi e franchi si possono dare la mano. Si levano tutti il più tardi
possibile. Anche d’estate, all’ora in cui le nostre città son già in movimento da un capo all’altro,
Costantinopoli dorme ancora. Prima che il sole sia alto, è difficile trovare una bottega aperta e poter
bere una tazza di caffè. Alberghi, uffici, bazar, banche, tutto russa allegramente, e non si
scuoterebbe nemmeno col cannone. S’aggiungano le feste: il venerdì dei turchi, il sabato degli ebrei,
la domenica dei cristiani, i santi innumerevoli del calendarii greci ed armeni, osservati
scrupolosamente; tutte feste che, sebbene siano parziali, costringono all’ozio anche una parte della
popolazione che v’è straniera; e s’avrà un’idea del lavoro che può fare Costantinopoli nel giro di
sette giorni. Vi sono degli uffici che non stanno aperti più di ventiquattr’ore per settimana. Ogni
giorno v’è uno dei cinque popoli della grande città che va a zonzo per le strade, in abito festivo,
senz’altro pensiero che d’ammazzare il tempo. In quest’arte i turchi sono maestri. Son capaci di far
durare per una mezza giornata una tazza di caffè da due soldi e di star cinque ore immobili a’ piedi
d’un cipresso d’un cimitero. Il loro ozio è veramente l’ozio assoluto, fratello della morte come il
sonno, un riposo profondo di tutte le facoltà, una sospensione di tutte le cure, un modo di esistenza
affatto sconosciuto agli europei. Non vogliono nemmeno aver il pensiero di passeggiare. A Stambul
non ci sono passeggi fatti espressamente, e se ci fossero, il turco non ci andrebbe, perchè l’andare
apposta in un luogo determinato per far del movimento, gli parrebbe una specie di lavoro. Egli entra
nel primo cimitero o infila la prima strada che gli si presenta, e va senza proposito dove lo portan le
gambe, dove lo conducono i serpeggiamenti del sentiero, dove lo trascina la folla. Raramente egli va
in un luogo per vedere il luogo. Vi sono dei turchi di Stambul che non sono mai andati più in di
Kassim-pascià, dei signori musulmani che non si sono mai spinti oltre le isole dei Principi dove
hanno un amico, e oltre il Bosforo dove hanno una villa. Per loro il colmo della beatitudine consiste
nell’inerzia della mente e del corpo. Perciò lasciano ai cristiani irrequieti le grandi industrie che
richiedono cure, passi e viaggi; e si ristringono al commercio minuto, che si può esercitar da seduti,
e quasi più cogli occhi che col pensiero. Il lavoro che fra noi è quello che signoreggia e regola tutte
le altre occupazioni della vita, là è subordinato, come un’occupazione secondaria, a tutti i comodi e
a tutti i piaceri. Qui, il riposo non è che un’interruzione del lavoro; il lavoro non è che una
sospensione del riposo. Prima bisogna a qualunque costo dormicchiare, sognare, fumare, quelle
tante ore; e poi, nei ritagli di tempo, far qualche cosa per procacciarsi la vita. Il tempo, per i turchi,
significa tutt’altra cosa da quel che significa per noi. La moneta giorno, mese, anno, per loro non ha
che la centesima parte del valore che ha in Europa. Il minor tempo che domandi un impiegato d’un
ministero turco per dare una qualunque risposta intorno al più semplice affare, è un paio di
settimane. La premura di finire una cosa per il piacere di finirla, non sanno che cosa sia. Dai
facchini all’infuori, non si vede mai per le vie di Stambul un turco affaccendato che affretti il passo.
Tutti camminano colla stessa cadenza, come se misurassero tutti l’andatura al suono d’uno stesso
tamburo. Per noi la vita è un torrente che precipita; per loro è un’acqua che dorme.
*
* *
[La notte]
Costantinopoli è di giorno la città più splendida e di notte la città più tenebrosa d’Europa. Pochi
fanali, a gran distanza l’un dall’altro, rompono appena l’oscurità nelle vie principali; le altre son
buie come spelonche, e non vi è chi ci s’arrischii senza un lume alla mano. Perciò, col cader della
notte, la città si fa deserta; non si vedono più che guardie notturne, frotte di cani, peccatrici furtive,
qualche brigata di giovanotti che sbuca dalle birrerie sotterranee, e lanterne misteriose che
appariscono e spariscono, come fuochi fatui, qua e per i vicoli e pei cimiteri. Allora bisogna
contemplare Stambul dai luoghi alti di Pera e di Galata. Le innumerevoli finestrine illuminate, i
fanali dei bastimenti, i riflessi del Corno d’oro e le stelle, formano sopra un orizzonte di quattro
miglia un immenso tremolìo di punti di foco, in cui si confondono il porto, la città ed il cielo, e par
tutto firmamento. E quando il cielo è nuvoloso e in un piccolo spazio sereno splende la luna, si
vedono sopra Stambul tutta scura, sopra le macchie nerissime dei boschi e dei giardini,
biancheggiare le moschee imperiali, come una fila di enormi tombe di marmo, e la città presenta
l’immagine della necropoli d’un popolo di giganti. Ma è anche più bella e più solenne nelle notti
senza stelle e senza luna, nell’ora in cui tutti i lumi son spenti. Allora non si vede che un’immensa
macchia nera dal Capo del Serraglio al sobborgo d’Eyub, un profilo smisurato in cui le colline
sembran montagne, e le punte infinite che le coronano, pigliano apparenze fantastiche di foreste, di
eserciti, di rovine, di castelli, di roccie, che fanno vagare la mente nelle regioni dei sogni. In queste
notti oscure, è bello il contemplare Stambul da un’alta terrazza e abbandonarsi alla propria fantasia:
penetrar col pensiero in quella grande città tenebrosa, scoperchiare quella miriade di arem rischiarati
da una luce languente, veder le belle favorite che tripudiano, le abbandonate che piangono, gli
eunuchi frementi che tendono l’orecchio alle porticine; seguire gli amanti notturni per i labirinti dei
vicoli montuosi; girare per le gallerie silenziose del gran bazar, passeggiare per i vasti cimiteri
deserti, smarrirsi in mezzo alle innumerevoli colonne delle grandi cisterne sotterranee; raffigurarsi
d’esser rimasti chiusi nella gigantesca moschea di Solimano e di far risonare le navate oscure di
grida di spavento e d’orrore strappandosi i capelli e invocando la misericordia di Dio; e poi tutt’a un
tratto esclamare: Che baie! Sono sulla terrazza del mio amico Santoro, e nella sala di sotto
m’aspetta una cena da sibarita in compagnia dei più amabili capi ameni di Pera.
*
* *
[La vita a Costantinopoli]
In casa del mio buon amico Santoro si radunavano ogni sera molti italiani: avvocati, artisti,
medici, negozianti, coi quali passai delle ore carissime. Quella era una conversazione! Se fossi stato
stenografo, avrei potuto cavarne ogni sera un libro amenissimo. Il medico che aveva visitato un
arem, il pittore ch’era stato sul Bosforo a fare il ritratto a un pascià, l’avvocato che aveva difeso una
causa dinanzi a un tribunale, il caposcarico che aveva stretto il nodo d’un amoretto internazionale,
raccontavano le loro avventure, ed ogni racconto era un bozzetto graziosissimo di costumi orientali.
Ogni momento se ne sentiva una nuova. Arrivava uno: Sapete quello che è seguito stamani? Il
Sultano ha tirato un calamaio sulla testa al ministro delle finanze. Arrivava un altro: Avete
inteso la notizia? Il governo, dopo tre mesi, ha finalmente pagato gli stipendi agli impiegati, e
Galata è inondata da un torrente di monete di rame. Arrivava un terzo, e raccontava che un turco
presidente di tribunale, irritato delle cattive ragioni colle quali un cattivo avvocato francese
difendeva una causa sballata, gli aveva fatto questo bel complimento in presenza di tutto l’uditorio:
Caro avvocato, è inutile che tu ti affanni tanto per far parer buona la tua causa; la... e aveva
pronunziato in tutte lettere la parola di Cambronne per quanto la si volti e la si rivolti, è sempre...
e aveva pronunziato un’altra volta quella parola. La conversazione, naturalmente, spaziava in un
campo geografico affatto nuovo per me. Colla stessa frequenza con cui si parla fra noi di persone e
di cose di Parigi, di Vienna, di Ginevra, là si parlava di persone e di cose di Tiflis, di Trebisonda, di
Teheran, di Damasco, dove uno aveva un amico, un altro c’era stato, un terzo ci voleva andare; io
mi sentivo nel centro d’un altro mondo, e tutt’intorno mi si aprivano nuovi orizzonti. E qualche
volta pensavo con rammarico al giorno in cui avrei dovuto rientrare nel cerchio angusto della mia
vita ordinaria. Come potrò più adattarmi dicevo tra me a quei soliti discorsi e a quei soliti casi?
E questo è un sentimento che provano tutti gli Europei di Costantinopoli. A chi ha vissuto quella
vita, ogni altra pare che debba riuscire scolorita e uniforme. È una vita più leggiera, più facile, più
giovanile di quella d’ogni altra città d’Europa. Quel viver come accampati in un paese straniero,
in mezzo a un succedersi continuo d’avvenimenti strani e imprevedibili, finisce coll’infondere un
certo sentimento della instabilità e della futilità delle cose mondane, che somiglia molto alla fede
fatalistica dei musulmani, euna certa serenità spensierata d’avventurieri. L’indole di quel popolo
che vive, come disse un poeta, in una specie di famigliarità intima colla morte, considerando la vita
come un pellegrinaggio, durante il quale nè c’è tempo nè mette conto di prefiggersi dei grandi scopi
da conseguire con lunghe fatiche, si attacca a poco a poco anche all’europeo, e lo riduce a vivere un
po’ alla giornata, senza frugar troppo dentro stesso, e facendo nel mondo, per quanto gli è
possibile, la parte semplice e riposata di spettatore. L’aver che fare con popoli tanto diversi, e il
dover pensare e parlare un po’ a modo di tutti, allo spirito una certa leggerezza che lo fa come
sorvolare a molti sentimenti ed idee, a cui noi, nei nostri paesi, vorremmo che si conformasse il
mondo, e per ottenerlo, e del non poterlo ottenere, ci affanniamo. Oltrechè la presenza del popolo
musulmano, oggetto continuo di curiosità e di osservazione, è uno spettacolo di tutti i giorni, che
rallegra e svia la mente da molti pensieri e da molte cure. E a questo giova anche la forma della città
assai più che non potrebbero fare le città nostre, nelle quali lo sguardo e il pensiero è quasi sempre
come imprigionato in una strada o in un circuito angusto; mentre là, ad ogni tratto, occhio e mente
trovano una scappatoia per la quale si slanciano a immense lontananze ridenti. E c’è infine una
illimitata libertà di vita, concessa dalla grandissima varietà dei costumi: tutto si può fare, nulla
stupisce; la notizia della cosa più strana muore appena uscita in quell’immensa anarchia morale; gli
europei vivono come in una confederazione di repubbliche; vi si gode la libertà che si godrebbe
in qualunque città europea nel momento d’un grande trambusto; è come un veglione interminabile o
un perpetuo martedì grasso. Per questo, più che per la bellezza, Costantinopoli è una città, che non
si può abitare un certo tempo, senza ricordarla poi con un sentimento quasi di nostalgia; per questo
gli europei l’amano ardentemente e vi mettono radici profonde; ed è giusto in questo senso il
chiamarla come i turchi «la fata dai mille amanti» o dire col loro proverbio che chi ha bevuto
dell’acqua di Top-hané, – non c’è più rimedio, – è innamorato per la vita.
*
* *
[Gl’Italiani]
La colonia italiana è una delle più numerose di Costantinopoli; ma non delle più prospere. Ha
pochi ricchi, molti miserabili, specialmente operai dell’Italia meridionale che non trovan lavoro, ed
è la colonia più meschinamente rappresentata dalla stampa periodica, quando pure è rappresentata,
perchè i suoi giornali non fanno che nascere e morire. Quando c’ero io, s’aspettava l’apparizione
del Levantino, ed era uscito intanto un numero di saggio, che annunziava i titoli accademici e i
meriti speciali del direttore: settantasette in tutto, senza contare la modestia. Bisogna passeggiare la
mattina della domenica in via di Pera, quando le famiglie italiane vanno alla messa. Si sentono
parlare tutti i dialetti d’Italia. Io mi ci godevo; ma non sempre. Qualche volta sentivo quasi pietà al
vedere tanti miei concittadini senza patria, molti dei quali dovevano esser stati sbalestrati chi sa
da che avvenimenti dolorosi o strani; al veder quei vecchi, che forse non avrebbero mai più riveduta
l’Italia; quei bambini, a cui quel nome non doveva risvegliare che un’immagine confusa d’un paese
caro e lontano; quelle ragazze di cui molte dovevano forse sposare uomini d’un’altra nazione, e
fondar famiglie in cui non sarebbe rimasto altro d’italiano che il nome e le memorie della madre.
Vedevo delle belle genovesine che parevano discese allora dai giardini dell’Acquasola, dei bei
visetti napoletani, delle testine capricciose che mi pareva d’aver incontrate cento volte sotto i portici
di Po o sotto la Galleria di Milano. Avrei voluto legarle tutte a due a due con un nastrino color di
rosa, metterle in un bastimento e ricondurle in Italia filando quindici nodi all’ora. Come curiosità,
avrei anche voluto portare in Italia un saggio della lingua italiana che si parla a Pera dagl’italiani
nati nella colonia; e specialmente da quelli della terza o della quarta generazione. Un accademico
della Crusca che li sentisse, si metterebbe a letto colla terzana. La lingua che formerebbero
mescolando il loro italiano un usciere piemontese, un fiaccheraio lombardo e un facchino
romagnolo, credo che sarebbe meno sciagurata di quella che si parla in riva al Corno d’oro. È un
italiano già bastardo, screziato d’altre quattro o cinque lingue alla loro volta imbastardite. E il
curioso è che, in mezzo agl’infiniti barbarismi, si senton dire di tratto in tratto, da coloro che hanno
qualche coltura, delle frasi scelte e delle parole illustri, come dei puote, degli imperocchè, degli a
ogni piè sospinto, degli havvi, dei puossi; ricordi di letture d’Antologia, colle quali molti di quei
nostri buoni compatrioti cercano, nei ritagli di tempo, di rifarsi la bocca al toscano parlar celeste.
Ma appetto agli altri, costoro posson pretendere, come diceva il Cesari, alla fama di buoni dicitori.
Ce n’è di quelli che non si capiscono quasi più. Un giorno fui accompagnato non so dove da un
giovanetto italiano di sedici o diciassette anni, amico d’un mio amico, nato a Pera. Per strada,
attaccai discorso. Mi parve che non volesse parlare. Rispondeva a mezza voce, a parole tronche,
abbassando la testa, e facendo il viso rosso: si vedeva che pativa.– Via che cos’ha? gli domandai.
– Ho – rispose sospirando – che parlo tanto male! – Continuando a discorrere, in fatti, m’accorsi che
balbettava un italiano bizzarro, pieno di parole contraffatte e incomprensibili, molto somigliante a
quella così detta lingua franca, la quale, come disse un bell’umore francese, consiste in un certo
numero di vocaboli e di modi italiani, spagnuoli, francesi, greci, che si buttano fuori l’un dopo
l’altro rapidissimamente, finchè se ne imbrocca uno che sia capito dalla persona che ascolta. Questo
lavoro, però, occorre raramente di farlo a Pera e a Galata, dove un po’ d’italiano lo capiscono e lo
parlano quasi tutti, compresi i turchi. Ma è lingua, se si può chiamar lingua, quasi esclusivamente
parlata, se si può dir parlata. La lingua più comunemente usata scrivendo è la francese. Letteratura
italiana non ce n’è. Mi ricordo soltanto d’aver trovato un giorno, in un caffè di Galata affollato di
negozianti, in fondo a un giornaletto commerciale scritto metà in francese e metà in italiano, sotto le
notizie della Borsa, otto versetti malinconici, che parlavano di zeffiri, di stelle e di sospiri. Oh
povero poeta! Mi parve di veder lui, in persona, sepolto sotto un mucchio di mercanzie, che esalasse
con quei versi il suo ultimo fiato.
*
* *
[I teatri]
A Costantinopoli, chi è molto forte di stomaco, può passar la sera al teatro, e può scegliere tra
una canaglia di teatruccoli d’ogni specie, molti dei quali sono insieme giardini e birrerie, e in
qualcuno si ritrova sempre la commedia italiana, o piuttosto una muta di attori italiani, i quali fanno
spesso desiderare di veder convertita la platea in un vasto mercato di frutte verdi. I turchi, però,
frequentano di preferenza i teatri in cui certe francesi imbellettate, scollacciate e sfrontate, cantano
delle canzonette coll’accompagnamento d’un’orchestra da galera. Uno di questi teatri era allora
l’Alhambra, posto nella gran via di Pera: un lungo stanzone, sempre affollato, e tutto rosso di fez
dal palco scenico alla porta. Che cosa fossero quelle canzonette e con che razza di gesti quelle
intrepide signore s’ingegnassero di farne capire ai turchi i significati riposti, non si può
immaginare nè credere. Solo chi è stato al teatro los Capellanes di Madrid, può dire d’aver sentito e
visto qualchecosa di simile. Agli scherzi più procaci, ai gesti più impudenti, tutti quei turconi, seduti
in lunghe file, prorompevano in grasse risa; e cadendo allora dalle loro faccie la maschera della
dignità abituale, vi appariva tutto il fondo della loro natura e tutti i segreti della loro vita
grossolanamente sensuale. Eppure non v’è nulla che il turco nasconda abitualmente così bene come
la sensualità della sua natura e della sua vita. Per le strade, l’uomo non s’accompagna mai alla
donna; raramente la guarda; più raramente ne parla; ritiene quasi come un’offesa che gli si domandi
notizia delle sue mogli; a giudicar dalle apparenze, si direbbe che quel popolo è il più casto e il più
austero della terra. Ma sono mere apparenze. Quello stesso turco che arrossisce fino alle orecchie se
gli si domanda come sta la sua sposa, manda i suoi bimbi e le sue bimbe a sentire le turpissime
oscenità di Caragheus, che corrompe la loro fantasia prima che si sian svegliati i loro sensi; ed egli
stesso dimentica sovente le dolcezze dell’arem per le voluttà nefande di cui diede il primo esempio
famoso Baiazet la folgore, e non l’ultimo, probabilmente, Mahmut il riformatore. E quando non ci
fosse altro, basterebbe quel Caragheus a dare nello stesso tempo un’immagine e una prova della
profonda corruzione che si nasconde sotto il velo dell’austerità musulmana. È una figurina grottesca
che rappresenta la caricatura del turco del mezzo ceto, una specie d’ombra chinese, che muove le
braccia, le gambe e la testa dietro un velo trasparente, e fa quasi sempre da protagonista in certe
commediole strampalatamente buffonesche, di cui il soggetto è per lo più un intrigo amoroso. Egli è
un quissimile, ma depravato, di Pulcinella: sciocco, furbo e cinico, lussurioso come un satiro,
sboccato come una baldracca, e fa ridere, anzi urlare d’entusiasmo l’uditorio con ogni sorta di lazzi,
di bisticci e di gesticolamenti stravaganti, che sono o nascondono ordinariamente un’oscenità. E di
che natura siano queste oscenità, è facile immaginarlo quando si sappia che se Caragheus nello
spirito somiglia a Pulcinella, nel corpo somiglia a Priapo; della quale somiglianza, prima che la
censura restringesse d’alquanto la sua libertà sconfinata, egli dava tratto tratto la prova visibile alla
platea, e spesso tutta la commedia girava sopra questo nobilissimo perno.
*
* *
[La cucina]
Volendo fare un po’ di studio anche della cucina turca, mi feci condurre dai miei buoni amici di
Pera in una trattoria ad hoc, dove si trova qualunque piatto orientale, dalle più squisite ghiottornie
del Serraglio fino alla carne di cammello acconciata all’araba e alla carne di cavallo condita alla
turcomanna. L’amico Santoro ordinò un desinare rigorosamente turco dall’antipasto alle frutta, ed
io, incoraggiandomi col pensiero dei molti uomini egregi morti per la scienza, mandai giù un po’ di
tutto senza emettere un grido. Ci furono serviti più d’una ventina di piatti. I Turchi, come gli altri
popoli orientali, sono un po’ in questo come i ragazzi: al satollarsi di poche cose, preferiscono il
beccare un tantino di moltissime; pastori d’ieri l’altro, poichè son diventati cittadini, pare che
disdegnino la semplicità del mangiare come una pitoccheria da villani. Non potrei rendere un conto
esatto di tutte le pietanze poichè di molte non m’è rimasta che una vaga reminiscenza sinistra.
Ricordo il Rebab, che è composto di piccolissimi pezzetti di montone arrostiti a fuoco vivo, conditi
con molto pepe e molto garofano, e serviti su due biscotti molli e grassi: piatto indicabile per i reati
leggieri. Risento ancora qualche volta il sapore del pilav, composto di riso e di montone, ch’è il sine
qua non di tutti i desinari, e per così dire il piatto sacramentale dei turchi, come i maccheroni per i
napoletani, il cuscussù per gli arabi e il puchero per gli Spagnuoli. Ricordo, ed è la sola cosa che
ricordi con desiderio, il Rosh’ab, che si beve col cucchiaio in fin di tavola: fatto d’uva secca, di
pomi, di prune, di ciliegie e d’altre frutta, cotte nell’acqua con molto zucchero, e aggraziate con
essenza di muschio o con acqua di rosa e di cedro. C’erano poi molti altri piattini di carne d’agnello
e di montone, ridotta in bricioli e bollita tanto che non aveva quasi più sapore; dei pesci natanti
nell’olio, delle pallottoline di riso ravvolte in foglie di vite, della zucca giulebbata, delle insalatine
impastate, delle composte, delle conserve, degl’intingoli conditi con ogni sorta di erbe aromatiche,
da poterne notar uno in coda ad ogni articolo del codice penale, per i delinquenti recidivi. Infine un
gran piatto di dolci, capolavoro di qualche pasticciere arabo, fra cui v’era un piccolo piroscafo, un
leoncino chimerico e una casettina di zucchero colle sue finestrine ingraticolate. Tutto sommato, mi
parve d’essermi vuotata in corpo una farmacia portatile, e d’aver veduto uno di quei desinaretti che
preparano per spasso i ragazzi, coprendo una tavola di piattini pieni di mattone trito, d’erba pesta e
di frutti spiaccicati, che facciano un bel vedere di lontano. Tutti quei piatti vengon serviti
rapidamente a quattro o cinque alla volta, e i turchi vi pescano colle dita, non essendo in uso fra loro
altro che il coltello e il cucchiaio; e serve per tutti una sola coppa, nella quale un servitore versa
continuamente acqua concia. Così non facevano però i turchi che desinavano vicino a noi nella
trattoria. Eran turchi amanti dei proprii comodi, tanto è vero che tenevano le babbuccie sulla tavola;
avevano ciascuno il loro piatto, si servivano bravamente della forchetta, e trincavano liquore a tutto
spiano, in barba a Maometto. Osservai di più che non baciarono il pane, da buoni musulmani, prima
di cominciare a mangiare, e che non si peritavano a slanciare tratto tratto un’occhiata concupiscente
alle nostre bottiglie, quantunque, giusta le sentenze dei muftì, sia peccato anche il fissar gli occhi
sopra una bottiglia di vino. Del resto questo «padre delle abbominazioni», del quale basta una
goccia a far cadere sul capo del musulmano «gli anatemi di tutti gli angioli del cielo e della terra» va
di giorno in giorno guadagnando devoti fra i turchi, e ormai si può dire che è un resto di rispetto
umano quello che li trattiene dal rendergli un pubblico omaggio; e io credo che se un giorno
scendesse tutt’a un tratto sopra Costantinopoli una tenebra fitta, e dopo un’ora tornasse a splendere
il sole improvvisamente, si sorprenderebbero cinquantamila turchi colla bottiglia alla bocca. E
anche in questo, come in molti altri traviamenti degli Osmanli, furono la pietra dello scandalo i
Sultani; ed è curioso che sia appunto la dinastia regnante sopra un popolo per il quale è un’offesa a
Dio il bever vino, quella che forse, fra tutte le dinastie d’Europa, ha dato da registrare alla storia un
maggior numero d’ubbriaconi: tanto è parso dolce il frutto proibito anche alle ombre di Dio sulla
terra. Fu, si dice, Baiazet I quello che iniz la serie interminabile delle cotte imperiali, e come nel
peccato originale, fu anche in questo prima colpevole la donna: la moglie dello stesso Baiazet, figlia
del re dei Serbi, che offerse al marito il primo bicchiere di Tokai. Poi Baiazet II s’ubbriacò di vin di
Cipro e di vin di Schiraz. Poi quel medesimo Solimano I, che fece bruciare nel porto di
Costantinopoli tutti i bastimenti carichi di vino e versar piombo liquefatto in bocca ai bevitori, morì
brillo per mano d’un arciere. Poi venne Selim II, soprannominato il messth, l’ubbriaco, il quale
pigliava delle bertucce che duravan tre giorni, e durante il suo regno trincarono pubblicamente
uomini di legge e uomini di religione. Invano Maometto III tuona contro «l’abbominazione
suggerita dal demonio»; invano Ahmed I fa distruggere tutte le taverne e sfondare tutti i tini di
Stambul; invano Murad IV gira per la città accompagnato dal carnefice, e fa cader la testa di chi ha
il fiato vinoso. Egli stesso, l’ipocrita feroce, barcolla per le sale del serraglio come un bettolante
plebeo; e dopo di lui la bottiglia, piccolo e festoso folletto nero, irrompe nei serragli, si caccia nelle
botteghe dei bazar, si nasconde sotto il capezzale dei soldati, ficca la sua testa inargentata o
purpurea sotto il divano delle belle, e violata la soglia delle moschee, spruzza le sue spume
sacrileghe sulle pagine ingiallite del Corano.
*
* *
[Maometto]
A proposito di religione, io non potevo, passeggiando per Costantinopoli, levarmi dalla testa
questo pensiero: se non si sentisse la voce dei muezzin, come s’accorgerebbe un cristiano che la
religione di questo popolo non è la sua? L’architettura bizantina delle moschee può farle parere
chiese cristiane; del rito islamitico non si vede alcun segno esteriore; i soldati turchi scortano il
viatico; un cristiano ignorante potrebbe vivere un anno a Costantinopoli senz’accorgersi che sulla
maggior parte della popolazione regna Maometto invece di Cristo. E questo pensiero mi
riconduceva sempre a quello delle piccole differenze sostanziali, del filo d’erba, come dicevano gli
abissini cristiani ai primi seguaci di Maometto, che divide le due religioni; e alla piccola causa per
la quale avvenne che l’Arabia si convertisse all’islamismo, invece che al cristianesimo, o se non al
cristianesimo a una religione così strettamente affine ad esso, che, o confondendosi con esso
posteriormente od anche rimanendo tal quale, avrebbe mutate affatto le sorti del mondo orientale. E
quella piccola causa fu la natura voluttuosa d’un bel giovane arabo, alto, bianco, dagli occhi neri,
dalla voce grave, dall’anima ardente, il quale, non avendo la forza di dominare i propri sensi, invece
di recidere alle radici il vizio dominante del suo popolo, si contentò di potarlo; invece di proclamare
l’unità coniugale come proclamò l’unità di Dio, non fece che stringere in un cerchio più angusto,
consacrato dalla religione, la dissolutezza e l’egoismo dell’uomo. Certo ch’egli avrebbe avuto a
vincere una resistenza più forte; ma non può parere impossibile che la vincesse, chi atterrò, per
fondare il culto d’un Dio unico fra un popolo idolatra, un edifizio enorme di tradizioni, di
superstizioni, di privilegi, d’interessi d’ogni natura, strettissimamente intrecciati da secoli, e chi fece
accettare fra i dogmi della sua religione, per cui morirono poi milioni di credenti, un paradiso, il cui
primo annunzio destò in tutto il suo popolo un sentimento d’indignazione e di scherno. Ma il bel
giovane arabo patteggiò coi suoi sensi e mezza la terra mutò faccia, poichè fu veramente la
poligamia il vizio capitale della sua legislazione, e la cagione prima della decadenza di tutti i popoli
che abbracciarono la sua fede. Senza questa degradazione dell’un sesso a favore dell’altro, senza la
sanzione di questa enorme ingiustizia, che turba tutto quanto l’ordine dei doveri umani, che
corrompe la ricchezza, che opprime la povertà, che fomenta l’ignavia, che snerva la famiglia, che
generando la confusione dei diritti di nascita nelle dinastie regnanti, sconvolge le reggie e gli Stati,
che s’oppone, infine, come una barriera insuperabile all’unione della società musulmana colle
società d’altra fede che popolano l’oriente; se, per tornare alla prima cagione, il bel giovane arabo
avesse avuto la disgrazia di nascere un po’ meno robusto o la forza di vivere un po’ più casto, chi
sa! forse ci sarebbe ora un Oriente ordinato e civile, e sarebbe più innanzi d’un secolo la civiltà
universale.
*
* *
[Il Ramazan]
Trovandomi a Costantinopoli nel mese di Ramazan, che è il nono mese dell’anno turco, nel
quale cade la quaresima musulmana, vidi ogni sera una scena comica che merita d’essere descritta.
Durante tutta la quaresima è proibito ai turchi di mangiare, di bere e di fumare dal levar del sole al
tramonto. Quasi tutti gozzovigliano poi tutta la notte; ma fin che c’è il sole, rispettano quasi tutti il
precetto religioso, e nessuno ardisce di trasgredirlo pubblicamente. Una mattina il mio amico ed io
andammo a visitare un nostro conoscente, aiutante di campo del Sultano, un giovane ufficiale
spregiudicato, e lo trovammo in una stanza a terreno del palazzo imperiale, con una tazza di caffè
fra le mani. Come mai gli domandò Yunk osate prendere il caffè dopo il levar del sole?
L’ufficiale scrollò le spalle e rispose che se ne rideva del Ramazan e del digiuno; ma proprio in quel
punto s’aperse improvvisamente una porta, ed egli fece un movimento così rapido per nasconder la
tazza, che se la versò mezza sui piedi. Si capisce da questo che rigorosa astinenza debbano serbare
tutti coloro che stanno tutto il giorno sotto gli occhi della gente: i barcaiuoli per esempio. Per
godersela, bisogna andarli a vedere dal ponte della Sultana Validè, qualche minuto prima che si
nasconda il sole. Tra quei che stan fermi e quei che vogano, tra vicini e lontani, se ne vede intorno a
un migliaio. Sono tutti digiuni dall’alba, arrabbiano dalla fame, han già la loro cenetta pronta nel
caicco, girano continuamente gli occhi dal sole alla cena e dalla cena al sole, s’agitano e sbuffano
come le fiere d’un serraglio nel momento della distribuzione delle carni. Il nascondersi del sole è
annunziato da un colpo di cannone. Non c’è caso che prima di quel momento sospirato nessuno si
metta in bocca un briciolo di pane una goccia d’acqua. Qualche volta, in un angolo del Corno
d’oro, abbiamo stimolato a mangiare i barcaiuoli che ci conducevano; ma ci hanno sempre risposto:
Jok! Jok! Jok! No, no, no –, accennando il sole con un atto timoroso. Quando il sole è nascosto
per più della metà dietro i monti, cominciano a prendere in mano i loro pani, e a palparli e a fiutarli
voluttuosamente. Quando non si vede più che un sottile arco luminoso, allora tutti quei che son
fermi e tutti quei che remano, quelli che attraversano il Corno d’oro, quelli che guizzano sul
Bosforo, quelli che vogano nel Mar di Marmara, quelli che riposano nei seni più solitarii della riva
asiatica, tutti si voltano verso occidente, e stanno immobili collo sguardo nel sole, colla bocca
aperta, col pane in aria, colla gioia negli occhi. Quando non si vede più che un punto di foco, già i
mille pani toccano le mille bocche. Finalmente il punto di foco si spegne, il cannone tuona, e nello
stesso momento trentaduemila denti staccano dai mille pani mille enormi bocconi; ma che dico
mille! in tutte le case, in tutti i caffè, in tutte le taverne, accade nel medesimo punto la medesima
cosa; e per qualche minuto, la città turca non è più che un mostro di centomila bocche che tracanna
e divora.
*
* *
[Costantinopoli antica]
Ma che cosa doveva essere quella città nei bei tempi della gloria ottomana! Io non potevo
levarmi dalla testa questo pensiero. Allora, dal Bosforo tutto bianco di vele, non s’alzava un nuvolo
di fumo nero a macchiar l’azzurro del cielo e delle acque. Nel porto e nei seni del Mar di Marmara,
fra le vecchie navi da guerra, dalle alte poppe scolpite, dalle mezzelune d’argento, dagli stendardi di
porpora, dai fanali d’oro, galleggiavano carcasse fracassate e insanguinate di galere genovesi,
veneziane e spagnuole. Sul Corno d’oro non v’erano ponti: da una sponda all’altra guizzava
perpetuamente una miriade di barchette pompose, in mezzo alle quali spiccavano di lontano le
lancie bianchissime del serraglio, coperte di baldacchini scarlatti dalle frangie dorate, e condotte da
rematori vestiti di seta. Scutari era ancora un villaggio; di da Galata non si vedevano che case
sparpagliate per la campagna; nessun grande palazzo alzava ancora la testa sopra la collina di Pera;
l’aspetto della città era meno grandioso che non è ora; ma era più schiettamente orientale. La legge
che prescriveva i colori essendo ancora in vigore, dai colori delle case si riconosceva la religione
degli abitanti: Stambul era tutta gialla e rossa, fuorchè gli edifizi pubblici e sacri ch’erano bianchi
come la neve; i quartieri armeni erano cinerini chiari, i quartieri greci cinerini carichi, i quartieri
ebrei pavonazzi. Era universale, come in Olanda, la passione dei fiori, e i giardini parevan grandi
mazzi di giacinti, di tulipani e di rose. La vegetazione rigogliosa delle colline non essendo ancora
atterrata dai nuovi sobborghi, Costantinopoli presentava l’immagine d’una città nascosta in una
foresta. Dentro non c’eran che viuzze; ma le abbelliva una folla meravigliosamente pittoresca. Non
si vedevano che turbanti enormi, che davano alla popolazione mascolina un’apparenza colossale e
magnifica. Tutte le donne, fuor che la madre del sultano, essendo rigorosamente velate, e in modo
da non lasciar vedere che gli occhi, formavano una popolazione a parte, anonima ed enimmatica,
che spandeva per tutta la città un’aura di mistero gentile. Una legge severa determinando il vestiario
di tutti, si distinguevano dalle forme dei turbanti e dai colori dei caffettani i ceti, i gradi, gli uffici, le
età, come se Costantinopoli fosse un’immensa corte. Il cavallo essendo ancora quasi «il solo
cocchio dell’uomo», giravano per le vie migliaia di cavalieri, e le lunghe file dei cammelli e dei
dromedarii dell’esercito che attraversavano la città in tutte le direzioni le davano l’aspetto selvaggio
e grandioso d’un’antica metropoli asiatica. Le arabà dorate, tratte dai buoi, s’incrociavano colle
carrozze rivestite di panno verde degli ulemi, con quelle rivestite di panno rosso dei Kadì-aschieri,
colle talike leggerissime dalle tendine di raso, colle bussole ornate di pitture fantastiche. Schiavi di
tutti i paesi, dalla Polonia all’Etiopia, passavano a frotte, facendo risuonare le loro catene ribadite
sui campi di battaglia. Sui crocicchi, nelle piazze, nei cortili delle moschee, si vedevano gruppi di
soldati vestiti di cenci gloriosi, che mostravano le braccia monche e le cicatrici ancor fresche delle
ferite toccate a Vienna, a Belgrado, a Rodi, a Damasco. Centinaia di rapsodi dalla voce tonante e dal
gesto ispirato raccontavano, in mezzo a crocchi di musulmani superbi, le gesta degli eserciti che
combattevano a tre mesi di marcia da Stambul. I pascià, i bey, gli agà, i musselim, un’infinità di
dignitari e di gran signori, vestiti con uno sfarzo teatrale, accompagnati da frotte di servi, fendevano
la folla che si curvava al loro passaggio come una messe sotto il soffio del vento; passavano, con un
corteo da principi, ambasciatori di tutti gli Stati d’Europa, venuti a chieder pace o alleanza;
sfilavano carovane cariche di doni di re affricani ed asiatici; sciami di silidar e di spahì fastosi e
insolenti, trascinavano per le vie i sciaboloni macchiati del sangue di venti popoli, e i bei paggi
greci ed ungheresi del serraglio, vestiti come piccoli re, passeggiavano alteramente fra la
moltitudine ossequiosa, che rispettava in loro i capricci snaturati del suo Signore. Qua e là, dinanzi
alle porte, si vedeva un trofeo di bastoni nodosi: era un corpo di guardia di Giannizzeri, che allora
esercitavano la polizia nell’interno della città. S’incontravano degli ebrei che portavano nel Bosforo
il corpo dei giustiziati; si trovava ogni mattina nel Balik-bazar qualche cadavere disteso in terra, con
la testa sotto l’ascella destra, la sentenza sul petto e una pietra sulla sentenza; si vedevano per le vie
nobili impiccati al primo gancio o alla prima trave che avevan trovata i carnefici frettolosi;
s’inciampava di notte in qualche disgraziato buttato in mezzo alla strada da una stanza di tortura
dove gli avevano spezzato i piedi e le mani con una mazza; si vedevano sotto il sole di mezzogiorno
dei mercanti colti in frode inchiodati per un orecchio all’uscio della loro bottega. E non c’essendo
ancora la legge che restrinse poi la libertà sconfinata delle sepolture, si vedevano scavar fosse e
sotterrar morti, ad ogni ora del giorno, nei giardini, nei vicoli, nelle piazze, dinanzi alle porte delle
case. Si sentivano nei cortili gli urli dei montoni e degli agnelli scannati in olocausto ad Allà per le
nascite e per le circoncisioni. A quando a quando passava di galoppo un drappello d’eunuchi
gridando e minacciando, le vie si facevano deserte, le porte si chiudevano, le finestre si coprivano,
un intiero quartiere pareva morto: e allora passavano in una fila di carrozze luccicanti le belle del
Gran Signore, che empievano l’aria di profumi e di risa. Qualche volta un personaggio della corte,
attraversando una strada affollata, impallidiva improvvisamente alla vista di sei popolani di
meschina apparenza che entravano in una bottega: quei sei popolani erano il sultano, quattro
ufficiali e un carnefice, che giravano di bottega in bottega per verificare i pesi e le misure. In tutto
quanto il corpo enorme di Costantinopoli ribolliva una vita pletorica e febbrile. Il tesoro riboccava
di gemme, gli arsenali, d’armi, le caserme, di soldati, i caravanserai, di viaggiatori; il mercato di
schiavi era un formicaio di belle, di mercantesse e di gran signori; i dotti s’affollavano nei grandi
archivii delle moschee; i vizir dalla lunga lena preparavano alle generazioni future gli annali
sterminati dell’impero; i poeti, pensionati dal serraglio, si raccoglievano nei bagni a cantare le
guerre e gli amori imperiali; turbe d’operai bulgari ed armeni lavoravano ad innalzar moschee con
blocchi di granito d’Egitto e di marmo di Paros, mentre per mare arrivavano le colonne dei tempii
dell’Arcipelago e per terra le spoglie delle chiese di Pest e di Ofen; nel porto si allestivano le flotte
di trecento vele che dovevano portare il terrore su tutte le rive del Mediterraneo; fra Stambul e
Adrianopoli si spandevano cavalcate di settemila falconieri e di settemila guardacaccia, e
negl’intervalli delle rivolte soldatesche, delle guerre lontane, degli incendi che riducevano in cenere
ventimila case in una notte, si celebravano feste di trenta giorni dinanzi ai plenipotenziarii di tutti gli
stati dell’Affrica, dell’Asia e dell’Europa. Allora l’entusiasmo musulmano diventava follia. Al
cospetto del Sultano e della corte, in mezzo a quelle smisurate palme di nozze, cariche d’uccelli, di
frutti e di specchi, per dar passo alle quali si atterravano le case e le mura; in mezzo a file di leoni e
di sirene di zucchero, portati da cavalli ingualdrappati di damasco argentato; in mezzo a monti di
doni reali recati da tutte le parti dell’Impero e da tutte le corti del mondo, si alternavano le finte
battaglie dei giannizzeri, i balli furiosi dei dervis, le mischie sanguinose dei prigionieri cristiani, i
banchetti popolari di diecimila piatti di cuscussù; nell’Ippodromo danzavano gli elefanti e le giraffe;
si sguinzagliavano tra la folla gli orsi e le volpi coi razzi alla coda; alle pantomime allegoriche
succedevano le danze lascive, le mascherate grottesche, le processioni fantastiche, le corse, i carri
simbolici, i giochi, le commedie, le ridde; la festa degenerava a poco a poco, col calar della notte, in
un tumulto forsennato, e cinquecento moschee scintillanti di lumi formavano sopra la cit
un’immensa aureola di foco che annunziava ai pastori delle montagne dell’Asia e ai naviganti della
Propontide, le orgie della nuova Babilonia. Così era Stambul, la sultana formidabile, voluttuosa e
sfrenata; appetto alla quale la città d’oggi non è più che una vecchia regina malata d’ipocondria.
*
* *
[Gli Armeni]
Occupato quasi sempre dei turchi, non ebbi il tempo, come ognuno può capire, di studiare
molto le tre nazioni, armena, greca ed ebrea, che formano la popolazione dei rajà; studio, d’altra
parte, assai lungo, poichè se ognuno di quei popoli ha conservato dal più al meno la natura propria,
la vita esteriore di tutti e tre ha preso come una velatura di colore musulmano, la quale va ora
perdendosi alla sua volta sotto la tinta della civiltà europea: onde presentano tutti e tre la difficoltà
d’osservazione che presenterebbe un quadro mobile e cangiante. Gli armeni, in special modo,
«cristiani di spirito e di fede, e musulmani asiatici di nascita e di carne», non sono soltanto difficili a
studiare intimamente, ma anche a distinguere a occhio dai turchi, poichè quella parte di loro che non
ha ancora preso il vestiario europeo, è vestita alla turca, salvo piccolissime differenze; e non usa
quasi più affatto l’antico berrettone di feltro, che era, con certi colori speciali, il segno distintivo
della nazione. E non differiscono molto dai turchi anche nell’aspetto. Sono per lo più alti di statura,
robusti, corpulenti, di carnagione chiara, d’andatura e di modi gravi, e mostrano nel viso le due
qualità proprie della loro natura: lo spirito aperto, alacre, industrioso, pertinace, per cui sono
meravigliosamente atti al commercio, e quella placidità, che altri vuol chiamare pieghevolezza
servile, con cui riuscirono a farsi un covo per tutto, dall’Ungheria alla China, e a rendersi accetti
particolarmente ai turchi, dei quali si cattivarono la fiducia, sudditi docili e amici ossequenti. Non
hanno fuori dentro nulla di bellicoso e d’eroico. Tali, forse, non erano anticamente nella
regione asiatica da cui vennero, e si dice infatti che siano tuttora assai diversi i loro fratelli che
l’abitano; ma quei che furon trapiantati di qua dal Bosforo, sono veramente un popolo mansueto e
prudente, modesto nella vita, non inteso ad altro che ai suoi traffici, e più sinceramente religioso, si
dice, d’ogni altro popolo di Costantinopoli. I turchi li chiamano i cammelli dell’impero e i franchi
dicono che ogni armeno nasce calcolatore; questi due motti sono in gran parte giustificati dal fatto,
poichè in grazia appunto della loro forza fisica e della loro intelligenza agile ed acuta, oltre a un
buon numero d’architetti, d’ingegneri, di medici, d’artefici ingegnosi e pazienti, essi forniscono a
Costantinopoli la maggior parte dei facchini e dei banchieri: facchini che portan pesi e banchieri che
ammassano tesori favolosi. A primo aspetto, però, nessuno s’accorgerebbe che v’è un popolo
armeno a Costantinopoli, tanto la pianta ha preso, come suol dirsi, il colore del concio. Le donne
stesse, per cagione delle quali la casa armena è chiusa allo straniero quasi altrettanto severamente
che la musulmana, vestono alla turca, e non c’è che un occhio molto esperto che le possa
riconoscere in mezzo alle loro concittadine maomettane. Sono anch’esse per lo più bianche e
grassotte, ed hanno la linea aquilina del profilo orientale, grandi occhi e lunghe ciglia; molte d’alta
statura e di forme matronali, che coronate d’un turbante, parrebbero bellissimi sceicchi; e quasi tutte
d’aspetto signorile e modesto ad un tempo, in cui se qualche cosa manca, è la luce dell’anima che
brilla sul volto della donna greca.
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* *
[I Greci]
Quanto è difficile riconoscere a occhio l’armeno, altrettanto è facile riconoscere il greco, anche
non badando al vestire; tanto egli è diverso di natura e d’aspetto dagli altri sudditi dell’Impero, e
principalmente dal turco. Per rendersi ragione di questa diversità, o piuttosto di questo contrasto,
basta osservare un turco ed un greco, che si trovino seduti l’uno accanto all’altro in un caffè o in un
piroscafo. Hanno un bell’essere press’a poco della stessa età e dello stesso ceto, e vestiti tutt’e due
all’europea, ed anche somiglianti di viso; non è possibile sbagliare. Il turco è immobile, e tutti i suoi
lineamenti riposano in una specie di quiete senza pensiero, che somiglia a quella d’un animale
satollo; o se il suo viso rivela un pensiero, pare che debba essere un pensiero immobile come il suo
corpo. Non guarda nessuno, non segno d’accorgersi d’esser guardato; il suo atteggiamento
mostra una profonda noncuranza di tutti coloro e di tutto quello che ha intorno; il suo viso esprime
qualcosa della tristezza rassegnata d’uno schiavo e dell’orgoglio freddo d’un despota; un che di
duro, di chiuso, di cocciuto, da far disperare alla prima chi si proponesse di persuaderlo di qualche
cosa o di rimoverlo di una risoluzione. Ha, insomma, l’aspetto d’uno di quegli uomini tutti d’un
pezzo, coi quali pare che non si possa vivere altrimenti che obbedendoli o comandandoli; e che per
quanto tempo ci si viva insieme, non si debba mai poterci prendere una famigliarità intera. Il greco
invece è mobilissimo, e rivela con mille sfuggevoli guizzi dello sguardo e delle labbra tutto quello
che gli passa nell’anima; scuote la testa con movimenti di cavallo indomito; il suo volto esprime
un’alterezza giovanile, e qualche volta quasi fanciullesca; se si vede guardato, s’atteggia; se non è
guardato, si mette in mostra; par sempre che desideri o che fantastichi qualche cosa; spira da tutta la
persona l’accorgimento e l’ambizione; e inspira simpatia, anche se ha la faccia d’un cattivo
soggetto, e gli si darebbe la mano anche quando non si vorrebbe affidargli la borsa. Basta veder
vicini questi due uomini, per capire che l’uno deve parere all’altro un barbaro, un orgoglioso, un
prepotente, un brutale; che questi deve giudicar quello un uomo leggiero, falso, maligno, turbolento;
e che debbono disprezzarsi e detestarsi reciprocamente con tutte le forze dell’anima; e non trovar la
via di vivere d’accordo. La stessa differenza si osserva tra le donne greche e le altre donne
levantine. In mezzo alle turche e alle armene belle e floride, ma che toccan quasi più i sensi di
quello che parlino all’anima, si riconoscono alla prima, con un sentimento di grata meraviglia, i visi
eleganti e puri delle greche, illuminati da due occhi pieni di pensiero, dei quali ogni sguardo fa venir
sulle labbra il verso d’un ode; e i bei corpi maestosi insieme e leggeri, che ispirano il desiderio di
stringerli fra le braccia, piuttosto per metterli sopra un piedestallo, che per portarli nell’arem. Se ne
vedono di quelle che portano ancora i capelli cadenti, all’antica, in lunghe ciocche ondulate, e una
grossa treccia ravvolta intorno alla testa in forma di diadema; così belle, così nobili, così classiche,
che si piglierebbero per statue di Prassitele e di Lisippo, o per giovanette immortali ritrovate dopo
venti secoli in qualche valle ignorata della Laconia o in qualche isoletta dimenticata dell’Egeo. Sono
però rarissime queste bellezze sovrane anche tra le greche, e oramai non se ne trova più esempio che
fra la vecchia aristocrazia dell’impero, nel quartiere silenzioso e triste del Fanar, dove s’è rifugiata
l’anima dell’antica Bisanzio. Là si vede ancora qualche volta una di quelle donne superbe affacciata
a un balcone a balaustri, o all’inferriata d’una finestra altissima, cogli occhi fissi nella strada
solitaria, nell’atteggiamento d’una regina prigioniera; e quando il servidorame dei discendenti dei
Paleologhi e dei Comneni, non sta oziando dinanzi alle porte, si può, contemplandola di nascosto,
credere per un momento di veder per lo squarcio d’una nuvola il viso d’una dea dell’Olimpo.
*
* *
[Gli Ebrei]
Riguardo alle ebree, posso affermare, dopo esser stato nel Marocco, che quelle di
Costantinopoli non hanno che fare con quelle della costa settentrionale dell’Affrica, nelle quali i
dotti osservatori credono di vedere ancora in tutta la sua purezza il primo tipo orientale della
bellezza ebraica. Colla speranza di trovare questa bellezza, mi armai di coraggio, e feci molti giri
per il vasto ghetto di Balata, che s’allunga, come un serpente immondo, sulla riva del Corno d’oro.
Mi spinsi fin nei vicoli più miserabili, in mezzo a casupole «grommate di muffa» come le ripe della
bolgia dantesca, per crocicchi dove non ripasserei più che sui trampoli e colle narici turate;
guardando per le finestre tappezzate di cenci nauseabondi, nelle stanze nere e viscose;
soffermandomi dinanzi alle porte dei cortili umidi da cui usciva un tanfo da mozzare il fiato,
facendomi largo in mezzo a gruppi di ragazzi scrofolosi e tignosi, toccando col gomito dei vecchi
orrendi, che parevano morti di peste risuscitati; scansando a ogni passo cani coperti di piaghe e laghi
di mota nera e panni schifosi appesi a corde bisunte, e mucchi di putridumi da far cadere in
deliquio; ma il mio coraggio non fu ricompensato. Fra le molte donne che incontrai imbacuccate nel
loro calpak nazionale, che sembra un turbante allungato e copre i capelli e le orecchie, vidi bensì
qualche viso in cui riconobbi quella regolarità delicata di lineamenti e quell’aria soave di
rassegnazione, che si considera come il tratto distintivo delle ebree di Costantinopoli; vidi qualche
vago profilo di Rebecca e di Rachele, dagli occhi a mandorla, pieni di dolcezza e di grazia; e
qualche figura elegante, ritta in un atteggiamento raffaellesco sulla soglia d’una porta, con una mano
sottile appoggiata sul capo ricciuto d’un bimbo. Ma nella maggior parte non vidi che i segni della
degradazione della razza. Che differenza tra quelle figure stentite, e gli occhi di fuoco, i colori
pomposi e le forme opulente che ammirai un anno dopo nei mellà di Tangeri e di Fez! Ed è lo stesso
degli uomini, spersoniti, giallognoli, molli, di cui tutta la vitalità pare che si sia raccolta negli occhi
scintillanti d’astuzia e di cupidigia, che essi girano continuamente intorno a stessi, come se da
tutte le parti sentissero saltellare delle monete. Ed ora m’aspetto che i miei buoni critici israeliti, che
già mi diedero sulle dita a proposito dei loro correligionarii del Marocco, ricantino la stessa
canzone, scrivendo a colpa dei turchi oppressori la decadenza e l’avvilimento degli ebrei di
Costantinopoli. Ma badino che nelle medesime condizioni politiche e civili degli ebrei si trovarono
tutti gli altri sudditi non musulmani della Porta; e che se anche questo non fosse, sarebbe assai
difficile il provare che la vergognosa immondizia, la precocità dei matrimonii e l’astensione da tutti
i mestieri faticosi, considerate come cause efficacissime di quella decadenza, siano una conseguenza
logica della mancanza di libertà e d’indipendenza. E se mi vorranno dire invece, che non
l’oppressione politica dei turchi, ma le piccole persecuzioni e il disprezzo di tutti, sono stati la
cagione di quell’avvilimento, domandino prima a sè stessi se per caso non fosse vero il contrario; se
la prima cagione non sia piuttosto da ricercarsi nei loro costumi e nella loro vita; e se invece di
nasconder la piaga, non sarebbe utile che essi medesimi la toccassero col ferro rovente.
*
* *
[Il bagno]
Dopo aver fatto un giro per Balata, non è delle peggio, come si dice a Firenze, l’andare a fare
un bagno turco. Le case dei bagni si riconoscono di fuori: sono edifizi senza finestre, della forma di
piccole moschee, sormontati da una cupola e da alti camini conici, che fumano perpetuamente. Ma
prima d’entrare, bisogna pensarci due volte, e domandarsi quid valeant humeri, perchè non tutti
possono resistere all’aspro governo che si fa d’un uomo fra quelle mura salutari. Io confesso che
dopo quello che ne avevo inteso dire, c’entrai con un po’ di trepidazione; e i lettori vedranno che
ero da compatire. Ripensandoci, mi sento uscire dalle tempie due goccioline di sudore che aspettano
ch’io sia nel vivo della descrizione per filarmi giù per le guancie. Ecco dunque quello che fu fatto
della mia povera persona. Entro timidamente e mi trovo in una gran sala che mi lascia un momento
incerto, se sia un teatro o un ospedale. Nel mezzo zampilla una fontana, coronata di fiori; e lungo le
pareti gira una galleria di legno, dove dormono profondamente o fumano sonnecchiando alcuni
turchi sdraiati su materasse e ravvolti dalla testa ai piedi in pannolini bianchissimi. Mentre guardo
intorno in cerca del bagnaiuolo, due tarchiati mulatti seminudi, sbucati non so di dove, mi si rizzano
dinanzi come due spettri, e mi domandano tutti e due insieme con voce cavernosa: Hammamun?
(bagno?) – Evvet (sì) rispondo con un filo di voce. Mi accennano di seguirli e mi rimorchiano su per
una scaletta di legno in una stanza piena di stuoie e di cuscini, dove mi fanno capire che mi debbo
spogliare. Mi stringono una stoffa azzurra e bianca intorno alle reni, mi raspano la testa con un
pezzo di mussolina, mi fanno infilare due zoccoli colossali, mi pigliano sotto le braccia come un
ubbriaco e mi conducono, o piuttosto mi traducono in un’altra sala calda e semi-oscura, dove mi
distendono sopra un tappeto e stanno ad aspettare colle mani sui fianchi che mi si ammorbidisca la
pelle. Tutti questi apparecchi, che somigliano molto a quelli d’un supplizio, mi mettono addosso
una inquietudine, la quale si cangia in un sentimento anche meno onorevole, quando i due aguzzini
mi toccano la fronte, si scambiano uno sguardo che significa: può resistere e par che vogliano
dire: – alla ruota – e ripigliandomi per le braccia mi accompagnano in una terza sala. Qui provo una
sensazione stranissima. Mi par d’essere in un tempio sottomarino. Vedo vagamente, a traverso un
velo bianco di vapori, delle alte pareti marmoree, delle colonne, degli archi, la vôlta d’una cupola
finestrata, da cui scendono dei raggi di luce rossa, azzurra e verde, dei fantasmi bianchi che vanno e
vengono rasente le pareti, e nel mezzo della sala, uomini seminudi distesi sul pavimento come
cadaveri, sui quali altri uomini seminudi stanno chinati nell’atteggiamento di medici che facciano
un’autopsia. La temperatura della sala è tale che, appena entrato, mi sento tutto in sudore, e mi pare
che non potrò più uscir di che sotto la forme d’un fiumicello, come l’amante d’Aretusa. I due
mulatti trasportano il mio corpo in mezzo alla sala e lo adagiano sopra una specie di tavola
anatomica, che è una grande lastra di marmo bianco, rilevata dal pavimento, sotto la quale ardono le
stufe. La lastra scotta ed io vedo le stelle; ma oramai ci sono e bisogna striderci. I due mulatti
cominciano la vivisezione, canterellando una canzonetta funebre. Mi pizzicano le braccia e le
gambe, mi premono i muscoli, mi fanno scricchiolare le articolazioni, mi fregano, mi strizzano, mi
stropicciano; mi fanno voltar bocconi, e ricominciano; mi rimettono supino, e tornan da capo; mi
stirano e mi schiacciano come un fantoccio di pasta, a cui vogliano dare una forma che hanno in
mente, e non ci riescano, e ci s’arrabbino; poi pigliano un po’ di respiro; poi di nuovo pizzicotti e
strizzatine e schiacciature da farmi temere che sia quello il mio ultimo quarto d’ora. Finalmente,
quando tutto il mio corpo schizza acqua come una spugna spremuta, quando mi vedono circolare il
sangue sotto la pelle, quando s’accorgono che proprio non ci posso più reggere, tiran su i miei resti
da quel letto di tortura, e li portano in un angolo, dinanzi a una piccola nicchia, dove sono due
cannelle di rame, che gettano acqua calda e acqua fresca in una vaschetta di marmo. Ma, ahimè! qui
comincia un altro martirio. E veramente la cosa piglia un certo andare, che, senza celia, io mi
domando se non è il caso di appoggiare un cappiotto a destra e uno scopaccione a sinistra, e di
battermela come mi trovo. Uno dei due tormentatori si mette un guanto di pelo di cammello e
comincia a fregarmi la schiena, il petto, le braccia e le gambe, colla grazia con cui striglierebbe un
cavallo, e la strigliatura si prolunga per la bellezza di cinque minuti. Finita la strigliatura, mi
rovesciano addosso un torrente d’acqua tepida, e ripigliano fiato. E lo ripiglio anch’io, ringraziando
il cielo che sia finita. Ma non è finita! Il mulatto feroce si leva il guanto e ricomincia l’operazione
colla mano nuda, ed io m’indispettisco e gli fo cenno di smettere, e lui, mostrandomi la mano, mi
prova, con mia grande meraviglia, che deve fregare ancora. Finito di fregare, un altro rovescio
d’acqua, e poi un’altra operazione. Prendono tutti e due uno strofinaccio di stoppa imbevuto di
sapone di Candia, e m’insaponano dalla testa ai piedi. Finita l’insaponata, un altro diluvio d’acqua
profumata, e poi da capo lo strofinamento colla stoppa. Ma questa volta, come dio vuole, la stoppa è
asciutta e strofinano per asciugare. Asciugato che sono, mi rifasciano la testa, mi rimettono il
grembiale, mi ravvolgono in un lenzuolo, mi riconducono nella seconda sala, e dopo una sosta di
qualche minuto, mi fanno rientrar nella prima. Qui trovo una materassa tepida sulla quale mi
distendo mollemente e i due esecutori di giustizia mi danno gli ultimi pizzicotti per rendere uguale
in tutte le membra la circolazione del sangue. Ciò fatto, mi mettono un cuscino ricamato sotto la
testa, una coperta bianca addosso, una pipa in bocca, una limonata accanto, e mi lascian fresco,
leggiero, odoroso, colla mente serena, col cuore contento, con un senso così puro e così giovanile
della vita, che mi par d’esser nato allora, come Venere, dalla spuma del mare, e di sentirmi frullare
sopra la testa le ali degli amorini.
*
* *
[La Torre del Seraschiere]
Sentendosi così puri e disposti a riveder le stelle non c’è di meglio che arrampicarsi sopra la
testa di quel titano di pietra che si chiama la torre del Seraschiere. Io credo che Satana, se volesse
tentare un’altra volta qualcuno coll’offerta del regno della terra, sarebbe sicuro del fatto suo,
trasportando la sua vittima su quella cima. La torre, fabbricata sotto il regno di Mahmud II, è
piantata sulla collina più alta di Stambul, nel mezzo del cortile vastissimo del ministero della
guerra, nel punto che i turchi chiamano l’ombelico della città. È costrutta in gran parte con marmo
bianco di Marmara, sul piano d’un poligono regolare di sedici lati, e si slancia in alto, ardita e svelta
come una colonna, sorpassando d’un buon tratto i minareti giganteschi della vicina moschea di
Solimano. Si va su per una scala a chiocciola, rischiarata da poche finestre quadrate, per le quali
s’intravvede, passando, ora Galata, ora Stambul, ora i sobborghi del Corno d’oro; e non s’è ancora a
mezza altezza, che già, lanciando uno sguardo fuori, pare di essere nella regione delle nuvole.
Qualche volta salendo, si sente un leggero rumore sul proprio capo, e quasi nello stesso punto si
vede passare e sparire una larva, che sembra una cosa che precipita piuttosto che un uomo che
discende; ed è uno dei guardiani che stanno giorno e notte alla vedetta sulla sommità della torre, il
quale ha visto probabilmente in qualche punto lontano dell’orizzonte un nuvolo di fumo sospetto, e
ne porta avviso al Seraschierato. La scala ha circa duecento scalini, e conduce a una specie di
terrazza rotonda, coperta di sopra e vetrata tutt’intorno, nella quale gira perpetuamente un
guardiano, che serve il caffè ai visitatori. Al primo entrare in quella gabbia trasparente, che par
sospesa tra il cielo e la terra, al vedere tutt’intorno quell’immenso vuoto azzurro, al sentire il vento
che strepita e fa sonare i vetri e scricchiolare gli assiti, s’è quasi presi dalle vertigini e tentati di
rinunziare al panorama. Ma alla vista della scaletta appoggiata al finestrino del tetto, il coraggio
ritorna, si sale col cuore palpitante, e si getta un grido di meraviglia. È un momento sublime. Si
rimane come sfolgorati. Tutta Costantinopoli è là e s’abbraccia tutta con un giro dello sguardo; tutte
le colline e tutte le valli di Stambul, dal castello delle Sette Torri ai cimiteri d’Eyub; tutta Galata e
tutta Pera, come se lo sguardo vi cadesse a fil di piombo; tutta Scutari, come se fosse lì sotto; tre file
di città, di boschi, di flotte, che fuggono a perdita d’occhi lungo tre rive incantevoli, e altre striscie
interminabili di villaggi e di giardini che si perdono serpeggiando nell’interno delle terre; tutto il
Corno d’oro, immobile, cristallino e picchiettato d’innumerevoli caicchi, che sembrano moscerini
natanti; tutto il Bosforo, che par chiuso qua e dalle colline più avanzate delle due rive, e presenta
l’immagine d’una successione di laghi, e ogni lago par circondato da una città, e ogni città è
inghirladata di giardini; di dal Bosforo, il mar Nero azzurrino che si confonde col cielo; dalla
parte opposta, il mar di Marmara, il golfo di Nicomedia, le isole dei Principi, la riva europea e la
riva asiatica biancheggianti di villaggi; di dal mar di Marmara, lo stretto dei Dardanelli, che
luccica come un sottile nastro d’argento; oltre i Dardanelli un vago bagliore bianco, ch’è il mare
Egeo e una curva oscura che è la riva della Troade; di da Scutari, la Bitinia e l’Olimpo; di da
Stambul, le solitudini ondulate e giallognole della Tracia; due golfi, due stretti, due continenti, tre
mari, venti città, una miriade di cupole inargentate e di guglie d’oro, una gloria di colori e di luce,
da far dubitare se quella sia una veduta del nostro pianeta o di un altro astro più favorito da Dio.
*
* *
[Costantinopoli]
E sulla torre del Seraschiere, come su quella di Galata, come sul vecchio ponte, come a Scutari,
io mi domandai cento volte: Ma in che maniera hai potuto innamorarti dell’Olanda? E non solo
quel paese, ma Parigi, ma Madrid, ma Siviglia, mi parevano città oscure e malinconiche, in cui non
avrei più potuto vivere un mese. Poi ripensavo alle mie povere descrizioni e mi dicevo con
rammarico: Ah! disgraziato! Quante volte hai sciupato le parole bello, splendido, immenso! Ed
ora che cosa dirai di questo spettacolo? Ma già mi pareva che da Costantinopoli non avrei cavato
una pagina. E il mio amico Rossasco mi diceva: Ma perchè non ti ci provi? Ed io gli
rispondevo: Ma se non ho nulla da dire! E alle volte, chi lo crederebbe? quello spettacolo, per
qualche minuto secondo, a certe ore, a una certa luce, mi pareva meschino, ed esclamavo quasi con
sgomento: O dov’è la mia Costantinopoli? Altre volte mi pigliava un sentimento di tristezza
pensando che mentre io ero là dinanzi a quella immensità e a quella bellezza, mia madre era in una
piccola stanza, da cui non si vedeva che un cortile uggioso e una piccola striscia di cielo; e mi
pareva una colpa mia, e avrei dato un occhio per aver la mia buona vecchia a bracetto e condurla a
Santa Sofia. La giornata però correva quasi sempre allegra e leggera come un’ora d’ebbrezza. E le
rare volte che faceva capolino l’umor nero, il mio amico ed io avevamo un mezzo sicuro di
liberarcene. Scendevamo a Galata in due caicchi a due remi, i più variopinti e i più dorati dello
scalo, e gridavamo: Eyub! ed eravamo già in mezzo al Corno d’oro. I nostri rematori si
chiamavano Mahmut, Baiazet, Ibraim, Murat, avevano vent’anni per uno e due braccia di ferro, e
vogavano a gara incitandosi con grida e ridendo come bambini; il cielo era sereno e il mare
trasparente; noi rovesciavamo il capo indietro per bere a sorsate più lunghe l’aria piena di profumi, e
lasciavamo spenzolare una mano nell’acqua; i due caicchi volavano, di qua e di ci fuggivano allo
sguardo i chioschi, i palazzi, i giardini, le moschee; ci pareva d’esser portati dal vento a traverso un
mondo fatato, sentivamo un piacere inesprimibile d’esser giovani e d’essere a Stambul, Yunk
cantava, io recitavo delle ballate orientali di Vittor Hugo, e vedevo ora a destra, ora a sinistra, ora
vicino, ora lontano, balenare per aria un viso amoroso, coronato di capelli bianchi e illuminato da un
sorriso dolcissimo, che diceva: – Sii felice, figliuolo! Io ti benedico e ti seguo.
SANTA SOFIA
Ed ora, se anche un povero scrittore di viaggi può invocare una musa, io la invoco a mani
giunte perchè la mia mente si smarrisce «in faccia al nobile subbietto» e le grandi linee della basilica
bizantina mi tremano dinanzi come un’immagine riflessa da un’acqua agitata. La musa m’ispiri,
Santa Sofia m’illumini e l’imperatore Giustiniano mi perdoni.
Una bella mattina d’ottobre, accompagnati da un cavas turco del Consolato d’Italia e da un
dracomanno greco, andammo finalmente a visitare il «paradiso terrestre, il secondo firmamento, il
carro dei cherubini, il trono della gloria di Dio, la meraviglia della terra, il maggior tempio del
mondo dopo San Pietro». La quale ultima sentenza, lo sappiano i miei amici di Burgos, di
Colonia, di Milano, di Firenze, – non è mia, e non oserei farla mia; ma l’ho citata, colle altre, perchè
è una delle molte espressioni consacrate dall’entusiasmo dei Greci, che il nostro dracomanno ci
andava ripetendo per via. E avevamo scelto pensatamente, insieme a un vecchio cavas turco, un
vecchio dracomanno greco, colla speranza, che non fu delusa, di sentire nelle loro spiegazioni e
nelle loro leggende cozzare le due religioni, le due storie, i due popoli; e che l’uno ci avrebbe
esaltato la chiesa l’altro magnificato la moschea, in modo da farci vedere Santa Sofia come
dev’esser veduta: con un occhio di cristiano e un occhio di turco.
La mia aspettazione era grande e la curiosità vivissima; eppure, strada facendo, pensavo come
penso ancora, che non c’è monumento famoso, e sia pure degno della sua fama, dal quale venga
all’anima una commozione così vivamente e schiettamente piacevole com’è quella che si prova
nell’andarlo a vedere. Se dovessi rivivere un’ora di tutti i giorni in cui vidi qualche grande cosa,
sceglierei quella che passò fra il momento in cui dissi: – Andiamo –; e il momento in cui intesi dire:
Siamo giunti. Le più belle ore dei viaggi son quelle. Andando, par di sentirsi ingrandir l’anima
come per contenere il sentimento di ammirazione che vi sorgerà tra poco; si rammentano i desiderii
della prima giovinezza, che parevan sogni; si rivede un vecchio professore di geografia che, dopo
aver segnato Costantinopoli sulla carta d’Europa, traccia per aria, con una presa di tabacco tra le
dita, le linee della grande basilica; si vede quella stanza, quel caminetto, dinanzi al quale, nel
prossimo inverno, si descriverà il monumento in mezzo a un cerchio di visi meravigliati ed
immobili; si sente sonar quel nome di Santa Sofia nella testa, nel cuore, nelle orecchie, come il
nome d’un essere vivo che ci aspetti e ci chiami per rivelarci qualche grande segreto; si vedono
apparire sul nostro capo archi e pilastri prodigiosi d’edifizii che si perdono nel cielo; e quando si è a
pochi passi dalla meta, si prova ancora un piacere inesprimibile a soffermarsi per guardare un
ciottolo, per veder fuggire una lucertola, per raccontare una barzelletta, per perdere un po’ di tempo,
per ritardare di qualche minuto quel momento che s’è desiderato per vent’anni e che si ricorderà per
tutta la vita. Per modo che rimane assai poca cosa di questi celebrati piaceri dell’ammirazione, se si
toglie il sentimento che li precede e quello che li segue. È quasi sempre un’illusione, seguita da un
leggiero disinganno, dal quale noi, ostinati, facciamo pullulare altre illusioni.
La moschea di Santa Sofia è posta in faccia all’entrata principale dell’antico Serraglio.
Arrivando, però, nella piazza che si stende dinanzi al Serraglio, la prima cosa che attira gli
occhi, non è la moschea, ma la fontana famosa del Sultano Ahmed III.
È uno dei più originali e più ricchi monumenti dell’arte turca. Ma più che un monumento, è un
vezzo di marmo, che un galante sultano mise in fronte alla sua Stambul in un momento d’amore. Io
credo che non lo possa descriver bene che una donna. La mia penna non è abbastanza fina per
ritrarne l’immagine. A prima vista, non si direbbe una fontana. Ha la forma d’un tempietto
quadrato, ed è coperto da un tetto alla chinese, che spinge le sue falde ondulate molto al di fuori dei
muri, e gli una vaga apparenza di pagoda. Ai quattro angoli vi sono quattro torricciuole rotonde,
munite di finestrine ingraticolate, o piuttosto quattro chioschetti di forma gentilissima, ai quali
corrispondono, sopra il tetto, altrettante cupolette svelte, sormontate ciascuna da una guglia
graziosa; le quali fanno corona a una cupoletta più grande, posta nel mezzo. In ciascuno dei quattro
muri ci sono due nicchie eleganti; fra le nicchie un arco a sesto acuto; sotto l’arco, una cannella che
versa l’acqua in una piccola vasca. Intorno all’edifizio gira una iscrizione che dice: – Questa fontana
ti parla della sua età nei seguenti versi del sultano Ahmed: volgi la chiave di questa sorgente pura e
tranquilla e invoca il nome di Dio; bevi di quest’acqua inesauribile e limpida e prega per il Sultano.
Il piccolo edifizio è tutto di marmo bianco, che appena apparisce sotto gl’infiniti ornamenti che
coprono i muri; sono archetti, nicchiette, colonnine, rosoni, poligoni, nastri, ricami di marmo,
dorature su fondo azzurro, frangie intorno alle cupole, intarsiature sotto il tetto, musaici di cento
colori, arabeschi di mille forme, che par che s’intrichino a fissarvi lo sguardo, ed irritano quasi il
senso dell’ammirazione. Non c’è lo spazio d’una mano che non sia scolpito, miniato, tormentato. È
un prodigio di grazia, di ricchezza e di pazienza, da tenersi sotto una campana di cristallo; una cosa
che pare non sia fatta soltanto per gli occhi, ma che debba avere un sapore, e se ne vorrebbe
succhiare una scheggia; uno scrigno, che si vorrebbe aprire, per vedere che cosa c’è dentro: se una
dea bambina o una perla enorme o un anello fatato. Il tempo n’ha in parte sbiadito le dorature,
confusi i colori e anneriti i marmi. Che cosa doveva essere questo gioiello colossale quando fu
scoperto la prima volta, tutto nuovo e sfolgorante, agli occhi del Salomone del Bosforo, cento e
sessant’anni or sono? Ma così vecchio e nero come si ritrova, tiene ancora il primato su tutte le
piccole meraviglie di Costantinopoli; ed oltre a ciò, è un monumento così schiettamente turco, che
visto una volta, si fissa per sempre nella memoria in mezzo a quel certo numero d’immagini, che
balenano poi tutte insieme alla mente ogni volta che ci suoni all’orecchio il nome di Stambul, e
formano come il fondo del quadro orientale, su cui si moverà perpetuamente il nostro pensiero.
Dalla fontana si vede la moschea di Santa Sofia, che chiude un lato della piazza.
L’aspetto esterno non ha nulla di notevole. La sola cosa che arresti lo sguardo sono i quattro
altissimi minareti bianchi, che sorgono ai quattro angoli dell’edifizio su piedestalli grandi come
case. La cupola famosa sembra piccina. Non pare che possa essere quella medesima cupola che si
vede rotondeggiare nell’azzurro, come la testa d’un titano, da Pera, dal Bosforo, dal mar di Marmara
e dalle colline dell’Asia. È una cupola schiacciata, fiancheggiata da due mezze cupole, rivestita di
piombo, coronata di finestre, che s’appoggia su quattro muri dipinti a larghe striscie bianche e
rosate, sostenuti alla loro volta da enormi contrafforti, intorno ai quali sorgono confusamente molti
piccoli edifizii d’aspetto meschino, bagni, scuole, mausolei, ospizi, cucine pei poveri. che
nascondono l’antica forma architettonica della basilica. Non si vede che una mole pesante,
irregolare, di color scialbo, nuda come una fortezza, e non tanto grande all’apparenza, da far
supporre a chi non lo sappia che vi sia dentro il vano immenso della navata di Santa Sofia. Della
basilica antica non apparisce propriamente che la cupola, la quale pure ha perduto lo splendore
argentino che si vedeva, a detta dei Greci, dalla sommità dell’Olimpo. Tutto il rimanente è
musulmano. Un minareto fu innalzato da Maometto il Conquistatore, un altro da Selim II, gli altri
due dal terzo Amurat. Dello stesso Amurat sono i contrafforti innalzati sulla fine del sedicesimo
secolo per sostenere i muri stati scossi da un terremoto, e la smisurata mezzaluna di bronzo, piantata
sulla sommità della cupola, di cui la sola doratura costò cinquantamila ducati. L’antico atrio è
sparito; il battisterio convertito in mausoleo di Mustafà e d’Ibraim I quasi tutti gli altri piccoli
edifizii annessi alla chiesa greca, o distrutti, o nascosti da nuovi muri, o trasformati in maniera che
non si riconoscono. Da tutte le parti la moschea stringe, opprime e maschera la chiesa, che non ha
più libero che il capo, sul quale però vigilano, come quattro sentinelle gigantesche i quattro minareti
imperiali. Dalla parte d’Oriente v’è una porta ornata di sei colonne di porfido e di marmo; a
mezzogiorno un’altra porta per cui s’entra in un cortile, circondato d’edifìci bassi e disuguali, in
mezzo al quale zampilla una fontana per le abluzioni, coperta da un tempietto arcato, sostenuto da
otto colonnine. A guardarla di fuori, non si distinguerebbe Santa Sofia dalle altre grandi moschee di
Stambul, se non perchè è meno bianca e meno leggiera; e molto meno passerebbe pel capo che sia
quello «il maggior tempio del mondo dopo San Pietro».
Le nostre guide ci condussero, per una stradicciuola che fiancheggia il lato settentrionale
dell’edifizio, a una porta di bronzo che girò lentamente sui cardini, ed entrammo nel vestibolo.
Questo vestibolo, che è una lunghissima ed altissima sala, rivestita di marmo e ancora
luccicante qua e degli antichi mosaici, accesso alla navata dal lato orientale per nove porte, e
dal lato opposto metteva anticamente, per altre cinque porte, in un altro vestibolo, che per altre
tredici porte comunicava coll’atrio.
Appena oltrepassata la soglia, mostrammo il nostro firmano d’entrata a un sacrestano in
turbante, infilammo le pantofole, e a un cenno delle guide, ci avvicinammo, trepidando, alla porta di
mezzo del lato orientale, che ci aspettava spalancata.
Messo appena il piede nella navata, rimanemmo tutti e due come inchiodati.
Il primo effetto, veramente, è grande e nuovo.
Si abbraccia con uno sguardo un vuoto enorme, un’architettura ardita di mezze cupole che
paion sospese nell’aria, di pilastri smisurati, di archi giganteschi, di colonne colossali, di gallerie, di
tribune, di portici, su cui scende da mille grandi finestre un torrente di luce; un non so che di teatrale
e di principesco, più che di sacro; una ostentazione di grandezza e di forza, un’aria d’eleganza
mondana, una confusione di classico, di barbaro, di capriccioso, di presuntuoso, di magnifico; una
grande armonia, in cui, alle note tonanti e formidabili dei pilastri e degli archi ciclopici, che
rammentano le cattedrali nordiche, si mescono gentili e sommesse cantilene orientali, musiche
clamorose dei conviti di Giustiniano e d’Eraclio, echi di canti pagani, voci fioche d’un popolo
effeminato e stanco, e grida lontane di Vandali, d’Avari e di Goti; una grande maestà sfregiata, una
nudità sinistra, una pace profonda; un’idea della basilica di San Pietro raccorciata e intonacata, e
della basilica di San Marco ingigantita e deserta; un misto non mai veduto di tempio, di chiesa e di
moschea, d’aspetti severi e d’ornamenti puerili, di cose antiche e di cose nove, e di colori disparati,
e d’accessorii sconosciuti e bizzarri; uno spettacolo, insomma, che desta un sentimento di stupore
insieme e di rammarico, e fa stare per qualche tempo coll’animo incerto, come cercando una parola
che esprima ed affermi il proprio pensiero.
L’edifizio è fabbricato sopra un rettangolo quasi equilatero, nel mezzo del quale s’innalza la
cupola maggiore, sorretta da quattro grandi archi, i quali posano su quattro pilastri altissimi, che
sono come l’ossatura di tutta la basilica. Ai due archi che si presentano in faccia a chi entra, si
appoggiano due grandi semicupole, le quali coprono tutta la navata, e ciascuna d’esse s’apre in altre
due semicupole minori, che formano come quattro tempietti rotondi nel grande tempio. Fra i due
tempietti della parte opposta all’entrata, s’apre l’abside, pure coperta da una vôlta a quarto di sfera.
Sono dunque sette mezze cupole che fanno corona alla cupola maggiore, due sotto questa, e cinque
sotto quelle due, senza punto d’appoggio apparente, in modo che presentano tutte insieme un
aspetto di leggerezza meravigliosa, e sembrano davvero, come disse un poeta greco, appese per sette
fili alla volta del cielo. Tutte queste cupole sono rischiarate da grandi finestre arcate e simmetriche.
Fra i quattro pilastri enormi che formano un quadrato nel mezzo della basilica, s’alzano, a destra e a
sinistra di chi entra, otto meravigliose colonne di breccia verde, su cui s’incurvano degli archi
graziosi scolpiti a fogliami, che formano un porticato elegantissimo ai due lati della navata, e
sorreggono a una grande altezza due vaste gallerie, le quali presentano due altri ordini di colonne e
d’archi scolpiti. Una terza galleria, che comunica colle due prime, corre lungo tutto il lato
dell’entrata, e s’apre sulla navata con tre grandi archi, sostenuti da colonne gemelle. Altre gallerie
minori, sostenute da colonne di porfido, tramezzano i quattro tempietti posti alle estremità della
navata, e sorreggono altre colonne, sulle quali s’appoggiano delle tribune. Questa è la basilica. La
moschea è come sparpagliata nel suo seno e appiccicata alle sue mura. Il Mirab, la nicchia che
indica la direzione della Mecca, è scavato in un pilastro dell’abside. Alla sua destra, in alto, è
appeso uno dei quattro tappeti, su cui Maometto faceva le sue preghiere. Sull’angolo dell’abside più
vicino al Mirab, in cima a una scaletta ripidissima, fiancheggiata da due balaustrate di marmo
scolpite con una delicatezza magistrale, sotto un bizzarro tetto conico, in mezzo a due bandiere
trionfali di Maometto II, sporge il pulpito dove sale il Ratib a leggere il Corano, con una scimitarra
sguainata nel pugno, per significare che Santa Sofia è moschea conquistata. In faccia al pulpito v’è
la tribuna del Sultano, coperta da una graticola dorata. Altri pulpiti, o specie di terrazze, munite di
balaustrate scolpite a giorno, e sorrette da colonnine di marmo e da archi arabescati, si stendono qua
e là lungo i muri o s’avanzano verso il mezzo della navata. A destra e a sinistra dell’entrata, ci sono
due enormi urne d’alabastro, rinvenute fra le rovine di Pergamo, e fatte trasportare a Costantinopoli
da Amurat III. Dai pilastri, a una grande altezza, pendono dei dischi verdi smisurati, con iscrizioni
del Corano a caratteri d’oro. Di sotto sono attaccate ai muri delle grandi cartelle di porfido, che
portano scritti i nomi d’Allà, di Maometto e dei quattro primi Califfi. Negli angoli formati dai
quattro archi che sostengono la cupola si vedono ancora le ali gigantesche di quattro cherubini di
musaico, ai quali è stato coperto il viso con un rosone dorato. Dalle volte delle cupole pendono
innumerevoli cordoni di seta, che misurano quasi tutta l’altezza della basilica, e sostengono ova di
struzzo, lampade di bronzo cesellato e globi di cristallo. Qua e si vedono dei leggii di legno a
ìccase, intarsiati di madreperla e di rame, con su dei Corani manoscritti. Il pavimento è coperto di
tappeti e di stuoie. I muri son nudi, biancastri, giallognoli, grigi oscuri, ornati ancora in qualche
punto di musaici scoloriti. L’aspetto generale, triste.
La prima meraviglia della moschea è la grande cupola. Guardandola dal mezzo della navata, par
davvero di vedere, come dice la Stael della cupola di San Pietro, un abisso sospeso sul nostro capo.
È altissima, ha una circonferenza enorme e la sua profondità non è che un sesto del suo diametro; il
che la fa apparire anche più grande. Alla sua base gira un terrazzino; sopra il terrazzino una corona
di quaranta finestre ad arco. Sulla sommità c’è scritta la sentenza che pronunciò Maometto II
arrestando il suo cavallo dinanzi all’altar maggiore della basilica, il giorno della presa di
Costantinopoli: Allà è la luce del cielo e della terra –; e alcune delle lettere, bianche su fondo
oscuro, hanno la lunghezza di nove metri. Come tutti sanno, questo prodigio aereo non si sarebbe
potuto compiere coi materiali ordinarii; le volte furon costrutte con pietra pomice che galleggia
sull’acqua e con mattoni dell’isola di Rodi, cinque dei quali pesano appena quanto un mattone
comune. In ogni mattone era iscritta la sentenza di Davide: Deus in medio eius non
commovebitur. Adiuvabit eam Deus vultu suo.Ogni dodici giri di mattoni, si muravano nella volta
delle reliquie di santi. Mentre gli operai lavoravano, i sacerdoti cantavano; Giustiniano, vestito
d’una tunica di lino, assisteva; una folla immensa ammirava. E non c’è da stupire quando si pensi
che la costruzione di questo «secondo firmamento» ancora meraviglioso ai giorni nostri, era un
ardimento senza esempio nel sesto secolo. Il volgo credeva che stesse su per incanto, e i turchi, per
molto tempo dopo la conquista, dovettero, pregando nella moschea di Santa Sofia, far forza a
stessi per volgere lo sguardo ad Oriente invece d’innalzarlo a quel «cielo di pietra». La cupola,
infatti, copre circa la metà della navata in modo che signoreggia e rischiara tutto l’edifizio e da tutte
le parti se ne vede un segmento; e vai vai si finisce sempre per trovarvisi sotto, e tornare per la
centesima volta a farci rotear dentro il proprio sguardo e i propri pensieri, con un brivido di piacere
acuto, che somiglia alla sensazione del volo.
Vista la navata e la cupola, non s’è che cominciato a veder Santa Sofia. Chi appena ha
un’ombra di curiosità storica, per esempio, può dedicare un’ora all’esame delle colonne. Qui ci sono
le spoglie di tutti i templi del mondo. Le colonne di breccia verde che sostengono le due grandi
gallerie, furon regalate a Giustiniano dai magistrati d’Efeso, e appartenevano al tempio di Diana,
messo in fiamme da Erostrato. Le otto colonne di porfido che s’alzano a due a due fra i pilastri,
appartenevano al tempio del Sole innalzato da Aureliano a Balbek. Altre colonne sono del tempio di
Giove di Cizico, del tempio d’Helios di Palmira, dei templi di Tebe, d’Atene, di Roma, della
Troade, delle Cicladi, d’Alessandria; e presentano una varietà infinita di grandezze e di colori. Tra
le colonne, le balaustrate, i piedestalli, e le lastre che rimangono dell’antico rivestimento dei muri, si
vedon marmi di tutte le cave dell’Arcipelago, dell’Asia Minore, dell’Affrica e della Gallia. Il
marmo del Bosforo, bianco, picchiettato di nero, fa contrapposto al celtico nero venato di bianco; il
marmo verde di Laconia si riflette nel marmo azzurro di Libia; il porfido punteggiato d’Egitto, il
granito stellato di Tessaglia, il cario del monte Iassi strisciato di bianco e di rosso, il caristio pallido
screziato di ferro, mescolano i loro colori alla porpora del marmo frigio, alla rosa del marmo di
Synada, all’oro del marmo di Mauritania, alla neve del marmo di Paros. A questa varietà di colori,
s’aggiunge la varietà indescrivibile delle forme dei fregi, dei cornicioni, dei rosoni, dei balaustri, dei
capitelli d’un bizzarro stile corinzio, in cui s’intrecciano animali, fogliami, croci, chimere, e di altri
che non appartengono a nessun ordine, fantastici di disegno e disuguali di grandezza, accoppiati a
casaccio; e dei fusti di colonne e dei piedestalli ornati di sculture capricciose, logorati dai secoli e
scheggiati dalle scimitarre; che presentano tutt’insieme un aspetto bizzarro di magnificenza
disordinata e barbaresca, e sono il vilipendio del buon gusto, e non se ne può staccare lo sguardo.
Stando nella navata, però, non si può comprendere tutta la vastità della moschea. La navata,
infatti, non ne è che una piccola parte. I due porticati che sorreggono le gallerie laterali sono per
soli due grandi edifizii, di cui si potrebbero fare due tempii. Ciascuno d’essi è diviso in tre parti,
separate da archi altissimi. Qui pure colonne, architravi, pilastri, volte, tutto è enorme. Passeggiando
sotto quelle arcate, s’intravvede appena, per gl’interstizii delle colonne del tempio d’Efeso, la
grande navata, e par quasi di essere in un’altra basilica. Lo stesso effetto si prova dalle gallerie a cui
si va per una scala a spirale d’inclinazione leggerissima, o piuttosto per una strada in salita, poic
non ci sono gradini, e potrebbe salirvi comodamente un uomo a cavallo. Le gallerie erano il
«ginece ossia la parte della chiesa riserbata alle donne; i penitenti stavano nel vestibolo, il
comune dei fedeli nella navata. Ciascuna galleria potrebbe contenere la popolazione d’un sobborgo
di Costantinopoli. Non par più di essere in una chiesa; par di passeggiare per la loggia d’un teatro
titanico, dove debba scoppiare da un momento all’altro un canto di centomila voci. Per veder la
moschea bisogna affacciarsi alla balaustrata e allora tutta la grandezza appare. Gli archi, le volte, i
pilastri, tutto è ingigantito. I dischi verdi, che parevano da misurarsi colle braccia, coprirebbero una
casa. Le finestre sono portoni di palazzi; le ali dei cherubini sono vele di bastimento; le tribune son
piazze; la cupola dà il capogiro. Abbassando lo sguardo si prova un’altra meraviglia. Non si credeva
d’essere saliti tant’alto. Il piano della navata è giù in fondo a un abisso, e i pulpiti, le urne di
Pergamo, le stuoie, le lampade, sembrano straordinariamente rimpicciolite. Disi vede meglio che
di sotto una particolarità curiosa della moschea di Santa Sofia, ed è che la navata non avendo la
direzione precisa della Mecca, a cui i musulmani debbono rivolgersi pregando, tutte le stuoie e tutti
i tappeti sono disposti obliquamente alle linee dell’edifizio, e offendono gli occhi come un
madornale errore di prospettiva. Di lassù si abbraccia bene collo sguardo e col pensiero tutta la vita
della moschea. Si vedono dei turchi inginocchiati sulle stuoie colla fronte a terra; altri ritti come
statue colle mani dinanzi al viso, come se interrogassero le rughe delle palme; alcuni seduti a gambe
incrociate ai piedi d’un pilastro, come se riposassero all’ombra d’un albero; qualche donna velata, in
ginocchio in un angolo solitario; dei vecchi seduti dinanzi ai leggii, che leggono il Corano; un iman
che fa recitare dei versetti sacri a un gruppo di ragazzi; e qua e là, sotto le arcate lontane e per le
gallerie, iman, ratib, muezzin, servitori della moschea, in abiti strani, che vanno e vengono
tacitamente come se non toccassero il pavimento. La melodia vaga formata dalle voci sommesse e
monotone di chi legge e di chi prega, quelle mille lampade bizzarre, quella luce chiara ed eguale,
quell’abside deserta, quelle vaste gallerie silenziose, quella immensità, quelle memorie, quella pace
lasciano nell’animo un’impressione di grandezza e di mistero, che la parola può esprimere il
tempo può cancellare.
Ma in fondo, come già dissi, è un’impression triste, e non diede nel falso il grande poeta che
paragonò la moschea di Santa Sofia a un« colossale sepolcro», perchè da tutte le parti vi si vedono
le traccie d’una devastazione orrenda, e si prova maggior rammarico pensando a ciò che fu, di
quello che si goda nell’ammirazione di ciò che è ancora. Quietato il sentimento della prima
meraviglia, il pensiero si slancia irresistibilmente nel passato. E oggi ancora, dopo tre anni, non mi
si affaccia mai alla mente la grande moschea, ch’io non mi sforzi di rappresentarmi invece la chiesa.
Atterro i pulpiti musulmani, levo le lampade e le urne, stacco i dischi, e le cartelle di porfido, riapro
le porte e le finestre murate, raschio l’intonaco che copre le pareti e le vôlte, ed ecco la basilica
intera e novissima, come tredici secoli or sono, quando Giustiniano esclamò: Gloria a Dio che
m’ha giudicato degno di compiere quest’opera! Salomone, io t’ho vinto! Da qualunque parte si
giri lo sguardo, tutto luccica, scintilla e lampeggia come nelle reggie fatate delle leggende. Le grandi
pareti, rivestite di marmi preziosi, mandano dei riflessi d’oro, di avorio, d’acciaio, di corallo, di
madreperla; le innumerevoli macchiette dei marmi, offrono l’aspetto di corone e di ghirlande di
fiori; gli infiniti mosaici di cristallo danno ai muri, su cui batte un raggio di sole, l’apparenza di
muri d’argento tempestati di diamanti. I capitelli, i cornicioni, le porte, i fregi degli archi sono di
bronzo dorato. Le vôlte dei porticati e delle gallerie, dipinte a fuoco, offrono immagini colossali
d’angeli e di santi in campo d’oro. Dinanzi ai pilastri, nelle cappelle, accanto alle porte, in mezzo
alle colonne, si drizzano statue di marmo e di bronzo, candelabri enormi d’oro massiccio, vangeli
giganteschi appoggiati sopra leggii risplendenti come sedie reali, alte croci d’avorio, vasi scintillanti
di perle. In fondo alla navata non si vede che un bagliore confuso come di molte cose che ardano. È
la balaustrata del coro, di bronzo dorato; è il pulpito, incrostato di quarantamila libbre d’argento,
che costò il tributo d’un anno dell’Egitto; sono le sedie dei sette preti, il trono del patriarca, il trono
dell’imperatore, dorati, scolpiti, intarsiati, imperlati, su cui, quando scende diritta la luce, non si può
fissare lo sguardo. Al di là di questi splendori, nell’abside, si vede uno sfolgorio più vivo. È l’altare,
di cui la mensa, sostenuta da quattro colonne d’oro, è fatta d’una fusione d’argento, d’oro, di stagno
e di perle, e il ciborio formato da quattro colonne d’argento puro, sulle quali s’innalza una cupola
d’oro massiccio, sormontata da un globo e da una croce d’oro del peso di ducento sessanta libbre.
Di dall’altare, s’alza una figura gigantesca della divina Sapienza che tocca il pavimento coi piedi
e la vôlta dell’abside col capo. Su tutti questi tesori splendono in alto le sette mezzecupole coperte
di mosaici di cristallo e d’oro, e la grande cupola, su cui s’allungano le immagini smisurate degli
apostoli, degli evangelisti, della Vergine e della Croce, tutta dorata, colorita e scintillante, come una
vôlta di gioielli e di fiori. E cupole e colonne e statue e candelabri si specchiano sull’immenso
pavimento di marmo proconnesio ondulato, che visto dalle quattro porte principali, presenta
l’immagine di quattro fiumi maestosi, increspati dal vento. Così era l’interno della basilica. Ma
bisogna rappresentarsi ancora il grande atrio, circondato di colonne e di muri rivestiti di mosaico, e
ornato di fontane di marmo e di statuette equestri; la torre da cui trentadue campane facevano
sentire i loro rintocchi formidabili alle sette colline; le cento porte di bronzo decorate di bassorilievi
e d’iscrizioni d’argento; le sale dei sinodi, le stanze dell’Imperatore, le prigioni dei sacerdoti, il
battisterio, le vaste sacristie riboccanti di tesori, e un labirinto di vestiboli, di triclinii, di corridoi, di
scale nascoste che giravano nei fianchi dell’edifizio e conducevano alle tribune o gli oratorii segreti.
Ora si può immaginare che spettacolo offerisse una tale basilica nelle grandi solennità di nozze
imperiali, di concilii, d’incoronazioni; quando dal palazzo enorme dei Cesari, per una strada
fiancheggiata da mille colonne, sparsa di mirto e di fiori, profumata d’incenso e di mirra, fra le case
ornate di vasi preziosi e di parati di seta, fra due schiere d’azzurri e di verdi, fra i canti dei poeti e i
clamori degli araldi che gridavano evviva in tutte le lingue dell’impero, veniva innanzi l’Imperatore,
colla tiara sormontata da una croce, imperlato come un idolo, seduto sopra un carro d’oro dalle
tende di porpora, tirato da due mule bianche, e circondato da un corteo di monarca persiano; e gli
andava incontro il clero pomposo nell’atrio della basilica; e tutta quella turba di cortigiani, di
scudieri, di logoteti, di protospatari, di drongarii, di conestabili, di generali eunuchi, di governatori
ladri, di magistrati venduti, di patrizie spudorate, di senatori codardi, di schiavi, di buffoni, di
casisti, di mercenarii d'ogni paese, tutta quella canaglia fastosa, tutto quel putridume dorato
irrompeva per ventisette porte nella navata illuminata da sei mila candelabri; e si vedeva lungo la
balaustrata del coro, sotto i portici e nelle tribune un via vai, un rimescolìo concitato di teste
chiomate e di cappe purpuree, uno sfolgorìo di berretti gemmati, di collane d'oro, di corazze
d'argento, un ricambiarsi di atti cerimoniosi, un incrociarsi d'inchini e di sorrisi, uno strascicare
affettato di zimarre di seta e di spade di gala; e un molle profumo riempiva l'aria; e una immensa
folla vigliacca faceva risonare le vôlte di grida di gioia e d'applausi profani.
Dopo aver fatto in silenzio parecchi giri per la moschea, lasciammo parlare le nostre guide, che
cominciarono col farci vedere le cappelle poste sotto le gallerie e spogliate d'ogni cosa, come ogni
altra parte della basilica. Alcune servono di tesorerie, come l'opistodomo del Partenone, nelle quali i
turchi che partono per un lungo viaggio o che temono i ladri, depositano i loro denari e i loro oggetti
preziosi, e ce li lasciano anche per anni sotto la guardia di Dio; altre, chiuse da un muro, son
convertite in infermerie, in cui aspetta la guarigione o la morte qualche malato incurabile o qualche
idiota, che fanno tratto tratto risonare la moschea di grida lamentevoli o di risate infantili. Di qui ci
ricondussero in mezzo alla navata, e cominciò il dracomanno greco a raccontar le maraviglie della
basilica. Il disegno fu tracciato, è vero, dagli architetti Antemio di Tralles e da Isidoro di Mileto; ma
è un angelo che ne ha ispirato loro il primo concetto. È un angelo pure che ha suggerito a
Giustiniano di far aprire tre finestre nell'abside, che rappresentassero le tre persone della Trinità.
Così le cento e sette colonne della chiesa rappresentano le cento e sette colonne che sostengono la
casa della Sapienza. Per radunare i materiali necessarii alla costruzione dell'edifizio, furono
impiegati sette anni. Cento capi mastri sopraintendevano al lavoro, e diecimila operai lavoravano
nello stesso tempo, cinque mila da una parte e cinque mila dall'altra. I muri non erano ancora alti da
terra che pochi palmi, e già s'era speso per più di quattro cento cinquanta quintali d'oro. La spesa
totale per il solo edifizio ammontò a venticinque milioni di lire. La chiesa fu consacrata dal
Patriarca cinque anni, undici mesi e dieci giorni dopo che n'era stata messa la prima pietra, e
Giustiniano ordinò in quell'occasione dei sacrifizi, delle feste, delle distribuzioni di danaro e di
viveri, che durarono due settimane. Qui prese la parola il cavas turco, e fu per accennarci il pilastro
su cui il sultano Maometto II, entrando vincitore in Santa Sofia, lasciò l'impronta sanguinosa della
mano destra come per suggellare la sua conquista. Poi ci mostrò, vicino al Mirab, la così detta
finestra fredda, dalla quale spira continuamente un'aria freschissima, che ispirò le più belle prediche
ai più grandi dottori dell'Islamismo. Ci fece vedere, a un'altra finestra, la famosa pietra
risplendente, che è una lastra di marmo diafano, la quale risplende come un pezzo di cristallo
quando vi batte il raggio del sole. A sinistra di chi entra per la porta dal lato settentrionale, ci fece
toccare la colonna che suda: una colonna rivestita di bronzo, della quale si vede il marmo sempre
umido per una piccola screpolatura del rivestimento. E infine ci indicò un blocco di marmo cavo,
portato da Betlemme, nel quale si dice che fu messo, appena nato, Sidi Yssa «il figlio di Maria,
l'apostolo di Dio, lo spirito che da lui procede, e che merita onore in questo mondo e nell'altro». Ma
mi parve che il turco il greco ci credessero molto. Prese ancora una volta la parola il
dracomanno, passando dinanzi a una porta murata delle gallerie, per raccontare la leggenda celebre
del vescovo, e questa volta parlò con un accento di persuasione, che se non era schietto, era ben
simulato. Nel momento che i turchi irruppero nella chiesa di Santa Sofia, un vescovo greco stava
dicendo la messa all'altar maggiore. Alla vista degl'invasori abbandonò l'altare, salì sulla galleria e,
inseguito dai soldati, scomparve per quella piccola porta, che rimase istantaneamente chiusa da un
muro di pietra. I soldati si misero a percuotere il muro furiosamente; ma non riuscirono che a
lasciarvi le traccie delle loro armi; furono chiamati dei muratori; ma dopo aver lavorato un giorno
intero coi picconi e le stanghe, dovettero rinunziare all'impresa; ci si provarono in seguito tutti i
muratori di Costantinopoli, e tutti caddero inutilmente spossati dinanzi al muro miracoloso. Ma quel
muro si aprirà; s'aprirà il giorno in cui la basilica profanata sarestituita al culto di Cristo, e allora
ne uscirà il vescovo greco, vestito dei suoi abiti pontificali, col calice in mano, col volto radiante, e
risaliti i gradini dell'altare, ripiglierà la messa nel punto a cui l'aveva lasciata; e quel giorno
splenderà l'aurora di nuovi secoli per la città di Costantino.
Al momento d'uscire, il sacrestano turco, che ci aveva seguiti sino allora ciondolando e
sbadigliando, ci diede una manata di pezzetti di mosaico che aveva staccati poco prima da un muro,
e il dracomanno, fermandoci sulla porta, incominciò il racconto, che gli tagliammo in bocca, della
profanazione di Santa Sofia.
Ma non vorrei che altri lo tagliasse in bocca a me ora che la descrizione della basilica mi ha
ravvivato nella mente i particolari di quella scena.
Appena sparsa la notizia, verso le sette della mattina, che i turchi avevano superate le mura, una
folla immensa s'era rifugiata in Santa Sofia. Erano intorno a centomila persone: soldati fuggiaschi,
monaci, sacerdoti, senatori, migliaia di vergini fuggite dai monasteri, famiglie patrizie coi loro
tesori, grandi dignitari dello Stato e principi del sangue imperiale, che correvano per le gallerie e per
la navata, e si pigiavano per tutti i recessi dell'edifizio, alla rinfusa con la feccia del volgo, cogli
schiavi, coi malfattori vomitati dalle carceri e dalle galere, e tutta la basilica risonava di grida di
terrore come un teatro affollato al divampare d'un incendio. Quando la navata, tutte le gallerie e tutti
i vestiboli furon pieni stipati, si sbarrarono e si asserragliarono le porte, e al frastuono dei primi
momenti succedette una quiete spaventosa. Molti credevano ancora che i vincitori non avrebbero
osato profanare la chiesa di Santa Sofia; altri aspettavano con una stupida sicurezza l'apparizione
dell'Angelo, annunziato dai profeti, il quale avrebbe sterminato l'esercito musulmano prima che le
avanguardie arrivassero alla colonna di Costantino; altri, saliti sul terrazzo interno della grande
cupola, spiavano dalle finestre l'avanzarsi del pericolo, e ne davano notizia coi cenni ai centomila
volti smorti che guardavano in su dalle gallerie e dalla navata. Di lassù si vedeva un'immensa
nuvola bianca che copriva le mura dalle Blacherne fino alla Porta dorata; e di qua dalle mura,
quattro striscie lampeggianti, che s'avanzavano fra le case come quattro torrenti di lava, allargandosi
e rumoreggiando, in mezzo al fumo e alle fiamme. Erano le quattro colonne assalitrici dell'esercito
turco, che cacciavano dinanzi a gli avanzi disordinati dell'esercito greco, e convergevano,
saccheggiando e incendiando, verso Santa Sofia, l'Ippodromo e il palazzo imperiale. Quando le
avanguardie delle colonne arrivarono sulla seconda collina, gli squilli delle trombe risonarono
improvvisamente nella chiesa, e la moltitudine atterrita cadde in ginocchio. Ma anche in quei
momenti, molti confidavano ancora nell'apparizione dell'Angelo ed altri speravano che un
sentimento di rispetto e di terrore avrebbe arrestato gl'invasori dinanzi alla maestà di quell'enorme
edificio consacrato a Dio. Ma anche quest'ultima illusione non tardò a dileguarsi. Gli squilli delle
trombe s'avvicinarono, un rumore confuso di armi e di grida, irrompendo dalle mille finestre, riempì
la basilica, e un minuto dopo rimbombarono i primi colpi delle ascie ottomane sulle porte di bronzo
dei vestiboli. Allora quella immensa folla sentì il freddo della morte, e tutti si raccomandarono a
Dio. Le porte sfracellate o sgangherate rovinarono, e un'orda selvaggia di giannizzeri, di spahì, di
timmarioti, di dervis, di sciaù, lordi di polvere e di sangue, trasfigurati dal furore della battaglia,
della rapina e dello stupro, apparve sulle soglie. Al primo aspetto della grande navata sfolgorante di
tesori, gettarono un grido altissimo di meraviglia e di gioia; poi irruppero dentro come un torrente
furioso. Una parte si precipitò sulle vergini, sulle dame, sui patrizii, schiavi preziosi, che, istupiditi
dal terrore, porsero spontaneamente le braccia alle corde e alle catene; gli altri piombarono sulle
ricchezze della chiesa. I tabernacoli furono predati, le statue stramazzate, i crocifissi d'avorio
frantumati; i musaici, creduti gemme, disfatti a colpi di scimitarra, caddero in pioggie scintillanti nei
caffettani e nelle cappe aperte; le perle dei vasi, scastonate dalle punte dei pugnali, saltellarono sul
pavimento inseguite come cose vive, e disputate a morsi e a sciabolate; l'altar maggiore andò
disperso in mille rottami d'oro e d'argento; le seggiole, i troni, il pulpito, la balaustrata del coro
scomparvero come stritolati da una valanga di pietra. E intanto continuavano a irrompere nella
chiesa, a ondate sanguinose, le orde asiatiche; e in breve non si vide più che un turbinìo vertiginoso
di predoni briachi, camuffati di tiare e di abiti sacerdotali, che agitavano nell'aria calici e ostensorii,
trascinando file di schiavi legati colle cinture dorate dei pontefici, in mezzo ai cammelli e ai cavalli
carichi di bottino, scalpitanti sul pavimento ingombro di scheggie di statue, di vangeli lacerati e di
reliquie di santi; un'orgia forsennata e sacrilega, accompagnata da un frastuono orrendo di urli di
trionfo, di minaccie, di nitriti, di risa, di grida di fanciulle e di squilli di trombe; fin che tutto tacque
improvvisamente, e sulla soglia della porta maggiore apparve a cavallo Maometto II, circondato da
una folla di principi, di vizir e di generali, superbo e impassibile come l'immagine vivente della
vendetta di Dio, e rizzandosi sulle staffe, lanciò con voce tonante nella basilica devastata la prima
formula della nuova religione: – Allà è la luce del cielo e della terra!
DOLMA BAGCÉ
Ogni venerdì il Sultano va a far le sue preghiere in una moschea di Costantinopoli.
Noi lo vedemmo un giorno che andò alla moschea d’Abdul-Megid, posta sulla riva europea
del Bosforo, vicino al palazzo imperiale di Dolma Bagcé.
Per andare a Dolma Bagcé, da Galata, si passa per il quartiere popoloso di Top-hané, fra
una grande fonderia di cannoni e un vasto arsenale; si percorre tutto il sobborgo musulmano di
Funduclù, che occupa il luogo dell’antico Aïanteion, e si riesce in una piazza spaziosa, aperta
verso il mare, di dalla quale, lungo la riva del Bosforo, s’innalza il palazzo famoso dove
risiedono i Sultani.
È la più grande mole di marmo che riflettano le acque dello stretto dalla collina del Serraglio
alle bocche del Mar Nero, e non si abbraccia tutta con uno sguardo che passandovi davanti in
caicco. La facciata, che si stende per la lunghezza di circa un mezzo miglio italiano, è rivolta verso
l’Asia, e si vede biancheggiare a una grande distanza fra l’azzurro del mare e il verde cupo delle
colline della riva. Non è propriamente un palazzo perchè non c’è un unico concetto architettonico;
le varie parti sono slegate e vi si mescolano in una confusione non mai veduta lo stile arabo, il
greco, il gotico, il turco, il romano, quello del nascimento; e colla maestà dei palazzi reali d’Europa,
la grazia quasi femminea delle moresche di Siviglia e di Granata. Piuttosto che il «palazzo» si
potrebbe chiamare «la città imperiale» come quella dell’Imperatore della China; e più che per la
vastità, per la forma, pare che debba essere abitato, non da un solo monarca, ma da dieci re fratelli
od amici, che vi passino il tempo fra gli ozi e i piaceri. Dalla parte del Bosforo presenta una serie di
facciate di teatri o di templi, sulle quali v’è una profusione indescrivibile d’ornamenti, buttati via,
come dice un poeta turco, dalle mani d’un pazzo; che rammentano quelle favolose pagode indiane,
su cui l’occhio si stanca al primo sguardo, e sembrano l’immagine degli infiniti capricci amorosi e
fastosi dei principi sfrenati che vivono tra quelle mura. Sono file di colonne doriche e ioniche,
leggiere come aste di lancia; finestre inquadrate in cornici a festoni e in colonnine accannellate;
archi pieni di fogliami e di fiori che s’incurvano su porte coperte di ricami; terrazze gentili coi
parapetti scolpiti a giorno; trofei, rosoni, viticci; ghirlande che s’annodano e s’intrecciano, vezzi di
marmo che s’affollano sui cornicioni, lungo le finestre, intorno a tutti i rilievi; una rete d’arabeschi
che si stende dalle porte ai frontoni, una fioritura, uno sfarzo e una finezza di fregi e di gale
architettoniche, che danno ad ognuno dei piccoli palazzi di cui è composto il grande edifizio
multiforme, l’apparenza d’un prodigioso lavoro di cesellatura. Pare che non debba essere un
tranquillo architetto armeno quello che n’ebbe il primo concetto; ma un sultano innamorato il quale
l’abbia visto in sogno, dormendo tra le braccia della più ambiziosa delle sue amanti. Dinanzi si
stende una fila di pilastri monumentali di marmo bianco, uniti da cancellate dorate, che
rappresentano un intreccio delicatissimo di rami e di fiori, e che viste di lontano sembrano cortine di
trina, che il vento debba portar via. Lunghe gradinate marmoree discendono dalle porte alla sponda
e si nascondono nel mare. Tutto è bianco, fresco, nitido come se il palazzo fosse fatto d’ieri.
L’occhio d’un artista ci potrà vedere mille errori d’armonia e di gusto; ma l’insieme di quella mole
smisurata e ricchissima, il primo aspetto di quella schiera di reggie bianche come la neve, niellate
come gioielli, coronate da quel verde, riflesse da quelle acque, lascia un’impressione di potenza, di
mistero e d’amore, che fa quasi dimenticare la collina dell’antico Serraglio. Quelli che ebbero la
fortuna di penetrare fra quelle mura, dicono che il di dentro corrisponde alla facciata: che son
lunghe sfilate di sale dipinte a fresco di soggetti fantastici e di colori ridenti, con porte di cedro e
d’acagiù scolpite e ornate d’oro, che s’aprono su interminabili corridoi rischiarati da una luce
dolcissima, dai quali si va in altre sale colorate di foco da cupolette di cristallo porporino, e in
stanze da bagno che sembrano scavate in un solo blocco di marmo di Paros; e di qui su terrazze
aeree, che pendono sopra giardini misteriosi e sopra boschetti di cipressi e di rose, dai quali, per
lunghe fughe di portici moreschi, si vede l’azzurro del mare; e finestre, terrazze, loggie, chioschetti,
tutto ribocca di fiori, per tutto c’è acqua che schizza e ricasca in piogge vaporose sulla verzura e sui
marmi, e da ogni parte s’aprono vedute divine sul Bosforo, di cui l’aria viva spande in tutti i recessi
della reggia enorme un delizioso fresco marino.
Dalla parte di Funduclù v’è una porta monumentale, sopraccarica d’ornamenti; il Sultano
doveva uscire da quella porta e attraversare la piazza.
Non c’è altro re sulla terra che abbia una così bella piazza per fare una uscita solenne dalla sua
reggia. Stando ai piedi della collina, si vede da un lato la porta del palazzo, che sembra un arco di
trionfo d’una regina; dall’altro la moschea graziosa di Abdul-Megid, fiancheggiata da due minareti
gentili, in faccia, il Bosforo; di là, le colline dell’Asia, verdissime, picchiettate d’infiniti colori dai
chioschi, dai palazzi, dalle moschee, dalle ville, che presentano l’aspetto d’una grande città parata a
festa; più lontano, la maestà ridente di Scutari, colla sua corona funebre di cipressi; e fra le due rive,
un incrociarsi continuo di legni a vela, di navi da guerra imbandierate, di vaporini affollati che
paiono colmi di fiori, di bastimenti asiatici di forme antiche e bizzarre, di lancie del Serraglio, di
barchette signorili, di stormi d’uccelli che radono le acque: una bellezza piena d’allegria e di vita,
dinanzi alla quale lo straniero che aspetta l’uscita del corteo imperiale, non può che immaginare un
Sultano bello come un angelo e sereno come un fanciullo.
Mezz’ora prima, v’erano già nella piazza due schiere di soldati vestiti alla zuava, che dovevano
far ala al passaggio del Sultano, e un migliaio di curiosi. Non c’è nulla di più strano della raccolta di
gente che si vede per il solito in quell’occasione. C’erano ferme qua e parecchie splendide
carrozze chiuse, con dentro delle turche «dell’alta signoria» guardate da giganteschi eunuchi a
cavallo, immobili accanto gli sportelli; alcune signore inglesi in carrozze da nolo scoperte; varii
crocchi di viaggiatori col cannocchiale a tracolla, fra i quali vidi il contino conquistatore
dell’albergo di Bisanzio, venuto forse, il crudele! per fulminare d’uno sguardo di trionfo il suo
rivale potente e infelice. Tra la folla giravano parecchie figure cappellute, con un album sotto il
braccio, che mi parvero disegnatori venuti per schizzare furtivamente le sembianze imperiali.
Vicino alla banda musicale c’era una bellissima signora francese, vestita un po’ stranamente,
d’aspetto e di atteggiamenti arditi, che stava dinanzi a tutti, che doveva essere un’avventuriera
cosmopolitica venuta là per dar nell’occhio al Gran Signore, poichè le si leggeva sul viso «la trepida
gioia d’un gran disegno». C’erano di quei vecchi turchi, sudditi fanatici e sospettosi, che non
mancano mai al passaggio del loro Sultano, perchè vogliono proprio assicurarsi coi loro occhi che è
vivo e sano per la gloria e la prosperità dell’universo; e il Sultano esce appunto ogni venerdì per
dare al suo buon popolo una prova della propria esistenza, potendo accadere, come accadde più
volte, che la sua morte naturale o violenta sia tenuta segreta da una congiura di corte. C’erano dei
mendicanti, dei bellimbusti musulmani, degli eunuchi sfaccendati, dei dervis. Fra questi notai un
vecchio alto e sparuto, dagli occhi terribili, immobile, che guardava verso la porta del palazzo con
un’espressione sinistra; e pensai che aspettasse il Sultano per piantarglisi davanti e gridargli in
faccia come il dervis delle Orientali al Pascià Alì di Tepeleni: Tu non sei che un cane e un
maledetto! Ma di questi ardimenti sublimi non si più esempio dopo la sciabolata famosa di
Mahmud. C’erano poi varii gruppi di donnine turche, in disparte, che parevano gruppi di maschere,
e quella solita accozzaglia di comparse da palco scenico che è la folla di Costantinopoli. Tutte le
teste si profilavano sull’azzurro del Bosforo, e probabilmente tutte le bocche dicevano le stesse
parole.
Si cominciava a parlare appunto in quei giorni delle stravaganze d’Abdul Aziz. Già da un pezzo
si parlava della sua insaziabile avidità di denaro. Il popolo diceva: Mamhud avido di sangue,
Abdul-Megid di donne, Abdul-Aziz d’oro. Tutte le speranze che s’erano fondate su di lui,
principe imperiale, quando, ammazzando un bue con un pugno, diceva: Così ammazzerò la
barbarie, – erano già svanite d’un pezzo. Le tendenze a una vita semplice e severa, di cui aveva dato
prova nei primi anni del suo regno, amando, come si diceva, una donna sola, e ristringendo
inesorabilmente le spese enormi del Serraglio, non erano più che una memoria. Forse erano anche
anni ed anni che aveva smesso affatto quegli studi di legislazione, d’arte militare e di letteratura
europea, di cui s’era fatto tanto scalpore, come se in essi riposassero tutte le speranze della
rigenerazione dell’Impero. Da molto tempo non pensava più che a sè stesso. Ogni momento correva
la voce di qualche sua escandescenza contro il ministro delle finanze che non voleva o non poteva
dargli tutto il denaro ch’egli avrebbe voluto. Alla prima obbiezione scaraventava addosso alla
malcapitata Eccellenza il primo oggetto che gli cadeva nelle mani, recitando per filo e per segno,
con quanta voce aveva in gola, la formola antica del giuramento imperiale: per il Dio creatore del
cielo e della terra, per il profeta Maometto, per le sette varianti del Corano, per i
centoventiquattromila profeti di Dio, per l’anima di mio nonno e per l’anima di mio padre, per i
miei figli e per la mia spada, portami del danaro o faccio piantare la tua testa sulla punta del più alto
minareto di Stambul. E per un verso o per un altro veniva a capo di quel che voleva, e il danaro
estorto in quella maniera, ora lo ammucchiava e se lo covava gelosamente come un avaro volgare,
ora lo profondeva a piene mani in capricci puerili. Oggi era il capriccio dei leoni, domani delle tigri,
e mandava incettatori nelle Indie e nell’Affrica; poi per un mese filato cinquecento pappagalli
facevano risonare i giardini imperiali della stessa parola; poi gli pigliava il furore delle carrozze e
dei pianoforti che voleva far sonare sorretti dalla schiena di quattro schiavi; poi la mania dei
combattimenti dei galli, a cui assisteva con entusiasmo, e appendeva di sua mano una medaglia al
collo dei vincitori, e cacciava in esilio, di dal Bosforo, i vinti; poi la passione del gioco, dei
chioschi, dei quadri; la corte pareva tornata ai tempi del primo Ibraim; ma il povero principe non
trovava pace, non faceva che passare da una noja mortale a un’inquietudine tormentosa; era torbido
e triste; pareva che presentisse la fine infelice che lo aspettava. A volte si ficcava nel capo di dover
morire avvelenato, e per un pezzo, diffidando di tutti, non mangiava più che ova sode; altre volte,
preso dal terrore degl’incendi, faceva togliere dalle sue stanze tutti gli oggetti di legno, persino le
cornici degli specchi. In quel tempo appunto si diceva che, per paura del fuoco, leggesse di notte al
lume d’una candela piantata in un secchio d’acqua. E malgrado queste follie, di cui si diceva che
fosse la prima cagione una cagione che non c’è bisogno di dire, egli conservava tutta la forza
imperiosa della volontà antica, e sapeva farsi obbedire e faceva tremare i più arditi. La sola persona
che potesse sull’animo suo era sua madre, donna d’indole altera e vana, che nei primi anni del suo
regno faceva coprire di tappeti di broccato le strade dove passava suo figlio per andare alla
moschea, e il giorno dopo regalava tutti quei tappeti agli schiavi che li andavano a levare. Però,
anche nel disordine della sua vita affannosa, fra l’uno e l’altro dei suoi grandi capricci, Abdul Aziz
aveva pure dei capricci piccolissimi, come quello di volere sopra una data porta un dipinto a fresco
di natura morta, con quei certi frutti e quei certi fiori, combinati in quella data maniera, e
prescriveva accuratamente ogni cosa al pittore, e stava là lungo tempo a contare le pennellate, come
se non avesse altro pensiero al mondo. Di tutte queste bizzarrie, frangiate chi sa come dalle mille
bocche del Serraglio, tutta la città parlava, e forse fin d’allora s’andavano raccogliendo le prime fila
della congiura che lo rovesciò dal trono due anni dopo. La sua caduta, come dicono i Musulmani,
era già scritta, e con essa la sentenza che fu poi pronunziata sopra di lui e sopra il suo regno. La
quale non è molto diversa da quella che si potrebbe dare su quasi tutti i Sultani degli ultimi tempi.
Principi imperiali, spinti verso la civiltà europea da un’educazione superficiale, ma varia e libera, e
dal fervore della giovinezza desiderosa di novità e di gloria, vagheggiano, prima di salire sul trono,
grandi disegni di riforme e di rinnovamenti, e fanno il proposito fermo e sincero di dedicare a quel
fine tutta la loro vita, che dovrà essere una vita austera di lavoro e di lotta. Ma dopo qualche anno di
regno e di lotte inutili, circondati da mille oracoli, inceppati da tradizioni e da consuetudini
avversati dagli uomini e dalle cose, spaventati dalla grandezza non prima misurata dell’impresa, se
ne sdanno sfiduciati, per domandare ai piaceri quello che non possono avere dalla gloria, e perdono
a poco a poco, in una vita tutta sensuale, perfino la memoria dei primi propositi e la coscienza del
loro avvilimento. Così accade che al sorgere d’ogni nuovo Sultano si faccia sempre, e non senza
fondamento, un pronostico felice a cui segue sempre un disinganno.
Abdul-Aziz non si fece aspettare. All’ora fissata, s’udì uno squillo di tromba, la banda intonò
una marcia di guerra, i soldati presentarono le armi, un drappello di lancieri us improvvisamente
dalla porta del palazzo, e si vide apparire il Sultano a cavallo, che venne innanzi lentamente,
seguito dal suo corteo.
Mi passò dinanzi a pochi passi, ed ebbi tutto il tempo di considerarlo attentamente.
La mia immaginazione fu stranamente delusa.
Il re dei re, il sultano scialacquatore, violento, capriccioso, imperioso, che era allora sui
quarantaquattr’anni, aveva l’aspetto di una buonissima pasta di turco, che si trovasse a fare il
sultano senza saperlo. Era un uomo tarchiato e grasso, un bel faccione con due grandi occhi sereni e
una barba intera e corta, già un po’ brizzolata di bianco; aveva una fisonomia aperta e mansueta, un
atteggiamento naturalissimo, quasi trascurato; e uno sguardo quieto e lento in cui non appariva la
minima preoccupazione dei mille sguardi che gli erano addosso. Montava un cavallo grigio bardato
d’oro, di bellissime forme, tenuto per le briglie da due palafrenieri sfolgoranti. Il corteo lo seguiva a
grande distanza, e da questo solo si poteva capire che era il Sultano. Il suo vestimento era
modestissimo. Aveva un semplice fez, un lungo soprabito di color scuro abbottonato fin sotto il
mento, un paio di calzoni chiari e gli stivali di marocchino. Veniva innanzi lentissimamente,
guardando intorno con un’espressione tra benevola e stanca, come se volesse dire agli spettatori:
Ah! se sapeste come mi secco! I musulmani s’inchinavano profondamente; molti europei si
levavano il cappello: egli non restituì il saluto a nessuno. Passando dinanzi a noi, diede uno sguardo
a un ufficiale d’alta statura che lo salutava colla sciabola, un altro sguardo al Bosforo, e poi uno
sguardo più lungo a due giovani signore inglesi che lo guardavano da una carrozza, e che si fecero
rosse come due fragole. Osservai che aveva la mano bianca e ben fatta, ed era appunto la mano
destra, colla quale, due anni dopo, si aperse le vene nel bagno. Dietro di lui passò uno stuolo di
pascià, di cortigiani, di pezzi grossi, a cavallo; quasi tutti omaccioni con gran barbe nere, vestiti
senza pompa, silenziosi, gravi, cupi, come se accompagnassero un convoglio funebre; dopo, un
drappello di palafrenieri che conducevano a mano dei cavalli superbi; poi uno stuolo d’ufficiali a
piedi col petto coperto di cordoni d’oro; passati i quali, i soldati abbassarono le armi, la folla si
sparpagliò per la piazza, ed io rimasi immobile, cogli occhi fissi sulla cima del monte Bulgurlù,
pensando alla singolarissima condizione in cui si trova un sultano di Stambul.
È un monarca maomettano, pensavo, e ha la reggia ai piedi di una città cristiana, Pera, che gli
torreggia sul capo. È sovrano assoluto d’uno dei più vasti imperi del mondo, e ci sono nella sua
metropoli, poco lontano da lui, dentro ai grandi palazzi che sovrastano al suo Serraglio, quattro o
cinque stranieri cerimoniosi che la fanno da padroni in casa sua, e che trattando con lui, nascondono
sotto un linguaggio reverente una minaccia perpetua che lo fa tremare. Ha nelle mani un potere
smisurato, gli averi e la vita di milioni di sudditi, il mezzo di soddisfare i suoi più pazzi desiderii, e
non può cambiare la forma della sua copertura di capo. È circondato da un esercito di cortigiani e di
guardie, che bacerebbero l’orma dei suoi piedi, e trema continuamente per la propria vita e per
quella dei suoi figliuoli. Possiede mille donne fra le più belle donne della terra, ed egli solo, tra tutti
i musulmani del suo impero, non può dare la mano di sposo a una donna libera, non può aver che
figli di schiave, ed è chiamato egli stesso: Figlio di schiava, da quello stesso popolo che lo
chiama «ombra di Di. Il suo nome suona riverito e terribile dagli ultimi confini della Tartaria agli
ultimi confini del Maghreb, e nella sua stessa metropoli v’è un popolo innumerevole, e sempre
crescente, su cui non ha ombra di potere e che si ride di lui, della sua forza e della sua fede. Su tutta
la faccia del suo immenso impero, fra le tribù più miserabili delle provincie più lontane, nelle
moschee e nei conventi più solitarii delle terre più selvaggie, si prega ardentemente per la sua vita e
per la sua gloria; ed egli non può fare un passo nei suoi stati, senza trovarsi in mezzo a nemici che
lo esecrano e che invocano sul suo capo la vendetta di Dio. Per tutta la parte del mondo che si
stende dinanzi alla sua reggia, egli è uno dei più augusti e più formidabili monarchi dell’universo;
per quella che gli si stende alle spalle, è il più debole, il più pusillo, il più miserevole uomo che
porti una corona sul capo. Una corrente enorme d’idee, di volontà, di forze contrarie alla natura e
alle tradizioni della sua potenza, lo avvolge, lo soverchia, trasforma sotto di lui, intorno a lui, suo
malgrado, senza che se n’avveda, consuetudini, leggi, usi, credenze, uomini, ogni cosa. Ed egli è là,
tra l’Europa e l’Asia, nel suo smisurato palazzo bagnato dal mare, come in una nave pronta a far
vela, in mezzo a una confusione infinita d’idee e di cose, circondato d’un fasto favoloso e d’una
miseria immensa, già non più due uno, non più vero musulmano, non ancora vero europeo,
regnante sopra un popolo già in parte mutato, barbaro di sangue, civile d’aspetto, bifronte come
Giano, servito come un nume, sorvegliato come uno schiavo, adorato, insidiato, accecato, e intanto
ogni giorno che passa spegne un raggio della sua aureola e stacca una pietra dal suo piedestallo. A
me pare che se fossi in lui, stanco di quella condizione così singolare nel mondo, sazio di piaceri,
stomacato d’adulazioni, affranco dai sospetti, indignato di quella sovranità malsicura ed oziosa
sopra quel disordine senza nome, qualche volta, nell’ora in cui l’enorme Serraglio è immerso nel
sonno, mi butterei a nuoto nel Bosforo come un galeotto fuggitivo, e andrei a passar la notte in una
taverna di Galata in mezzo a una brigata di marinai, con un bicchiere di birra in mano e una pipa di
gesso fra i denti, urlando la marsigliese.
Dopo una mezz’ora, il Sultano ripassò rapidamente in carrozza chiusa, seguito da un drappello
d’ufficiali a piedi, e lo spettacolo fu finito. Di tutto, quello che mi fece un senso più vivo, furono
quegli ufficiali in grande uniforme, che correvano saltellando, come una frotta di lacchè, dietro la
carrozza imperiale. Non vidi mai una prostituzione simile della divisa militare.
Questo spettacolo del passaggio del Sultano, è ora, come si vede, una cosa assai meschina. I
sultani d’altri tempi uscivano in gran pompa, preceduti e seguiti da un nuvolo di cavalieri, di
schiavi, di guardie dei giardini, d’eunuchi, di ciambellani, che visti di lontano, presentavano
l’aspetto, come dicevano i cronisti entusiastici, «d’una vasta aiuola di tulipani.» I sultani d’oggi
invece par che rifuggano dalle pompe come da un’ostentazione teatrale della grandezza perduta. Io
mi domando sovente che cosa direbbe uno di quei primi monarchi se, risorgendo per un momento
dal suo sepolcro di Brussa o dal suo turbè di Stambul, vedesse passare uno di questi suoi nepoti del
secolo diciannovesimo, insaccato in un soprabito nero, senza turbante, senza spada, senza gemme,
in mezzo a una folla di stranieri insolenti. Io credo che arrossirebbe di rabbia e di vergogna, e che in
segno di supremo disprezzo gli farebbe, come Solimano I ad Hassan, tagliare la barba a colpi di
scimitarra, che è la più crudele ingiuria che si passa fare a un osmano. E veramente, fra i sultani
d’ora e quei primi, i cui nomi risonarono in Europa tra il secolo XII e il XVI come scoppi di folgore,
corre la stessa differenza che tra l’impero ottomano dei nostri giorni e quello dei primi secoli. Quelli
raccoglievano davvero in sè la gioventù, la bellezza e il vigore della loro razza; e non erano soltanto
un’immagine vivente del proprio popolo, una bella insegna, una perla preziosa della spada
dell’islamismo; ma ne costituivano per soli una vera forza, e tale, che non c’è chi possa
disconoscere nelle loro qualità personali una delle cagioni più efficaci del meraviglioso incremento
della potenza ottomana. Il più bel periodo è quello della prima giovinezza della dinastia che
abbraccia centonovantatrè anni da Osmano a Maometto II. Quella fu davvero una catena di principi
fortissimi, e fatta una sola eccezione, e tenuto conto dei tempi e delle condizioni della razza, austeri
e saggi e amati dai propri sudditi; spesso feroci, ma di rado ingiusti, e sovente anche generosi e
benefici verso i nemici; e tutti poi quali si capisce che dovessero essere dei principi di quella gente,
belli e tremendi d’aspetto, leoni veri, come le loro madri li chiamavano «di cui il ruggito faceva
tremare la terra.» Gli Abdul-Megid, gli Abdul-Aziz, i Murad, gli Hamid non sono che larve di
padiscià in confronto di quei giovani formidabili, figli di madri di quindici e di padri di diciott’anni,
nati dal fiore del sangue tartaro e dal fiore della bellezza greca, persiana, caucasea. A quattordici
anni comandavano eserciti e governavano provincie, e ricevevano in premio dalle proprie madri
delle schiave belle ed ardenti come loro. A sedici anni erano già padri, a settanta lo diventavano
ancora. Ma l’amore non infiacchiva in loro la tempra gagliardissima dell’animo e delle membra.
L’animo era di ferro, dicevano i poeti, e il corpo era d’acciaio. Avevano tutti certi tratti comuni, che
si perdettero poi nei loro nepoti degeneri: la fronte alta, le sopracciglia arcate e riunite come quelle
dei persiani, gli occhi azzurrini dei figli delle steppe, il naso che si curvava sulla bocca purpurea
«come il becco d’un pappagallo sopra una ciliegia» e foltissime barbe nere, per le quali i poeti del
serraglio si stillavano a cercar paragoni gentili o terribili. Avevano «lo sguardo dell’aquila di monte
Tauro e la forza del re del deserto; colli di toro, larghissime spalle, petti sporgenti che poteva
contenere tutta l’ira guerriera dei loro popoli», braccia lunghissime, articolazioni colossali, gambe
corte ed arcate, che facevano nitrir di dolore i più vigorosi cavalli turcomanni, e grandi mani irsute
che palleggiavano come canne le mazze e gli archi enormi dei loro soldati di bronzo. E portavano
dei soprannomi degni di loro: il lottatore, il campione, la folgore, lo stritolatore d’ossa, lo spargitore
di sangue. La guerra era dopo Allà il primo dei loro pensieri, e la morte era l’ultimo. Non avevano il
genio dei grandi capitani, ma erano dotati tutti di quella prontezza di risoluzione che quasi sempre
vi supplisce, e di quella feroce ostinatezza che consegue non di rado i medesimi effetti.
Trasvolavano, come furie alate, pei campi di battaglia, mostrando di lontano le lunghe penne
d’airone confitte nei turbanti candidi, e gli ampi caffettani tessuti d’oro e di porpora, e i loro urli
selvaggi ricacciavano innanzi le schiere macellate dalla mitraglia serba e tedesca, quando non
bastavano più i nerbi di bue di mille sciaù furibondi. Lanciavano i loro cavalli a nuoto nei fiumi
mulinando al disopra delle acque le scimitarre stillanti di sangue; afferravano per la strozza e
stramazzavano di sella, passando, i pascià infingardi o vigliacchi; balzavano giù da cavallo, nelle
rotte, e piantavano i loro pugnali scintillanti di rubini nel dorso dei soldati fuggiaschi; e feriti a
morte, salivano, comprimendo la ferita, sopra un rialto del campo, per mostrare ai loro giannizzeri il
volto smorto ma ancora minacciane e imperioso, finchè cadevano ruggendo di rabbia ma non di
dolore. Quale doveva essere il sentimento di quelle loro giovanette circasse o persiane appena uscite
dalla puerizia, quando per la prima volta, la sera d’un giorno di battaglia, sotto una tenda purpurea,
al lume velato d’una lampada, si vedevano comparire davanti uno di quei sultani spaventosi e
superbi, inebbriati dalla vittoria e dal sangue? Ma allora essi diventavano dolci e amorosi, e
stringendo quelle mani infantili nelle loro gigantesche mani ancora convulse dalla stretta della
spada, cercavano mille immagini dai fiori dei loro giardini, dalle perle dei loro pugnali, dai più belli
uccelli dei loro boschi, dai più bei colori delle aurore dell’Anatolia e della Mesopotamia per lodare
la bellezza delle loro schiave tremanti, fin che esse prendevano animo, e rispondevano nel loro
linguaggio appassionato e fantastico: Corona del mio capo! Gloria della mia vita! Mio dolce e
tremendo Signore! Che il tuo volto sia sempre bianco e splendido nei due mondi dell’Asia e
dell’Europa! Che la vittoria ti segua da per tutto dove ti porterà il tuo cavallo! Che la tua ombra si
stenda sopra tutta la terra! Io vorrei essere una rosa per olezzare sulla cima del tuo turbante, o una
farfalla per battere le ali sulla tua fronte! E poi, colla voce velata, raccontavano a quei grandi
amanti appagati, che s’assopivano sul loro seno, le loro storie fanciullesche di palazzi di smeraldo e
di montagne d’oro, mentre intorno alla tenda, per la campagna insanguinata ed oscura, l’esercito
feroce dormiva. Ma essi lasciavano ogni mollezza sulla soglia dell’arem, e uscivano da quegli amori
più fieri e più ardenti. Erano dolci nell’arem, feroci sul campo, umili nella moschea, superbi sul
trono. Di qui parlavano un linguaggio pieno d’iperboli sfolgoranti e di minacce fulminee, ed ogni
loro sentenza era una sentenza irrevocabile che bandiva una guerra, o innalzava un uomo all’apice
della fortuna, o faceva rotolare una testa ai piedi del trono, o scatenava un uragano di ferro o di foco
sopra una provincia ribelle. Così turbinando dalla Persia al Danubio e dall’Arabia alla Macedonia,
fra le battaglie, i trionfi, le caccie, gli amori, passavano dal fiore degli anni a una virilità più bollente
e più audace della giovinezza, e poi a una vecchiaia della quale non s’accorgeva nè il seno delle loro
belle nè il dorso dei loro cavallil’elsa della loro spada. E non solo nella vecchiaia, anche nell’età
verde avveniva qualche volta che, oppressi dal sentimento della loro mostruosa potenza, sgomentati
tutt’a un tratto, nel furore delle vittorie e dei trionfi, dalla coscienza d’una responsabilità più che
umana, e presi da una specie di terrore nella solitudine della propria altezza, si volgevano con tutta
l’anima a Dio, e passavano i giorni e le notti nei recessi oscuri dei loro giardini a comporre poesie
religiose, o andavano a meditare il Corano sulle rive del mare o a ballare le ridde frenetiche dei
dervis o a macerarsi coi digiuni e coi cilicii nella caverna d’un vecchio eremita. E come nella vita,
così nella morte si presentarono quasi tutti ai loro popoli in una figura o venerabile o tremenda, sia
che morissero colla serenità dei santi come il capo della dinastia, o carichi d’anni di gloria e di
tristezza come Orkano, o del pugnale d’un traditore come Murad I, o nella disperazione dell’esilio
come Baiazet, o conversando placidamente fra una corona di dotti e di poeti come il primo
Maometto, o del dolore d’una sconfitta come il secondo Murad; e si può dir con sicurezza che i loro
fantasmi minacciosi sono quanto rimarrà di più grande e di più poetico sugli orizzonti color di
sangue della storia ottomana.
LE TURCHE
È una grande sorpresa per chi arriva a Costantinopoli, dopo aver inteso parlar tanto della
schiavitù delle donne turche, il veder donne da tutte le parti e a tutte le ore del giorno, come in una
qualunque città europea. Pare che appunto in quel giorno a tutte quelle rondini prigioniere sia stato
dato il volo per la prima volta e che sia cominciata un’èra nuova di libertà per il bel sesso
musulmano. La prima impressione è curiosissima. Lo straniero si domanda, al vedere tutte le donne
con quei veli bianchi e quelle lunghe cappe di colori ciarlataneschi, se son maschere o monache o
pazze; e siccome non se ne vede una sola accompagnata da un uomo, pare che non debbano essere
di nessuno, che siano tutte vedove o ragazze, o che appartengano tutte a un qualche grande ritiro di
«malmaritate». Nei primi giorni non ci si può persuadere che tutti quei turchi e tutte quelle turche
che s’incontrano e si toccano senza guardarsi e senza accompagnarsi mai, possano avere tra loro
qualcosa di comune. E ogni momento s’è costretti a fermarsi per osservare quelle strane figure e per
meditare su quello stranissimo uso. Son queste dunque, si dice, son proprio queste quelle
«avvincitrici di cuori», quelle «fonti di piacere», quelle «piccole foglie di rosa» e «uve primaticcie»
e «rugiade del mattino» e «aurore «vivificatrici» e «lune splendenti» di cui mille poeti ci hanno
empita la testa? Queste le hanum e le odalische misteriose, che a vent’anni, leggendo le ballate di
Victor Hugo all’ombra d’un giardino, abbiamo sognate tante volte, come creature d’un altro mondo,
di cui un solo amplesso avrebbe consunto tutte le forze della nostra giovinezza? Queste le belle
infelici, nascoste dalle grate, vigilate dagli eunuchi, separate dal mondo, che passano sulla terra,
come larve, gettando un grido di voluttà e un grido di dolore? Vediamo che cosa c’è ancora di vero
in tutta questa poesia.
Prima di tutto, il viso della donna turca non è più un mistero, e perciò una gran parte della
poesia che la circondava è svanita. Quel velo geloso che, secondo il Corano, doveva essere «un
segno della sua virtù e un freno ai discorsi del mondo», non è più che un’apparenza. Tutti sanno
come è fatto il jasmac. Sono due grandi veli bianchi, di cui uno, stretto intorno al capo come una
benda, copre la fronte fino alle sopracciglia, s’annoda dietro, nei capelli, al di sopra della nuca, e
ricade sulla schiena, in due lembi, fino alla cintura; l’altro copre tutta la parte inferiore del viso, e va
ad annodarsi col primo, in modo che par tutto un velo solo. Ma questi due veli, che dovrebbero
essere di mussolina e stretti in maniera da non lasciar vedere che gli occhi e la sommità delle
guancia, sono invece di tulle radissimo, e allentati tanto, che lasciano vedere non solo il viso, ma gli
orecchi, il collo, le treccie, e spesso anche i cappellini all’europea, ornati di penne e di fiori, che
portano le signore «riformate». E perciò accade appunto il contrario di quello che si vedeva una
volta, quando alle donne attempate era lecito di andare col viso un po’ più scoperto, e alle giovani
era imposto di coprirsi più rigorosamente. Ora son le giovani, e specialmente le belle, quelle che si
mostrano meglio, e son le vecchie che per ingannare il mondo portano il velo fitto e serrato. Quindi
un’infinità di bei misteri e di belle sorprese, raccontate dai romanzieri e dai poeti, non sono più
possibili; ed è una fiaba, fra le altre, quella che lo sposo veda per la prima volta il viso della sua
sposa nella notte nuziale. Ma fuorchè il viso, tutto è ancora nascosto; non si può intravvedere il
seno, nè la vita, nè il braccio,il fianco; il feregé nasconde rigorosamente ogni cosa. È una specie
di tonaca, guernita d’una pellegrina, di maniche lunghissime, larga, senza garbo, cadente come un
mantellaccio dalle spalle ai piedi, di panno l’inverno, di seta l’estate, e tutta d’un colore, quasi
sempre vivissimo: ora rosso vivo, ora ranciato, ora verde; e l’uno o l’altro predomina d’anno in
anno, rimanendo inalterata la forma. Ma benchè insaccate in quel modo, tanta è l’arte con cui sanno
aggiustarsi il jasmac, che le belle paiono bellissime, e le brutte graziose. Non si può dire che cosa
fanno con quei due veli, con che grazia se li dispongono a corona e a turbante, con che ampiezza e
con che nobiltà di pieghe li ravvolgono e li sovrappongono, con che leggerezza e con che elegante
trascuranza li allentano e li lasciano cadere, come li fanno servire nello stesso tempo a mostrare, a
nascondere, a promettere, a proporre degli indovinelli e a rivelare inaspettatamente delle piccole
meraviglie. Alcune pare che abbiano intorno al capo una nuvola bianca e diafana, che debba svanire
ad un soffio; altre sembrano inghirlandate di gigli e di gelsomini; tutte paiono di pelle bianchissima,
e prendono da quei veli delle sfumature nivee e un’apparenza di morbidezza e di freschezza che
innamora. È un’acconciatura ad un tempo austera e ridente, che ha qualche cosa di sacerdotale e di
virgineo; sotto la quale pare che non debbano nascere che pensieri gentili e capricci innocenti.... Ma
vi nasce un po’ d’ogni cosa.
È difficile definire la bellezza della donna turca. Posso dire che quando ci penso vedo un viso
bianchissimo, due occhi neri, una bocca purpurea e un’espressione di dolcezza. Quasi tutte però son
dipinte. S’imbiancano il viso con pasta di mandorle e di gelsomino, s’ingrandiscono le sopracciglia
con inchiostro di china, si tingono le palpebre, s’infarinano il collo, si fanno un cerchio nero intorno
agli occhi, si mettono dei nei sulle guance. Ma fanno questo con garbo; non come le belle di Fez,
che si danno delle pennellate da imbianchini. La maggior parte hanno un bel contorno ovale, un
nasino un po’ arcato, le labbra grossette, il mento rotondo, colla fossetta; molte hanno le fossette
anche nelle guance; un bel collo lunghetto e flessibile; e mani piccine, quasi sempre coperte,
peccato, dalle maniche della cappa. Quasi tutte poi sono grassotte e moltissime di statura più che
mezzana: rarissime le acciughe e i crostini dei nostri paesi. Se hanno un difetto comune, è quello di
camminar curve e un po’ scomposte, con una certa cascaggine di bambolone cresciute tutt’a un
tratto; il che deriva, si dice, da una mollezza di membra, di cui è cagione l’abuso del bagno, ed
anche un po’ dalla calzatura disadatta. Si vedono, infatti, delle donnine elegantissime, che debbono
avere un piedino di nulla, calzate di babbuccie da uomo o di stivaletti lunghi, larghi e aggrinziti, che
una pezzente europea sdegnerebbe. Ma anche in quella brutta andatura hanno un certo garbo
fanciullesco che, quando ci si è fatto l’occhio, non dispiace. Non si vede nessuna di quelle figure
impettite, di quelle mostre da modista, così frequenti nelle città europee, che vanno a passetti di
marionetta, e che par che saltellino sopra uno scacchiere. Non hanno ancora perduto la pesantezza e
la trascuranza naturale dell’andatura orientale, e se la perdessero, riuscirebbero forse più maestose,
ma meno simpatiche. Si vedono delle figure bellissime e di bellezza infinitamente svariata, poichè
c’entra col sangue turco, il sangue circasso, l’arabo, il persiano. Ci sono delle matrone di trent’anni,
di forme opulente, che il feregé non basta a nascondere, altissime, con grandi occhi scuri, colle
labbra tumide, colle narici dilatate, pezzi di hanum da far tremare cento schiave con uno sguardo,
vedendo le quali, par davvero una ridicola e temeraria spacconata quella dei signori turchi che
pretendono d’esser quattro volte mariti. Ce n’è dell’altre, piccolette e paffutelle, che han tutto
rotondo volto, occhi, naso, bocca ed un’aria così queta, così benevola, così bambina,
un’apparenza di rassegnazione così docile al loro destino, di non essere che un trastullo e una
ricreazione, che passandogli accanto, vi verrebbe voglia di mettergli in bocca una caramella. Ci son
poi anche le figurine svelte, sposine di sedici anni, ardite e vivacissime, cogli occhi pieni di capricci
e d’astuzie, che fanno pensare con un sentimento di pietà al povero effendi che le ha da tenere in
freno e al disgraziato eunuco che le deve tener d’occhio. E la città si presta mirabilmente a
inquadrare, per dir così, la loro bellezza e il loro vestiario. Bisogna vedere una di quelle figurine col
velo bianco e col feregé purpureo, seduta in un caicco, in mezzo all’azzurro del Bosforo; o adagiata
sull’erba, in mezzo al verde bruno d’un cimitero; o anche meglio, vederla venir giù per una stradetta
ripida e solitaria di Stambul, chiusa in fondo da un grande platano, quando tira vento, e i veli e il
feregé svolazzano, e scoprono collo, piedino e calzina; e v’assicuro che in quel momento, se fosse
sempre in vigore l’indulgente decreto di Solimano il Magnifico, che multa d’un aspro ogni bacio
dato alla moglie e alla figliola altrui, allungherebbe un calcio all’avarizia anche Arpagone. E non c’è
caso che quando tira vento, la donna turca s’affanni a tener basso il feregé, perchè il pudore delle
musulmane non va più in giù delle ginocchia, e s’arresta qualche volta assai prima.
Una cosa che stupisce, sulle prime, è la loro maniera di guardare e di ridere, che scuserebbe
qualunque giudizio più temerario. Accade spessissimo che un giovane europeo, guardando fisso una
donna turca, anche di alto bordo, sia ricambiato con uno sguardo sorridente o con un sorriso aperto.
Non è raro nemmeno che una bella hanum in carrozza, faccia, di nascosto all’eunuco, un saluto
grazioso colla mano a un giovanotto franco a cui si sia accorta di piacere. Qualche volta, in un
cimitero o in una strada appartata, una turca capricciosa s’arrischia perfino a gettare un fiore
passando, o a lasciarlo cadere in terra coll’intenzione manifesta che sia raccolto dal giaurro elegante
che le vien dietro. Per questo un viaggiatore fatuo può prendere dei grandi abbagli, e ci sono infatti
degli europei scimuniti, che, essendo stati un mese a Costantinopoli, credono in buona fede d’aver
rubata la pace a un centinaio di sventurate. C’è senza dubbio, in quegli atti, un’espressione ingenua
di simpatia; ma c’entra in parte assai maggiore uno spirito di ribellione, che tutte le turche hanno in
cuore, nato dall’uggia della soggezione in cui sono tenute, e al quale danno sfogo, come e quando
possono, in piccole monellerie, non fosse che per far dispetto, in segreto, ai loro padroni. Fanno in
quel modo più per fanciullaggine che per civetteria. E la loro civetteria è d’un genere
singolarissimo, che somiglia molto ai primi esperimenti delle ragazzine quando cominciano ad
accorgersi d’esser guardate. È un gran ridere, un guardare in su colla bocca aperta in atto di stupore,
un fingere d’aver male al capo o a una gamba, certi atti di dispetto il feregé che le imbarazza, certi
scatti da scolarette, che sembran fatti più per far ridere che per sedurre. Mai un atteggiamento da
salotto o da fotografia. Quella po’ d’arte che mostrano è proprio un’arte rudimentale. Si vede, come
direbbe il Tommaseo, che non hanno molti veli da gettar via; che non sono abituate ai lunghi
amoreggiamenti, ad «essere circuite alla muta» come le donne geroglifiche del Giusti; e che quando
hanno una simpatia, invece di star tanto a sospirare e a girar gli occhi, direbbero addirittura, se
potessero esprimere il loro sentimento: Cristiano, tu mi piaci. Non potendolo dire colla voce,
glie lo dicono francamente, mostrando due belle file di perle luccicanti, ossia ridendogli sul viso.
Sono belle tartare ingentilite.
E son libere: è una verità che lo straniero tocca con mano appena arrivato. È una esagerazione il
dire come Lady Montague che son più libere delle europee; ma chiunque è stato a Costantinopoli
non può a meno di ridere quando sente parlare della loro «schiavitù». Le signore, quando vogliono
uscire, ordinano agli eunuchi di preparar la carrozza, escono senza chiedere il permesso a nessuno, e
tornano a casa quando vogliono, purchè sia prima di notte. Una volta non potevano uscire
senz’essere accompagnate da un eunuco, o da una schiava, o da un’amica, e le più ardite, se non
volevano altri, dovevano almeno condur con un figlioletto, che fosse come un titolo al rispetto
della gente. Se qualcheduna si faceva veder sola in un luogo appartato, era facilissimo che una
guardia di città o un qualunque vecchio turco rigorista la fermasse e le domandasse: Dove vai?
D’onde vieni? Perchè non hai nessuno con te? Così rispetti il tuo effendi? Torna a casa! Ma ora
escon sole a centinaia, e se ne vedono a tutte le ore per le vie dei sobborghi musulmani e della città
franca. Vanno a far visita alle amiche da un capo all’altro di Stambul, vanno a passar delle mezze
giornate nelle case di bagni, fanno delle gite in barchetta, il giovedì alle Acque dolci d’Europa, la
domenica alle acque d’Asia, il venerdì al cimitero di Scutari, gli altri giorni alle isole dei Principi, a
Terapia, a Bujukderé, a Kalender, a far merenda colle loro schiave, in brigatelle di otto o dieci;
vanno a pregare alle tombe dei Padiscià e delle Sultane, a vedere i conventi dei dervis, a visitare le
mostre pubbliche dei corredi nuziali, e non c’è effigie d’uomo, non che le accompagni o le segua,
ma che, se anche son sole, ardisca di far loro un’osservazione. Vedere un turco in una via di
Costantinopoli, non dico a braccetto, ma al fianco, ma fermo per un momento a discorrere con una
«velata», quando anche portassero scritto in fronte che son marito e moglie, parrebbe a tutti la più
strana delle stranezze, o per meglio dire un’impudenza inaudita, come nelle nostre vie un uomo e
una donna che si facessero ad alta voce delle dichiarazioni d’amore. Da questo lato le donne turche
sono veramente più libere che le europee, e non si può dire questa libertà quanto la godano, e con
che matto desiderio corrano allo strepito, alla folla, alla luce, all’aria aperta, esse che in casa non
vedono che un uomo solo, ed hanno finestre e giardini claustrali. Escono e scorazzano per la città
coll’allegrezza di prigioniere liberate. C’è da divertirsi a pedinarne una a caso, alla lontana, per
vedere come sanno sminuzzarsi e raffinarsi i piaceri del vagabondaggio. Vanno nella moschea più
vicina a dire una preghiera e si fermano a cicalare un quarto d’ora con un’amica sotto le arcate del
cortile; poi al bazar a dare una capatina in dieci botteghe, e a farne metter sottosopra un paio, per
comprare una bagattella; poi pigliano il tramway, scendono al mercato dei pesci, passano il ponte, si
fermano a contemplare tutte le treccie e tutte le parrucche dei parrucchieri di via di Pera, entrano in
un cimitero e mangiano un dolce sopra una tomba, ritornano in città, ridiscendono al Corno d’oro
scantonando cento volte e guardando colla coda dell’occhio ogni cosa vetrine, stampe, annunzi,
signore che passano, carrozze, insegne, porte di teatri comprano un mazzo di fiori, bevono una
limonata da un acquaiolo, fanno l’elemosina a un povero, ripassano il Corno d’oro in caicco,
ricominciano a far dei nastri per Stambul; poi pigliano il tramway un’altra volta, e arrivate sulla
porta di casa, son capaci di tornare indietro, per fare ancora un giro di cento passi intorno a un
gruppo di casette; tale e quale come i ragazzi che escon soli la prima volta, e che in quell’oretta di
libertà ci vogliono far entrare un po’ di tutto. Un povero effendi corpulento che volesse tener dietro
a sua moglie per scoprire se ha qualche ripesco, rimarrebbe sgambato a mezza strada.
Per vedere il bel sesso musulmano, bisogna andare un giorno di gran festa alle Acque dolci
d’Europa, in fondo al Corno d’oro, o a quelle d’Asia, vicino al villaggio di Anaduli-Hissar; che
sono due grandi giardini pubblici, coperti da boschetti foltissimi, attraversati da due piccoli fiumi, e
sparsi di caffè e di fontane. sopra un vasto piano erboso, all’ombra dei noci, dei terebinti, dei
platani, dei sicomori, che formano una successione di padiglioni verdi, per cui non passa un raggio
di sole, si vedono migliaia di turche sedute a gruppi e a circoli, circondate di schiave, d’eunuchi, di
bambini, che merendano e folleggiano per una mezza giornata, in mezzo a un via vai di gente
infinito. Appena giunti si rimane come trasognati. Par di vedere una festa del paradiso islamitico.
Quella miriade di veli bianchissimi e di feregé scarlatti, gialli, verdi e cinerei, quegli innumerevoli
gruppi di schiave vestite di mille colori, quel formicolìo di bimbi in costume di mascherine, i grandi
tappeti di Smirne distesi in terra, i vasellami argentati e dorati che passano di mano in mano, i
caffettieri musulmani, in abito di gala, che corrono in giro portando frutti e gelati, gli zingari che
danzano, i pastori bulgari che suonano, i cavalli bardati d’oro e di seta che scalpitano legati agli
alberi, i pascià, i bey, i giovani signori che galoppano lungo la riva del fiume, il movimento della
folla lontana che sembra il tremolìo d’un campo di camelie e di rose, i caicchi variopinti e le
carrozze splendide che arrivano continuamente a versare in quel mare di colori altri colori, e il
suono confuso dei canti, dei flauti, delle zampogne, delle nacchere, delle grida infantili, in mezzo a
quella bellezza di verde e d’ombra, svariata qua e là da piccole vedute luminose di paesaggi lontani;
presentano uno spettacolo così festoso e così nuovo che al primo vederlo vien voglia di batter le
mani e di gridare: – Bravissimi! – come a scena di teatro.
Ed anche là, malgrado la confusione, è rarissimo il cogliere sul fatto un turco e una turca che
amoreggino cogli occhi o si scambino dei sorrisi e dei gesti d’intelligenza. non esiste la
galanteria coram populo come nei nostri paesi; non ci sono le sentinelle melanconiche, che
vanno e vengono sotto le finestre, le retroguardie affannose che camminano per tre ore sulle
orme delle loro belle. L’amore si fa tutto in casa. Se qualche volta, in una strada solitaria, si
sorprende un giovane turco che guarda in su a una finestrina ingraticolata dietro la quale scintilla un
occhietto nero o spunta una manina bianca, si può esser quasi certi che è un fidanzato. Ai fidanzati
soli si permette il servizio di ronda e di scorta e tutte le altre fanciullaggini dell’amore ufficiale,
come quella di parlarsi di lontano con un fiore, con un nastro, o per mezzo del colore d’un vestito o
di una ciarpa. E in questo le turche sono maestre. Hanno migliaia di oggetti, tra fiori, frutti, erbe,
penne, pietre, ciascuno dei quali possiede un significato convenuto, che è un epiteto o un verbo od
anche una proposizione intera, in modo che possono mettere insieme una lettera con un mazzetto e
dir mille cose con una scatolina o una borsa piena di oggettini svariatissimi, che paiono riuniti a
caso; e siccome il significato d’ogni oggetto è per lo più espresso in un verso, così ogni amante è in
grado di comporre una poesia amorosa od anche un poemetto polimetrico in cinque minuti. Un
chiodetto di garofano, una striscia di carta, una fettina di pera, un pezzetto di sapone, un fiammifero,
un po’ di fil d’oro e un grano di cannella e di pepe, vogliono dire: – È molto tempo che t’amo –, che
ardo –, che languisco –, che muoio d’amore per te. – Dammi un po’ di speranza – non mi respingere
rispondimi una parola. E oltre all’amore, c’è modo di dir mille cose: si possono far dei
rimproveri, dar consigli, avvertimenti, notizie; ed è una grande occupazione delle giovanette, al
tempo dei primi palpiti, quella d’imparare questo frasario simbolico, e di comporne delle lunghe
lettere dirette a dei bei sultani ventenni, veduti in sogno. E fanno lo stesso per il linguaggio dei
gesti, alcuni dei quali sono graziosissimi; quello che fa l’uomo, per esempio, fingendo di lacerarsi il
petto con un pugnale, che significa: – Sono lacerato dalle furie dell’amore –; a cui la donna risponde
lasciando cader le braccia lungo i fianchi, in modo che s’apra un poco dinanzi il feregé, che vuol
dire: Io t’apro le mie braccia. – Ma non c’è forse un Europeo che abbia mai visto far queste cose;
le quali, d’altra parte, sono oramai piuttosto tradizioni che usi; e non s’imparano dai Turchi, i quali
arrossirebbero di parlarne, ma da qualche ingenua hanum, che le confida a qualche amica cristiana.
Per questo mezzo pure si conosce il modo di vestire della donna turca fra le pareti dell’arem,
quel bel costume capriccioso e pomposo, di cui tutti hanno un’idea, e che dà a ogni donna la dignità
d’una principessa e la grazia d’una bambina. Noi non lo vedremo mai, eccetto che la moda lo porti
nei nostri paesi, perchè, se anche un giorno cadrà il feregé, le turche saranno allora vestite
all’europea anche di sotto. Che rodimento per i pittori e che peccato per tutti! Bisogna raffigurarsi
una bella turca «svelta come un cipresso» e colorita «di tutte le sfumature dei petali della rosa» con
una berrettina di velluto rosso o di stoffa argentata, un po’ inclinata a destra; colle treccie nere giù
per le spalle; con una veste di damasco bianco ricamata d’oro, colle maniche a gozzi e un
lunghissimo strascico, aperta dinanzi in modo da lasciar vedere due grandi calzoni di seta rosea, che
cascano con mille pieghe su due scarpettine ritorte in su alla chinese; con una cintura di raso verde
intorno alla vita; con diamanti nelle collane, negli spilloni, nei braccialetti, nei fermagli, nelle
treccie, nella nappina del berretto, sulle babbuccie, sul collo della camicia, sulla cintura, intorno alla
fronte; lampeggiante da capo a piedi come una madonna delle cattedrali spagnuole, e adagiata, in un
atteggiamento infantile, sopra un largo divano, in mezzo a una corona di belle schiave circasse,
arabe e persiane, ravvolte, come statue antiche, in grandi vesti cadenti; o immaginare una sposa
«bianca come la cima dell’Olimpo», vestita di raso cilestrino e tutta coperta da un grande velo
intessuto d’oro, seduta sopra un’ottomana imperlata, dinanzi alla quale lo sposo, inginocchiato
sopra un tappeto di Teheran, fa la sua ultima preghiera prima di scoprire il suo tesoro; o
rappresentarsi una favorita innamorata, che aspetta il suo signore nella stanza più segreta dell’arem,
non più vestita che della zuavina e dei calzoncini, che mettono in rilievo tutte le grazie del suo
corpo flessibile, e le danno l’aspetto d’un bel paggio snello e elegante; e bisogna convenire che quei
brutti turchi «riformati» colla testa pelata e il soprabito nero, hanno assai più di quello che meritano.
Questo vestiario di casa, però, va soggetto ai capricci della moda. Le donne, non avendo altro da
fare, passano il tempo a cercare nuove acconciature; si coprono di gale e di fronzoli, si mettono
penne e nastri nei capelli, bende intorno al capo, pelliccie intorno al collo e alle braccia; prendono
qualcosa ad imprestito da tutti i vestimenti orientali; mescolano la moda europea colla moda turca;
si mettono delle parrucche, si tingono i capelli di nero, di biondo, di rosso, si sbizzarriscono in mille
modi e gareggiano fra di loro come le più sfrenate ambiziose delle grandi città europee. Se un
giorno di festa, alle Acque dolci, si potessero far sparire con un colpo di bacchetta magica tutti i
feregé e tutti i veli, si vedrebbero probabilmente delle turche vestite da regine asiatiche, altre da
crestaine francesi, altre da gran signore in abbigliamento da ballo, altre da mercantesse in pompa
magna, da vivandiere, da cavallerizze, da greche, da zingarelle: tante varietà di vestiario quante se
ne vedono nel sesso mascolino sul ponte della Sultana Validè.
Gli appartamenti dove stanno queste belle e ricche maomettane corrispondono in qualche modo
al loro vestiario seducente e bizzarro. Le stanze riserbate alle donne sono per lo più in bei siti, da cui
si godono vedute meravigliose sulla campagna o sul mare o sopra una gran parte di Costantinopoli.
Sotto, c’è un giardinetto chiuso da alti muri, rivestiti d’edera e di gelsomini; sopra, una terrazza;
dalla parte della strada, dei camerini sporgenti e vetrati, come i miradores delle case spagnuole.
L’interno è delizioso. Sono quasi tutte piccole sale: i palchetti coperti di stuoie chinesi o di tappeti, i
soffitti dipinti di frutti e di fiori, larghi divani lungo le pareti, una fontanella di marmo nel mezzo,
vasi di fiori alle finestre, e quella luce vaga e soavissima, che è tutta propria della casa orientale, una
luce di bosco, che so io? di claustro, di luogo sacro e gentile, che impone di camminare sulla punta
dei piedi, di parlar con un filo di voce, di non dire che parole umili e dolci, di non discorrere che
d’amore o di Dio. Questa luce languida, i profumi del giardino, il mormorio dell’acqua, le schiave
che passano come ombre, il silenzio profondo che regna in tutta la casa, le montagne dell’Asia di
cui si vede l’azzurro a traverso i fori delle grate e i rami del caprifoglio che fanno tenda alle finestre,
destano nelle europee, che entrano fra quelle mura per la prima volta, un sentimento inesprimibile di
dolcezza e di malinconia. La decorazione della maggior parte di questi arem è semplice e quasi
severa; ma ve ne sono pure degli splendidissimi, colle pareti coperte di raso bianco rabescato d’oro,
coi soffitti di cedro, colle grate dorate, con suppellettili preziose. Dalle suppellettili s’indovina la
vita. Non si vedono che poltrone, ottomane grandi e piccine, piccoli tappeti, sgabelli, panchettini,
cuscini di tutte le forme e materasse coperte di scialli e di broccati; un mobilio tutto mollezza e
delicature, che dice in mille modi: Siedi, allungati, ama, addormentati, sogna. Ci si trovano qua
e là degli specchietti a mano e dei larghi ventagli di penne di struzzo; dalle pareti pendono dei cibuk
cesellati; ci son gabbie d’uccelli alle finestre, profumiere in mezzo alle stanze, orologi a musica sui
tavolini, balocchi e gingilli d’ogni maniera, che accusano i mille capricci puerili d’una donnina
sfaccendata che si secca. E non c’è soltanto il lusso delle cose apparenti. Ci son case in cui tutto il
servizio da tavola è d’argento dorato, d’oro massiccio i vasi delle acque odorose, le serviette di raso
frangiate d’oro, e brillanti e pietre preziose nelle posate, nelle tazze da caffè, nelle anfore, nelle pipe,
nelle tappezzerie, nei ventagli; come ci son altre case, e in molto maggior numero, si capisce, in cui
nulla o quasi nulla è mutato dall’antica tenda o capanna tartara, di cui tutta la masserizia sta sul
dorso di un mulo, dove tutto è pronto per un nuovo pellegrinaggio a traverso l’Asia; case
verginalmente maomettane ed austere, nelle quali, quando sia giunta l’ora della partenza, non
suonerà che la voce pacata del padrone, che dirà: – Olsun! – Così sia! –
La casa turca è divisa, come tutti sanno, in due parti: l’arem e il selamlik. Il selamlik è la parte
riserbata all’uomo. Qui egli ci lavora, ci desina, ci riceve gli amici, ci fa la siesta, e ci dorme la notte
quando amore «non gli detta dentro». La donna non ci penetra mai. E come nel selamlik è padrone
l’uomo, nell’arem è padrona la donna. Essa ne ha l’amministrazione ed il governo e ci fa quello che
vuole fuorchè ricevervi degli uomini. Quando non le garbi di ricevere suo marito, può anche fargli
dire cortesemente che torni un’altra volta. Una sola porta e un piccolo corridoio divide per lo più il
selamlik dall’arem; eppure sono come due case lontanissime l’una dall’altra. Gli uomini vanno a
visitar l’effendi e le donne vanno a trovar la hanum senza incontrarsi e senza sentirsi, e il più delle
volte son gente sconosciuti gli uni agli altri. Le persone di servizio sono separate, e separate quasi
sempre le cucine. Ciascuno si diverte e scialaqua per conto suo. Raramente il marito desina colla
moglie, in ispecie quando ne ha più d’una. Non hanno nulla di comune fuorchè il divano su cui
s’avvicinano. L’uomo non entra quasi mai nell’arem come marito, ossia come compagno e come
educatore dei figliuoli; non v’entra che come amante. Entrandovi, lascia sulla soglia, se può, tutti i
pensieri che potrebbero turbare il piacere ch’egli va a cercarvi; tutta quella parte di stesso, che
non ha che fare col suo desiderio di quel momento. Egli va là per dimenticare le cure o i dolori della
giornata, o piuttosto per assopirne in il sentimento; non per domandar lume a una mente serena e
conforto a un cuore gentile. Nè la sua donna, sarebbe atta a quell’ufficio. Egli non si cura nemmeno
di presentarsele circondato di quella qualsiasi gloria d’ingegno o di sapere o di potenza, che
potrebbe renderlo più amabile. A che pro? Egli è il dio del tempio e l’adorazione gli è dovuta; non
ha bisogno di farsi valere; la preferenza ch’egli dà alla donna che ricerca basta a far sì ch’essa gli dia
con un sentimento di gratitudine che sembra amore l’amplesso desiderato da lui. «Donna» per lui
significa «piacer. Quel nome porta il suo pensiero diritto a quel senso; è anzi quasi il nome stesso
del senso; e per questo gli pare impudico il pronunziarlo, e non lo pronuncia mai; e se ha da dire:
M’è nata una femmina dice: M’è nata una velata, una nascosta, una straniera. Così non ci può
essere un’intimità vera fra loro, perchè v’è sempre tra l’uno e l’altro come il velo del senso, il quale
nasconde quegli infiniti segretissimi recessi dell’anima, che non si vedono se non a traverso la
limpidezza d’una famigliarità lunga e tranquilla. Oltrechè la donna, sempre preparata alla visita,
abbigliata e atteggiata quasi per quel momento, intesa sempre a vincere una rivale o a conservare
una predominanza che è continuamente in pericolo, dev’essere sempre un po’ cortigiana, far forza a
stessa perchè tutto sorrida intorno al suo signore, anche quando il suo cuore è triste, mostrargli
sempre la maschera ridente d’una donna fortunata e felice, perchè egli non se ne uggisca e se ne
sdia. Perciò il marito la conosce di rado come sposa, come non ha e non può averla conosciuta
figliuola, sorella, amica; come non la conosce madre. Ed essa lascia così isterilire a poco a poco in
medesima le qualità nobili che non può rivelare o che non le sono pregiate; s’abitua a non curare
se non quello che le si cerca, e soffoca spesso risolutamente la voce del suo cuore e del suo spirito,
per trovare in una certa sonnolenza di vita animalesca, se non la felicità, la pace. Ha, è vero, il
conforto dei figliuoli, e il marito li cerca e li abbraccia dinanzi a lei; ma è un conforto amareggiato
dal pensiero che forse, un’ora prima, egli ha baciato i figliuoli d’un’altra, che bacie forse un’ora
dopo quelli d’una terza, e che bacierà quelli d’una quarta tra qualche anno. L’amore d’amante,
l’affetto di padre, l’amicizia, la confidenza, tutto è diviso e suddiviso, ed ha il suo orario, i suoi
riguardi, le sue misure, le sue cerimonie; quindi tutto è freddo e insufficiente. E poi v’è sempre in
fondo qualcosa di sprezzante e di mortalmente ingiurioso per la donna nell’amore del marito che le
tiene ai fianchi un eunuco. Egli le dice in sostanza: Io t’amo, tu sei «la mia gioia e la mia gloria»,
tu sei «la perla della mia casa»; ma sono sicuro che se questo mostro che ti sorveglia fosse un uomo,
tu ti prostituiresti al tuo servitore.
Variano pe grandemente le condizioni della vita coniugale secondo i mezzi pecuniarii del
marito, anche non tenuto conto di questo, che chi non ha mezzi di mantenere più d’una donna è
costretto ad avere una moglie sola. Il ricco signore vive separato di casa e di spirito dalla moglie,
perchè può tenere un appartamento od anche una casa per lei sola, e perchè, volendo ricevere amici,
clienti, adulatori, senza che le sue donne sian viste o disturbate, è costretto ad avere una casa
separata. Il turco di mezzo ceto, per ragioni d’economia, sta più vicino a sua moglie, la vede più
sovente e vive con essa in maggiore famigliarità. Il turco povero, in fine, che è costretto a vivere nel
minor spazio e colla minor spesa possibile, mangia, dorme, passa tutte le sue ore libere colla moglie
e coi figliuoli. La ricchezza divide, la povertà unisce. Nella casa del povero non c’è differenza reale
tra la vita della famiglia cristiana e quella della famiglia turca. La donna, che non può avere una
schiava, lavora, e il lavoro rialza la sua dignità e la sua autorevolezza. Non è raro che essa vada a
tirar fuori il marito ozioso dal caffè o dalla taverna, e che lo spinga a casa a colpi di pantofola. Si
trattano da pari a pari, passano la sera l’uno accanto all’altro davanti alla porta di casa; nei quartieri
più appartati, vanno sovente insieme a far le spese per la famiglia; e occorre molte volte di vedere,
in un cimitero solitario, il marito e la moglie che fanno merenda vicino al cippo d’un parente, coi
loro bambini intorno, come una famigliuola d’operai dei nostri paesi. Ed è uno spettacolo più
commovente appunto perchè è più singolare. E non si può, vedendolo, non sentire che c’è qualcosa
di necessario e d’universalmente ed eternamente bello in quel nodo d’anime e di corpi, in quel
gruppo unico d’affetti; che non c’è posto per altri; che una nota di più in quell’armonia la guasta o
la distrugge; che s’ha un bel dire e un bel fare, ma che la forza prima, l’elemento necessario, la
pietra angolare d’una società ordinata e giusta è là; che ogni altra combinazione d’affetti e
d’interessi è fuori della natura; che quella sola è una famiglia, e l’altra un armento; che quella
sola è una casa, e l’altra un lupanare.
E v’è chi dice che le donne orientali sono soddisfatte della poligamia e che non ne
comprendono neppure l’ingiustizia. Per creder questo bisogna non conoscere, non dico l’Oriente,
ma nemmeno l’anima umana. Se questo fosse vero, non seguirebbe quello che segue: cioè che non
v’è quasi ragazza turca la quale, accettando la mano d’un uomo, non gli metta per condizione di non
sposarne un’altra, lei viva; non ci sarebbero tante spose che ritornano alla loro famiglia quando il
marito manca a quella promessa; e non ci sarebbe un proverbio turco che dice: casa di quattro
donne, barca nella burrasca. Anche se è adorata da suo marito, la donna orientale non può che
maledire la poligamia, per cui vive sempre con quella spada di Damocle sul capo, di avere di giorno
in giorno una rivale, non nascosta o lontana e sempre colpevole, com’è necessariamente quella di
una moglie europea; ma installata accanto a lei, in casa sua, col suo titolo, coi suoi stessi diritti; di
vedere fors’anche una delle sue schiave, prescelta a odalisca, alzare tutt’a un tratto la fronte dinanzi
a lei, e trattarla da eguale, e mettere al mondo dei figliuoli che hanno gli stessi diritti dei suoi. È
impossibile che il suo cuore non senta l’ingiustizia di quella legge. Quando il marito amato da lei, le
conduce in casa un’altra donna, essa avrà un bel pensare che, facendo questo, l’uomo non fa che
valersi d’un diritto che gli il codice del Profeta. In fondo all’anima sua sentiche v’è una legge
più antica e più sacra che condanna quell’atto come un tradimento e una prepotenza, sentirà che
quell’uomo non è più suo, che il nodo è sciolto, che la sua vita è spezzata, ch’essa ha il diritto di
ribellarsi e di maledire. E se anche non ama suo marito, ha mille ragioni di detestare quella legge:
l’interesse leso dei suoi figliuoli, il suo amor proprio ferito, la necessità in cui è posta, o di vivere
abbandonata o di non essere più cercata dall’uomo che per compassione o per un desiderio
senz’amore. Si dirà che la donna turca sa che queste cose accadono pure alla donna europea: è vero;
ma sa pure che la donna europea non è costretta dalla legge civile e religiosa a rispettare e a chiamar
sorella colei che le avvelena la vita, e che ha almeno la consolazione di esser considerata come una
vittima, e che ha mille modi di consolarsi e di vendicarsi senza che il marito le possa dire, come può
dire il poligamo a una delle sue mogli infedeli: Io ho il diritto di amare cento donne, e tu hai il
dovere di non amar che me solo.
È vero che la donna turca ha molte guarentigie dalla legge e molti privilegi per consuetudine. È
generalmente rispettata con una certa forma di gentilezza cavalleresca. Nessun uomo oserebbe alzar
la mano sopra una donna in mezzo alla via. Nessun soldato, anche nel tafferuglio d’una sedizione,
s’arrischierebbe a maltrattare la più insolente delle popolane. Il marito tratta la moglie con una certa
deferenza cerimoniosa. La madre è oggetto d’un culto particolare. Non c’è uomo che osi far lavorare
la donna per campare sul suo lavoro. È lo sposo che assegna una dote alla sposa; essa non porta alla
casa maritale che il suo corredo e qualche schiava. In caso di ripudio o di divorzio, il marito è
obbligato a dare alla moglie tanto che basti per vivere senza disagio; e quest’obbligo lo trattiene da
usar con lei dei cattivi trattamenti, che le diano il diritto d’ottenere la separazione. La facilità del
divorzio rimedia in parte alle tristi conseguenze dei matrimonii, fatti quasi sempre alla cieca per
effetto della costituzione speciale della società turca, nella quale i due sessi vivono divisi. Alla
donna, per ottenere il divorzio, basta poca cosa: che il marito l’abbia maltrattata una volta, che
l’abbia offesa parlando con altri, che l’abbia trascurata per un certo tempo. Quando essa ha da
lagnarsi di suo marito, non ha che da presentare le sue lagnanze per scritto al tribunale; può, quando
occorra, presentarsi in persona a un vizir, al gran vizir stesso, da cui è quasi sempre ricevuta e
ascoltata senza ritardo e benignamente. Se non può andar d’accordo colle altre mogli, il marito è
tenuto a darle una casa separata; e se anche va d’accordo, ha diritto a un appartamento per sola.
L’uomo non può sposare far sue odalische le schiave che la moglie ha portato con dalla
casa paterna. Una donna stata sedotta e abbandonata, può farsi sposare dal suo seduttore, se questi
non ha già quattro mogli; e se ne ha quattro, farsi pigliare in casa come odalisca, e il padre deve
riconoscere il figliuolo; il perchè fra i turchi non ci son bastardi. Rarissimi i celibi, rarissime le
vecchie ragazze; assai meno frequenti che non si creda i matrimonii forzati, perchè la legge punisce
i padri che se ne rendono colpevoli. Lo Stato una pensione alle vedove senza parenti e senza
mezzi, e provvede alle orfane; molte bambine rimaste in mezzo alla strada, sono pure raccolte da
signore ricche, che le educano e le maritano; è raro che una donna sia lasciata nella miseria. Tutto
questo è vero ed è buono; ma non toglie che i Turchi ci facciano ridere quando vogliono confrontare
con vantaggio la condizione sociale della loro donna a quella della nostra, e affermare la loro società
immune dalla corruzione di cui accusano la società europea. Che valgono alla donna le forme del
rispetto, se la sua condizione di moglie suppletoria è per stessa umiliante? Che le vale la facilità
di divorziare e di rimaritarsi, se qualunque altro uomo la sposi, ha il diritto di metterla nelle
condizioni medesime, per le quali s’è separata dal primo marito? Che gran cosa che l’uomo abbia
l’obbligo di riconoscere il figlio illegittimo se non ha i mezzi di mantenerlo, e se può averne
legittimamente cinquanta, ai quali, se non il nome, tocca di bastardi la miseria o l’abbandono? Ci
dicono che non commettono infanticidii; ma li aborti voluti, per i quali hanno delle case apposite,
chi li conta? Ci dicono che non hanno prostituzione. Ma come! E che altro mestiere è quello delle
mille concubine caucasee, comprate e rivendute cento volte? Dicono: non c’è almeno quella
pubblica. Che baie! Murad III non avrebbe ordinato di mandare di là dal Bosforo tutte le donne di
mala vita, e si sa che ne fu fatta una grande retata. Vorrebbero poi farci credere che è più facile ad
uomo aver la fedeltà di quattro donne che di una sola? E darci ad intendere che il turco che ha
quattro mogli, non commette più peccati fuori di casa e fuori della propria religione? E ci
parleranno di moralità gli uomini più devoti alla nefanda voluptas che sian sulla terra?
Da tutto questo è facile argomentare che cosa siano le donne turche. Non sono la maggior parte
che «femmine piacevoli». Le più non sanno che leggere e scrivere, e nè leggono nè scrivono; e sono
creature miracolose quelle che hanno una superficialissima coltura. Già ai turchi, secondo i quali le
donne «hanno i capelli lunghi e l’intelligenza corta», non garba ch’esse coltivino la mente perchè
non conviene che siano in nulla eguali o superiori a loro. Così, non ricavando istruzione dai libri, e
non potendo riceverne dalla conversazione cogli uomini, rimangono in una crassa ignoranza. Dalla
separazione dei due sessi nasce che all’uno manca qualche cosa di gentile e all’altro qualche cosa di
alto: gli uomini diventano rozzi, le donne diventano comari. E non praticando della società altro che
un piccolo cerchio donnesco, ritengono quasi tutte fino alla vecchiezza qualche cosa di puerile nelle
idee e nelle maniere: una curiosità matta di mille cose, uno stupirsi di tutto, un fare un gran caso
d’ogni inezia, una maldicenza piccina, un’abitudine di sdegni e di dispettucci da educande, un ridere
sguaiato a tutti i propositi, e un divertirsi per ore a giochi bambineschi, come inseguirsi di stanza in
stanza e strapparsi di bocca i confetti. È vero che hanno per contrapposto, per dirla alla rovescia dei
francesi, la buona qualità nel difetto; ed è che sono nature schiette e trasparenti, dentro alle quali si
legge alla prima; che sono quello che paiono, persone vere, come diceva la signora di Sevigné, non
maschere, nè caricature, nè scimmie; donne aperte e tutte d'un pezzo anche nella tristizia; e se è vero
che basta che una di esse giuri e spergiuri una cosa perc nessuno ci creda, vuol dire appunto che
non hanno arte abbastanza per riuscire nell’inganno. E non è una piccola lode il dire anche che non
ci sono fra loro nè dottoresse pesanti, nè maestruccole che non ciancino altro che di lingua e di stile,
nè creature vaporose che vivano fuori della vita. Ma è anche vero che in quella vita angusta, priva di
alte ricreazioni dello spirito, nella quale rimane perpetuamente insoddisfatto il desiderio istintivo
della gioventù e della bellezza, di essere ammirate e lodate, l’animo loro s’inasprisce; e che, non
avendo il freno dell’educazione, corrono a qualunque eccesso, quando una brutta passione le
muove. E l’ozio fomenta in loro mille capricci insensati, in cui s’ostinano con furore, e li vogliono
appagati a qualunque prezzo. Oltrechè, in quell’aria sensuale dell’arem, in quella compagnia di
donne inferiori a loro di nascita e d’educazione, lontane dall’uomo che servirebbe loro di freno,
s’assuefanno a una crudità indicibile di linguaggio, non conoscono le sfumature dell’espressione,
dicono le cose senza velo, amano la parola che fa arrossire, lo scherzo inverecondo, l’equivoco
plebeo; diventano sboccatamente mordaci ed insolenti; tanto che all’europeo che intende il turco,
occorre qualche volta di sentire dalla bocca d’una hanum d’aspetto signorile, stizzita contro un
bottegaio indiscreto o sgarbato, delle impertinenze che non isfuggono tra noi se non alle donne della
specie peggiore. E questa loro acrimonia va crescendo col crescere delle loro relazioni colle donne
europee o della loro conoscenza dei nostri costumi, che alimentano in esse lo spirito di ribellione; e
quando sono amate, si vendicano con una tirannide capricciosa sui loro mariti della tirannide sociale
a cui sono soggette. Molti hanno dipinte le donne turche tutte dolci, mansuete, peritose. Ma ci sono
anche fra loro le anime ardite e feroci. Anche là, nelle sommosse popolari, si vedono le donne in
prima linea; si armano, s’assembrano, arrestano le carrozze dei vizir invisi, li coprono di
contumelie, li pigliano a sassate e resistono alla forza. Sono dolci e mansuete, come tutte le donne,
quando nessuna passione le rode o le accende. Trattano amorevolmente le schiave, se non ne sono
gelose; dimostrano tenerezza pei figliuoli, benchè non sappiano o non si curino d’educarli;
contraggono fra di loro, specialmente quelle divise dai mariti o afflitte dallo stesso dolore, delle
amicizie tenerissime, piene d’entusiasmo giovanile, e si dimostrano l’affetto reciproco vestendosi
degli stessi colori, profumandosi colle medesime essenze, e facendosi dei nei della stessa forma. E
qui potrei aggiungere quello che scrisse più d’una viaggiatrice europea, «che ci sono fra loro tutti i
vizii di Babilonia»; ma mi ripugna, in una cosa così grave, l’affermare sulla fede altrui.
Quale è la loro indole, tali sono le loro maniere. Somigliano la maggior parte a quelle ragazze
di buona famiglia, ma cresciute in campagna, le quali, nell’età in cui non sono più bambine e non
sono ancora donne, commettono in società mille piacevolissime sconvenienze, per cui ogni
momento si fanno far gli occhiacci dalla mamma. Bisogna sentirne parlare da una signora europea,
che abbia visitato un arem. È una cosa comicissima. La hanum, per esempio, che nei primi minuti
sarà stata seduta sopra il sofà nello stesso atteggiamento composto della sua visitatrice, tutt’a un
tratto incrocicchierà le dita sopra la testa, o tirerà un lungo sbadiglio, o si piglierà un ginocchio tra le
mani. Abituate alla libertà, per non dire alla licenza, dell’arem, agli atteggiamenti cascanti dell’ozio
e della noia, e ammollite come sono dai lunghi bagni, si stancano subito d’una qualunque
compostezza forzata. Si coricano sul divano, si voltano e si rivoltano continuamente attorcigliando e
districando in mille modi il loro lunghissimo strascico, si raggomitolano, si pigliano i piedini in
mano, si mettono un cuscino sulle ginocchia e i gomiti sul cuscino, s’allungano, si storcono, si
stirano, fanno la gobbina come i gatti, rotolano dal divano sulla materassa, dalla materassa sul
tappeto, dal tappeto sul marmo del pavimento, e s’addormentano dove il sonno le coglie come i
bambini. Una viaggiatrice francese ha detto che hanno qualcosa del mollusco. Son quasi sempre in
un atteggiamento da poterle prendere fra le braccia come una cosa rotonda. La loro posizione meno
rilassata è quella di star sedute a gambe incrociate. E dicono che derivi appunto dallo star sedute
quasi sempre in questa maniera, fin dall’infanzia, il difetto che hanno quasi tutte delle gambe un po’
arcate. Ma con che garbo si siedono! Si vede nei cimiteri e nei giardini. Cascano a piombo e
rimangono sedute in terra, senza puntar le mani, immobili come statue, e si drizzano poi in piedi,
senz’appoggiarsi, d’un sol tratto, come se scattassero. Ma è forse questo il loro solo movimento
vivace. La grazia della donna turca è tutta nel riposo; nell’arte di mettere in evidenza le belle
curve con atteggiamenti stanchi d’addormentata, col capo arrovesciato indietro, coi capelli sciolti,
colle braccia penzoloni, l’arte che strappa l’oro e i gioielli al marito, e sconvolge il sangue e la
ragione all’eunuco.
E lo studio di quest’arte non è l’ultimo dei mezzi con cui esse cercano di alleggerire la noia
mortale che pesa sulla maggior parte degli arem; noia che deriva non tanto dalla mancanza
d’occupazioni e di distrazioni, quanto dall’esser queste tutte d’un colore; come certi libri che, pure
essendo svariati nella sostanza, seccano per l’uniformità dello stile. Per salvarsi dalla noia fanno di
tutto; la loro giornata non è spesso che una lotta continua contro questo mostro ostinato. Sedute sui
cuscini o sui tappeti, accanto alle loro schiave, orlano innumerevoli fazzoletti da regalare alle
amiche, ricamano berretti da notte o borse da tabacco pei mariti, per i padri, e per i fratelli; fanno
scorrere cento volte le pallottoline del tespì; contano fin al numero più alto a cui sanno contare;
seguitano coll’occhio, per lunghi tratti, dai finestrini rotondi delle stanze alte, i bastimenti che
passano sul Bosforo o sul Mar di Marmara, o si mettono a fantasticare ricchezze, libertà ed amori
accompagnando collo sguardo le spire azzurrine del fumo della sigaretta. Quando son stanche della
sigaretta assaporano nel cibuk i «biondi capelli del Latachié»; sazie di fumare, sorbono una tazzina
di caffè di Siria; rosicchiano frutta e confetti; si fanno durare mezz’ora un gelato; poi fanno un’altra
fumatina col narghilè profumato d’acqua di rosa; poi succhiano un po’ di mastico per levarsi il
sapore del fumo; poi prendono la limonata per levarsi il sapore del mastico. Si vestono, si svestono,
si mettono tutte le robe del loro cassettone, esperimentano tutte le tinture dei loro vasetti, si fanno e
si disfanno dei nei in forma di stelle e di mezzelune, e combinano in tutte le maniere possibili una
dozzina di specchi e di specchietti per vedersi da tutte le parti, finchè si vengono in uggia. Allora
due schiave di quindici anni ballano il balletto obbligato colle nacchere e col tamburello; una terza
ripete per la centesima volta una canzonetta o una favola che sanno tutte a memoria; o le due solite
maschiotte vestite da acróbata fanno la solita lotta, che finisce con un pattone sul pavimento e una
risata senza sapore. Qualche volta c’è la novità d’una brigatella di ballerine egiziane, e allora è una
piccola festa; qualche altra volta capita una zingara, e allora la hanum si fa dir la ventura sulla
palma, o compera un talismano per esser sempre giovane, un decotto per aver figliuoli, un filtro per
farsi amare. Stanno ore col viso alle grate a guardar la gente e i cani che passano, insegnano una
parola nuova a un pappagallo, scendono in giardino a fare all’altalena, risalgono in casa a dir le
preghiere, tornano a sdraiarsi sul divano per giocare alle carte, saltan su per ricever la visita d’una
parente o d’un’amica, e allora ricomincia la solita sequela di caffè, di fumatine, di limonate, di
merenduccie, di risate stanche e di sbadigli sonori, fin che l’amica se ne va, e l’eunuco, apparendo
sulla soglia, dice a bassa voce: L’Effendi. Ah! finalmente! È proprio Allà che lo manda,
foss’anche il più brutto marito di Stambul.
Questo segue negli arem dove c’è, se non altro, la pace; negli altri la noia è soffocata dal furore
delle passioni, e vi si mena una vita affatto diversa. Regna la pace nell’arem in cui v’è una donna
sola, amata da suo marito, il quale non bada alle schiave, e non ha intrighi fuor di casa. C’è pure, se
non felicità, pace, negli arem dove sono parecchie mogli di carattere leggiero o freddo, indifferenti
per il marito il quale non fa differenza tra loro, che ricevono ciascuna alla propria volta le sue
preferenze senza amore, senza gelosia e senza ambizione di predominio. Queste mogli di buona
pasta cercano di cavare all’Effendi tutto il denaro che possono, stanno nella stessa casa, vivono
d’accordo, si chiamano sorelle, si divertono insieme, e addio; la barca è fatta alla diavola, ma tanto e
tanto va avanti. C’è ancora la pace, un’apparenza almeno di pace, negli arem dove la moglie
posposta a una nuova venuta, si rassegna tristamente al suo destino, e pure rifiutando i ritagli
d’amore che le vorrebbe dar suo marito, rimane amica sua, nella sua casa, e cerca un conforto nei
figli, e vive in un raccoglimento dignitoso. Ma è un tutt’altro vivere negli arem dove ci sono donne
di cuor fiero e di sangue ardente che non vogliono sottostare al trionfo d’una rivale, che non
possono sopportar l’onta dell’abbandono, che non si rassegnano a veder posposti i propri figli a
quelli d’un’altra madre. In questi arem c’è l’inferno. Qui si piange, si strepita, si spezzano
porcellane e cristalli, si fanno morir delle schiave a colpi di spillo, si ordiscono delle congiure, si
meditano dei delitti, e qualche volta si consumano: si avvelena, si stiletta, si gettano delle bocce di
vitriolo nel viso; qui la vita non è che una trama orribile di persecuzioni, di odii implacabili, di
guerre sorde e feroci. L’uomo che ha più mogli, in conclusione, o ne ama una sola davvero, e non ha
la pace; o le ama tutte ad un modo per aver la pace, e non ha l’amore. E nell’un caso e nell’altro, va
quasi sempre diritto alla rovina, poic se fra le sue donne non c’è gelosia d’amore, c’è sempre
gelosia d’amor proprio, rivalità d’ambizione, gara di splendidezze; ed egli non può regalare alla sua
prediletta del giorno un gioiello o una carrozza o una villetta sul Bosforo, senza che ne nasca un
sottosopra; il perchè è costretto a far per tutte quello che vorrebbe fare per una, vale a dire a comprar
la pace a peso d’oro. E quello che segue tra le donne, segue tra i figliuoli, i quali o son figli della
madre negletta, e odiano; o son figli della favorita, e sono odiati. Ed è facile immaginare che
educazione possono ricevere nell’arem, in quelle case piene di rancori e d’intrighi, in mezzo alle
schiave e agli eunuchi, senza l’assistenza del padre, senza l’esempio del lavoro, in quell’aria bassa e
sensuale; le ragazze in special modo, che s’avvezzano fin dai primi anni a fondare tutte le speranze
della propria fortuna sopra le arti d’una seduzione per la quale è troppo alto l’epiteto di «amorosa»,
e che imparano queste arti dalla madre, e il rimanente dalle schiave, e il di più da Caragheuz.
Vi sono poi due altre specie di arem, oltre ai pacifici e ai tempestosi: l’arem del turco giovane e
spregiudicato, che seconda le tendenze europee della moglie, e quello del turco o rigorista per
sentimento proprio, o dominato da parenti, e in particolar modo da una vecchia madre, musulmana
inflessibile, avversa ad ogni novità, che gli fa governar la casa a modo suo. Fra questi due arem
corre una gran differenza. Il primo arieggia la casa d’una signora europea. C’è un pianoforte che la
hanum impara a sonare da una maestra cristiana; ci son dei tavolini da lavoro, delle seggiole
impagliate, un letto di mogogon, una scrivania; c’è appeso a una parete un bel ritratto a matita
dell’Effendi fatto da un pittore italiano di Pera; c’è in un cantuccio uno scaffaletto con una ventina
di libri, fra i quali un piccolo dizionario turco e francese e l’ultimo numero della Mode illustrée che
la signora riceve di seconda mano dalla consolessa di Spagna. La signora possiede pure tutto
l’occorrente per dipingere all’acquerello e dipinge con passione fiori e frutti. Essa assicura alle sue
amiche che non ha un momento di noia. Tra un lavoro e l’altro scrive le sue memorie. A una
cert’ora riceve il maestro di francese (un vecchio gobbo e sfiatato, s’intende) col quale fa esercizio
di conversazione. Qualche volta viene a farle il ritratto una fotografa tedesca di Galata. Quando è
malata, viene a visitarla un medico europeo, il quale può anche essere un bel giovane, chè il marito
non è poi così bestialmente geloso come certi suoi amici antiquati. E viene una volta ogni tanto
anche una modista francese a misurarle un vestito tagliato proprio sull’ultimo figurino del giornale
della moda, col quale la signora vuol fare una bella sorpresa al marito la sera del giovedì, che è la
sera sacramentale degli sposi musulmani, nella quale l’effendi ha una specie di cambiale galante da
pagare alla sua «foglia di rosa». E l’effendi, che è uomo d’alto affare, le ha promesso di farle vedere
dallo spiraglio d’una porta il primo gran ballo che darà nel prossimo inverno l’ambasciata
d’Inghilterra. La hanum, insomma, è una signora europea di religione musulmana, e lo dice con
compiacenza alle amiche: Io vivo come una cocona, come una cristiana; e le amiche e le
parenti sue professano almeno gli stessi principii, se non possono condurre la stessa vita, e fra lei e
loro si discorre di mode e di teatri, si canzonano le «superstizioni», le «pedanterie», le «bigotterie
della vecchia Turchia» e si finisce ogni discorso col dire che «è tempo di cominciare a vivere in una
maniera più ragionevole». Ma nell’altro arem? Qui tutto è rigorosamente turco dal vestire della
signora fino alla più piccola suppellettile. Di libri non c’entra che il Corano, di giornali non ci
penetra che lo Stambul. Se la signora s’ammala, non si chiama il medico, ma una di quelle tante
dottoresse turche, che hanno uno specifico miracoloso per tutti i mali. Se il padre e la madre della
signora son gente infetta dalla tabe europea, non si permette loro di veder la figliuola che una volta
la settimana. Tutte le aperture della casa sono bene ingraticolate e chiavistellate, e d’europeo non
c’entra proprio altro che l’aria, eccetto il caso che la signora abbia avuto la disgrazia d’imparare un
po’ di francese da bambina, chè allora la suocera è capace di metterle in mano un qualche
romanzaccio della peggio specie, per poterle dir poi: Lo vedete che bella società è quella che voi
volete scimmiottare? che fior di roba produce? che belli esempi vi porge?
Eppure la vita delle donne turche è piena d’accidenti, di brighe, di pettegolezzi, che a primo
aspetto non si credono possibili in una società dove i due sessi non hanno comunicazione diretta fra
loro. In un arem, per esempio, c’è la vecchia madre che vuol levar dal cuore di suo figlio una delle
mogli per farci entrare la prediletta da lei, e cerca ogni modo di nascondergli i figliuoli di quella, e
di farne trasandare l’educazione perchè egli non ci ponga affetto, e non li preferisca a quei dell’altra.
In un altro c’è una moglie, che non potendo staccare il marito dalla sua rivale per riaverne l’amore
essa sola, cerca almeno di sfogare il proprio dispetto staccandolo da quella per un’altra, e a questo
scopo cerca per mare e per terra una bella schiava da metter sotto gli occhi all’Effendi, perchè se ne
incapricci e tradisca con essa la sua favorita. Un’altra moglie, che fa per inclinazione naturale la
sensale di matrimonii, s’ingegna di fare in maniera che un tale suo parente veda spesso una tale
ragazza, e se ne innamori, e la sposi, e la rubi così al proprio marito il quale cova da un pezzo il
proposito di farla sua. Qui è un gruppo di signore che si quotano a un tanto ciascuna per regalare,
con qualche secondo fine, una bella schiava al gran Visir o al Sultano; sono altre signore, alto
locate, che movendo mille fili segreti di parentele potenti, vengono a capo di quello che vogliono, e
fanno cader nemici da alte cariche, e salirvi amici, e divorziar l’uno, e partire un altro per una
provincia lontana. E benchè ci sia meno commercio sociale che nelle nostre città, non si sanno meno
che fra noi i fatti degli altri. La fama d’una donna spiritosa, o d’una gran maldicente, o d’una gelosa
feroce, o d’una grulla, si spande molto al di del cerchio dei conoscenti. Anche là i motti arguti e i
bei giochi di parole, a cui la lingua turca si presta mirabilmente, corrono di bocca in bocca e fanno
dei giri infiniti. Le nascite, le circoncisioni, i matrimonii, le feste, tutti i più piccoli avvenimenti che
seguono nelle colonie europee e nel Serraglio, sono argomento di chiacchiere interminabili. Avete
visto il nuovo cappellino dell’Ambasciatrice di Francia? Si sa nulla della bella schiava venuta dalla
Georgia, che la Sultana Validè regalerà al Sultano il giorno del gran Beiram? È vero che la moglie
di Ahmed-Pascià è uscita ieri l’altro cogli stivaletti all’europea guerniti di nappine di seta? Sono
finalmente arrivati i vestiarii da Parigi per la rappresentazione del Bourgeois gentilhomme al teatro
del Serraglio? È una settimana che la moglie di Mahmud-effendi va a pregare ogni mattina nella
moschea di Baiazet per ottenere la grazia di due gemelli. È seguito uno scandalo in casa del tal
fotografo di via di Pera, perchè Ahmed-effendi ci ha trovato il ritratto di sua moglie. La signora
Aiscè beve vino. La signora Fatima s’è fatta fare dei biglietti di visita. La signora Hafiten è stata
vista entrare alle tre e uscire alle quattro dalla bottega d’un franco. La piccola cronaca maligna
circola con una rapidità incredibile fra quelle innumerevoli casette gialle e vermiglie, s’allaccia con
quella della corte, si spande per Scutari, s’allunga sulle due rive del Bosforo fino al mar Nero, e
arriva non di rado fino alle grandi città di provincia, di dove ritorna ricamata e frangiata a provocar
nuove risate e nuovi pettegolezzi nei mille arem della metropoli.
Sarebbe un divertimento curioso, se ci fossero fra i turchi, come ce n’è fra noi, di quei
gazzettini viventi del bel mondo, che conoscono tutti e sanno e propalano tutto; sarebbe un
divertimento insieme e uno studio amenissimo dei costumi di Costantinopoli, l’andarsi a piantare
con uno di costoro all’entrata delle Acque dolci d’Europa, un giorno di festa, e farsi dire una
paroletta a proposito di tutte le persone notevoli per un verso o per l’altro che ci passerebbero
davanti. Ma che importa che non si sia fatto? Le cose si sanno, le persone si possono immaginare.
Per me è come se vedessi e sentissi in questo momento. La gente passa, e il turco accenna e ciancia.
Quella signora lì s’è rotta che è poco con suo marito ed è andata a stare a Scutari; Scutari è il rifugio
delle malcontente e delle imbronciate; è andata a stare con una sua amica, e ci starà fin che suo
marito, il quale in fondo le vuol bene, le andrà ad annunziare che s’è sbarazzato della concubina,
cagione della rottura, e la ricondur a casa pacificata. Questo effendi che passa è un impiegato del
Ministero degli esteri, il quale per non aver che fare con parenti e parenti di parenti, che spesso
mettono la discordia in casa, ha fatto come fanno tanti altri: ha sposato una schiava araba, che
prende appunto in questi giorni le prime lezioni di lingua turca dalla sorella del marito. Quest’altra
bella donnina è una divorziata, la quale aspetta che l’effendi tale abbia ripudiata una delle sue
quattro mogli per andare a prendere il posto che le è stato promesso da un pezzo. Quell’altra laggiù
è una signora che dopo aver fatto divorzio due volte dallo stesso marito, lo vuol sposare daccapo, e
lui è d’accordo; e per far questo essa sposa fra qualche giorno, come vuole la legge, un altr’uomo, il
quale sarà suo marito per una notte sola, e farà divorzio subito, dopo di che la bella capricciosa
potrà celebrare il suo terzo matrimonio col primo sposo. Questa brunetta cogli occhi spiritati è una
schiava abissina, stata regalata da una gran signora del Cairo a una gran signora di Stambul, la quale
è morta, e le ha lasciato il posto di padrona di casa. Questo effendi di cinquant’anni è già stato
marito di dieci donne. Questa vecchietta vestita di verde può vantarsi d’essere stata moglie legittima
di dodici uomini. Quest’altra è una signora che si fa d’oro comprando ragazze di quattordici anni, a
cui fa insegnare la musica, il ballo, il canto, le belle maniere della società signorile, e poi le rivende
col guadagno del cinquecento per cento. Ecco un’altra bella signora di cui posso dirvi il costo
esatto: è una circassa che fu comprata a Tophané per cento e venti lire turche e rivenduta tre anni
dopo per la bagattella di quattrocento. Questa qui che s’aggiusta il velo è passata per una trafila
singolare: è stata prima schiava, poi odalisca, poi moglie, poi divorziata, poi moglie daccapo, e
adesso è vedova e sta brigando per un nuovo matrimonio. Guardate questo effendi: è in una
condizione curiosa; ve la do in mille a indovinare; sua moglie è innamorata d’un eunuco, e si dice
che è capace di dare a suo marito una cattiva tazza di caffè, per andare a stare in pace coll’amante, e
non sarebbe il primo esempio d’un amore così mostruosamente spirituale. Quello là è un negoziante
che per ragioni di commercio ha sposate quattro donne, e ne tiene una a Costantinopoli, una a
Trebisonda, una a Salonico e la quarta in Alessandria d’Egitto, ed ha così quattro porti amorosi in
cui riparare al termine dei suoi viaggi. Questo bel pascià di ventiquattr’anni non era un mese fa che
un povero uffiziale subalterno della guardia imperiale, e l’ha fatto pascià di sbalzo il Sultano per
dargli in moglie una sua sorella; ma sconta i peccati degli altri mariti turchi, perchè con una Sultana
non si celia, e si sa che quella è «gelosa come un usignolo», e forse, se cercassimo bene tra la folla,
troveremmo una schiava che lo pedina alla lontana per scoprir chi guarda e chi non guarda.
Guardate questo bel fusto di donna: non c’è bisogno d’un occhio fine per accorgersi che è un fiore
uscito dal Serraglio; è stata una bella del Sultano, e l’ha sposata mesi sono un impiegato del
Ministero della guerra, che per mezzo suo ha ora un piede nella Corte e farà in poco tempo molta
strada. Ecco una bambina di cinque anni che fu fidanzata oggi a un ragazzo di otto; lo sposino è
stato condotto dai parenti a farle visita, l’ha trovata di suo genio e ha fatto subito le furie perchè un
cuginetto alto un metro l’ha baciata in presenza sua. Ecco una vecchia strega che ieri l’altro ha fatto
scannar due montoni in ringraziamento ad Allà perchè la sbarazzò d’una nuora che detestava. Ecco
una medichessa briccona, a cui una signora ha messo nelle mani una delle sue schiave,
incaricandola di farle andare a male il frutto d’un suo intrighetto coll’Effendi, poichè se la schiava
mette al mondo una creatura, la padrona non la può più vendere e il padrone bisogna che se la tenga.
Quest’altra è una donna dello stesso conio, a cui certi effendi danno di tratto in tratto l’incarico di
verificare de visu se una schiava che vogliono pigliarsi in casa è proprio schietta farina. Quella
col viso tutto coperto e col feregé lilla, è la moglie d’un turco amico mio; ma non è turca, è
cristiana, è va tutte le domeniche in chiesa; ma non ne dite nulla a nessuno, per riguardo a lei, non
già per il marito, chè il Corano non proibisce di sposar le cristiane, e per purificarsi dall’abbraccio
d’un infedele basta lavarsi il viso e le mani. Ah! che cos’abbiamo perduto! È passata una carrozza
del Serraglio; c’era dentro la terza cadina del Sultano: ho riconosciuto il nastro color di rosa al collo
dell’intendente: la terza cadina, regalo del pascià di Smirne, che ha i più grandi occhi e la più
piccola bocca dell’impero; una figura sul gusto di questa piccola hanum col nasino arcato, che ieri
offese Gesù e Maometto con un pittore inglese di mia conoscenza. La sciagurata! E pensare che
quando i due angeli Nekir e Munkir giudicheranno l’anima sua, essa crederà di scusarsi colla solita
bugia, dicendo che in quel momento aveva gli occhi chiusi e non riconobbe l’infedele!
Ma dunque ci sono delle turche infedeli? Se ce ne sono! Nonostante la gelosia degli effendi e la
vigilanza degli eunuchi, nonostante i cento colpi di frusta che il Corano minaccia ai colpevoli,
nonostante che i mariti turchi formino tra loro una specie di società di mutua assicurazione, e che
segua tutto l’opposto di quello che segue in altri paesi, dove par che tutti cospirino tacitamente a
danno della felicità coniugale; si può quasi affermare che le «velate» di Costantinopoli non
commettono meno peccati che le «non velate» di molte città cristiane. Se c non fosse, Caragheuz
non avrebbe così spesso sulla bocca la parola kerata, la quale, tradotta in un nome storico, significa
Menelao. O com’è possibile? È possibile in mille maniere. Già bisogna dire che donne nel Bosforo
non se ne gettano più, dentro un sacco, senza sacco, e che i castighi del digiuno, del silenzio,
del cilicio, delle bastonate sulle piante dei piedi, non son più che minacce di qualche kerata bestiale.
La gelosia cerca d’impedire il tradimento; ma quando s’accorge di non esservi riuscita, non fa più
le furie le vendette d’una volta, poichè ora è assai più difficile di tener nascoste le tragedie
domestiche fra le mura della casa, e nella società musulmana è entrata, con molte altre forze
europee, la forza del ridicolo, di cui la gelosia ha paura. E oltre a ciò la gelosia turca, che nella
maggior parte dei casi è una gelosia fredda, corporale, d’amor proprio più che d’amore, è bensì
severa, pesante, ed anche vendicativa; ma non può avere i mille occhi e l’attività investigatrice e
infaticabile di quella che vien proprio dal vivo dell’anima innamorata. E poi chi vigila sulle donne
separate dal marito, od anche non separate, ma che stanno in una casa a parte, dove egli non va tutti
i giorni? Chi le segue per i vicoli intricati di Pera e di Galata e per i quartieri lontani di Stambul?
Chi impedisce a un bell’aiutante di campo del Sultano di fare quel che gli vidi far io, di passar di
galoppo accanto a una carrozza, alla svoltata d’uno stradone, nel punto in cui l’eunuco che è dinanzi
gli volge le spalle e quello di dietro non può vederlo perchè c’è la carrozza frammezzo, e di gettare
passando un bigliettino nello sportello? E le sere del Ramazan che le donne stan fuori fino a
mezzanotte? E le cocone compiacenti, specie quelle che stanno sul confine d’un sobborgo cristiano
e d’un sobborgo musulmano, che ricevono in casa un’amica velata, senza chiuder la porta ad un
amico europeo? Le avventure però non son più nè strane nè terribili come altre volte. Non ci son più
le gran dame che di notte, dopo soddisfatto un capriccio, precipitano nel Bosforo per un
trabocchetto il giovane di bottega che ha portata all’arem la stoffa comprata da loro la mattina;
come faceva una Sultana del secolo scorso. Ora tutto procede prosaicamente. I primi convegni si
danno per lo più nelle retrobotteghe. Si sa; ci sono da per tutto dei bottegai che fanno bottega d’ogni
cosa. E non c’è da domandare se le autorità turche cerchino di impedire questi abusi. Basti il dire
che delle prescrizioni per il buon ordine che dà la Polizia di Costantinopoli in occasione delle grandi
feste, la maggior parte si riferiscono alle donne, e sono direttamente rivolte a loro in forma di
consigli o di minaccie. È proibito alle donne, per esempio, d’entrare nelle stanze interne delle
botteghe: debbono stare in modo da esser viste dalla strada. È proibito alle donne di andare in
tramway per divertimento: ossia debbono scendere al termine della corsa e non tornare subito
indietro per la stessa via. È proibito alle donne di far segni alla gente che passa, di fermarsi qui, di
passar per di là, di trattenersi più di quel certo tempo in quei dati luoghi: tutte prescrizioni che
ognuno può immaginare come vengano poi rispettate e se sia possibile farle rispettare. E poi c’è
quel benedetto velo, che fu istituito come una salvaguardia dell’uomo, e che ora è diventato una
salvaguardia della donna, perchè se lo mettono trasparente per far saltare i capricci, e fitto per
poterli appagare; dal che si dice che nascano molti accidenti bizzarri: di amanti fortunati che dopo
molto tempo non sanno ancora chi siano le loro belle; di donne che si nascondono sotto il nome
d’un’altra per fare una vendetta; di corbellature, di riconoscimenti, d’imbrogli, che danno luogo a
chiacchiere e a battibecchi infiniti.
Le chiacchiere vanno poi tutte a confondersi e a ribollire nelle case di bagni, che sono i luoghi
usuali di convegno per le donne turche. Il bagno è in certo modo il loro teatro. Ci vanno a coppie e a
brigate colle schiave, portando con cuscini, tappeti, oggetti di toeletta, ghiottonerie, e qualche
volta il desinare, per starvi dalla mattina alla sera. Là, in quelle sale semioscure, fra i marmi e le
fontane, si trovano qualche volta insieme più di duecento donne, nude come ninfe o mal velate, che
a detta delle signore europee che ci furono, presentano uno spettacolo da far cadere il pennello di
mano a cento pittori. Vi si vedono le hanum bianchissime accanto alle schiave nere come l’ebano; le
belle matrone dalle forme poderose che rappresentano l’ideale della bellezza per i turchi di gusto
antico; delle sposine smilze e giovanissime, coi capelli corti e ricciuti, che sembrano giovinetti;
circasse coi capelli d’oro che cascano fino alle ginocchia; turche che hanno fino a cento trecce
nerissime sparse per il seno e per le spalle; altre coi capelli divisi in un’infinità di piccole ciocche
disordinate che fanno la figura d’una parrucca enorme; una con un amuleto al collo, un’altra con
uno spicchio d’aglio legato al capo per scongiurare il mal d’occhio; delle mezze selvagge con
rabeschi sopra le braccia; le donnine alla moda che hanno intorno alla vita le tracce del busto e
intorno al collo del piede i segni dello stivaletto; e qualche volta anche delle povere schiave che
mostrano sulle spalle le impronte del frustino degli eunuchi. Si vedono mille gruppi e mille
atteggiamenti graziosi e bizzarri; alcune fumano sdraiate sui tappeti, altre si fanno pettinar dalle
schiave, altre ricamano, altre canterellano, ridono, si spruzzano e si rincorrono, o strillano sotto le
doccie, o gozzovigliano sedute in cerchio, o tagliano i panni al prossimo aggruppate in disparte. E
scoprendo il loro corpo, scoprono anche, là più che altrove, la loro indole fanciullesca. Si misurano i
piedini, si giudicano, si confrontano. Una dice francamente: – Son bella; – un’altra: – Son passabile:
un’altra: Mi rincresce d’aver questo difetto oppure: Ma sai che sei più bella di me, tu? E
qualcuna dice in tuono di rimprovero all’amica: Ma guarda dunque la signora Ferideh com’è
diventata grassa a mangiar gamberi schiacciati, tu che dicevi che fanno meglio le pallottole di riso?
– E quando c’è una cocona garbata la circondano e le fanno mille domande: – Ma è vero che andate
ai balli scoperte fin qui? Il vostro effendi che cosa ne pensa? E gli altri uomini che cosa ne dicono?
E come vi pigliate per ballare? In codesto modo? Ma davvero? Ma son proprio cose che
bisognerebbe vederle per poterci credere!
E non solo nei bagni, ma per tutto e in tutte le occasioni cercano di conoscere signore europee,
e son felici quando possono attaccar discorso con esse, e specialmente quando possono riceverle in
casa. Allora radunano le amiche, mettono in vista tutte le donne di servizio, fanno un po’ di festa,
rimpinzano la visitatrice di dolci e di frutti, e di rado la lasciano andar via senza un regalo. Il
sentimento che le muove a queste dimostrazioni è più la curiosità, si capisce, che la benevolenza; e
infatti, appena hanno preso un po’ di famigliarità colla nuova amica, si fanno dire mille particolari
della vita europea, esaminano il suo vestiario parte per parte dal cappellino agli stivaletti, e non sono
soddisfatte se non quando l’hanno condotta al bagno e hanno visto bene com’è fatta una nazarena,
una di queste donne straordinarie, che studiano tante cose, che dipingono, che scrivono per le
stampe, che lavorano negli uffici pubblici, che montano a cavallo, che salgono sulla cima delle
montagne. Da molto tempo, però, non hanno più di loro le strane idee che avevano prima della
riforma; non credono più, per esempio, che il busto sia una specie di corazza messa dai mariti alle
mogli per assicurarsi della loro fedeltà, e di cui essi soli abbian la chiave; che le donne europee
siano di tutti coloro con cui vanno una volta a braccetto; per il che le guardavano con diffidenza e
ne parlavano con disprezzo, non invidiando nemmeno la loro coltura, di cui non avevano idea o che
non erano in grado d’apprezzare. Ora nutrono invece per esse un tutt’altro sentimento, e son
diventate diffidenti nel senso opposto; si vergognano, cioè, in faccia a loro, della propria ignoranza;
temono di parer rozze o sciocche o puerili; e molte non s’abbandonano più coll’ingenuità confidente
delle prime volte. Ma le imitano sempre più nel vestire e nei modi. Quelle che studiano una lingua
europea, la studiano più per imitazione che per desiderio di sapere, o la studiano per parlare con le
cristiane. Discorrendo, s’ingegnano d’incastrare nel turco qualche parola francese; quelle che non
sanno quella lingua, fingon di saperla o almeno d’intenderla; sono beate di sentirsi chiamar
madame; vanno apposta in certe botteghe di franchi per essere salutate con quel titolo; e Pera, la
gran Pera le attira, come il lume le farfalle; attira i loro passi, le loro fantasie e i loro quattrini, e
qualche volta anche i loro peccati. Per questo son smaniose di conoscer signore franche, che sono
per esse come le rivelatrici d’un nuovo mondo. Da loro si fanno descrivere i grandi spettacoli dei
teatri d’occidente, i balli splendidi, i bei conviti, i ricevimenti sontuosi delle gran dame, le avventure
carnevalesche e i grandi viaggi, e tutte queste immagini luminose turbinano poi tutte insieme nella
loro testina affaticata, fra le pareti uggiose dell’arem, all’ombra dei giardini malinconici; e come le
donne europee sognano gli orizzonti sereni dell’Oriente, esse sospirano in quei momenti, la vita
varia e febbrile dei nostri paesi, e darebbero tutte le meraviglie del Bosforo per un quartiere
nebbioso di Parigi. Ma non è soltanto la vita varia e febbrile ch’esse sospirano; è anche, e più
sovente e più intimamente desiderata, la vita domestica, il piccolo mondo della casa europea, il
cerchio degli amici devoti, le mense coronate di figli, le belle vecchiezze onorate; quel santuario
pieno di memorie, di confidenze e di tenerezze, che può render bella l’unione di due anime anche
senza l’amore; al quale si ritorna anche dopo una lunga vita d’aberrazioni e di colpe; nel quale,
anche fra i dolori del presente e le tempeste della giovinezza, il pensiero si rifugia e il cuore si
conforta, come in una promessa di pace per gli anni più tardi, come nella bellezza d’un tramonto
sereno contemplato dall’oscurità della valle.
Ma c’è una gran cosa da dire a conforto di tutti coloro che lamentano la sorte della donna turca,
ed è che la poligamia decade di giorno in giorno. Già è stata considerata sempre dai turchi medesimi
piuttosto come un abuso tollerabile che come diritto naturale dell’uomo. Maometto disse: È
sempre lodevole chi sposa una donna sola, benchè egli ne abbia sposato parecchie; e sposano
infatti una donna sola tutti coloro che vogliono dar l’esempio di costumi onesti ed austeri. Chi n’ha
più d’una, non è apertamente disapprovato, ma non è nemmeno lodato. Sono pochi i turchi che
sostengono la poligamia apertamente, più rari quelli che l’approvino nella loro coscienza. Quasi
tutti ne comprendono l’ingiustizia e le male conseguenze; molti la combattono a viso aperto e con
ardore. Tutti coloro che sono in una condizione sociale che impone una certa rispettabilità di
carattere e una qualche dignità di vita, non hanno che una donna. Ne hanno una sola gli alti
impiegati dei ministeri, gli ufficiali dell’esercito, i magistrati, gli uomini di religione. Una sola, per
necessità, tutti i poveri e quasi tutti gli uomini del mezzo ceto. Quattro quinti dei turchi di
Costantinopoli non sono più poligami. Molti, è vero, non sposano che una donna per la manìa
d’imitar gli europei; e molti altri, che hanno una moglie sola, si rifanno colle odalische. Ma quella
manìa d’imitazione ha le sue prime radici in un sentimento confuso della necessità d’un
cangiamento nella società musulmana; e l’uso delle odalische, apertamente biasimato come vizio,
non può che scemare col ristringersi del commercio, ancora tollerato, delle schiave, fin che si
confonderà colla corruzione ordinaria di tutti i paesi europei. Ne nascerà una corruzione maggiore?
Ad altri la sentenza. Questo è il fatto: che la trasformazione europea della società turca non è
possibile senza la redenzione della donna, che la redenzione della donna non si può compiere senza
la caduta della poligamia, e che la poligamia cade. Nessuno forse leverebbe la voce, se la
sopprimesse improvvisamente domani un decreto del Gran Signore. L’edifizio è crollato e non c’è
più che da sgombrar le rovine. La nuova aurora tinge già di rosa le terrazze degli arem. Sperate, o
belle hanum! Le porte del selamlik saranno spezzate, le grate cadranno, il feregé andrà a decorare i
musei del gran bazar, l’eunuco non sarà più che una reminiscenza nera dell’infanzia, e voi
mostrerete liberamente al mondo le grazie del vostro viso e i tesori della vostra anima; e allora, ogni
volta che si nomineranno in Europa le «perle dell’Oriente», s’intenderà di nominar voi, o bianche
hanum; voi, belle musulmane, colte, argute e gentili; non le inutili perle che brillano intorno alla
vostra fronte in mezzo alle pompe fredde dell’arem. Coraggio, dunque! Il Sole si leva. Per me e
questo lo dico ai miei amici increduli vecchio come sono, non ho ancora rinunziato alla speranza
di dare il braccio alla moglie d’un pascià di passaggio per Torino, e di condurla a passeggiare sulle
rive del Po, recitandole un capitolo dei Promessi Sposi.
IANGHEN VAR
Stavo appunto fantasticando intorno a questa passeggiata, verso le cinque della mattina, nella
mia camera dell’Albergo di Bisanzio, e co tra il sonno e la veglia, vedendo lontano la collina di
Superga, cominciavo a dire alla mia hanum viaggiatrice: «Quel ramo del lago di Como che volge
a mezzogiorno fra due catene non interrotte....» – quando mi comparve dinanzi, col lume in mano,
il mio amico Yunk «bianco vestito» e mi domandò con gran meraviglia: Che cosa accade questa
notte a Costantinopoli?
Tesi l’orecchio e sentii un rumore sordo e confuso che veniva dalla strada, un suono di passi
affrettati per le scale, un mormorio, un fremito, che pareva di giorno. Mi affacciai alla finestra e vidi
giù nell’oscurità un gran correre di gente verso il Corno d’oro. Corsi sul pianerottolo, afferrai un
cameriere greco che scendeva le scale a precipizio e gli domandai che cos’era accaduto. Egli si
svincolò dicendo: Ianghen var, per Dio! Non avete sentito il grido? E poi soggiunse scappando:
Guardate la cima della Torre di Galata. Tornammo alla finestra e guardando giù verso Galata
vedemmo tutta la parte superiore della gran torre illuminata da una luce purpurea vivissima, e una
gran nuvola nera che s’alzava dalle case vicine in mezzo a un vortice di scintille e s’allargava
rapidamente sopra il cielo stellato.
Subito il nostro pensiero corse ai formidabili incendii di Costantinopoli, e specialmente a
quello spaventevole di quattr’anni innanzi; e il nostro primo sentimento fu di terrore e di
compassione. Ma immediatamente dopo, lo confesso e me ne vergogno, un altro sentimento
egoistico e crudele, la curiosità del pittore e del descrittore, prese il disopra e, – confesso anche
questo, ci scambiammo un sorriso che il Doré avrebbe potuto cogliere a volo per stamparlo sulla
faccia d’uno dei suoi demoni danteschi. Chi ci avesse aperto il petto, in quel momento, non ci
avrebbe trovato che un calamaio e una tavolozza.
Ci vestimmo e scendemmo in furia giù per la gran strada di Pera.
Ma la nostra curiosità, per fortuna, fu delusa. Non eravamo ancora arrivati alla torre di Galata
che l’incendio era quasi spento. Finivano di bruciare due piccole case; la gente cominciava a
ritirarsi; le strade erano allagate dall’acqua delle pompe e ingombre di mobili e di materasse, fra le
quali andavano e venivano, nell’oscurità grigia del mattino, uomini e donne in camicia, tremanti dal
freddo, levando in cento lingue un vocìo assordante, nel quale non si sentiva più che quel resto di
paura che sapore alla chiacchiera dopo un grave pericolo svanito. Vedendo che tutto stava per
finire, scendemmo verso il ponte per consolarci del nostro dispetto scellerato colla levata del sole.
Qui assistemmo a uno spettacolo che valeva quello d’un incendio.
Il cielo cominciava appena a chiarirsi dietro le colline dell’Asia. Stambul, scossa per poco al
primo annunzio dell’incendio, era già rientrata nella quiete solenne della notte. Le rive e il ponte
erano deserti; tutto il Corno d’oro dormiva, coperto da una bruma leggerissima e immerso in un
silenzio profondo. Non moveva una barca, non volava un uccello, non stormiva un albero, non si
sentiva un respiro. Quella interminabile città azzurra, muta e velata, pareva dipinta nell’aria, e
sembrava che, gettando un grido, avrebbe dovuto svanire. Costantinopoli non ci s’era mai mostrata
in un aspetto così aereo e così misterioso; non ci aveva mai presentato più vivamente l’immagine di
quelle cit favolose delle storie orientali, che il pellegrino vede sorgere improvvisamente dinanzi a
sè, e vi trova, entrando, un popolo immobile, pietrificato, negli infiniti atteggiamenti di una vita
affaccendata ed allegra, dalla vendetta improvvisa d’un Re dei geni. Stavamo appoggiati alle
spallette del ponte, contemplando quella scena meravigliosa, senza più pensare all’incendio, quando
sentimmo prima un vocìo fioco e confuso di dal Corno d’oro, come di gente che chiedesse
soccorso, e poi uno scoppio di grida altissime: – Allà! Allà! Allà! – che risonarono
improvvisamente nel vano enorme e silenzioso della rada, e nello stesso tempo apparve sulla sponda
opposta, e si slanciò giù per il ponte, correndo precipitosamente verso di noi, una folla rumorosa e
sinistra.
Tulumbadgi! – gridò uno dei guardiani del ponte. – (I pompieri!)
Noi ci tirammo da una parte.
Un’orda di selvaggi seminudi, col capo scoperto, coi petti irsuti, grondanti di sudore, vecchi,
giovani, neri, nani e giganti cappelluti e rapati, faccie d’assassini e di ladri, quattro dei quali
portavano sulle spalle una piccola pompa e pareva una bara di fanciullo; armati di lunghe aste
uncinate, di fasci di corde, d’ascie, e di picconi, ci passarono accanto, urlando e anelando, cogli
occhi dilatati, coi capelli sparsi, coi cenci al vento, stretti, impetuosi e biechi, e gettandoci in viso
una tanfata d’odor di belve, disparvero nella strada di Galata, d’onde ci giunsero le loro ultime grida
fioche di Allà, e poi fu di nuovo un silenzio profondo.
L’impressione che mi fece quell’apparizione tumultuosa e fulminea in quella quiete arcana
della grande città addormentata, non la so esprimere; – so che compresi e vidi in un momento mille
scene d’invasioni barbariche, di saccheggi e d’orrori di paesi e di tempi lontani, che fino allora la
mia immaginazione si era sforzata inutilmente di rappresentarsi al vivo, e che mi domandai se
quella era la città, se quello era proprio il ponte, su cui, di giorno, passavano degli ambasciatori
europei, delle signore vestite alla parigina e dei venditori di giornali francesi.
Un minuto dopo, il silenzio solenne del Corno d’oro fu rotto di nuovo da un gridìo lontano, e
un’altra turba scamiciata e selvaggia ci passò dinanzi, come un turbine, sul ponte ondeggiante e
sonante, levando un frastuono confuso di urli, di sbuffi, d’aneliti, di risa soffocate e sinistre, e
un’altra volta le grida prolungate e lamentevoli di Allà si perdettero per le strade di Galata, seguite
da un silenzio mortale.
Poco dopo passò un’altra turba, e poi una quarta, e poi altre due, e infine passò il pazzo di Pera,
nudo dalla testa ai piedi, mezzo morto dal freddo, gettando grida acutissime, inseguito da un branco
di monelli turchi, che disparvero con lui e coi pompieri dietro le case della riva franca; e sulla
grande città, dorata dai primi raggi dell’aurora, tornò a regnare un altissimo silenzio.
Di lì a poco si levò il sole, comparvero i muezzin sui minareti, si mossero i caicchi, si svegliò il
porto, cominciò a passar gente sul ponte e a spandersi intorno il rumor sordo della vita cittadina, e
noi ritornammo verso Pera. Ma l’immagine di quella grande città assopita, di quel cielo albeggiante,
di quella pace solenne, di quelle orde selvaggie, ci rimase così profondamente stampata nella mente,
che oggi ancora non ci rivediamo una volta senza ricordarcela, con un misto piacevolissimo di
stupore e di paura, come una scena veduta nella Stambul d’altri secoli, o sognata nell’ebbrezza
dell’hascisc.
Così non vidi lo spettacolo di un incendio a Costantinopoli; ma se non lo vidi coi miei occhi,
conobbi tanti testimonii oculari di quello che distrusse Pera nel 1870, e ne raccolsi notizie così
minute, che posso dire d’averlo visto colla mente, e descriverlo forse con non minore evidenza che
se ne fossi stato anch’io spettatore.
La prima fiamma s’accese in una piccola casa di via Feridié, in Pera, il giorno cinque di giugno,
stagione in cui una buona parte della popolazione agiata di Costantinopoli villeggia sul Bosforo; al
tocco dopo mezzogiorno, ora in cui quasi tutti gli abitanti della città, anche europei, stanno chiusi in
casa a far la siesta. Nella casa di via Feridié non c’era che una vecchia serva; la famiglia era partita
la mattina per la campagna. Appena s’accorse dell’incendio, la vecchia si slanciò nella strada e si
mise a correre gridando: Al fuoco! Subito accorse gente dalle case intorno, con secchie e con
piccole pompe –, perchè era già caduta la legge insensata che proibiva di spegnere gli incendii
prima che arrivassero gli ufficiali dei Seraschierato –, e, come sempre, si precipitarono tutti verso la
fontana più vicina per prender acqua. Le fontane di Pera, a cui i portatori d’acqua vanno ad
attingere, a certe ore, per le famiglie del quartiere, vengono tutte chiuse a chiave dopo la
distribuzione, e l’impiegato che le ha in custodia non può più aprirle senza il permesso dell’autorità.
In quel momento appunto v’era accanto alla fontana una guardia turca della municipalità di Pera,
che aveva la chiave in tasca, e stava spettatrice impassibile dell’incendio. La folla affannata lo
circonda e gl’intima di aprire. Egli rifiuta dicendo che non ha l’ordine. Gli si stringono addosso, lo
minacciano, lo afferrano: egli resiste, si dibatte, grida che non leveranno la chiave che dal suo
cadavere. Intanto le fiamme avvolgono tutta la casa e cominciano ad attaccarsi alle case vicine. La
notizia dell’incendio si propaga di quartiere in quartiere. Dalla sommità della torre di Galata e di
quella del Seraschiere, i guardiani hanno visto il fumo e messo fuori le grandi ceste purpuree,
segnale degl’incendii di giorno. Tutte le guardie di città corrono per le strade battendo i loro lunghi
bastoni sul ciottolato e mettendo il grido sinistro: Ianghen var! C’è il fuoco! a cui rispondono
con rulli cupi e precipitosi i mille tamburi delle caserme. Il cannone di Top-hané annunzia il
pericolo alla immensa città con tre colpi che risuonano dal mar di Marmara al mar Nero. Il
Seraschierato, il serraglio, le ambasciate, tutta Pera e tutta Galata sono sottosopra; e pochi minuti
dopo arrivano a spron battuto in via Feridié il ministro della guerra, un nuvolo di ufficiali, un
esercito di pompieri, e cominciano precipitosamente il lavoro. Ma come accade quasi sempre, quel
primo tentativo riuscì inutile. Le strade strettissime non concedevano libertà di movimenti; le
pompe non servivano, l’acqua era insufficiente e lontana; i pompieri, mal disciplinati, come sempre,
e piuttosto intesi a crescere che a scemare la confusione, per pescare nel torbido; e per di più
scarseggiavano i facchini per il trasporto delle robe, essendone andato un gran numero, quel giorno,
alla festa nazionale armena che si celebra a Beicos. È a notarsi, inoltre, che le case di legno erano
allora in assai maggior numero che non siano ora, e che anche le case di pietra e di mattoni avevano,
come quelle di legno, dei tetti sottili, difesi da radissime tegole, e perciò facilissimi ad accendersi. E
non v’era nemmeno il vantaggio che presenta, in simili occasioni, la popolazione musulmana, la
quale, fatalista ed apatica com’è in faccia alla sventura, non si atterrisce gran fatto all’aspetto d’un
incendio, e se non aiuta abbastanza a spegnere, non intralcia almeno l’opera degli altri con la
propria forsennatezza. Quella era popolazione quasi tutta cristiana e perdette immediatamente la
testa. L’incendio non abbracciava ancora che poche case, che g in tutte le strade d’intorno era un
tramestìo indescrivibile, un precipitar di mobili dalle finestre, un tumulto di pianti e di grida, uno
sgomento, un ingombro, contro cui non potevano le minaccie, la forza, le armi. Un’ora era
appena trascorsa dall’apparire delle prime fiamme, e già tutta la strada Feridié era accesa, e gli
ufficiali e i pompieri indietreggiavano rapidamente da tutte le parti, lasciando qua e morti e feriti,
e la speranza di soffocar l’incendio sul nascere era perduta. Per maggior disgrazia tirava quel giorno
un vento fortissimo che abbatteva le fiamme delle case ardenti sopra i tetti delle case vicine, in
larghe vampe orizzontali, che parevano tende ondeggianti, in modo che il fuoco penetrava in tutte le
case dal tetto, come rovesciatovi sopra da un vulcano. L’accensione era così rapida, che le famiglie
raccolte nelle case, sicure d’essere ancora in tempo a portar via una parte dei loro averi, si sentivano
tutt’a un tratto crepitare il tetto sul capo, e appena riuscivano a metter in salvo la vita. Le case
s’accendevano l’una dopo l’altra come se fossero state intonacate di pece, e subito, dalle
innumerevoli finestrine prorompevano le fiamme lunghe, diritte, mobilissime, come serpenti
smaniosi di preda, che si curvavano fino a lambire la strada quasi per cercar vittime umane.
L’incendio non correva, volava, e prima di avvolgere, copriva, come un mare di fuoco. Dalla via
Feridiè irruppe furiosamente nella via di Tarla-Bascì, di qui tornò indietro e invase come un torrente
la via di Misc, poi infiammò come una foresta secca il quartiere Aga-Dgiami, poi la via Sakes-
Agatsce, poi quella di Kalindgi-Kuluk, e poi di strada in strada, coprì di fuoco tutta la china di Yeni-
Sceir, e s’incrociò col turbine di fiamme che veniva giù strepitando e muggendo per la gran strada
di Pera. Non c’erano soltanto mille incendii da spegnere, mille nemici sparsi da combattere; erano
come le insidie e i colpi di mano inaspettati d’un grande esercito, che pareva fosse guidato
astutamente da una volontà unica, per cogliere nella rete la città intera, e non lasciar scampo a
nessuno. Erano tanti torrenti di lava che si riunivano e s’incrociavano, precipitando e spandendosi in
laghi di fuoco con una rapidità che preveniva tutti i soccorsi. In capo a tre ore metà di Pera era in
fiamme. Una miriade di colonne di fumo vermiglio, sulfureo, bianco, nero, fuggivano
rapidissimamente rasente i tetti e s’allungavano a perdita d’occhi lungo le colline, ottenebrando e
tingendo di colori sinistri i vasti sobborghi del Corno d’oro; per tutto era un turbinio furioso di
cenere e di scintille; e il vento sbatteva contro le case ancora intatte dei bassi quartieri una vera
grandine di braci e di tizzi, che spazzavano le strade come scariche di mitraglia. Le strade dei
quartieri accesi non erano più che grandi fornaci, sopra alcune delle quali le fiamme formavano
come un fitto padiglione, e precipitavano e saltellavano con un fracasso orrendo i pini del mar
Nero delle travature dei tetti, i travicelli sottili dei ciardak, i balconi vetrati, i minareti di legno delle
piccole moschee, che pareva rovinassero spezzati da un terremoto. Per le strade ancora accessibili,
si vedevano passare, come spettri, illuminati da bagliori d’inferno, lancieri a cavallo, ventre a terra,
che portavano in tutte le direzioni gli ordini del Seraschierato; ufficiali del Serraglio, col capo
scoperto e la divisa abbruciacchiata; cavalli sciolti di soldati caduti; frotte di facchini carichi di
masserizie, sciami di cani ululanti, turbe di fuggiaschi che inciampavano e stramazzavano urlando
giù per le chine, tra i feriti, i cadaveri e le macerie, e sparivano tra il fumo e le fiamme, come legioni
di dannati. Per un momento, fu visto immobile dinanzi all’imboccatura d’una strada accesa del
quartier Aga-Dgiami, il Sultano Abdul-Aziz, a cavallo, circondato dal suo corteo, pallido come un
cadavere, cogli occhi dilatati e fissi nelle fiamme, come se ripetesse tra le parole memorabili di
Selim I: Ecco il soffio ardente delle mie vittime! Io lo sento, che distruggerà la città, il mio
serraglio e me pure! E poi disparve in un nuvolo di cenere, trascinato dai suoi cortigiani. Tutto
l’esercito di Costantinopoli e tutta l’innumerevole turba dei pompieri era in moto, a frotte, a
lunghissime catene, a semicerchi immensi che abbracciavano interi quartieri, sorvegliati e diretti da
visir, da ufficiali di corte, da pascià, da ulema; in alcuni punti, per tagliar la strada alle fiamme,
fervevano battaglie disperate; case dietro case, in pochi minuti, cadevano sotto le scuri; i tetti
formicolavano di gente ardita che affrontava il fuoco a bruciapelo, e cadevano a capofitto nei crateri
aperti sotto i loro piedi, e altri vi succedevano, come in una mischia, ostinati, gettando grida
selvaggie, e agitando i fez abbruciacchiati in mezzo al fumo color di foco. Ma l’incendio s’avanzava
vittorioso in mezzo ai mille getti d’acqua, sorpassando a grandi salti piazze, giardini, grandi edifici
di pietra, piccoli cimiteri, e faceva da tutte le parti retrocedere pompieri, soldati e cittadini, come un
esercito in rotta, flagellandoli alle spalle con una pioggia di carboni roventi. Si compievano, anche
in quell’orrenda confusione, dei belli atti di coraggio e di umanità. Si videro in molti punti, fra le
rovine ardenti delle case, sventolare i veli bianchi delle Suore di Carità, curve sui moribondi; dei
turchi che si slanciarono tra le fiamme e ricomparvero poco dopo sollevando sulle braccia scorticate
dei bambini cristiani; altri musulmani che, dinanzi a una casa infiammata, immobili, colle braccia
incrociate in mezzo a una famiglia cristiana in preda alla disperazione, offrivano freddamente cento
lire turche a chi salvasse un ragazzo europeo rimasto nel fuoco; alcuni che raccoglievano in
drappelli, per le strade, i bimbi smarriti, e li legavano colle bende del turbante, per restituirli poi ai
parenti; altri che aprivano le loro case ai fuggitivi seminudi; più d’uno, che, per dar un esempio di
coraggio e di disprezzo dei beni terreni, mentre la propria casa bruciava, stava seduto nella via sopra
un tappeto, fumando tranquillamente il narghilè, e si faceva in là, con suprema indifferenza, man
mano che le fiamme s’avvicinavano. Ma il coraggio e la freddezza d’animo non valevano più
oramai contro quella tempesta di fuoco. A momenti, pareva che, scemando un poco il vento,
l’incendio rimettesse della sua furia; ma subito il vento ricominciava a soffiare con maggior
veemenza, e le fiamme, che s’erano appena risollevate, tornavano a curvarsi con impeto e a vibrare
come freccie le loro punte diritte e implacabili, levando uno strepito cupo e precipitoso, rotto dagli
scoppi improvvisi delle farmacie piene di petrolio, dalle detonazioni del gaz sparso per le case, di
cui i tubi disfatti mandavano fuori rigagnoli di piombo fuso; dai tetti che rovinavano d’un colpo
come schiacciati da una valanga; dal crepitìo dei giardini di cipressi che si contorcevano e
s’infiammavano a un tratto, sciogliendosi in una pioggia di resina ardente; dai gruppi di vecchie
case di legno, che s’accendevano scoppiettando come fuochi d’artifizio, e sprigionavano fasci
enormi di fiamme bianche in cui parevano che soffiassero mantici di cento officine. Era uno
stritolamento, un rovinìo, una distruzione rabbiosa, che pareva prodotta nello stesso tempo da un
incendio, da un’inondazione, da una convulsione della terra e dalla rapina d’un esercito. Nessuno
aveva mai visto sognato un simile orrore. La popolazione pareva impazzita. Per le strade di
Pera era un rimescolamento vertiginoso e un urlìo forsennato come sul ponte d’un bastimento nel
momento del naufragio. In mezzo ai mobili rotolati, sotto al balenìo delle spade degli ufficiali, fra
gli urti e le bastonate dei facchini e dei portatori d’acqua, in mezzo ai cavalli dei Pascià e alle frotte
dei pompieri che passavano di corsa investendo e rovesciando quanto incontravano, famiglie
italiane, francesi, greche, armene, poveri e ricchi, donne e fanciulli, smarriti, smemorati, si
cercavano brancolando, si chiamavano gridando e piangendo, soffocati dal fumo e accecati dalle
scintille; passavano ambasciatori, seguiti da drappelli di servi, carichi di carte e di libri; frati che
innalzavano un crocifisso sopra la folla; gruppi di donne turche che portavano fra le braccia gli
oggetti più preziosi dell’arem; stuoli di gente curva sotto spoglie di chiese, di teatri, di scuole, di
moschee; e a quando a quando, una nuvola enorme di fumo caliginoso, spinta giù da una ventata
improvvisa, immergeva tutti nelle tenebre e cresceva lo scompiglio e il terrore. A crescere ancora gli
orrori di quel disastro, c’era, come sempre, ma più quel giorno che mai, una miriade di ladri d’ogni
paese, sbucati da tutti i covi di Costantinopoli, riuniti a drappelli d’intesa fra loro, e vestiti da
facchini, da signori o da soldati, i quali entravano nelle case e rubavano a man salva, e correvano
poi in frotte a Kassim-Pascià e a Tataola, a depositarvi il bottino; e i soldati li cacciavano,
stendendosi in cordoni, e assalendoli a pattuglie, e seguivano lotte, dispersioni e inseguimenti, che
aggiungevano sgomento a sgomento. I pompieri, i facchini, i portatori d’acqua, spalleggiati dai loro
parenti, stretti in bande brigantesche, sotto gli occhi delle famiglie desolate di cui ardevano le case,
interrompevano il lavoro, e mettevano a prezzo d’oro la continuazione. I mobili ammucchiati a
traverso le strade strette, difesi dalle famiglie, erano presi d’assalto da torme di predoni, colle armi
alla mano, e poi ridifesi, come barricate, dall’assalto di altri predoni. Turbe di fuggitivi,
incontrandosi colle loro robe nei varchi angusti, si disputavano ferocemente la precedenza del
passaggio, e lasciavano il terreno ingombro di gente soffocata o ferita. Ma già dopo le prime
quattr’ore d’incendio, la furia del foco era tale che pochi s’affannavano più per le proprie robe, e a
tutti pareva già molto di metter in salvo la vita. Due terzi di Pera ardevano, e le fiamme, correndo
sempre più rapidamente in tutte le direzioni, accerchiavano quasi all’improvviso dei vasti spazii
prima che la gente, ch’era dentro, se ne avvedesse. Centinaia di sventurati, stretti in folla, si
slanciavano su per una stradicciuola tortuosa per cercare uno scampo, e improvvisamente, a una
svoltata, si vedevano venir contro un uragano di vampe e di fumo, che li ricacciava indietro,
forsennati, a cercare un’altra uscita. Famiglie intere, ed una, fra queste, di ventidue persone,
erano tutt’a un tratto circondate, asfissiate, arse, carbonizzate. Presi dalla disperazione, si
rifugiavano nelle cantine dove rimanevano soffocati, si precipitavano nei pozzi e nelle cisterne,
s’impiccavano agli alberi, o dopo aver cercato inutilmente un ricovero nei ripostigli più segreti della
casa, smarrita la ragione, uscivano all’aperto e correvano a buttarsi nelle fiamme. Dai luoghi alti di
Pera, si vedevano giù per le chine, in mezzo a cerchi di fuoco, famiglie inginocchiate sulle terrazze,
colle braccia tese e le mani giunte, che chiedevano al cielo il soccorso che non speravano più dalla
terra. Si vedevano venir giù di corsa dalle alture di Pera e sparpagliarsi per Galata, per Top-hanè,
per Funduclù, per i bassi cimiteri, stormi di gente pallida e scapigliata, stravolta dal terrore, che
cercava ancora dove nascondersi, come se fosse inseguita dal fuoco; fanciulli insanguinati, donne
lacere, coi capelli arsi, che stringevano fra le braccia bimbi morti o acciecati; uomini col viso e le
braccia scorticate che si scontorcevano per terra fra gli spasimi dell’agonia; vecchi singhiozzanti
come bambini, signori ridotti alla miseria che davan del capo nei muri, giovanetti deliranti che
andavano a cadere estenuati sulla riva del Corno d’oro, famiglie che portavano cadaveri anneriti,
sventurati impazziti dallo spavento che trascinavano seggiole attaccate a uno spago o si serravano
sul petto delle bracciate di cocci e di cenci, prorompendo in grida lamentevoli o in risa frenetiche. E
intanto, continuavano a salire dai quartieri bassi, dagli arsenali di Ters-hanè e di Top-hanè, dalle
caserme, dalle moschee, dai palazzi del Sultano, e correvano come a un assalto, urlando Janghen
var e Allà, su per le colline, fra il turbinìo della cenere e delle scintille, sotto una pioggia di caligine
ardente, per le strade coperte di tizzoni e di rottami, battaglioni di nizam, bande di ladri, falangi di
pompieri, generali, dervis, messi della Corte, famiglie che tornavano indietro a cercare i parenti
perduti, predatori ed eroi, la sventura, la carità e il delitto, confusi in una turba spaventevole, che
montava rumoreggiando come un mare in tempesta, colorata dai riflessi vermigli dell’immensa
fornace. E poco lontano da quell’inferno, rideva, come sempre, la maestà serena di Stambul e la
bellezza primaverile della riva asiatica, specchiata dal mar di Marmara e dal Bosforo, coperto di
bastimenti immobili; una folla immensa, che faceva nere tutte le rive, assisteva muta e impassibile
allo spettacolo spaventoso; i muezzin annunziavano con lente cantilene dai terrazzi dei minareti il
tramonto del sole; gli uccelli roteavano allegramente intorno alle moschee delle sette colline; e i
vecchi turchi, seduti all’ombra dei platani, sopra le alture verdi di Scutari, mormoravano con voce
pacata: È sonata l’ultima ora per la città dei Sultani. Il giorno prescritto è venuto. La sentenza
d’Allà si compisce. – Così sia – Così sia.
L’incendio, per fortuna, non si protrasse nella notte. Alle sette della sera s’accendeva, per
ultimo, il palazzo dell’ambasciata d’Inghilterra; dopo di che il vento cessava improvvisamente, e le
fiamme morivano, spontaneamente o soffocate, da tutte le parti.
In sei ore due terzi di Pera erano stati distrutti dalle fondamenta, nove mila case incenerite, due
mila persone morte.
Dopo l’incendio famoso del 1756, che distrusse ottanta mila case, e spianò due terzi di
Stambul, sotto il regno di Otmano III, non s’era più visto un disastro così tremendo; e nessun
incendio, dalla presa di Costantinopoli in poi, mietè un così gran numero di vite.
Il giorno seguente Pera offriva un aspetto meno spaventevole, ma non meno triste che durante
l’infuriare dell’incendio. Dov’era passato il fuoco, era un deserto, e apparivano le forme nude e
sinistre della grande collina; nuovi prospetti, una luce nuova, vastissimi spazi coperti di cenere in
mezzo ai quali non rimanevano che le torricine affumicate dei camini, come monumenti funebri;
quartieri interi scomparsi come accampamenti di beduini portati via dall’uragano; strade e crocicchi
di cui non rimanevan più che le traccie nere e fumanti sulla terra, fra le quali erravano migliaia di
sventurati cenciosi e sparuti, che chiedevano l’elemosina in mezzo a un via vai di soldati, di medici,
di monache, di sacerdoti d’ogni religione e d’impiegati di tutti i gradi, che distribuivano pane e
denaro, e guidavano lunghe file di carri carichi di materasse e di coperte, mandate dal governo per la
gente rimasta senza casa. Il governo aveva fatto pure distribuire le tende dei soldati. Le alture di
Tataola e il grande cimitero armeno erano coperti d’accampamenti, in cui brulicava una folla
immensa. Per tutto si vedevano strati e monti di masserizie su cui sedevano famiglie estenuate e
istupidite. Nel vasto cimitero di Galata erano sparsi e accatastati alla rinfusa, come in un bazar
messo sottosopra, lungo i sentieri e in mezzo ai sepolcri, divani, letti, cuscini, pianoforti, quadri,
libri, carrozze sconquassate, cavalli feriti legati ai cipressi, portantine dorate d’ambasciatori e gabbie
di pappagalli degli arem, custoditi da una folla di servi e di facchini neri di caligine e cascanti di
sonno. Una poveraglia innumerevole, immonda, non mai veduta, girava per le strade a cercar chiodi
e serrature fra le macerie, scansando i soldati e i pompieri addormentati per terra, sfiniti dalle fatiche
della notte; si vedeva per tutto gente affaccendata a rizzar baracche sulle rovine delle proprie case,
con tende ed assiti; famiglie inginocchiate in mezzo ai muri affumicati di chiese senza tetto, dinanzi
ad altari bruciati; gruppi di uomini e di donne che correvano affannosamente, col capo chino,
osservando viso per viso lunghe file di cadaveri carbonizzati e sformati, e riconoscimenti, grida
disperate, scoppi di pianto, gente che stramazzava come fulminata, in mezzo a una processione di
lettighe e di bare, a un polverìo denso, a un’aria infocata, a un puzzo di carni arse, a nuvoli di
scintille che si sollevavano improvvisamente sotto le vanghe e i picconi degli scavatori, e
ricadevano sopra una folla fitta, lenta, silenziosa, sbalordita, accorsa da tutte le parti di
Costantinopoli, sopra alla quale apparivano le faccie pallide e gravi dei Consoli e degli
Ambasciatori, che arrestavano i cavalli sui crocicchi, e guardavano intorno sgomentati
dall’immensità del disastro.
Eppure anche quell’immenso disastro, come segue sempre nei paesi orientali, fu presto
dimenticato. Quattro anni dopo io non ne vidi più traccia, fuorchè qualche tratto di terreno sgombro
all’estremità di Pera, dinanzi all’altura di Tataola. Dell’incendio si parlava già come d’un
avvenimento molto lontano. Per qualche tempo, mentre le ceneri erano ancora calde, i giornali
avevano chiesto al governo dei provvedimenti: che riordinasse il corpo dei pompieri, che mutasse le
pompe, che si procurasse maggior abbondanza d’acqua, che regolasse la costruzione delle case; ma
il governo aveva fatto il sordo e gli europei avevano rimesso il cuore in pace, continuando a vivere
alla turca, ossia fidando un po’ nel buon Dio e un po’ nella buona fortuna.
Così, nulla o quasi nulla essendo mutato, si può andar sicuri che quello del 1870 non fu
l’ultimo dei grandi incendi dai quali «è scritto» che la città dei Sultani sia ogni tanti anni desolata.
Le case di Pera sono ora quasi tutte, è vero, di muratura; ma costrutte la maggior parte malamente,
da architetti senza studii e senza esperienza, non invigilati dal Governo, e spesso anche costrutte dal
primo venuto, in maniera che molte rovinano prima d’esser terminate, e quelle che rimangono su,
non possono opporre alcuna resistenza alle fiamme. L’acqua, specialmente a Pera, è sempre scarsa e
soggetta a un monopolio vergognoso; e siccome viene in gran parte dai serbatoi del villaggio di
Belgrado, costrutti dai Romani, manca affatto quando non cadono pioggie abbondanti in primavera
e in autunno; onde chi ha denari deve pagarla a peso d’oro e i poveri bevono fango. I pompieri sono
sempre piuttosto una grande banda di malfattori, che un corpo ordinato di operai; banda composta di
gente d’ogni paese, dipendenti più di nome che di fatto dal Seraschierato, da cui non ricevono che
una razione di pane; inesperti, indisciplinati, ladri, detestati e temuti dalla popolazione quanto il
fuoco che non sanno spegnere, e sospetti, non senza fondamento, di desiderare gl’incendi, come
occasione di far bottino. Le pompe non scarseggiano, è vero, e i turchi ne vanno alteri come di
macchine meravigliose; ma sono ridicole carabattole, che contengono una dozzina di litri d’acqua, e
mandano uno zampillo sottilissimo, piuttosto adatto a innaffiare giardini che a spegnere incendi. E
sarebbe nondineno una gran fortuna, se rimanendo questi inconvenienti, fossero cessati gli altri, che
sono molto più gravi. Non è credibile, senza dubbio, quello che molti credono ancora, che il
Governo, cioè, susciti gl’incendii per allargare le strade, chè il danno e il pericolo sarebbero troppo
sproporzionati ai vantaggi; accade più come per il passato, che il «partito d’opposizione» dia
fuoco a un quartiere di Costantinopoli per spaventare il Sultano, che l’esercito incendii un
sobborgo per ottenere un accrescimento di paga. Ma il sospetto, che gl’incendii siano molte volte
suscitati da coloro che ne possono trarre guadagno, è sempre vivo, e il fatto provò troppo spesso che
non è un sospetto infondato. Per il che la popolazione vive in un’ansietà continua. Teme dei
portatori d’acqua, dei facchini, degli architetti, dei mercanti di legna e di calce, e massimamente dei
servitori, che sono la peggior genìa di Costantinopoli, legati la maggior parte con ladri, i quali sono
alla loro volta ordinati in associazioni e in comitati, da cui altre compagnie occulte compran la roba
rubata e facilitano con varii mezzi il delitto. E la polizia locale mostra con questa gente una
fiacchezza, per non chiamarla indulgenza, la quale produce quasi gli effetti della complicità. Non fu
mai condannato un incendiario. Raramente i ladri, dopo gl’incendii, sono colti e puniti. È anche più
raro che gli oggetti sequestrati dalla polizia siano restituiti ai proprietarii. Di più, essendoci a
Costantinopoli del canagliume di tutti i paesi, l’azione della giustizia è inceppata in mille modi dai
trattati internazionali; i Consolati reclamano a i malfattori della propria nazione; i processi
durano un secolo; molti delinquenti scappano; il timore del castigo non serve quasi affatto di freno
agli scellerati, e il saccheggio negl’incendii è considerato da loro quasi come un privilegio
tacitamente riconosciuto dalle autorità, come era altre volte per gli eserciti il mettere a sacco le città
espugnate. Per questo la parola «incendio» significa ancora per la popolazione di Costantinopoli
«tutte le sventure» e il grido di Janghen var è sempre un grido tremendo, solenne, fatale, al cui
suono tutta la città si rimescola fin nel più profondo delle sue viscere, come all’annunzio d’un
castigo di Dio. E chi sa quante volte la grande metropoli dovrà ancora essere incenerita e rialzata
sulle sue ceneri prima che la civiltà europea abbia piantato la sua bandiera sul palazzo imperiale di
Dolma-Bagcé!
Nei tempi andati, quando scoppiava un incendio in Costantinopoli, se il Sultano si trovava in
quel momento nell’arem, gli portava l’annunzio del pericolo un’odalisca tutta vestita color di
porpora dal turbante alle babbuccie, la quale aveva l’ordine di presentarsi a Lui in qualunque luogo
egli fosse; fosse anche stato in braccio alla più cara delle sue favorite. Essa non aveva che da
presentarsi sulla soglia: il color di fuoco dei suoi panni era l’annunzio muto della sventura. Ebbene,
chi crederebbe che fra tante immagini grandiose e terribili che mi si affacciano alla mente quando
penso agl’incendii di Costantinopoli, sia la figura di quell’odalisca quella che scuote più vivamente
tutte le mie fibre d’artista? Io vorrei essere pittore per dipingere quel quadro, e supplicherò tutti i
pittori di dipingerlo, sin che n’abbia trovato uno che s’innamori dell’argomento, e a lui sa grato
per la vita. Egli rappresenterà, in una stanza dell’arem imperiale, tappezzata di raso e rischiarata da
una luce soavissima, sopra un largo divano, accanto a una circassa bionda di quindici anni, coperta
di perle, Selim I, il Sultano tremendo, che s’è svincolato impetuosamente dalle braccia della sua
cadina, e fissa i grand’occhi atterriti sopra l’odalisca purpurea, muta, sinistra, ritta sulla soglia come
una statua, la quale, con un volto pallido che rivela la venerazione e il terrore, sembra voler dire:
Re dei Re, Allà ti chiama e il tuo popolo desolato t’aspetta! e sollevando la cortina della porta,
mostra di là da un terrazzo, in una grande lontananza azzurrina, la città enorme che fuma.
LE MURA
Il giro intorno alle antiche mura di Stambul lo volli far solo, e consiglio ad imitarmi tutti
gl’Italiani che andranno a Costantinopoli, perchè lo spettacolo delle grandi rovine solitarie non
lascia un’impressione veramente profonda e durevole se non in chi è tutto inteso a riceverla, e può
seguire liberamente il corso dei suoi pensieri, in silenzio. C’era da fare una passeggiata di circa
quindici miglia italiane, a piedi, sotto i raggi del sole, per strade deserte. Forse dissi al mio
amico a metà strada mi piglierà la tristezza della solitudine e t’invocherò come un Santo; ma
tant’è, voglio andar solo. – Alleggerii il portamonete per il caso che qualche ladro suburbano avesse
voluto vederci dentro, gittai qualchecosa «dentro alle bramose canne» per poter dir poi a me stesso:
«taci, maledetto lupo» –; e m’incamminai alle otto della mattina, sotto un bel cielo lavato da una
pioggerella della notte, verso il ponte della Sultana Validè.
Il mio disegno era d’uscire da Stambul per la porta del quartiere delle Blacherne, di percorrere
la linea delle mura dal Corno d’oro fino al castello delle Sette Torri, e di ritornare lungo la riva del
Mar di Marmara, girando così intorno a tutto il grande triangolo della città musulmana.
Passato il ponte, svoltai a destra e m’innoltrai nel vasto quartiere chiamato Istambul-disciaré, o
Stambul esterna, che è una lunga striscia di città, compresa fra le mura ed il porto, tutta casupole e
magazzini d’oli e di legna, stata distrutta più volte dagli incendii. Fra le viuzze e la riva del Corno
d’oro, lungo la quale si stende una fila di piccoli scali e di seni pieni di bastimenti e di barconi, c’è
un viavai fitto di facchini, di ciucci e di cammelli, un rimescolìo di gente strana e di cose sporche, e
un urlìo incomprensibile, che fa pensare a quei porti meravigliosi del mar dell’Indie e del mar della
China dove s’incontrano i popoli e le merci dei due emisferi. Le mura che rimangono da questo lato
della città, sono alte cinque volte un uomo, merlate, fiancheggiate di cento in cento passi da piccole
torri quadrangolari, e in molte parti rovinate; ma sono il tratto meno notevole e per arte e per
memorie delle mura di Stambul. Attraversai il quartiere del Fanar, passando sulla riva ingombra di
fruttaioli, di pasticcieri, di venditori d’anice e di rosolio, e di cucine esposte all’aria aperta, in mezzo
a gruppi di bei marinari greci atteggiati come le statue dei loro Numi antichi; girai intorno al
vastissimo ghetto di Balata; percorsi il quartiere silenzioso delle Blacherne, e uscii finalmente di
città per la porta chiamata Egri-Kapú, poco lontana dalla riva del Corno d’oro. Tutto questo è presto
detto; ma è una camminata di un’ora e mezzo, ora in salita, ora in discesa, intorno a laghi di mota,
sopra ciottoli enormi, per vicoli senza fine, sotto volte oscure, a traverso a vasti spazii solitari,
senz’altra guida che la punta dei minareti della moschea di Selim. A un certo punto si cominciano a
non veder più nè faccie nè abiti di franchi; poi spariscono le casette all’europea; poi il ciottolato, poi
le insegne delle botteghe, poi l’indicazione delle strade, poi ogni rumor di lavoro; e più si va
innanzi, più i cani guardano torvo, più i monelli turchi fissano con l’occhio ardito, più le donne del
volgo si nascondono la faccia con cura, fin che ci si trova in piena barbarie asiatica, e la passeggiata
di due ore pare che sia stata un viaggio di due giorni.
Uscendo da Egri-Kapú, voltai a sinistra e vidi improvvisamente un larghissimo tratto delle
mura famose che difendono Stambul dalla parte di terra.
Sono passati tre anni da quel momento; ma non posso ricordarmene senza provare un
sentimento vivissimo di maraviglia. Non so in quale altro luogo dell’Oriente si trovino così raccolte
la grandezza dell’opera umana, la maestà della potenza, la gloria dei secoli, la solennità delle
memorie, la mestizia delle rovine, la bellezza della natura. È una vista che ispira insieme
ammirazione, venerazione e terrore; uno spettacolo degno d’un canto d’Omero. A primo aspetto, si
scoprirebbe il capo e si griderebbe: Gloria! come dinanzi a una schiera interminabile di
giganteschi eroi mutilati.
La cinta delle mura e delle torri enormi si stende fin dove arriva lo sguardo, salendo e
scendendo a seconda delle alture e degli avvallamenti, dove bassissima che par che si sprofondi
nella terra, dove alta che par che coroni la sommità d’una montagna; svariata d’infinite forme di
rovine, tinta di mille colori severi, dal calcareo fosco quasi nero al giallo caldo quasi dorato, e
rivestita d’una vegetazione rigogliosa d’un verde cupo, che s’arrampica su per i muri, ricasca in
ghirlande dai merli e dalle feritoie, si rizza in ciuffi alteri sulla cima delle torri, s’ammucchia in
piramidi altissime, vien giù quasi a cascatelle dalle cortine, e colma brecce, spaccature e fossati, e si
avanza fin sulla via. Sono tre ordini di mura che formano come una gradinata gigantesca di rovine:
il muro interno, che è il più alto, fiancheggiato, a brevi distanze eguali, da grossissime torri
quadrate; quel di mezzo, rafforzato da piccole torri rotonde; l’esterno senza torri, bassissimo, e
difeso da un fosso largo e profondo, anticamente riempito dalle acque del Corno d’oro e del Mar di
Marmara, ora coperto d’erba e di cespugli. Tutte queste mura sono ancora, presso a poco, quali
erano il giorno dopo la presa di Costantinopoli: perchè sono pochissima cosa i ristauri fatti da
Maometto e da Bajazet II. Vi si vedono ancora le breccie che v’apersero i cannoni enormi d’Orbano,
le tracce dei colpi degli arieti e delle catapulte, gli squarci delle mine, e tutti gl’indizii dei luoghi
dove si diedero gli assalti più furiosi e si opposero le resistenze più disperate. Le torri rotonde delle
mura di mezzo sono quasi tutte rovinate fino alle fondamenta; le torri delle mura interne, quasi tutte
ritte; ma smerlate, scantonate, ridotte in punta alla sommità come tronchi d’alberi enormi acuminati
a colpi d’accetta, e screpolate di cima in fondo o incavate alla base come scogli rosi dal mare. Pezzi
smisurati di muratura, rotolati giù dalle cortine, ingombrano la piattaforma del muro di mezzo,
quella del muro esterno ed il fosso. Piccoli sentieri serpeggiano fra le macerie e le erbaccie e si
perdono nell’ombra cupa della vegetazione alta, fra i macigni e gli scoscendimenti della terra messa
a nudo dai muri precipitati. Ogni tratto di bastione compreso fra due torri è un quadro stupendo di
rovine e di verde, pieno di maestà e di grandezza. Tutto è colossale, selvatico, irto, minaccioso, e
improntato d’una bellezza pomposa e triste, che impone la riverenza. Par di vedere le rovine d’una
catena sterminata di castelli feudali, o i resti d’una di quelle muraglie prodigiose che circondavano i
grandi imperi leggendarii dell’Asia orientale. La Costantinopoli del secolo decimonono è sparita; si
è dinanzi alla città dei Costantini; si respira l’aria del quattrocento; tutti i pensieri corrono al giorno
dell’immensa caduta e si rimane per un momento sbalorditi e sgomenti.
La porta per cui ero uscito, chiamata dai turchi Egri-Kapú, era quella famosa porta Caligaria,
per la quale fece la sua entrata trionfale Giustiniano, ed entrò poi Alessio Comneno per impadronirsi
del trono. Dinanzi v’è un cimitero musulmano. Nei primi giorni dell’assedio era stato messo
quello smisurato cannone d’Orbano, intorno al quale lavoravano quattrocento artiglieri e che cento
buoi stentavano a smovere. La porta era difesa da Teodoro di Caristo e da Giovanni Greant, contro
l’ala sinistra dell’esercito turco che si stendeva fino al Corno d’oro. Da quel punto fino al Mar di
Marmara non c’è più un sobborgo un gruppo di case. La strada corre diritta fra le mura e la
campagna. Non v’è nulla che distragga dalla contemplazione delle rovine. Mi misi in cammino.
Andai per un lungo tratto in mezzo a due cimiteri; uno cristiano a sinistra, sotto le mura; un altro
maomettano, a destra, vastissimo e ombreggiato da una selva di cipressi. Il sole scottava; la strada si
stendeva dinanzi a me bianca e solitaria, e sollevandosi a poco a poco tagliava con una linea retta,
sulla sommità dell’altura, il cielo, limpidissimo. Da una parte le torri succedevano alle torri,
dall’altra le tombe succedevano alle tombe. Non sentivo che il rumore cadenzato del mio passo e di
tratto in tratto il fruscìo di un lucertolone fra i cespugli vicini. Andai così per un lungo tratto, fin che
mi trovai impensatamente davanti a una bella porta quadrata, sormontata da un grande arco a tutto
sesto e fiancheggiata da due grosse torri ottagone. Era la porta d’Adrianopoli, la Polyandria dei
Greci; quella che sostenne nel 625, sotto Eraclio, l’urto formidabile degli Avari, che fu difesa contro
Maometto II dai fratelli Paolo e Antonino Troilo Bochiardi, e che divenne poi la porta delle uscite e
dell’entrate trionfali degli eserciti musulmani. dinanzi intorno non c’era anima viva.
Improvvisamente uscirono di galoppo due cavalieri turchi, mi ravvolsero in un nuvolo di polvere e
sparirono per la strada d’Adrianopoli; poi tornò a regnare un silenzio profondo.
Di là, voltando le spalle alle mura, mi avanzai per la strada d’Adrianopoli, discesi nel vallone
del Lykus, salii sopra un’altura, e mi trovai dinanzi al vastissimo piano ondulato e arido di Dahud-
Pascià, dove tenne il quartier generale Maometto II, durante l’assedio di Costantinopoli. Stetti
qualche tempo immobile, guardando intorno con una mano sugli occhi, come per cercare le
traccie dell’accampamento imperiale e rappresentarmi il grande e strano spettacolo che doveva
offrire quel luogo sul finire della primavera del 1453. Là proprio rifluiva, come al suo cuore, la vita
di tutto l’enorme esercito che stringeva nel suo formidabile amplesso la grande città moribonda. Di
partivano gli ordini fulminei che movevano le braccia di centomila operai, che facevano
trascinare per terra duecento galere dalla baia di Besci-tass alla baia di Kassim-Pascià, che
spingevano nelle viscere della terra eserciti di minatori armeni, che sguinzagliavano da cento parti i
drappelli d’araldi ad annunziar l’ora degli assalti, e facevano, nel tempo che s’impiega a contare le
pallottoline d’un tespì, tendere trecentomila archi e sguainare trecentomila scimitarre. Là i messi
pallidi di Costantino s’incontravano coi genovesi di Galata venuti a vender l’olio per rinfrescare i
cannoni d’Orbano e colle vedette musulmane che spiavano dalla riva del Mar di Marmara se
apparissero all’orizzonte le flotte europee a portar gli ultimi soccorsi della cristianità all’ultimo
baluardo dei Costantini. Là era un formicolìo di cristiani rinnegati, d’avventurieri asiatici, di vecchi
sceicchi, di dervis macilenti, laceri e stremati dalle lunghe marcie, che andavano e venivano
affannosamente intorno alle tende di quattordicimila giannizzeri, fra schiere interminabili di cavalli
bardati, fra lunghissime file di alti cammelli immobili, in mezzo a catapulte e a baliste infrante, a
rottami di cannoni scoppiati, a piramidi di palle enormi di granito; incrociandosi con le processioni
dei soldati polverosi che portavano a due a due, dalle mura all’aperta campagna, cadaveri sformati e
feriti urlanti, a traverso una nuvola perpetua di fumo. In mezzo all’accampamento dei giannizzeri
s’alzavano le tende variopinte della Corte, e al di sopra di queste, il padiglione vermiglio di
Maometto II. E ogni mattina, allo spuntar del giorno, egli era là, ritto dinanzi all’apertura del suo
padiglione, pallido della veglia affannosa della notte, col suo gran turbante ornato d’un pennacchio
giallo e il suo lungo caffettano color di sangue, e fissava il suo sguardo d’aquila sull’immensa città
che gli si stendeva dinanzi, tormentando con una mano la folta barba nera e coll’altra il manico
d’argento del suo pugnale ricurvo. Accanto a lui c’era Orbano, l’inventore del cannone prodigioso,
che doveva pochi giorni dopo, scoppiando, slanciare le sue ossa sulla spianata dell’Ippodromo;
l’ammiraglio Balta-Ogli, già turbato dal presentimento della sconfitta, che fece cadere sul suo capo
il bastone d’oro del Gran Signore; il comandante temerario dell’Epepolin, il grande castello mobile,
coronato di torri e irto di ferro, che cadde poi incenerito davanti alla porta di San Romano; una
corona di legisti e di poeti abbronzati dal sole di cento battaglie; un corteo di pascià colle membra
coperte di cicatrici e i caffettani lacerati dalle freccie; una folla di giannizzeri giganteschi colle lame
nude nel pugno e di sciaù armati di verghe di acciaio, pronti a far cadere le teste e a lacerare le carni
ai ribelli e ai vigliacchi; tutto il fiore di quella sterminata moltitudine asiatica, piena di gioventù, di
ferocia e di forza, che stava per rovesciarsi, come un torrente di ferro e di fuoco, sugli avanzi
decrepiti dell’Impero bizantino; e tutti, immobili come statue, tinti di rosa dai primi raggi
dell’aurora, guardavano all’orizzonte le mille cupole argentee della città promessa dal Profeta, sotto
le quali sonavano, in quell’ora, le preghiere e i singhiozzi del popolo codardo. Io vedevo i visi, gli
atteggiamenti, i pugnali, le pieghe delle cappe e dei caffettani, e le grandi ombre che s’allungavano
sul terreno incavato dalle ruote dei cannoni e delle torri. Ma a un tratto, lasciando cader gli occhi
sopra una grossa pietra mezzo affondata nella terra, e leggendovi una rozza iscrizione, quel gran
quadro disparve come una visione fantasmagorica, e vidi sparpagliarsi per la pianura brulla una
moltitudine allegra di cacciatori di Vincennes, di zuavi e di fantaccini dai calzoni rossi; sentii
cantare le canzonette della Provenza e della Normandia; vidi il maresciallo Saint-Arnaud,
Canrobert, Forey, Espinasse, Pelissier; riconobbi mille volti e mille colori vivi nella mia memoria e
cari al mio cuore fin dall’infanzia... e rilessi con un sentimento inesprimibile di sorpresa e di piacere
quella povera iscrizione. La quale diceva: Eugène Saccard, caporal dans le 22° léger, 16 Juin
1854.
Di ripassai per il vallone del Lykus e ritornai sulla strada che fiancheggia le mura, sempre
solitaria e sempre serpeggiante fra le rovine e i cimiteri. Passai dinanzi all’antica porta militare di
Pempti, ora murata; attraversai un’altra volta il Lykus, che entra nella città in quel punto, e arrivai
finalmente dinanzi alla porta chiamata del Cannone, dal gran cannone d’Orbano, che v’era
appostato davanti; la porta contro cui rivolse il suo ultimo assalto l’esercito di Maometto. Alzando
gli occhi alla sommità delle mura, vidi dietro ai merli parecchie orribili faccie nere, coi capelli
scarmigliati, che mi guardavano in aria di stupore. Seppi poi che s’era annidata una tribù di
zingari, ficcando le sue capanne nelle spaccature delle cortine e delle torri. Qui le traccie della lotta
sono veramente gigantesche e superbe: le mura sventrate, crivellate, stritolate; le torri dimezzate ed
informi, le piattaforme sepolte sotto monti di ruderi, le feritoie squarciate, il terreno sconvolto, il
fosso ingombro di rottami colossali, che sembrano massi di roccie franati da una montagna. La
battaglia tremenda sembra stata combattuta il giorno innanzi e le rovine raccontano meglio d’una
voce umana l’orribile eccidio di cui furono spettatrici. E fu poco meno che il medesimo dinanzi a
tutte le porte, per tutta la lunghezza delle mura. La lotta cominciò allo spuntare del giorno.
L’esercito ottomano era diviso in quattro enormi colonne, e preceduto da centomila volontarii, che
formavano un’immensa avanguardia predestinata alla morte. Tutta questa carne da cannone, questa
turba indisciplinata e temeraria di tartari, di caucasei, d’arabi, di negri, guidati dai sceicchi, eccitati
dai dervis, cacciati innanzi a nerbate da un esercito di sciaù, si slanciò per la prima all’assalto, carica
di terra e di fascine, formando una sola catena e cacciando un urlo solo dal Mar di Marmara al
Corno d’oro. Arrivati sulla sponda del fosso, una grandine di ferro e di pietre li arresta e li macella;
cadono a cento a cento, schiacciati dai macigni, crivellati dalle freccie, fulminati dalle palle, arsi
dalle vampe delle spingarde, vecchi, fanciulli, schiavi, ladri, pastori, briganti; altre turbe, spinte da
turbe più lontane, sottentrano; in poco tempo il fosso e le sponde sono coperte di mucchi di
cadaveri, di membra palpitanti, di turbanti insanguinati, d’archi, di scimitarre; su cui altri torrenti
d’armati passano muggendo e vanno a frangersi e a insanguinarsi ai piedi delle cortine e delle torri,
sotto un rovescio più fitto di giavellotti e di sassi, in una nuvola densa che nasconde le mura, i
difensori, i morti, la strada; fin che mille trombe ottomane fanno sentire i loro squilli selvaggi sopra
il tumulto della battaglia, e la grande avanguardia dimezzata e sanguinosa retrocede confusamente
da tutta la linea delle mura. Allora Maometto II sguinzaglia all’assalto il grosso delle sue forze. Tre
grandi eserciti, tre fiumane d’uomini, condotti da cento Pascià, sorvolati da mille stendardi,
s’avanzano, s’allargano, coprono le alture, allagano le valli, scendono levando un frastuono
spaventoso di trombe, di timballi e di spade, e gettando un grido: – La Ilah illa lah! – che rimbomba
come uno scoppio di fulmine dal Corno d’oro alle Sette Torri, spiccano la corsa e vanno a
precipitarsi contro le mura come un oceano in tempesta contro una riva di roccie tagliate a picco.
Allora comincia la grande battaglia, ossia cento battaglie, alle porte, alle breccie, nei fossi, sulle
piattaforme, ai piedi delle cortine, da un capo all’altro dell’enorme baluardo secolare di
Costantinopoli. Dieci mila feritoie vomitano la morte sopra duecento mila vite. Dall’alto delle
cortine e delle torri ruzzolano i macigni, le travi, le botti piene di terra, le fascine accese. Le scale,
cariche d’assalitori, rovinano; i ponti levatoi delle torri di assedio precipitano; le catapulte
fiammeggiano. Schiere dietro schiere s’avventano e ricadono, sfolgorate, sulle macerie, sui molti
sfracellati, sui moribondi, nel sangue, nell’acqua, sulle armi dei compagni, dentro a un fumo fitto,
illuminato qua e dalle vampe improvvise del fuoco greco, fra i sibili rabbiosi della mitraglia, fra
gli scoppi delle mine, fra gli urli dei mutilati, fra i rimbombi formidabili delle diciotto batterie di
Maometto, che fulminano la città dalle alture. Di tratto in tratto la battaglia si rallenta come per
riprender respiro, e allora sulla larga breccia di porta San Romano, a traverso il fumo diradato, si
vede per qualche momento ondeggiare il mantello di porpora di Costantino, scintillare le armature
di Giustiniani e di Francesco di Toledo, e agitarsi confusamente le terribili figure dei trecento arcieri
genovesi. Poi la mischia si riaccende, il fumo rinasconde le breccie, le scale si riappoggiano alle
mura, e ricominciano a cader rovine su rovine e cadaveri su cadaveri alla porta d’Adrianopoli, alla
porta Dorata, alla porta di Selymbria, alla porta di Tetarté, alla porta di Pempti, alla porta di
Russion, alle Blacherne, all’Heptapyrgion; e turbe armate dietro turbe armate, che par che escano
dalla terra, seguitano a irrompere contro le mura, valicano il fosso, superano le prime cortine,
cadono, risorgono, s’arrampicano su per le macerie, strisciano sui cadaveri, sotto nuvoli di freccie,
sotto tempeste di palle, sotto nembi di fuoco. Finalmente gli assalitori, diradati e sfiniti, cedono,
retrocedono, si sparpagliano, e un grido altissimo di vittoria e un coro solenne di canti sacri
s’innalza dalle mura. Dall’altura di fronte a San Romano, Maometto II, circondato da
quattordicimila giannizzeri, vede, e rimane qualche tempo incerto se debba ritentare l’assalto o
rinunziare all’impresa. Ma girato uno sguardo sui suoi formidabili soldati che lo guardano in volto
fremendo d’impazienza e d’ira, si rizza superbamente sulle staffe e getta un’altra volta il grido della
battaglia. Allora è la vendetta di Dio che si scatena. I giannizzeri rispondono con quattordicimila
grida in un grido; le colonne si movono; una turba di dervis si spande per il campo a rianimare i
dispersi, i sciaù arrestano i fuggenti, i pascià riformano le schiere, il Sultano, brandendo la sua
mazza di ferro, s’avanza tra uno sfolgorìo di scimitarre e d’archi, in mezzo a un mare di turbanti e di
caschi; sulla porta di San Romano torna a rovesciarsi una grandine di freccie e di palle; Giustiniani,
ferito, scompare; gl’italiani, scoraggiti, si scompigliano; il gigantesco giannizzero Hassan d’Olubad
sale per il primo sui baluardi; Costantino, combattendo in mezzo agli ultimi suoi valorosi della
Morea, è precipitato dai merli, lotta ancora sotto alla porta, stramazza in mezzo ai cadaveri...;
l’Impero d’Oriente è caduto. La tradizione dice che un grande albero segnava il luogo dove fu
trovato il corpo di Costantino; ma non ne vidi più traccia. Fra quei ruderi, dove corsero rigagnoli di
sangue, la terra era tutta bianca di margheritine e di ombrellifere, sulle quali svolazzava un nuvolo
di farfalle. Colsi un fiore per ricordo, sotto gli sguardi attoniti degli zingari, e mi rimisi in cammino.
Le mura mi si stendevano sempre dinanzi a perdita d’occhi. Nei luoghi alti nascondevano
affatto la città, in modo che chi non l’avesse saputo, non avrebbe pensato mai che dietro quelle
rovine solitarie e silenziose, ci potesse essere una vasta metropoli, coronata di grandi monumenti e
abitata da un grande popolo. Nei luoghi bassi, invece, apparivano dietro i merli punte inargentate di
minareti, sommità di cupole, tetti di chiese greche, vette di cipressi. Qua e là, per uno squarcio delle
cortine, vedevo di sfuggita, come per una porta improvvisamente aperta e chiusa, un pezzo di città:
gruppi di case che parevano abbandonate, vallette deserte, orti, giardini, e più lontano, sfumati nella
chiarezza bianca del mezzogiorno, i contorni fantastici di Stambul. Passai dinanzi alla porta murata
di Tetartè, non indicata che da due torri vicinissime. In quel tratto le mura sono meglio conservate.
Si vedono dei lunghi pezzi delle cortine di Teodosio II, quasi intatte; delle belle torri del prefetto del
Pretorio Antemio e dell’imperatore Ciro Costantino, che portano ancora gloriosamente sul capo
invulnerato la loro corona di quindici secoli, e par che sfidino un nuovo assalto. In alcuni punti,
sulle piattaforme, ci sono delle capanne di contadini, che danno un risalto inaspettato, colla loro
fragile piccolezza, alla salda maestà delle mura, e paion nidi d’uccelli appesi ai fianchi dirupati
d’una montagna. E a destra sempre cimiteri, boschi di cipressi in salita e in discesa, vallette grigie di
pietre sepolcrali; qui un convento di dervis, mezzo nascosto da una corona di platani; un caffè
solitario; più in una fontana ombreggiata da un salice; e di dai boschetti, sentieri bianchi che si
perdono nella campagna alta ed arida, sotto un cielo abbagliante, in cui ruotano degli avoltoi.
Dopo un altro quarto d’ora di cammino arrivai dinanzi alla porta chiamata Yeni-Mewle-hane,
da un famoso convento di dervis che c’è davanti: una porta bassa, nella quale sono incastrate quattro
colonne di marmo, e ai cui lati s’innalzano due torri quadrate, ornate d’un’iscrizione di Ciro
Costantino, del 447, e d’un’iscrizione di Giustino II e di Sofia, nella quale l’ortografia dei nomi
imperiali è sbagliata: saggio curioso della ignoranza barbarica del V secolo. Guardai dentro la porta,
sulle mura, intorno al convento, nei cimiteri: non c’era anima nata. Riposai qualche momento
appoggiato alle spallette del piccolo ponte che accavalcia il fosso delle mura, e poi ripresi la mia
strada.
Io darei il ricordo d’una delle più belle vedute di Costantinopoli per poter trasfondere in chi
legge soltanto un’ombra del sentimento profondo e singolarissimo che provavo andando così solo
fra quelle due catene interminabili di rovine e di sepolcri, sotto quel sole, in quella solitudine severa,
in mezzo a quella immensa pace. Molte volte, nei giorni tristi della mia vita, fantasticando, desiderai
di trovarmi fra una carovana di gente misteriosa e muta, che camminasse eternamente, per paesi
sconosciuti, verso una meta ignorata. Ebbene, quella strada rispondeva a quel mio desiderio. Avrei
voluto che non finisse mai. Ma non m’inspirava mestizia; mi dava invece serenità e ardimento. Quei
colori vigorosi della vegetazione, quelle forme ciclopiche delle mura, quelle grandi linee del terreno
simili alle onde d’un oceano agitato, quelle solenni memorie d’imperatori, d’eserciti, di lotte
titaniche, di popoli scomparsi, di generazioni defunte, accanto a quella città enorme, in quel silenzio
mortale, rotto soltanto dal frullo possente delle ali dell’aquile che spiccavano il volo dalla sommità
delle torri, mi destavano nella mente un ribollimento di fantasie gigantesche e di desiderii smisurati,
che mi raddoppiava il sentimento della vita. Avrei voluto esser più alto di due palmi e vestire
l’armatura colossale del Grand’Elettore di Sassonia che avevo veduto nell’Armeria di Madrid, e che
il mio passo risonasse in quel silenzio come il passo misurato d’un reggimento d’alabardieri del
medioevo. Avrei voluto aver la forza d’un Titano per sollevare fra le braccia i ruderi immani di
quelle mura superbe. Camminavo colla fronte alta, colle sopracciglia corrugate, colla mano destra
serrata, apostrofando a grandi versi sciolti Costantino e Maometto, rapito in una specie d’ebbrezza
guerriera, con tutta l’anima nel passato; e mi sentivo tanta giovinezza nella mente e nel sangue, ed
ero così beato d’esser solo, e così geloso di quella solitudine piena di vita, che non avrei voluto
incontrare nemmeno il più intimo dei miei amici.
Passai dinanzi all’antica porta militare di Trite, oggi chiusa. Le cortine e le torri sfracellate
indicano che dinanzi a quel tratto di mura debbono esser stati posti alcuni dei grossi cannoni
d’Orbano. Si crede anzi che fosse una delle tre grandi breccie che Maometto II accennò
all’esercito il giorno prima dell’assalto, quando disse: Voi potrete entrare in Costantinopoli a
cavallo per le tre brecce che ho aperte. Di riuscii davanti a una porta aperta, fiancheggiata da
due torri ottagone, e riconobbi dal piccolo ponte a tre archi d’un bel color d’oro, la porta di Selivri,
da cui partiva la grande strada che conduceva alla città di Selybmria, che le diede il nome, cangiato
dai Turchi in Selivri. Durante l’assedio di Maometto, difendeva quella porta Maurizio Cattaneo,
genovese. La strada conserva ancora alcune pietre del lastricato che vi fece fare Giustiniano.
Dinanzi c’è un vasto cimitero e di là dal cimitero il monastero notissimo di Baluklù.
Appena entrato nel cimitero, trovai da me solo il luogo solitario dove sono sepolte le teste del
famoso Alì di Tepeleni, pascià di Giannina; dei suoi figli: Velì, governatore di Trihala, Muctar,
comandante d’Arlonia, Saalih, comandante di Lepanto; e di suo nipote Mehemet, figlio di Velì,
comandante di Delvina. Sono cinque colonnine di pietra, terminate in forma di turbante, che portano
tutte la data del 1827, e un’iscrizione semplicissima, fatta da quel povero Solimano dervis, amico
d’infanzia d’Alì, che comperò le teste, dopo che furono staccate dai merli del Serraglio, e le seppellì
di sua mano. L’iscrizione del cippo d’Alì, che è posto nel mezzo, dice: Qui giace la testa del
famoso Alì-Pascià di Tepeleni, governatore del Sangiaccato di Giannina, il quale, per più di
cinquant’anni, s’affaticò per l’indipendenza dell’Albania. Il che prova che anche sui sepolcri
musulmani si scrivono delle pietose menzogne. Mi arrestai qualche momento a contemplare quella
poca terra che copriva quel formidabile capo, e mi venivano in mente le domande d’Amleto al
teschio di Yorik. Dove sono i tuoi Palicari, leone d’Epiro? Dove sono i tuoi bravi Arnauti e i tuoi
palazzi irti di cannoni e il tuo bel chiosco riflesso dal lago di Giannina e i tuoi tesori sepolti nelle
roccie e i begli occhi della tua Vasiliki? E pensavo alla bellissima donna vagante per le vie di
Costantinopoli, povera e desolata dai ricordi della sua felicità e della sua grandezza, quando sentii
un leggero fruscio, e voltandomi, vidi un uomo lungo e stecchito, vestito d’una gran tonaca scura,
col capo scoperto, che mi guardava in aria interrogativa. Da un cenno che mi fece, capii che era un
monaco greco di Baluklù, che voleva farmi vedere la fontana miracolosa, e m’incamminai con lui
verso il monastero. Mi condusse a traverso un cortile silenzioso, aperse una porticina, accese una
candela, mi fece scendere con per una scaletta, sotto una volta umida e oscura, e fermandosi
dinanzi a una specie di cisterna, sulla quale raccolse con una mano la luce della fiammella, mi
accennò di guardare i pesci rossi che guizzavano nell’acqua. Mentre guardavo, mi borbottò un
discorso incomprensibile che doveva essere la favola famosa del miracolo dei pesci. Mentre i
Musulmani davano l’ultimo assalto alle mura di Costantinopoli, un monaco greco, in quel convento,
friggeva dei pesci. Improvvisamente s’affacciò alla porta della cucina un altro monaco, tutto
atterrito, e gridò: La città è presa! Che! rispose l’altro: lo crederò quando vedrò i miei pesci
saltar fuori della padella. E i pesci saltarono fuori sull’atto, belli e vivi, mezzi bruni e mezzi rossi
perchè non erano fritti che da una parte, e furono rimessi religiosamente, come ognuno può pensare,
nell’acqua dov’erano stati pigliati e dove guizzano ancora. Finita la sua chiacchierata, il monaco mi
gettò sul viso alcune goccie dell’acqua sacra, che gli ricascarono in mano convertite in soldi, e dopo
avermi riaccompagnato alla porta, stette un pezzo a guardarmi, mentre m’allontanavo, coi suoi
piccoli occhi annoiati e sonnolenti.
E sempre, da una parte, mura dietro mura e torri dietro torri, e dall’altra cimiteri ombrosi,
qualche campo verde, qualche vigneto, qualche casa chiusa, e di là, il deserto. Qualche volta,
guardando le mura da un luogo basso, mi pareva di vederne l’ultimo profilo; ma fatta una breve
salita, le vedevo di nuovo stendersi dinanzi a me senza fine, e a ogni passo saltavan fuori le torri,
lontano, l’una dietro l’altra, a due, a tre insieme, come se accorressero sulla strada per veder chi
turbava il silenzio di quella solitudine. La vegetazione, in quel tratto, è maravigliosa. Alberi
frondosi si rizzano sulle torri, come sopra vasi giganteschi; dai merli spenzolano ciuffi di fiori gialli
e di fiori rossi e ghirlande d’edera e di caprifoglio; di sotto ci son mucchi inestricabili di corbezzoli,
di lentischi, di ortiche, di pruni, in mezzo a cui sorgono dei platani e dei salici, che coprono d’ombra
il fosso e le sponde. Grandi tratti di muro sono completamente coperti dall’edera, che trattiene come
una rete i mattoni e i calcinacci staccati, e nasconde le breccie e le feritoie. Il fosso è coltivato a
orticelli; sulle sponde pascolano capre e pecore custodite da ragazzi greci, coricati all’ombra degli
alberi; dai muri escono stormi d’uccelli; l’aria è piena delle fragranze acute dell’erbe selvatiche; e
spira non so che allegrezza primaverile sulle rovine, che paiono inghirlandate e infiorate per il
passaggio trionfale d’una Sultana. Tutt’a un tratto mi sentii nel volto un soffio d’aria salina, e
alzando gli occhi vidi lontano, dinanzi a me, l’azzurro del Mar di Marmara. Nello stesso punto mi
parve che una voce sommessa mi mormorasse nell’orecchio: Il castello delle Sette Torri e mi
fermai un momento in mezzo alla strada, con un sentimento vago d’inquietudine. Poi ripresi il
cammino, passai dinanzi all’antica porta Deleutera, oltrepassai la porta Melandesia, e mi trovai in
faccia al castello.
Questo edificio di malaugurio, innalzato da Maometto II sull’antico Cyclobion dei Greci, per
difendere la città nel punto in cui le mura che la proteggono dalla parte di terra si congiungono con
quelle che la difendono dalla parte del Mar di Marmara, e convertito poi in prigione di Stato, appena
le ulteriori conquiste dei Sultani, mettendo al sicuro Stambul dal pericolo d’un assedio, lo ebbero
reso inutile come fortezza; non è più ora che uno scheletro di castello, custodito da pochi soldati;
una rovina maledetta, piena di memorie dolorose e orribili, che corrono in leggende sinistre per le
bocche di tutti i popoli di Costantinopoli, e non veduta dai viaggiatori, per solito, che di sfuggita,
dalla prora del bastimento che li porta al Corno d’oro. I Turchi lo chiamano Jedi-Kulé, ed è per loro
ciò che la Bastiglia per la Francia e la Torre di Londra per l’Inghilterra: un monumento che ricorda i
tempi più nefandi della tirannia dei Sultani.
Le mura della città lo nascondono agli occhi di chi guarda dalla strada, eccetto due delle sette
grandi torri che gli diedero il nome, delle quali non ce n’è più intere che quattro. Nel muro esterno
rimangono due colonne corinzie, che appartenevano all’antica Porta dorata, per la quale fecero le
loro entrate trionfali Narsete ed Eraclio, e che è la stessa, giusta una leggenda comune ai musulmani
ed ai greci, per la quale passeranno i Cristiani il giorno che rientreranno vincitori nella città di
Costantino. La porta d’entrata è dentro le mura, in una piccola torre quadrata, dinanzi a cui
sonnecchia una sentinella in babbuccie, la quale acconsente quasi sempre a lasciar entrare nello
stesso tempo una moneta in tasca e un viaggiatore nel castello.
Entrai e mi trovai solo in un grande recinto, d’un aspetto lugubre di cimitero e di carcere, che
mi fece arrestare il passo. Tutt’intorno s’alzano mura enormi e nere, che formano un pentagono,
coronate di grosse torri quadrate e rotonde, altissime e basse, alcune diroccate, altre intere e coperte
da alti tetti conici, rivestiti di piombo, e innumerevoli scale in rovina, che conducono ai merli e alle
feritoie. Dentro al recinto c’è una vegetazione alta e fitta, dominata da un gruppo di cipressi e di
platani, sopra i quali spunta il minareto d’una piccola moschea nascosta; fra le piante più basse, i
tetti d’un gruppo di capanne, in cui dormono i soldati; nel mezzo, la tomba d’un vizir che fu
strangolato nel castello; qua e là i resti deformi d’un antico ridotto; e fra i cespugli e lungo i muri,
frammenti di bassorilievi, tronchi di colonne e capitelli affondati nella terra, mezzo coperti dalle
erbaccie e dall’acqua dei pantani: un disordine bizzarro e triste, pieno di misteri e di minaccie, che
mette ripugnanza a inoltrarsi. Stetti un po’ incerto guardando intorno, e poi andai innanzi, con
circospezione, come per timore di mettere il piede in una pozza di sangue. Le capanne erano chiuse,
la moschea chiusa; tutto solitario e quieto, come in una rovina abbandonata. In qualche punto dei
muri ci sono ancora tracce di croci greche, frammenti di monogrammi costantiniani, ali spezzate
d’aquile romane e resti di fregi dell’antico edifizio bizantino, anneriti dal tempo. Su alcune pietre si
vedono incise rozzamente delle iscrizioni greche in caratteri minuti: quasi tutte iscrizioni dei soldati
di Costantino, che custodivano la fortezza, sotto il comando del fiorentino Giuliani, il giorno prima
della caduta di Costantinopoli; povera gente rassegnata a morire, che invocava Iddio perchè salvasse
la loro città dal saccheggio e le loro famiglie dalla schiavitù. Delle due torri poste dietro alla Porta
dorata, una è quella in cui venivano chiusi gli ambasciatori degli Stati ch’erano in guerra coi
Sultani, e vi si leggono ancora sui muri parecchie iscrizioni latine, delle quali la più recente è degli
ambasciatori veneti imprigionati sotto il regno d’Ahmed III, quando scoppiò la guerra della Morea.
L’altra è la torre famosa a cui si riferiscono le più lugubri tradizioni del castello: la torre che
racchiudeva un labirinto di segrete orrende, sepolcri di vivi, nelle quali i vizir e i grandi della Corte
aspettavano, pregando nelle tenebre, l’apparizione del carnefice, o impazziti dalla disperazione,
lasciavano sulle pareti le traccie sanguinose delle unghie e del cranio. In uno di quei sepolcri c’era il
grande mortaio in cui si stritolavano le ossa e le carni agli ulema. A pian terreno v’è lo stanzone
rotondo, chiamato prigione di sangue, dove si decapitavano secretamente i condannati, e si
buttavano le teste in un pozzo, detto il pozzo di sangue, di cui si vede ancora la bocca nel mezzo del
pavimento ineguale, coperta da due lastre di pietra. Sotto c’era la così detta caverna rocciosa,
rischiarata da una lanterna appesa alla volta, dove si tagliava la pelle a striscie ai condannati alla
tortura, si versava la pece infiammata nelle piaghe aperte dalle verghe e si schiacciavano colle
mazze i piedi e le mani, e gli urli orrendi degli agonizzanti non arrivavano che come un lamento
fioco agli orecchi dei prigionieri della torre. In un angolo del recinto si vedono ancora le traccie
d’un cortile nel quale si troncava la testa, di notte, ai condannati comuni; e vicino c’era ancora,
non è gran tempo, un muro di ossa umane che s’innalzava fin quasi alla piattaforma del castello.
Vicino all’entrata c’è la prigione di Otmano II, la prima vittima imperiale dei Giannizzeri. È la
stanza dove il povero Sultano diciottenne, a cui la disperazione raddoppiava le forze, resistette
furiosamente ai suoi quattro carnefici, fin che una mano spietata e codarda, esercitata a far gli
eunuchi, lo afferrò «alle sorgenti della virilità» e gli strappò un altissimo grido, che fu soffocato dal
capestro. In tutte le altre torri e in parte delle mura c’era un andirivieni di corridoi tenebrosi, di
scalette segrete, di porte basse, chiuse da battenti di ferro o di travi, sotto le quali curvarono la testa
per l’ultima volta pascià, principi imperiali, governatori, ciambellani, grandi ufficiali nel fiore della
giovinezza e nel colmo della potenza, a cui tutto veniva tolto in un’ora; e il loro capo aveva già
rigato di sangue le mura esterne del castello, che le loro spose li aspettavano ancora vestite a festa
fra gli splendori degli arem. Passavano per quei corridoi stillanti d’acqua e per quelle scale
sepolcrali, di notte, al lume delle lanterne, soldati e carnefici dalle mani sanguinose, e messaggieri
del Serraglio che venivano a portare ai condannati a morte, ancora illusi da un barlume di speranza,
l’ultimo no dei Sultani, e cadaveri cogli occhi fuor della fronte e coll’orrendo cordone di seta alla
gola, portati da sciaù affannati e stanchi dalle lunghe lotte combattute nelle tenebre contro la rabbia
della disperazione. Alla estremità opposta di Stambul, sulla collina del Serraglio, v’era il tribunale
spaventoso della Corte. Qui era una macchina enorme di supplizio, coronata da sette patiboli di
pietra, la quale riceveva dal mare e dalla terra, al lume della luna, le vittime vive, e non restituiva al
sole che teschi e cadaveri; e dall’alto delle torri, in cui si moriva, le sentinelle notturne vedevano
lontano i chioschi del Serraglio illuminati per le feste imperiali. Ed ora si prova un senso di piacere
al veder il castello infame così deformato, come se tutte le vittime risuscitate l’avessero roso e
sgretolato colle unghie e coi denti per vendicarsi sulle mura non potendo vendicarsi sugli uomini. Il
grande mostro, disarmato e decrepito, sbadiglia colle cento bocche delle sue feritoie e delle sue
porte squarciate, ridotto a un vano spauracchio, e una miriade di topi, di biscie e di scorpioni
giallognoli, pullulati, come vermi, dal suo corpaccio infracidito, gli brulica nel ventre vuoto e per le
reni spezzate, in mezzo a una vegetazione insolente che lo inghirlanda e lo impennacchia per
ludibrio. Dopo essermi affacciato a varie porte senza veder altro che una fuga precipitosa di topacci,
salii per una scala erbosa sopra una delle cortine del lato occidentale. Di si domina tutto il
castello: un vasto disordine di rovine, di torri, di merli, di scale, piatteforme, tutto nerastro o
rosso cupo, intorno a un gran mucchio di verde vivo; e di là, altre torri e altri merli innumerevoli
delle mura orientali di Stambul; così che a socchiuder gli occhi, par di vedere una sola vastissima
fortezza abbandonata, che si disegna sull’azzurro del Mar di Marmara. A sinistra si vede una gran
parte di Stambul, tagliata da parecchie lunghissime strade serpeggianti, che fuggono nella direzione
dell’antica via trionfale degl’Imperatori Bizantini, la quale dalla Porta Dorata, passando per il foro
d’Arcadio e per il foro di Costantino, andava fino alla reggia. Era una veduta immensa e ridente, che
mi faceva parer più sinistro il mucchio di rovine malaugurate che avevo ai piedi. Rimasi lungo
tempo là, appoggiato a un merlo infocato dal sole, abbagliato da una luce vivissima, guardando
sotto quel grande sepolcro scoperchiato con quella curiosità pensierosa e diffidente con cui si
guardano i luoghi dove fu commesso di fresco un delitto. Regnava un silenzio profondo. Per i muri
correvano delle grosse lucertole, giù nei fossi gracidavano i rospi, sopra le torri roteavano dei corvi,
intorno al capo mi ronzava un nuvolo d’insetti venuti su dai pantani delle rovine, e l’aria un po’
agitata mi portava il puzzo d’un cavallo putrefatto, disteso in fondo al fosso esterno della fortezza.
Mi prese un senso di schifo e di ribrezzo; eppure mi sentivo inchiodato là, come affascinato,
immerso in una specie d’assopimento; e tenendo gli occhi socchiusi, quasi sognando, in quella pace
morta del mezzogiorno, mi pareva d’udire, nel ronzio monotono degl’insetti, il tonfo dei teschi
gettati nel pozzo, le grida lamentevoli dei moribondi dei sotterranei e la voce del figliuolo minore di
Brancovano, che sentendosi sul collo il freddo del capestro, gridava: Padre mio! Padre mio! E
siccome ero stanco e la luce m’abbagliava, chiusi gli occhi e rimasi un momento assopito; e subito
tutte quelle orribili immagini mi si affollarono alla mente con un’evidenza spaventosa. In quel punto
fui riscosso da un grido acuto e sonoro, e vidi sotto, sul terrazzo del piccolo minareto, il muezzin
della moschea del castello. Quella voce lenta, dolce, solenne, che parlava di Dio, in quel luogo, in
quel momento, mi discese nel più profondo dell’anima! Pareva che parlasse in nome di tutti coloro
che eran morti dentro, che dicesse che i loro dolori non erano stati inutili, che le loro ultime
lacrime erano state raccolte, che le loro torture avevano avuto un compenso, che essi avevano
perdonato, che bisognava perdonare, che si doveva pregare e confidare in Dio, anche quando il
mondo ci abbandona, e che tutto è vano sulla terra fuorchè questo sentimento infinito di amore e di
pietà... E uscii dal castello, commosso.
Ripresi il mio cammino verso il mare lungo le mura esterne di Stambul. vicino c’è la
stazione di Adrianopoli e s’incrociano sotto le mura parecchi tronchi di strada ferrata. Mi trovai in
mezzo a lunghe file di vagoni logori e polverosi. Non c’era nessuno. Se fossi stato un turco fanatico,
nemico delle novità europee, avrei potuto incendiare l’una dopo l’altra quelle baracche, e
andarmene tranquillamente senz’essere molestato. Andai innanzi sull’orlo della strada temendo di
sentire da un momento all’altro l’olà minaccioso d’un guardiano; ma nessuno mi diede noia, In poco
tempo arrivai all’estremità delle mura. Credevo di poter entrare in Stambul per di là: fui deluso. Le
mura del lato di terra si congiungono sulla spiaggia con quelle della parte di mare, e non c’è effigie
di porta. Allora mi avanzai su per le rovine d’un antico molo e sedetti sopra un macigno, in mezzo
all’acqua. Di là non vedevo altro che il Mar di Marmara, i monti dell’Asia, e le alture azzurrine, che
parevano lontanissime, di Scutari. La spiaggia era deserta; mi pareva d’esser solo nell’universo. Le
onde venivano a rompersi ai miei piedi e mi spruzzavano il volto. Rimasi un pezzo, pensando a
mille cose, vagamente. Vedevo me, solo, uscir dalla porta Caligaria e venir giù lentamente per la
strada solitaria, fra i cimiteri e le torri, e seguitavo quell’uomo, come se fosse un altro. Poi mi diedi
a cercare Yunk nella città immensa. Poi stetti a osservare le onde che venivano l’una dopo l’altra a
distendersi mormorando sulla riva e sparivano l’una dopo l’altra in silenzio; e vedevo in esse
l’immagine dei popoli e degli eserciti che eran venuti l’un dopo l’altro a urtarsi contro le mura di
Bisanzio: le falangi di Pausania e d’Alcibiade, le legioni di Massimo e di Severo, le torme dei
Persiani, le orde degli Avari, e gli Slavi e gli Arabi e i Bulgari e i Crociati, e gli eserciti di Michele
Paleologo e di Comneno e quei di Baiazet Ilderim e quelli del secondo Amurat e quelli di Maometto
il conquistatore, svaniti l’un dopo l’altro nel silenzio infinito della morte; e provavo la tristezza che
stringeva il cuore al Leopardi la sera del di festa, quando sentiva morire a poco a poco il canto
solitario dell’artigiano, che gli rammentava il suono dei popoli antichi, e pensava che tutto passa
come un sogno sopra la terra.
Di là tornai indietro fino alla porta delle Sette Torri ed entrai dentro le mura per percorrere tutta
Stambul lungo la riva del Mar di Marmara. Ero già mezzo sgambato; ma nelle lunghe passeggiate, a
un certo punto, nasce dalla stanchezza medesima una cocciutaggine animalesca che ravviva le forze.
Mi vedo ancora camminare e camminare per quelle strade deserte, sotto quel sole ardente, dominato
da non so che sonnolenza fantastica, nella quale mi passavan dinanzi faccie d’amici di Torino,
episodi di romanzi, vedute di altri paesi e pensieri vaghi sulla vita umana e sull’immortalità
dell’anima; e tutto metteva a capo alla tavola rotonda dell’albergo di Bisanzio, scintillante di lumi e
di cristalli, che vedevo lontanissima, al di d’una città cento volte più grande di Stambul, e già
coperta dalla notte. Attraverso un sobborgo musulmano, che par disabitato, nel quale spira ancora la
tristezza del castello delle Sette Torri, ed entro nel vasto quartiere di Psammatia, abitato da greci e
da armeni, e anch’esso deserto. Vado innanzi per una interminabile stradicciuola tortuosa, dalla
quale vedo giù a destra, fra casa e casa, le mura merlate della città, che profilano i loro merli neri
nell’azzurro vivo del mare. Passo sotto la porta di Psammatia e mi trovo daccapo in un quartiere
musulmano, tra finestre ingraticolate, porte chiuse, piccole moschee, giardini nascosti, cisterne
erbose, fontane abbandonate. Attraverso lo spazio dov’era l’antico foro boario, vedendo sempre, giù
a destra, le mura e le torri, e non incontrando che qualche cane che si ferma per vedermi passare e
qualche monello turco, seduto in terra, che mi fissa in volto, pensando un’impertinenza. Qualche
finestra s’apre e si chiude improvvisamente, e vedo di sfuggita una mano o il lembo d’una manica di
donna. Giro intorno ai vasti giardini di Vlanga che fanno corona all’antico porto di Teodosio; vedo
dei vasti spazii colle traccie d’un incendio recente, dei luoghi dove pare che la città finisca nella
campagna, dei conventi di dervis, delle chiese greche, delle piazzette misteriose ombreggiate da un
grande platano, sotto il quale sonnecchia qualche vecchio col bocchino del narghilè tra le dita. Vado
innanzi, mi fermo dinanzi a un piccolo caffè per bere un bicchier d’acqua messo in mostra sulla
finestra, chiamo, picchio, nessuno risponde. Esco dal quartiere greco di Jeni-Kapú, entro in un altro
quartiere musulmano, rientro un’altra volta fra le casette greche ed armene del quartiere di porta
Kum, e m’accompagnano sempre da una parte i merli delle mura e l’azzurro del mare, e non
incontro che cani, mendicanti, monelli, e sento sonare in alto la voce dei muezzin che annunziano il
tramonto. L’aria si fa oscura; e continuano a succedersi le casette, le moschee malinconiche, i
crocicchi deserti, le imboccature dei vicoli; e comincio a sentirmi spossato e a pensare di buttarmi
sopra una materassa dinanzi al primo caffè veduto, quando, a una svoltata, mi sorge
improvvisamente dinanzi la mole enorme di Santa Sofia. Oh, la cara vista! Le forze mi tornano, i
pensieri si rasserenano, affretto il passo, arrivo al porto, passo il ponte, ed ecco dinanzi alla porta
illuminata del primo caffè di Galata, Yunk, Rosasco, Santoro, tutta la mia piccola Italia che mi
viene incontro col volto sorridente e colle mani tese... e tiro uno dei più lunghi e larghi respiri che
abbiano mai tirato i polmoni d’un galantuomo.
L’ANTICO SERRAGLIO
Come a Granata prima d’aver visto l’Alhambra, così a Costantinopoli pare che tutto rimanga da
vedere fin che non si è penetrati fra le mura dell’antico Serraglio. Mille volte al giorno, da tutti i
punti della città e del mare, si vede quella collina verdissima, piena di segreti e di promesse, che
attira sempre gli sguardi come una cosa nuova, che tormenta la fantasia come un enimma, che si
caccia in mezzo a tutti i pensieri, a segno che si finisce per andarci prima del giorno fissato, più per
liberarsi da un tormento che per cercarvi un piacere.
Non c’è infatti un altro angolo di terra in tutta Europa, di cui il solo nome risvegli nella mente
una più strana confusione d’immagini belle o terribili; intorno al quale si sia tanto pensato e scritto e
cercato d’indovinare; che abbia dato luogo a tante notizie vaghe e contradditorie; che sia ancora
oggetto di tante curiosità inappagabili, di tanti pregiudizii insensati, di tanti racconti meravigliosi.
Ora tutti ci penetrano e molti ne escono coll’animo freddo. Ma si può esser sicuri che, anche fra
secoli, quando forse la dominazione ottomana non sarà più che una reminiscenza in Europa, e su
quella bella collina s’incroceranno le vie popolose d’una città nuova, nessun viaggiatore vi passerà
senza riveder col pensiero gli antichi chioschi imperiali, e senza pensare con invidia a noi del secolo
diciannovesimo che abbiamo ancora ritrovato in quei luoghi le memorie vive e parlanti della grande
reggia ottomana. Chi sa quanti archeologi cercheranno pazientemente le traccie d’una porta o d’un
muro nei cortili dei nuovi edifizii e quanti poeti scriveranno dei versi sopra poche macerie sparse
sulla riva del mare! O forse anche, fra molti secoli, quelle mura saranno ancora gelosamente
custodite, e andranno a visitarle dotti, innamorati ed artisti, e la vita favolosa che vi fu vissuta per
quattrocent’anni, si ridesterà e si spanderà in una miriade di volumi e di quadri su tutta la faccia
della terra.
Non è la bellezza architettonica che attira su quelle mura la curiosità universale. Il Serraglio
non è un grande monumento artistico come l’Alhambra. Il solo cortile dei leoni della reggia araba
vale tutti i chioschi e tutte le torri della reggia turca. Il pregio del Serraglio è d’essere un grande
monumento storico, che commenta ed illumina quasi tutta la vita della dinastia ottomana; che porta
scritta sulle pietre dei suoi muri e sul tronco dei suoi alberi secolari tutta la cronaca più intima e più
secreta dell’impero. Non vi manca che quella degli ultimi trent’anni e quella dei due secoli che
precedettero la conquista di Costantinopoli. Da Maometto II che ne pose la fondamenta a Abdul-
Megid che l’abbandonò per andare ad abitare il palazzo di Dolma-Bagcé, ci vissero venticinque
Sultani. Qui la dinastia pose il piede appena conquistata la sua metropoli europea, qui salì all’apice
della sua fortuna, qui cominciò la sua decadenza. Era insieme una reggia, una fortezza e un
santuario; v’era il cervello dell’impero e il cuore dell’islamismo; era una città nella città, una rocca
augusta e magnifica, abitata da un popolo e custodita da un esercito, la quale abbracciava fra le sue
mura una varietà infinita d’edifizi, luoghi di delizie e luoghi d’orrore, città e campagna, reggie,
arsenali, scuole, uffici, moschee; dove si alternavano le feste e le stragi, le cerimonie religiose e gli
amori, le solennità diplomatiche e le follie; dove i Sultani nascevano, erano innalzati al trono,
deposti, incarcerati, strozzati; dove s’ordiva la trama di tutte le congiure ed echeggiava il grido di
tutte le ribellioni; dove affluiva l’oro e il sangue più puro dell’impero; dove girava l’elsa della spada
immensa che balenava sul capo di cento popoli; dove per quasi tre secoli tennero fisso lo sguardo
l’Europa inquieta, l’Asia diffidente e l’Affrica impaurita, come a un vulcano fumante, che
minacciasse la terra.
Questa reggia mostruosa è posta sulla collina più orientale di Stambul, che declina dolcemente
verso il mar di Marmara, verso l’imboccatura del Bosforo e verso il Corno d’oro; nello spazio
occupato anticamente dall’Acropoli di Bisanzio, da una parte della città e da un’ala dei grandi
palazzi degl’imperatori. È la più bella collina di Costantinopoli e il promontorio più favorito dalla
natura di tutta la riva europea. Vi convergono, come a un centro, due mari e due stretti; vi
mettevano capo le grandi strade militari e commerciali dell’Europa orientale; gli acquedotti
degl’imperatori bizantini vi conducevano torrenti d’acqua; le colline della Tracia lo riparano dai
venti del settentrione; il mare lo bagna da tre parti; Galata lo prospetta dal lato del porto; Scutari lo
guarda dalla parte del Bosforo; e le grandi montagne della Bitinia gli chiudono dinanzi colle loro
cime nevose gli orizzonti dell’Asia. È un colle solitario, posto all’estremità della grande metropoli,
quasi isolato, fortissimo e bellissimo, che sembra fatto dalla natura per servire di piedestallo a una
grande monarchia e per proteggere la vita deliziosa ed arcana d’un principe quasi Dio.
Tutta la collina è circondata, ai piedi, da un alto muro merlato, fiancheggiato da grosse torri.
Sulla riva del mar di Marmara e lungo il Corno d’oro, queste mura sono le mura stesse della città;
dalla parte di terra, son mura innalzate da Maometto II, le quali separano la collina del Serraglio da
quella su cui s’innalza la Moschea di Nuri-Osmaniè, svoltano ad angolo retto vicino alla Sublime
Porta, passano dinanzi a Santa Sofia, e descrivendo una grande curva in avanti, vanno a
congiungersi con quelle di Stambul sulla riva del mare. Questa è la cinta esterna del Serraglio. Il
Serraglio propriamente detto si stende sulla sommità, circondato alla sua volta da alti muri, che
formano come un ridotto centrale della gran fortezza della collina.
Ma sarebbe fatica sprecata il descrivere il Serraglio quale è ridotto al presente. La strada ferrata
passa a traverso le mura esterne; un grande incendio, nel 1865, distrusse molti edifizi; i giardini
sono in gran parte devastati; vi furono innalzati ospedali, caserme e scuole militari; degli edifizi
rimasti parecchi vennero cangiati di forma e di uso; e benchè i muri principali rimangano, in modo
da presentare ancora tutta intera la forma del Serraglio antico, le piccole alterazioni son tante e tali,
e l’abbandono in cui è lasciata ogni cosa da circa trent’anni ha mutato in maniera l’aspetto delle
parti intatte, che non si potrebbe descrivere il luogo fedelmente senza che ne rimanesse delusa
anche la più modesta aspettazione.
Val meglio per chi scrive e per chi legge il rivedere questo Serraglio famoso qual era nei bei
tempi della grandezza ottomana.
Allora, chi poteva abbracciare tutta la collina con uno sguardo, o dai merli d’una delle torri più
alte, o da un minareto della moschea di Santa Sofia, godeva una veduta meravigliosa. In mezzo
all’azzurro vivo del mare, del Bosforo e del porto, dentro al grande semicerchio bianco delle vele
della flotta, si vedeva la vasta macchia verde della collina, circondata di mura e di torri, coronate di
cannoni e di sentinelle; e in mezzo a questa macchia, ch’era una selva d’alberi enormi, fra i quali
biancheggiava un labirinto di sentieri e ridevano i colori di mille aiuole fiorite, si stendeva, sull’alto
del colle, il vastissimo rettangolo degli edifizi del serraglio, diviso in tre grandi cortili, o meglio in
tre piccole città fabbricate intorno a tre piazze ineguali, da cui s’innalzava una moltitudine confusa
di tetti variopinti, di terrazze colme di fiori, di cupole dorate, di minareti bianchi, di cime aeree di
chioschi, d’archi di porte monumentali, frammezzati di giardini e di boschetti, e mezzo nascosti
dalle fronde. Era una piccola metropoli bianca, scintillante e disordinata, leggera come un
accampamento di tende, da cui spirava non so che di voluttuoso, di pastorale e di guerriero; in una
parte piena di gente e di vita; in un’altra solitaria e muta come una necropoli; dove tutta scoperta e
dorata dal sole; dove inaccessibile ad ogni sguardo umano e immersa in un’ombra perpetua;
rallegrata da infiniti zampilli, abbellita da mille contrasti di splendori e d’oscurità e di colori
possenti e di sfumature di tinte argentee e azzurrine, riflesse dai marmi dei colonnati e dalle acque
dei laghetti, e sorvolata da nuvoli di rondini e di colombi.
Tale era l’aspetto esterno della città imperiale, non vastissima all’occhio di chi la guardava
dall’alto; ma così divisa e suddivisa e intricata dentro, che servitori, i quali ci vivevano da
cinquant’anni, non riuscivano a racappezzarvisi, e i giannizzeri che l’invadevano per la terza volta
ci si smarrivano ancora.
La porta principale era ed è sempre la Bab-Umaiùn, o porta augusta, che dà sulla piccola piazza
dove s’innalza la fontana del Sultano Ahmed, dietro alla moschea di Santa Sofia. È una grande porta
di marmo bianco e nero, decorata di ricchi arabeschi, sulla quale s’appoggia un alto edifizio, con
otto finestre, coperto da un tetto sporgente; e appartiene a quel misto di stile arabo e persiano, da cui
si riconoscono quasi tutti i monumenti innalzati dai Turchi nei primi anni dopo la conquista, prima
che cominciassero ad imitare l’architettura bizantina. Sopra l’apertura, in una cartella di marmo, si
legge ancora l’iscrizione di Maometto II: Allà conservi in eterno la gloria del suo possessore
Allà consolidi il suo edifizio – Allà fortifichi le sue fondamenta. È la porta dinanzi alla quale veniva
ogni mattina il popolo di Stambul a vedere di quali grandi dello Stato o della corte fosse caduta la
testa nella notte. Le teste erano appese a un chiodo dentro a due nicchie che si vedono ancora, quasi
intatte, a destra e a sinistra dell’entrata; oppure esposte in un bacino d’argento, accanto al quale era
affissa l’accusa e la sentenza. Sulla piazza, davanti alla porta, si buttavano i cadaveri dei condannati
al capestro; e s’arrestavano, aspettando l’ordine d’entrare nel primo recinto del Serraglio, i
distaccamenti degli eserciti lontani, venuti a portare i trofei delle vittorie; e ammucchiavano sulla
soglia augusta armi, bandiere, teschi di capitani e splendide divise insanguinate. La porta era
custodita da un grosso drappello di capigì, figli di bey e di pascià, vestiti pomposamente; i quali
assistevano dall’alto delle mura e delle finestre alla processione continua della gente che entrava ed
usciva, o tenevano indietro colle larghe scimitarre la folla muta dei curiosi, venuti per veder di
sfuggita, per uno spiraglio, un pezzo di cortile, un frammento della seconda porta, un barlume
almeno di quella reggia enorme ed arcana, argomento di tanti desiderii e di tanti terrori. Passando di
là, il musulmano devoto mormorava una preghiera per il suo Sublime Signore; il giovinetto povero
e ambizioso, sognava il giorno in cui avrebbe oltrepassato quella soglia per andar a ricevere la coda
di cavallo; la fanciulla bella e cenciosa fantasticava, con una vaga speranza, la vita splendida della
Cadina; i parenti delle vittime abbassavano il capo, fremendo; e in tutta la piazza regnava un
silenzio severo, non turbato che tre volte al giorno dalla voce sonora dei muezzin di Santa Sofia.
Dalla porta Umaium s’entrava nel così detto cortile dei Giannizzeri, che era il primo recinto del
Serraglio.
Questo gran cortile c’è ancora, circondato d’edifizi irregolari, lunghissimo, e ombreggiato da
varii gruppi d’alberi, fra cui il platano enorme detto dei Giannizzeri, del quale dieci uomini non
bastano ad abbracciare il tronco. A sinistra di chi entra, v’è la chiesa di Sant’Irene, fondata da
Costantino il Grande, e convertita dai turchi in armeria. Più in là e tutt’intorno v’era l’ospedale del
Serraglio, l’edifizio del tesoro pubblico, il magazzino degli aranci, le scuderie imperiali, le cucine,
le caserme dei capigì, la zecca, e le case degli alti ufficiali della Corte. Sotto il grande platano ci
sono ancora due colonnette di pietra, sulle quali si eseguivano le decapitazioni. Di qui passavano
tutti coloro che dovevano andare al divano o dal Padiscià. Era come uno smisurato vestibolo aperto,
sempre affollato, nel quale tutto era rimescolìo e affaccendamento. Centocinquanta fornai e
duecento tra cuochi e sguatteri lavoravano nelle grandi cucine, a preparare il vitto per la famiglia
sterminata «che mangiava il pane e il sale del Gran Signore». Dalla parte opposta s’affollavano le
guardie ed i servi, finti malati, per farsi ammettere alla vita molle dell’ospedale sontuoso, in cui
erano impiegati venti medici e un esercito di schiavi. Lunghe carovane di muli e di cammelli
entravano a portar provvigioni alle cucine, o a portar armi d’eserciti vinti nella chiesa di Sant’Irene,
dove accanto alla sciabola di Maometto II scintillava la scimitarra di Scanderberg e il bracciale di
Tamerlano. I percettori delle imposte passavano, seguiti da schiavi carichi d’oro, diretti alla
tesoreria, dove c’erano tante ricchezze, come diceva Sokolli, gran vizir di Solimano il Grande, da
costrurre delle flotte colle ancore d’argento e coi cordami di seta. Passavano a frotte, condotti dai
bei palafrenieri della Bulgaria, i novecento cavalli di Murad IV, che si pascevano a mangiatoie
d’argento massiccio. V’era dalla mattina alla sera un formicolìo luccicante d’uniformi, in mezzo al
quale spiccavano gli alti turbanti bianchi dei giannizzeri, i grandi pennacchi d’airone dei solak, i
caschi argentati dei peik, guardie del Sultano, vestite d’una tunica d’oro stretta alla vita da una
cintura ingemmata; i zuluftú-baltagì, impiegati al servizio degli ufficiali di camera, colle loro treccie
di lana pendenti dal berretto; i kassekì, col loro bastone emblematico in mano; i balta-gì
coll’accetta; i valletti del gran vizir colla frusta ornata di catenelle d’argento; i bostangì, guardie dei
giardini, coi grandi berretti purpurei; e una folla svariata di cento colori e di cento emblemi,
d’arcieri, di lancieri, di guardie del tesoro, di guardie coraggiose, di guardie temerarie, d’eunuchi
neri e d’eunuchi bianchi, di scudieri e di sciaù, uomini alti e poderosi, d’aspetto altero, improntato
della dignità signorile della Corte, che riempivano il cortile di profumi. Un orario minuzioso e
severo regolava le faccende di tutti in quell’apparente disordine. Tutti si movevano in quel cortile
come gli automi giranti sopra la tavola che rinchiude il meccanismo. Allo spuntare del giorno
comparivano i trentadue muezzin della Corte, scelti fra i cantori più dolci di Stambul, ad annunziare
l’alba dai minareti delle moschee del Serraglio, e s’incontravano cogli astrologhi e cogli astronomi
che scendevano dalle terrazze, dove avevano passato la notte studiando il firmamento dalle terrazze
per determinare le ore propizie alle occupazioni del Sultano. Poi il primo medico del Serraglio
entrava a chieder notizie della salute del Padiscià; l’ulema istitutore andava a dare all’augusto
discepolo il solito insegnamento religioso; il segretario privato a leggergli le suppliche ricevute la
sera; i professori di arti e di scienze passavano per recarsi nel terzo cortile a far le lezioni ai paggi
imperiali. Ognuno alla sua ora, tutti i personaggi impiegati al servizio dell’augusta persona
passavano di per andare a chieder gli ordini per la giornata. Il bostangi-bascì, generale delle
guardie imperiali, governatore del Serraglio e delle ville del Sultano sparse sulle rive del Bosforo e
della Propontide, veniva a informarsi se al Gran Signore piacesse di fare una gita sul mare, perchè
spettava a lui il governo del timone e ai suoi bostangì l’onore dei remi. Venivano a interrogare i
capricci del Padiscià il gran maestro delle caccie, accompagnato dal gran falconiere, insieme al capo
dei cacciatori dei falconi bianchi, al capo dei cacciatori degli avoltoi e a quello dei cacciatori degli
sparvieri. Veniva l’intendente generale della città, uno stuolo d’intendenti, delle cucine, delle
monete, dei foraggi, del tesoro, l’uno dopo l’altro, in un ordine prestabilito, ciascuno coi suoi
memoriali, colle sue parole preparate, coi suoi servi distinti da un vestimento speciale. Più tardi,
seguiti da un corteo di segretari e di famigliari, passavano i vizir della Cupola per recarsi al divano.
Passavano personaggi a cavallo, in carrozza, in bussola, e scendevano tutti alla seconda porta, la
quale non si poteva oltrepassare che a piedi. Tutta questa gente era riconoscibile, carica per carica,
dalla forma dei turbanti, dal taglio delle maniche, dalla qualità delle pelliccie, dai colori delle
fodere, dagli ornamenti delle selle, dall’avere la barba intera o i baffi soli. Nessuna confusione
seguiva in quell’affollamento continuo. Il muftì era bianco; i vizir si riconoscevano al verde chiaro,
i ciambellani allo scarlatto; l’azzurro carico distingueva i sei primi ufficiali legislativi, il capo degli
emiri e i giudici della Mecca, di Medina e di Costantinopoli; i grandi ulema avevano il color
violaceo; i muderrì e gli sceicchi indossavano l’azzurro chiaro; il cilestrino chiarissimo segnalava
gli sciaù feudatarii e gli agà dei vizir; il verde cupo era privilegio degli agà della staffa imperiale e
del portatore dello stendardo sacro; gl’impiegati delle scuderie del sultano vestivano il verde
pallido; i generali dell’esercito portavano gli stivali rossi, gli ufficiali della Porta, gialli, gli ulema,
turchini; e alla scala dei colori corrispondeva una gradazione nella profondità degl’inchini. Il
bostangì-bascì, capo della polizia del Serraglio, comandante un esercito di carcerieri e di carnefici,
che spandeva il terrore col suono del suo nome e dei suoi passi, attraversava il cortile in mezzo a
due schiere di teste chinate a terra. Passava il capo degli Eunuchi, gran maresciallo della Corte
interna ed esterna, e si curvavano i caschi, i turbanti, i pennacchi, come spinti giù da cento mani
invisibili. Il grande elemosiniere passava fra mille saluti ossequiosi. Tutti coloro che avvicinavano il
Sultano, il capo degli staffieri che gli reggeva la staffa, il primo cameriere che portava i suoi sandali,
il Silihdar agà che forbiva le sue armi, l’eunuco bianco che lambiva il pavimento colla lingua prima
di stendere il tappeto, il paggio che versava al Sultano l’acqua per le abluzioni, quello che gli
porgeva l’archibugio nelle caccie, quello che custodiva i suoi turbanti, quello che spolverava i suoi
pennacchi ingemmati, quello che aveva cura delle sue vesti di volpe nera, passavano in mezzo a
dimostrazioni speciali di curiosità e di rispetto. Un bisbiglio sommesso precedeva e seguiva il
passaggio del predicatore della Corte e del gran mastro della guardaroba, che gettava i denari al
popolo nelle feste imperiali. Passava saettato da molti sguardi invidiosi il musulmano fortunato che
ogni dieci giorni radeva il capo al Sultano dei Sultani. La folla s’apriva con una premura particolare
davanti al primo chirurgo incaricato della circoncisione dei principi, davanti al primo oculista che
preparava il collirio per le palpebre delle cadine e delle odalische, davanti al gran maestro dei fiori,
affaccendato dai capricci di cento belle, che portava sotto il caffettano il suo poetico diploma ornato
di rose dorate. Il primo cuoco riceveva i suoi saluti adulatorii. Sorrisi cerimoniosi salutavano il
guardiano dei pappagalli e degli usignuoli che potevano varcare le soglie dei chioschi più segreti.
Erano migliaia di persone, divise in una gerarchia minutissimamente graduata, governate da un
cerimoniale di cinquanta volumi, vestite in mille foggie pittoresche, che sfilavano o circolavano per
il vasto cortile, e ad ogni minuto era una folla nuova. Tratto tratto passava rapidamente un
messaggiero e tutte le teste si voltavano. Era il vizir karakulak, messaggiere tra il Sultano e il primo
ministro, che andava a fare un’imbasciata segreta al Gran Vizir; era un capigí che correva al palazzo
d’un pascià caduto in sospetto, a portargli l’ordine di presentarsi immediatamente al divano; era il
portatore di buone notizie che veniva ad annunziare al Padiscià il fortunato arrivo della grande
carovana alla Mecca. Altri messaggieri speciali tra il Sultano e i grandi ufficiali dello Stato,
ciascuno distinto con un titolo e riconoscibile a qualche particolarità del vestimento, s’aprivano il
passo, correndo, e sparivano per le due porte del cortile. Passavano sciami di caffettieri per recarsi
alle cucine della corte, frotte di cacciatori imperiali curvi dal peso dei carnieri dorati; file di facchini
carichi di stoffe, preceduti dal Gran Mercante, provveditore del Sultano; drappelli di galeotti
condotti dagli schiavi ai lavori più faticosi del Serraglio. Poi cento sguatteri, due volte al giorno,
uscivano dalle cucine e portavano all’ombra dei platani, sotto le arcate, lungo i muri, piramidi
enormi di riso e montoni interi arrostiti; una turba di guardie e di servitori accorreva, e il grande
cortile offriva lo spettacolo festoso del convito d’un esercito. Poco dopo la scena mutava, e si
vedeva venir innanzi un’ambasciata straniera in mezzo a due muri d’oro e di seta. Là, come
scriveva Solimano il grande allo Scià di Persia, «affluiva tutto l’universo.» Gli ambasciatori di Carlo
V vi si trovavano al fianco degli ambasciatori di Francesco I; gl’inviati dell’Ungheria, della Serbia e
della Polonia vi entravano accanto ai rappresentanti della repubblica di Genova e di Venezia. Il
peskesdgi-bascì, incaricato di ricevere i doni, andava incontro alle carovane straniere sul limitare di
Bab-Umaiùn, e venivano innanzi, tra mille spettatori, elefanti che portavano troni d’oro, gazzelle
gigantesche, gabbie di leoni, cavalli della Tartaria, e cavalli dei deserti, vestiti di pelli di tigri e
carichi di scudi d’orecchie d’elefante; gl’inviati della Persia coi vasi della china; i messi dei Sultani
delle Indie con scatole d’oro colme di gemme; gli ambasciatori dei re affricani con tappeti di pelo di
cammelli strappati dal ventre delle madri e pezzi di stoffa argentata che facevan piegar le schiene di
dieci schiavi; gli ambasciatori degli Stati nordici seguiti da drappelli di servi carichi di pelliccie e
d’armi preziose. Entravano, dopo le guerre fortunate, per esser mostrati al Padiscià, generali carichi
di catene e principesse prigioniere, velate, coi loro cortei disarmati e tristi, e stuoli d’eunuchi d’ogni
età e d’ogni colore, carpiti come bottino di guerra, o offerti in dono dai principi vinti. E intanto gli
ufficiali degli eserciti vincitori s’affollavano alle porte della Tesoreria a deporre i broccati e le
sciabole imperlate prese nei saccheggi delle città persiane, l’oro e le gemme tolte ai mammalucchi
d’Egitto, le coppe d’oro intopaziate del tesoro dei Cavalieri di Rodi, i torsi delle statue di Diana e
d’Apollo rapite alla Grecia e all’Ungheria, e chiavi di città e di castelli; e altri conducevano al
secondo cortile i giovanetti e le fanciulle rubate all’isola di Lesbo. Tutte le enormi provvigioni
d’ogni natura che venivano al Serraglio dai porti dell’Africa, della Caramania, della Morea, del mar
Egeo, passavano o s’arrestavano fra quelle mura, e un esercito di maggiordomi e di segretarii erano
continuamente affaccendati a registrare, a pagare, a disporre, a fissare udienze, a dare ordinazioni. I
mercanti dei bazar di schiave di Brussa e di Trebisonda si trovavano dinanzi alla seconda porta, ad
aspettare il turno d’entrata, insieme ai poeti venuti da Bagdad per recitar dei versi al Sultano. I
governatori caduti in disgrazia, venuti per comprare la propria salvezza con una coppa piena di
monete d’oro, aspettavano accanto ai messi d’un Pascià venuti ad offrire in dono al Gran Signore
una bella vergine tredicenne, trovata dopo tre mesi di ricerche sotto a una capanna dell’Anatolia; in
mezzo a spie ritornate da tutti i confini dell’Impero, vicino a famiglie stanche arrivate da provincie
lontane per chieder giustizia, tra donne e fanciulli dell’infima plebe di Stambul ammessi a
presentare le loro querele al divano. E i giorni di divano si vedevano passar di là, fra gli scherni dei
curiosi, gli ambasciatori delle provincie ribelli, a cavallo a un asino, colla barba rasa e un berretto di
donna sul capo, e i messi insolenti dei principi asiatici col naso spuntato dalle scimitarre dei sciaù;
di gli ufficiali dello Stato che uscivano, inconsapevoli, per portare a un governatore lontano uno
scialle prezioso, dono del Gran vizir, che nascondeva fra le sue pieghe la loro sentenza di morte; di
là i visi radianti degli ambiziosi che avevano ottenuto una satrapìa coll’intrigo e i visi pallidi di quei
che avevano sentito nel divano la minaccia sorda d’una disgrazia vicina; di i portatori di quegli
hattiscerif, inesorabili come il destino, che andavano, sulla groppa d’un cavallo, lontano trecento
miglia, a portar la rovina e la morte nel palazzo di un vicerè; di là i terribili muti della corte mandati
a strozzare i prigionieri illustri nei sotterranei delle Sette Torri. E con questi si incontravano gli
ulema, i bey, i mollà, gli emiri, che tornavano o si recavano alle udienze col capo basso, cogli occhi
a terra, con le mani nascoste nelle grandi maniche; i vizir, che tenevano il Corano in tasca per
leggere, a un’occorrenza, le orazioni dei morti; il gran vizir, despota spiato dal boia, che portava
sotto il caffettano il proprio testamento, per essere sempre pronto a morire. E tutti passavano
composti, a passo lento, in silenzio, o parlando a bassa voce un linguaggio circospetto e corretto,
proprio del Serraglio; e si vedeva un continuo ricambiarsi di sguardi gravi e scrutatori, e un posar
delle mani sulla fronte e sul petto, accompagnato da bisbigli interrotti, da un fruscìo discreto di
cappe e di babbuccie, da un tintinnare sommesso di scimitarre, da non so che di monacale e di triste,
che faceva contrasto colla fierezza guerriera dei volti, colla pompa dei colori, collo splendore delle
armi. In tutti gli occhi si leggeva un pensiero, su tutte le fronti si vedeva il terrore d’un uomo, che
era sopra tutti, che era scopo di tutto, davanti al quale tutto s’inchinava, strisciava, s’annichiliva, e
pareva che ogni cosa ne presentasse l’immagine e che in ogni rumore si sentisse il suo nome.
Da questo cortile s’entrava nel secondo per la grande porta Bab-el-selam, o porta della Salute,
che è ancora intatta in mezzo a due grosse torri, e non ci si passa, nemmeno ora, senza un firmano.
Anticamente due grandi battenti la chiudevano dalla parte del primo cortile e altri due dalla parte del
secondo, in modo che ci rimaneva dentro, quando tutto era chiuso, uno stanzone oscuro, dove un
uomo poteva essere spacciato segretamente. sotto c’erano le celle dei carnefici, le quali, per un
andito cieco, comunicavano colla sala del divano.andavano ad aspettare la loro sentenza gli alti
personaggi caduti in disgrazia, e vi ricevevano sovente, nello stesso punto, la sentenza e la morte.
Altre volte il governatore o il vizir disgraziato, era chiamato al Serraglio con un pretesto; veniva;
passava, senza sospetti, sotto la volta sinistra, entrava nel divano, era ricevuto con un sorriso
benevolo o con una severità mite che non minacciava che un castigo lontano, e congedato, tornava a
passare tranquillamente sotto la porta. Ma all’improvviso, senza veder nessuno, si sentiva una lama
nelle reni o un capestro alla gola, e stramazzava senz’aver tempo a resistere. Al grido del
moribondo, cento visi si voltavano per un momento dai due cortili; poi tutti ripigliavano, in silenzio,
le loro faccende. La testa era portata in una nicchia di Bab-Umaiùn, il cadavere ai corvi della
spiaggia di Santo Stefano, la notizia al Sultano, e tutto era finito. C’è ancora a destra, sotto la volta,
la porticina ferrata della prigione in cui si gettavano le vittime, quando veniva disdetto a tempo
l’ordine di morte o per prolungare la loro agonia o per cacciarle invece in esilio.
Uscendo di sotto a Bab-el-selam si entra immediatamente nel secondo cortile.
Qui si cominciava a sentir più viva l’aura sacra del Signore «dei due mari e dei due mondi,» e
chi vi penetrava per la prima volta, si fermava involontariamente, appena entrato, preso da un
sentimento di timore e di venerazione.
Era un vastissimo cortile irregolare, una smisurata sala a cielo aperto, circondata da edifizii
graziosi e da cupole argentate e dorate, sparsa di gruppi d’alberi bellissimi, e attraversata da due
viali fiancheggiati di cipressi giganteschi. Tutt’intorno girava un bel loggiato, sorretto da delicate
colonne di marmo bianco, e coperto da un tetto sporgente rivestito di piombo. A sinistra, entrando,
v’era la sala del divano, sormontata da una cupola scintillante; più in là, la sala dei grandi
ricevimenti, dinanzi alla quale sei enormi colonne di marmo di Marmara sostenevano un largo tetto
a falde, ondulate: basi, capitelli, muri, tetto, porte, archi, tutto cesellato, intarsiato, dipinto, dorato,
leggerissimo e gentile come un padiglione di merletti tempestati di gemme, e ombreggiato da un
gruppo di platani superbi. Dagli altri lati, v’erano gli archivi, le sale dove si custodivano i vestimenti
d’onore, i magazzeni delle tende, la casa del grande Eunuco nero, le cucine della Corte. Qui stava
quel grande Intendente, più affaccendato d’un Ministro della Cupola, che aveva ai suoi ordini
cinquanta sottintendenti, ai quali obbediva un esercito di cuochi e di confettieri, aiutati, nelle grandi
occasioni, da artisti fatti venire d’ogni parte dell’impero. Là si faceva il desinare per i visir i giorni
di divano; si preparavano, in occasione delle circoncisioni e delle nozze principesche, i famosi
giardini di pasta dolce, le cicogne, i falchi, le giraffe, i cammelli di zucchero, i montoni arrostiti da
cui uscivano stormi d’uccelli; che si portavano poi, in gran pompa, nella piazza dell’Ippodromo;
gl’infiniti dolciumi di mille forme e di mille colori che andavano a sciogliersi nelle innumerevoli
boccuccie golose dell’arem. Vicino alle cucine formicolavano, nelle grandi feste, gli ottocento
operai incaricati di drizzare le tende del Sultano e dell’arem nei giardini del Serraglio o sulle colline
del Bosforo; e quando non bastavan più le tende dei vastissimi magazzini, si formavano i padiglioni
colle vele della flotta, e con cipressi interi sradicati dai boschetti delle ville imperiali. La casa del
grande Eunuco, vicina, era una piccola reggia, fra la quale e il terzo cortile andava e veniva una
processione continua d’eunuchi neri, di schiave e di servi. In questo cortile passavano le Ambasciate
per andare dal Sultano. Allora tutto il loggiato era parato di panno vermiglio, i muri luccicavano, il
suolo era pulito come il pavimento d’una sala; duecento tra giannizzeri, spahì e silihdar, che
formavano la guardia del divano, vestiti e armati come principi, stavano schierati all’ombra dei
cipressi e dei platani, e drappelli d’eunuchi bianchi e d’eunuchi neri, lindi e profumati, facevano ala
alle porte. Tutto, in questo secondo cortile, annunziava la vicinanza del Gran Signore; le voci
suonavano più basse, i movimenti eran più raccolti, non vi si sentiva nè scalpitìo di cavalli nè rumor
di lavoro; i servi e i soldati passavano tacitamente; e una certa quiete di santuario regnava in tutto il
recinto, non turbata che dallo strepito improvviso degli uccelli che fuggivano dagli alberi o dall’urto
sonoro delle grandi porte di ferro chiuse dai capigì.
Di tutti gli edifizii del cortile non vidi che la sala del divano, la quale è quasi intatta, com’era
quando vi si teneva il consiglio supremo dello Stato. È una grande sala a vôlta, rischiarata dall’alto,
da finestrine moresche, e rivestita di marmi ornati di rabeschi d’oro, senz’altra suppellettile che il
divano su cui sedevano i membri del Consiglio. Sopra il posto del gran vizir c’è ancora la finestrina
chiusa da una graticola di legno dorato, dietro alla quale prima Solimano il grande e poi tutti gli altri
Padiscià assistevano, non visti, o si credeva che assistessero alle sedute: un corridoio segreto
conduceva da quello stanzino nascosto agli appartamenti imperiali del terzo cortile. In questa sala
sedeva cinque volte la settimana il gran consesso dei ministri, presieduti dal gran vizir. L’apparato
era solenne. Il gran vizir sedeva in faccia alla porta d’entrata; vicino a lui i vizir della Cupola, il
capudan-pascià, grande ammiraglio; i due grandi giudici d’Anatolia e di Rumelia, rappresentanti
della magistratura delle provincie d’Asia e d’Europa; da una parte i tesorieri dell’impero; dall’altra
il nisciandgì, che metteva il suggello del Sultano ai decreti; più in là, a destra e a sinistra, due
schiere di ulema e di ciambellani; agli angoli, sciaù, portatori d’ordini, esecutori di supplizii,
esercitati a comprendere ogni cenno e ogni sguardo. Era uno spettacolo davanti a cui i più arditi
tremavano e i più innocenti interrogavano paurosamente la propria coscienza. Tutta quella gente
stava col volto impassibile, colle braccie incrociate, colle mani nascoste. Una luce vaga,
scendendo dalla vôlta, tingeva d’un color d’oro pallido i turbanti bianchi, le faccie gravi, le lunghe
barbe immobili, le ricche pellicce, i manichi gemmati dei pugnali. A prima vista il Consiglio
presentava l’apparenza morta d’un grande gruppo di statue vestite e dipinte. Le stuoie non lasciavan
sentire il passo di chi entrava e di chi usciva, l’aria odorava dei profumi delle pelliccie, le pareti
marmoree riflettevano il verde degli alberi del cortile; il canto degli uccelli, nei momenti di silenzio,
risonava sotto la vôlta luccicante d’oro; tutto era dolce e grazioso in quel tribunale tremendo. Le
voci sonavano una alla volta, tranquille e monotone come il mormorio d’un ruscello, senza che chi
accusava o si scolpava, ritto in mezzo alla sala, s’accorgesse da che bocca uscivano. Cento grandi
occhi fissi scrutavano il volto d’un solo. Gli sguardi erano studiati, le parole pesate, i pensieri
indovinati dai più sfuggevoli movimenti del viso. Le sentenze di morte escivano a parole pacate,
dopo lunghi dialoghi sommessi, accolte con un silenzio sepolcrale; oppure scoppiavano
improvvisamente, come folgori, e avevan per eco quelle tremende parole che escono dall’anima
disperata nei momenti supremi; e allora, a un cenno, le scimitarre spezzavano le vertebre, il sangue
spicciava sui tappeti e sui marmi; agà di spahì e di giannizzeri, cadevano crivellati di pugnalate;
governatori e kaimacan stramazzavano col laccio al collo e cogli occhi fuori della fronte. Un minuto
dopo, i cadaveri erano distesi all’ombra dei platani, coperti da un panno verde; il sangue era lavato,
l’aria profumata, i carnefici al posto, e il consesso ripigliava la sua seduta coi volti impassibili, colle
mani nascoste, colle voci pacate e monotone, sotto la luce vaga delle finestrine moresche che
tingeva d’un colore d’oro pallido i grandi turbanti e le grandi barbe. Ma si scotevano alla loro volta,
quei fieri giudici, quando Murad IV o il secondo Selim, scontenti del divano, facevano scricchiolare
con un pugno furioso la graticola dorata della segreta imperiale! Dopo un lungo silenzio e un
consultarsi a vicenda cogli sguardi smarriti, ripigliavano anche allora la seduta, col volto
impassibile e colle voci solenni; ma le mani agghiacciate tremavano per lungo tempo nelle grandi
maniche, e le anime si raccomandavano a Dio.
In fondo a questo secondo cortile, che era in certo modo il cortile diplomatico del Serraglio,
s’apriva la terza grande porta, fiancheggiata da colonne di marmo e coperta da un gran tetto
sporgente, dinanzi alla quale stava di guardia notte e giorno un drappello d’eunuchi bianchi e uno
stuolo di capigì, armati di sciabole e di pugnali.
Era questa la famosa Bab-Seadet o porta della Felicità, che conduceva al terzo cortile; la porta
sacra che rimase chiusa per quasi quattro secoli ad ogni cristiano, che non si presentasse in nome
d’un re o d’un popolo; la porta misteriosa alla quale picchiò invano la curiosità supplichevole di
mille viaggiatori potenti ed illustri; la porta da cui uscirono e si sparsero per il mondo tante fole
gentili e tante leggende di dolori, tanti fantasmi di bellezza e di piacere, tante rivelazioni vaghe di
segreti d’amore e di sangue e un’aura infinita di poesia voluttuosa e terribile; la porta solenne del
Santuario del re dei re, che il popolo nominava con un senso segreto di sgomento, come la porta
d’un recinto fatato, entrando nel quale una creatura profana dovesse rimaner petrificata o veder cose
che il linguaggio umano non avrebbe potuto descrivere; la porta dinanzi a cui, anche ora, il
viaggiatore più freddo d’immaginazione e di sentimento si arresta con una certa titubanza e guarda
con stupore l’ombra del suo cappello cilindrico che si allunga sui battenti socchiusi.
Eppure anche là, davanti a quella porta solenne, arrivò il flutto muggente delle ribellioni
soldatesche. Si può anzi dire che quell’angolo del grande cortile, che è compreso fra la sala del
divano e la porta Seadet, è il punto del Serraglio dove il furore dei ribelli commise gli atti più
temerarii e più sanguinosi. Il Gran Signore governava colla spada e la spada gli dettava la legge. Il
despotismo che difendeva gli accessi del Grande Serraglio era lo stesso che ne violava i penetrali.
Allora si vedeva su che fragile piedestallo si reggesse il colosso minaccioso, quando gli si ritiravano
d’intorno i puntelli delle scimitarre! Orde armate di giannizzeri e di spahì, nel cuore della notte,
colle fiaccole nel pugno, rovesciavano a colpi di scure le porte del primo e del secondo cortile, e
irrompevano agitando sulla punta delle lame le suppliche che chiedevano le teste dei vizir, e le
loro grida di morte risonavano di dai muri inviolabili, nel recinto sacro dei loro Sovrani, dove
tutto era confusione e spavento. Invano dall’alto dei muri si gettavano sacchi di monete d’oro e
d’argento; invano il muftì, gli sceicchi, gli ulema, i grandi della Corte, smarriti, ragionavano,
pregavano, tentavano dolcemente d’abbassare le braccia convulse dall’ira; invano le Sultane-validè,
smorte, mostravano dalle finestre ingraticolate i piccoli figliuoli innocenti. Il mostro dalle mille
teste, scatenato e cieco, voleva la sua preda, le vittime vive, le carni da lacerare, il sangue da
spargere, i teschi da piantare sulle picche. I Sultani s’affacciavano fra i merli, s’arrischiavano fin
sulle barricate della porta, in mezzo agli eunuchi e ai paggi tremanti, armati di pugnali inutili;
disputavano le teste a una a una, promettevano, piangevano, chiedevano grazia in nome della
propria madre, dei propri figli, del Profeta, della gloria dell’impero, della pace del mondo. Uno
scoppio di minaccie e d’insulti e un agitare vertiginoso di fiaccole e di scimitarre rispondeva alle
loro grida impotenti. E allora dalla porta della Felicità uscivan fuori a uno a uno, brancolando, e
cadevano in mezzo alle belve assetate di sangue, i tesorieri, i vizir, gli eunuchi, le favorite, i
generali, e l’un dopo l’altro cadevano lacerati da cento lame e sformati da cento piedi. Così Murad
III gettava Mehemed, il suo falconiere favorito, che era messo in brani sotto i suoi occhi; così
Maometto III gettava il Kislaragà Otmano e il capo degli eunuchi bianchi Ghaznéfer, ed era
costretto a salutare la soldatesca dinanzi ai due cadaveri insanguinati; così Murad IV gettava,
singhiozzando, il gran vizir Hafiz, a cui diciassette pugnali squarciavano il petto e le reni; così
Selim III gettava tutte le teste del suo divano; e mentre i Padiscià rientravano nelle loro stanze,
imprecando, straziati dal dolore e dalla vergogna, le mille fiaccole dei ribelli correvano per le vie di
Stambul, rischiarando gli avanzi dei cadaveri, trascinati in trionfo in mezzo alla folla briaca.
La porta della Felicità formava, come la Bab-el-Selam, un lungo andito, dal quale si riusciva
direttamente nel recinto arcano che racchiudeva il «fratello del sole.»
Qui, per dare un’immagine viva del luogo, bisognerebbe che la mia parola fosse accompagnata
da una musica sommessa, piena di sorprese e di capricci. Era una piccola città fatata, un disordine
bizzarro d’architetture misteriose e gentili, nascoste in un bosco di cipressi e di platani smisurati,
che stendevano i loro rami sui tetti, e coprivano d’ombra un labirinto intricatissimo di giardini pieni
di rose e di verbene, di cortiletti circondati di portici, di stradicciuole fiancheggiate da chioschi e da
padiglioncini chinesi, di praticelli, di laghetti coronati di mirti, che riflettevano piccole moschee
bianchissime e cupolette argentate d’edifizi della forma di tempietti e di chiostri, congiunti da
gallerie coperte, sostenute da file di colonne leggere; e tetti di legno intarsiato e dipinto che
sporgevano sopra porticine coperte di rabeschi e sopra scalette esterne che conducevano a terrazze
munite di balaustri graziosi; e per tutto prospetti oscuri, in cui biancheggiavano fontane di marmo e
apparivano tra le fronde archetti e colonnine d’altri chioschi; e da tutti i punti, fra il verde dei pini e
dei sicomori, vedute lontane ed immense del mar di Marmara, delle due rive del Bosforo, del porto
e di Stambul; e sopra questo paradiso, quel cielo. Era una piccola città sepolta in un mucchio
enorme di verzura, costrutta a poco a poco, senza un disegno prefisso, secondo i bisogni o i capricci
del momento, pomposa e fragile come un apparato teatrale, tutta nascondigli e bizzarrie gelose e
puerili; che vedeva tutto ed era invisibile, che formicolava di gente e pareva solitaria, come se vi
regnasse ancora lo spirito pastorale e meditativo degli antichi principi ottomani; un accampamento
di pietra, che ricordava ancora, tra il fasto, quello di tela delle tribù erranti della Tartaria; una gran
reggia sparpagliata, composta di cento piccole reggie nascoste l’una all’altra, da cui spiravano
insieme la mestizia della prigione, l’austerità del tempio e la gaiezza della campagna; uno spettacolo
pieno d’ostentazione principesca e d’ingenuità barbarica, dinanzi al quale il nuovo venuto si
domandava in che secolo vivesse e in che mondo fosse cascato.
Questo era il cuore del Serraglio a cui mettevano tutte le vene della monarchia e da cui
partivano tutte le arterie dell’impero.
Il primo edifizio che s’incontrava entrando, era quello della sala del Trono, che c’è ancora, e
che potei visitare. È un piccolo edifizio quadrato, intorno al quale gira un bel porticato di marmo, e
ci s’entra per una ricca porta, fiancheggiata da due belle fontane. La sala è coperta da una volta
decorata d’arabeschi dorati, le pareti son rivestite di marmi e di lastrine di porcellana combinate a
figure simmetriche, nel mezzo c’è una fontana di marmo, la luce scende da alte finestre chiuse da
vetri coloriti, e in fondo c’è il trono della forma d’un grande letto, coperto da un baldacchino
frangiato di perle, che s’appoggia su quattro alte e sottili colonne di rame dorato, ornate d’arabeschi
e di pietre preziose, e sormontate da quattro palle d’oro, con quattro mezzalune, da cui spenzolano
delle code di cavallo, emblema della potenza militare dei Padiscià. Qui il Gran Signore faceva i
ricevimenti solenni, in presenza di tutta la Corte; qui venivano buttati ai suoi piedi i fratelli e i nipoti
uccisi per rassicurare il suo regno dalle congiure e dai tradimenti. Pensai, appena entrato, ai
diciannove fratelli di Maometto III. Essi avevano ricevuto la sentenza di morte, in fondo alle loro
prigioni, dai colpi di cannone che annunziavano all’Asia e all’Europa la morte del loro padre. I muti
del Serraglio ammucchiarono i loro cadaveri davanti al trono. Ce n’eran di tutte le età, dall’infanzia
all’età matura, l’uno sull’altro, cogli occhi fuori dell’orbite, coll’impronta delle mani omicide sul
viso e nel collo; le piccole teste bionde dei bambini appoggiate sul petto robusto degli adolescenti,
le teste grigie schiacciate contro il pavimento dai piedi dei fratelli decenni; caffettani rozzi di
prigionieri e pannolini levati dalle culle, contaminati insieme dal capestro, e confusi fra le membra
irrigidite e i volti deformi. Ne videro dei zampilli di sangue quei bei rabeschi d’oro e quelle
porcellane luccicanti, qui dove scoppiarono le collere formidabili di Selim II, di Murad IV, di
Ahmed I, d’Ibraim, spettatori esultanti delle agonie disperate! Qui ne stramazzavano dei vizir, sotto
i piedi dei sciaù, spezzandosi il cranio contro il marmo della fontana! Qui ne rotolarono delle teste
di governatori portate dalla Siria e dall’Egitto, appese alla sella d’un agà! Chi entrava colla
coscienza malsicura, si voltava sulla soglia a dare un addio al bel cielo e alle belle colline dell’Asia,
e chi n’usciva salvo risalutava il sole col sentimento d’un infermo che ritorna alla vita.
Questo padiglione del trono non è il solo che si possa visitare. Uscendo di là, si passa per varii
giardini e cortiletti circondati da piccoli edifizii ad archi moreschi, sostenuti da colonnine di marmo.
i paggi stavano riuniti in un collegio, in cui erano istrutti per occupare poi le alte cariche
dell’impero e della corte, e avevano abitazioni sontuose e sale di ricreazione e servi e maestri scelti
fra gli uomini più dotti dello Stato. In mezzo a quegli edifizii s’alzava una fila di graziosi chioschi
seracineschi, coi peristilii aperti, nei quali c’era la biblioteca, e ne rimane uno, ammirabile
principalmente per la sua grande porta di bronzo, ornata di rilievi di diaspro e di lapislazzuli, e
coperta d’una cesellatura prodigiosa d’arabeschi, di stelle, di fogliami, di figure d’ogni forma,
delicatissime e intricatissime, che non sembrano opera umana. Poco lontano dalla biblioteca
s’alzava il padiglione del Tesoro imperiale, tutto luccicante di porcellana, dove eran chiuse
ricchezze immense, composte in gran parte d’armi conquistate o donate ai Sultani o lasciate per
testamento dai Sultani stessi, come ricordi. Il solo Mahmud II, ch’era calligrafo valente, e se ne
teneva, ci lasciò il suo calamaio d’oro, tempestato di diamanti. Ora una buona parte di questi tesori
passò, cangiata in oro, nelle casse dell’erario. Ma ai bei tempi della monarchia il padiglione era tutto
sfolgorante di scimitarre damascate, di cui l’elsa pareva un nodo solo di perle e di gemme; di pistole
enormi, con fino a duecento diamanti sull’impugnatura; di pugnali che valevano la rendita d’un
anno d’una provincia asiatica; di mazze d’argento massiccio o d’acciaio colla testa formata da un
solo pezzo di cristallo faccettato e dorato, frammiste ai pennacchi ingioiellati dei Murad e dei
Maometti, alle tazze d’agata in cui avevano spumato i vini di Ungheria nei banchetti imperiali, alle
coppe incavate in una sola turchina, ch’eran passate per le reggie dei re persiani e di Timur, alle
collane ornate di diamanti grossi come noci di Caramania, alle cinture imperlate, alle selle coperte
d’oro, ai tappeti scintillanti di gemme, per cui la sala pareva tutta ardente, e offuscava insieme la
ragione e la vista.
Poco lontano dal padiglione del Tesoro v’è ancora, in mezzo a un giardino solitario, quella
famosa gabbia degli uccelli, in cui, da Maometto IV in poi, si chiudevano i principi del sangue, che
facevano ombra al Padiscià; e là rimanevano, sepolti vivi, ad aspettare che le grida dei giannizzeri li
chiamassero al trono o che venisse il carnefice a strozzarli. È un edifizio della forma d’un tempietto,
di grosse mura, senza finestre, rischiarato dall’alto e chiuso da una piccola porta di ferro, contro la
quale si metteva un grosso macigno. Là fu chiuso Abdul-Aziz durante i pochi giorni che trascorsero
fra la sua caduta dal trono e la sua morte. fece la sua orribile e miseranda fine il Caligola degli
Ottomani, Ibrahim, e la sua immagine è la prima che si rizza sulla soglia di quella necropoli di vivi
in faccia al visitatore straniero. Gli agà militari l’avevano tirato giù dal trono e strascinato, come un
miserabile, alla prigione. Qui era stato chiuso con due delle sue odalische predilette. Dopo le prime
furie della disperazione, s’era rassegnato. Questo diceva era scritto sulla mia fronte; era
l’ordine di Dio. – Di tutto il suo impero e dell’immenso arem in cui aveva folleggiato per nove anni,
non gli rimaneva più che una carcere, due schiave e il Corano; ma si credeva sicuro della vita, e
viveva tranquillamente, consolato ancora da un raggio di speranza; che i suoi partigiani delle
taverne e delle caserme di Stambul riuscissero a mutare le sue sorti. Ma egli aveva dimenticato la
sentenza del Corano: se ci sono due Califfi, uccidetene uno, e il muftì, interrogato dagli agà e dai
vizir, se n’era ricordato. Il suo ultimo giorno egli stava seduto sopra una stuoia in un angolo della
sua tomba e leggeva il Corano alle due schiave, ritte dinanzi a lui, colle braccia incrociate sul petto.
Era vestito d’un caffettano nero, stretto intorno alla vita da uno scialle in brandelli; e aveva in capo
un berretto di lana rossa. Un raggio di luce pallida, scendendo dalla vôlta, rischiarava il suo viso
smunto e cereo, ma tranquillo. A un tratto udì un rumore cupo e balzò in piedi; la porta era aperta e
un gruppo di figure sinistre occupava la soglia. Capì, al gli occhi a una tribuna ingraticolata che
sporgeva dall’alto d’una parete, e vide traverso ai fori i volti impassibili del muftì, degli agà e dei
vizir, su cui era scritta la sua sentenza. Il terrore lo invase, e un’onda di parole supplichevoli gli uscì
dalla bocca: Pietà di me! Pietà del Padiscià! Fatemi grazia della vita! Se c’è qualcuno fra voi che
abbia mangiato del mio pane, mi soccorra, in nome di Dio! Tu, muftì Abdul-rahim, bada a quello
che stai per fare! Vedi se gli uomini son ciechi insensati! Ora te lo dico: Iusuf-pascià m’aveva
consigliato a farti morire come traditore, e io non volli, e tu ora vuoi la mia morte! Leggi il Corano
come me, leggi la parola di Dio, che condanna l’ingratitudine e l’ingiustizia. Lasciami la vita,
Abdul-rahim, la vita! la vita! Il carnefice, tremante, alzò gli occhi verso la tribuna; ma una voce
secca, uscita di mezzo a quei visi immobili come simulacri, rispose: Kara-alì, eseguisci. Il
carnefice gettò le mani sulle spalle di Ibrahim. Ibrahim gettò un urlo e si rifugiò in un angolo, dietro
le due schiave. Allora Kara-alì e gli sciaù accorsero, gettarono a terra le donne, e si precipitarono sul
Padiscià; s’intese uno scoppio di maledizioni e di bestemmie, il rumore d’un corpo stramazzato, un
grido altissimo che morì in un rantolo sordo, e poi un silenzio profondo. Un piccolo cordoncino di
seta aveva slanciato nell’eternità il diciannovesimo Padiscià della dinastia degli Osmani.
Altri edifizi, oltre ai descritti e a quelli dell’arem, erano sparsi qua e in mezzo ai giardini e ai
boschetti. V’erano i bagni di Selim II, che comprendevano trentadue vastissime sale, tutte marmo,
oro e pittura; v’erano dei chioschi ottagoni e rotondi, sormontati da cupole e da tetti d’ogni forma,
che coprivano salotti rivestiti di madreperla e decorati d’iscrizioni arabe, dove a tutte le finestre
spenzolavano gabbie dorate di usignoli e di pappagalli, e i vetri colorati spandevano una dolcissima
luce azzurrina o rosea; chioschi in cui i Padiscià andavano a sentir leggere le Mille e una notte dai
vecchi dervis; altri in cui eran date solennemente le prime lezioni di lettura ai principini; piccoli
chioschi per le meditazioni, padiglioncini per convegni notturni, nidi e prigioni gentili, innalzati e
rovesciati da un ghiribizzo, che godevano la vista di Scutari imporporata dal tramonto e dell’Olimpo
inargentato dalla luna, e la carezza perpetua dei venticelli del Bosforo, pieni di fragranze, che
facevano tremolare le mezzalune d’oro sulla punta delle loro guglie sottili. E infine, nella parte più
segreta dell’arem, il tempietto delle reliquie, o camera della nobile veste, imitata dalla sala aurea
degl’Imperatori bizantini, e chiusa da una porta argentata; nella quale si conservava il mantello del
Profeta, scoperto solennemente, una volta all’anno, in presenza di tutta la Corte, il suo bastone,
l’arco chiuso in una guaina d’argento, le reliquie della Kaaba, e il venerato e tremendo stendardo
delle guerre sante, ravvolto in quaranta coperte di seta, dal quale sarebbe rimasto acciecato, come da
un colpo di fulmine, l’infedele che v’avesse fissato lo sguardo. Tutto quello che aveva di più sacro
la razza, di più prezioso l’impero, di più diletto e di più arcano la dinastia, era raccolto là, in quel
recinto ombroso e discreto, in quella piccola città occulta, verso la quale pareva che convergesse da
tutte le parti la metropoli immensa, come una folla innumerevole che volesse prostrarsi e adorare.
In un angolo di questo terzo recinto, a sinistra di chi entrava, all’ombra di alberi più folti, fra un
mormorio più sonante di fontane e un bisbiglio più fitto d’uccelli, s’innalzava l’arem, che era come
un quartiere separato della cittadina imperiale, e si componeva di molti piccoli edifizii bianchi
coperti da cupolette di piombo, ombreggiati da aranci e da pini a ombrello, separati da giardinetti
cinti di muri rivestiti di caprifoglio e d’edera, in mezzo ai quali serpeggiavano sentieri sparsi di
minutissime conchiglie combinate a musaico, che si perdevano fra i roseti, gli ebani e i mirti; tutto
piccino, chiuso, diviso, suddiviso; i balconi coperti, le finestrine ingraticolate, i loggiati nascosti da
tendine color di rosa, i vetri coloriti, le porte ferrate, le stradicciuole senza uscita; e in ogni parte una
luce crepuscolare dolcissima, una freschezza di foresta, un’aria di mistero e di pace, che faceva
sognare. Qui viveva, amava, languiva, serviva, rinnovandosi continuamente, tutta la grande famiglia
muliebre del Serraglio. Era un vasto monastero, che aveva per religione il piacere e per Dio il
Sultano. C’erano gli appartamenti imperiali. Ci stavano le quattro cadine, amanti titolate del Gran
Signore, ciascuna delle quali aveva il suo chiosco, la sua piccola corte, i suoi grandi ufficiali, le sue
barchette rivestite di raso, le sue carrozze dorate, i suoi eunuchi, le sue schiave e il suo denaro delle
pantofole, ch’era la rendita d’una provincia. Ci abitava la Sultana Madre, col suo corteo
innumerevole d’ustà, divise in compagnie di venti o trenta, ciascuna impiegata a un servizio
speciale. C’era tutta la famiglia del Padiscià, zie, sorelle, figliuole, nipoti, che formavano una corte
nella corte, coi principi bambini e adolescenti. C’erano le ghediclù, di cui le dodici più belle
servivano, ciascuna con un titolo e un ufficio speciale, la persona del Sultano; cento sciaghird, o
novizie, che facevano il tirocinio per occupare i posti vacanti delle ustà; un formicaio di schiave
d’ogni paese, d’ogni colore, d’ogni divisa, scelte fra mille e mille, che empivano quell’enorme
gineceo, scompartito come un alveare in cellette innumerevoli, d’un fremito di gioventù poderosa,
d’un profumo caldo di voluttà affricana ed asiatica, che montava al capo del Nume, e si rispandeva
poi, trasfuso nelle sue passioni formidabili, su tutta la faccia dell’impero.
Quante memorie fra gli alberi di quei giardini e le pareti di quei piccoli chiostri bianchi! Quante
belle figliuole del Caucaso e dell’Arcipelago, delle montagne dell’Albania e dell’Etiopia, del
deserto e del mare, musulmane, nazarene, idolatre, conquistate dai pascià, comprate dai mercanti,
regalate dai principi, rubate dai corsari, passarono, come ombre, sotto quelle cupolette argentine!
Son questi i muri e le volte che videro folleggiare, col capo incoronato di fiori e la barba scintillante
di gemme, il primo Ibraim, il quale faceva rincarare le schiave in tutti i mercati dell’Asia, e
decuplare il prezzo dei profumi dell’Arabia; che assistettero alle furie della sensualità morbosa del
terzo Murad, padre di cento figli; che videro Murad IV, decrepito a trentun’anno, irrompere
barcollando agli amplessi infami; che furono testimoni delle orgie e dei delirii del secondo Selim.
Per questi sentieri passavano, la notte, ebbri di vino e di lussuria, quei dissoluti feroci, a cui la
madre, i vizir, i pascià, offerendo schiave su schiave, non facevano che infocare i desiderii; e
correvano di chiosco in chiosco, cercando la voluttà e non trovando che lo spasimo, fin che la
fantasia stravolta li trascinava, rabbiosi, fuor della reggia, a cercare i resti delle bellezze famose fra
le mura malinconiche dell’Eschi-Seraï. Qui si celebravano quelle strane feste notturne, in cui sulle
cupole, sui tetti e sugli alberi erano disegnate a tratti di fuoco le navi della flotta, e migliaia di vasi
di fiori, illuminati da migliaia di fiammelle, riflesse da innumerevoli specchi, presentavano
l’immagine d’un vasto giardino ardente, dove centinaia di belle s’affollavano intorno a bazar pieni
di tesori, e gli eunuchi sollevavano fra le braccia, spasimando, le schiave seminude, abbandonate al
vortice dei balli sfrenati, in mezzo al fumo di mille profumiere, che il vento del Mar Nero spandeva
per tutto il serraglio insieme al frastuono d’una musica barbaresca e guerriera.
Risuscitiamo quella vita, in una bella giornata d’aprile, sotto il regno del grande Solimano o del
terzo Ahmed. Il cielo è sereno, l’aria piena di fragranze primaverili, i giardini tutti in fiore. Per il
labirinto dei sentieri ancora umidi della rugiada, girano, oziando, eunuchi neri vestiti di tuniche
dorate, e passano schiave, vestite di stoffe rigate di colori vivissimi, che portano e riportano vassoi e
panierini coperti di veli verdi fra i chioschi e le cucine. Le ustà della Validé s’incontrano sotto i
piccoli portici moreschi colle gheduclù del Sultano, che passano alteramente, seguite da schiave
novizie, cariche della biancheria imperiale. Tutti gli sguardi si voltano da una parte: è uscita per una
porticina e sparita su per una scaletta la più giovane delle dodici gheduclù privilegiate, la coppiera,
una fanciulla siriana benedetta da Allà, che piacque al Gran Signore, il quale le ha già accordato il
titolo di figlia della felicità, e le darà la pelliccia di zibellino, appena essa dia segno d’esser madre.
Lontano, all’ombra dei platani, giocano i buffoni del Sultano, vestiti di panni arlecchineschi, e nani
deformi col capo coperto da turbanti spropositati. Più in là, dietro una siepe, un eunuco gigantesco,
con un cenno impercettibile delle dita e del capo, ordina a cinque muti, esecutori di supplizi, di
recarsi da Kislar-agà, che li cerca per un affare segreto. Dei giovinetti, d’una bellezza ambigua,
abbigliati con una ricercatezza femminea, s’inseguono, correndo, fra le siepi d’un giardino
ombreggiato da un enorme platano. In un’altra parte, un drappello di schiave s’arresta
improvvisamente e si divide in due ali, inchinandosi per lasciar passare la Kiaya, grande
governatrice dell’arem, la quale restituisce il saluto con un cenno del suo bastoncino ornato di
lamine d’argento, che porta a un’estremità il suggello imperiale. Nello stesso punto, la porta d’un
chiosco vicino s’apre, e n’esce una cadina, in abito celeste, ravvolta in un fitto velo bianco, seguita
dalle sue schiave, la quale va, col permesso della Governatrice, ottenuto il giorno prima, a giocare al
palloncino volante con un’altra cadina, e svoltando in un vialetto ombroso, incontra e saluta
mollemente una sorella del Sultano, che si reca al bagno colle sue bimbe e colle sue ancelle. In
fondo al piccolo viale, davanti al chiosco di un’altra cadina, sotto una graziosa tettoia sorretta da
quattro colonnine alte e snelle come fusti di palma, un eunuco aspetta un cenno per far entrare una
ebrea, mercantessa di gioielli, che dopo molto intrigare ha ottenuto il diritto d’entrata nell’arem
imperiale, dove, coi gioielli, porterà imbasciate segrete di pascià ambiziosi e d’amanti temerarii.
All’estremità opposta dell’arem, la hanum incaricata di visitare le nuove schiave, va in cerca della
Governatrice, per riferirle che la giovane abissina presentata il giorno avanti, le è parsa degna
d’esser ricevuta fra le gheduclù, se non si bada a una piccola escrescenza che ha sulla spalla sinistra.
Intanto, in un praticello circondato di mortelle, sotto un alto pergolato, si raccolgono le venti nutrici
dei principini nati nell’anno, e un gruppo di schiave suonano il flauto e la chitarra in mezzo a un
cerchio saltellante di bambine vestite di velluto cilestrino e di raso vermiglio, a cui la Sultana Validé
getta dei dolci dall’alto d’una terrazza. Passano le maestre che vanno a dar lezioni di danza, di
musica e di ricamo alle sciaghird; eunuchi che portano grandi piatti pieni di dolci della forma di
leoncini e di pappagalli; schiave che reggono fra le braccia grossi vasi di fiori e pesanti tappeti: doni
d’una sultana a una cadina, d’una cadina alla Validè, della Validè alle nipoti. La tesoriera dell’arem,
accompagnata da tre schiave, arriva con una notizia sul volto: i bastimenti imperiali mandati
incontro alle galere veneziane e genovesi, le hanno incrociate a venti miglia dal porto di Sira, e
hanno accaparrato tutte le sete e tutti i velluti del carico per l’arem del Padiscià. Arriva di corsa un
eunuco ad annunciare a una Sultana trepidante che la circoncisione del bimbo è riuscita a
meraviglia, e poco dopo due altri eunuchi sopraggiungono, di cui l’uno porta in un piatto d’argento,
alla madre, la parte tagliata dal chirurgo, l’altro, in un piatto d’oro, alla Validè, il coltello
insanguinato. È un continuo aprire e chiudere di porte e sollevare e ricascar di cortine, per lasciar
passare notizie, imbasciate, regaletti, pettegolezzi. Chi potesse dall’alto penetrar collo sguardo a
traverso ai tetti e alle cupole, vedrebbe in una sala una Sultana alla finestra, che guarda
melanconicamente, fra le tendine di raso, le montagne azzurre dell’Asia, pensando forse al suo
sposo, un bel pascià, governatore d’una provincia lontana, stato strappato alle sue braccia, secondo
il costume, dopo sei mesi d’amore, perchè non avessero figli; in un’altra saletta, rivestita di marmi e
di specchi, una cadina di quindici anni, che aspetta nella giornata una visita del Padiscià, scherza
fanciullescamente in mezzo a un gruppo di schiave che la profumano e l’infiorano, magnificando le
sue bellezze più segrete con atti servili di meraviglia e di gioia; sultane giovinette che si rincorrono
pei giardinetti chiusi, intorno ai bacini luccicanti di pesci dorati, facendo scricchiolare le conchiglie
dei sentieri sotto le loro babbuccie di raso bianco; altre, pallide, sedute in fondo a stanzine oscure, in
atto di meditare vendette; salotti tappezzati di broccato, dove bimbi condannati a morte nascendo, si
ravvoltolano sui cuscini di raso rigati d’oro e sotto le tavole di madreperla; belle principesse nude
nei bagni di marmo di Paros; gheduclù addormentate sui tappeti; crocchi e viavai di schiave e
d’eunuchi per le gallerie coperte, giù per le scalette nascoste, nei vestiboli, per i corridoi semioscuri;
e da per tutto volti curiosi dietro le grate, saluti muti ricambiati fra le terrazze e i giardini, cenni
furtivi dietro le tende, dialoghetti a monosillabi, fra spiraglio e spiraglio, rotti di tratto in tratto da
risate sonore e compresse, seguite da rapide fughe di gonnelle che svaniscono lungo i muri
claustrali.
Ma non s’incrociavano soltanto intrighi amorosi e pettegolezzi puerili in quel labirinto di
giardini e di tempietti. La politica c’entrava per le commessure di tutte le porte e per i fori di tutte le
grate, e la potenza dei begli occhi sugli affari dello Stato non era minore che nelle reggie
d’occidente; chè anzi la vita reclusa e monotona cresceva intensità alle gelosie e alle ambizioni.
Quelle testoline ingemmate agitavano, da quelle piccole prigioni odorose, la corte, i divani, il
serraglio intero. Per mezzo degli eunuchi comunicavano col muftì, coi vizir e cogli agà dei
giannizzeri. Dagli amministratori dei loro beni, coi quali potevano conferire, a traverso a una tenda
o a una grata, sui propri interessi, erano tenute in corrente di tutti i più piccoli avvenimenti della
reggia e della metropoli; sapevano i pericoli da cui erano minacciate, imparavano a conoscere gli
uomini di Stato di cui avevano a temere o da cui potevano sperare, e ordivano pazientemente le
congiure misteriose che precipitavano i nemici e sollevavano i protetti. Tutti i partiti della Corte e
dell’Impero avevano là dentro una radice, cento radici, ramificate nei cuori delle validè, delle sorelle
del Sultano, delle cadine, delle odalische. Erano quistioni e armeggi infiniti per l’educazione dei
figli, per il matrimonio delle figliuole, per le dotazioni, per le precedenze nelle feste, per la
successione dei principini al trono, per le paci e per le guerre. I capricci delle belle mandavano
eserciti di trentamila giannizzeri e di quarantamila spahì a coprir di cadaveri le rive del Danubio, e
flotte di cento navi a insanguinare il Mar Nero e l’Arcipelago. A loro ricorrevano, con lettere
segrete, i principi d’Europa per assicurare il buon esito dei negoziati. Dalle loro manine bianche
uscivano i decreti che davano i governi delle provincie e gli alti gradi dell’esercito. Sono le carezze
di Rosellana che fecero stringere il laccio al collo ai gran vizir Ahmed e Ibrahim. Sono i baci di
Saffié, la bella veneziana, perla e conchiglia del califfato, che mantennero per tanti anni le relazioni
amichevoli della Porta e della repubblica di Venezia. Sono le sette cadine di Murad III che
governarono l’impero per gli ultimi vent’anni del secolo sedicesimo. È la bella Makpeiker, forma di
luna, la cadina dai duemila settecento scialli, che regnò sui due mari e sui due mondi da Ahmed I
sino al quarto Maometto. Fu Rebia Gulnuz, l’odalisca dalle cento carrozze d’argento, che resse i
divani imperiali nei primi dieci anni della seconda metà del secolo decimosettimo. È Scekerbulì, il
pezzettino di zucchero, che faceva viaggiare pei suoi fini, come un automa, fra Stambul e
Adrianopoli, il sanguinario Ibrahim.
Che confusione di maneggi, che reticolazione intricata di spionaggi terribili e di ciancie puerili
ci doveva essere in quella piccola città amorosa e onnipotente! Passando per quei viali, mi pareva di
sentire da ogni parte un bisbiglio accelerato di voci femminili, che svolgessero, interrogando e
rispondendo, tutta la cronaca intima del serraglio. E doveva essere una cronaca stranamente svariata
e intrecciata. Si trattava di sapere quale cadina il Sultano avrebbe condotto nell’estate al suo chiosco
delle Acque dolci; che dote sarebbe stata fatta alla terza figliola del Padiscià, che doveva sposare il
grande ammiraglio; se era vero che l’erba data alla governatrice Raazgié dal mago Sciugaa avesse
fatto concepire la terza cadina infeconda da cinque anni; se era un fatto sicuro che la favorita
Giamfeda avesse ottenuto per il governatore d’Anatolia il governo della provincia di Caramania. Di
chiosco in chiosco circolava la notizia che, sgravandosi felicemente la prima cadina, il nuovo gran
vizir, per superare il suo predecessore, le avrebbe regalato una culla d’argento massiccio, tutta
tempestata di smeraldi; che la prescelta dal Sultano sarebbe stata la schiava regalata dalla kiaya-
harem e non quella regalata dal Pasc d’Adrianopoli; che morendo il grande eunuco bianco ch’era
agli estremi, il giovane paggio Mehemet avrebbe comprato col sacrifizio della sua virilità la carica
ambita da tanto tempo. Si diceva sotto voce che non si sarebbe più fatto il gran canale dell’Asia
Minore proposto dal gran vizir Sinau, per non allontanare gli operai occupati ad innalzare il nuovo
chiosco per la Sultana Baffo; e che la cadina Saharai, trentacinquenne, piangeva da due giorni e da
due notti per timore d’essere relegata al vecchio Serraglio; e che il buffone Ahmed aveva fatto
ridere così di cuore il Sultano, che questi l’aveva nominato sul momento agà dei Giannizzeri. E poi
scoppiettavano mille chiacchiere sulle prossime feste per il matrimonio d’Otman-pascià colla
Sultana Ummetullà, nelle quali un drago di bronzo avrebbe vomitato fuoco nell’At-meidan; sul
nuovo vestito della Sultana Validè, tutto di zibellino, di cui ogni bottone era una pietra preziosa del
valore di cento scudi d’oro; sul nuovo appannaggio dato alla cadina Kamarigé, luna di bellezza,
della rendita della Valachia, e sulla piccola rosa color di sangue scoperta nel collo alla
sciamascirusta, custode della biancheria del Sultano, e sui bei capelli biondi inanellati
dell’ambasciatore della repubblica di Genova, e sulla meravigliosa lettera scritta di proprio pugno
dalla prima moglie dello Scià di Persia in risposta alla sultana Currem, l’allegra. Tutte le voci
venute dalla città, tutti gl’incidenti clamorosi delle discussioni del divano, tutti i rumori uditi la
notte nel serraglio, erano commentati e passati alla trafila di mille congetture in tutti quei giardinetti,
da cento gruppi di testoline circospette e curiose.pure passavano di mano in mano e di bocca in
bocca i madrigali anonimi dei Padiscià, i versi tristi e liberi di Abdul-Baki l’immortale, e le poesie
smaglianti d’Abu-Sud, di cui «ogni parola era un diamante», e i canti ebbri d’oppio e di vino di
Fuzuli, e le lascivie canore di Gazali. E tutto cangiava col cangiare dell’indole e della vita dei
Padiscià. Ora passava a traverso quel piccolo mondo come una corrente di tenerezza e di
malinconia, e allora una certa dignità gentile rialzava tutte le fronti, il furore del lusso si quetava, i
modi si correggevano, il linguaggio si purgava, nasceva il gusto delle letture pie, si ostentava il
raccoglimento e la devozione religiosa, e le feste medesime, senza essere meno splendide,
assumevano l’aspetto di cerimonie liete, ma composte. Ora invece saliva al trono un Padiscià
educato dall’infanzia al vizio e alle follie, e allora la dea Volut riconquistava il suo impero, i veli
cadevano, si tornava a sentire il linguaggio senza sottintesi e la risata clamorosa, si tornavano a
vedere le nudità senza pudore; gl’incettatori della bellezza partivano per la Georgia e per la
Circassia; le fanciulle affluivano; cento donne si potevano vantare degli amplessi del Gran Signore,
i chioschi si popolavano di culle, le casse dell’erario versavano torrenti d’oro, i vini di Cipro e
d’Ungheria gorgogliavano sulle mense coperte di fiori, Sodoma alzava la fronte, Lesbo trionfava, i
bei volti dai grandi occhi neri impallidivano, e tutto l’arem febbricitava, rabbioso di voluttà, in
un’atmosfera carica di profumi e di vizio, fin che una notte si svegliava improvvisamente abbagliato
da mille fiaccole, e subiva dalle scimitarre dei Giannizzeri il castigo di Dio.
Venivano le notti tremende anche per quella piccola Babilonia nascosta tra i fiori. La ribellione
non rispettava il terzo recinto più di quel che rispettasse gli altri due. La soldatesca atterrava le porte
della Felicità e irrompeva nell’arem. Cento eunuchi difendevano invano, a pugnalate, le soglie dei
chioschi. I giannizzeri salivano sui tetti, rompevano le cupole, si precipitammo nelle sale a strappare
i principi dalle braccia delle madri. Le Validè erano tirate per i piedi fuori dei loro nascondigli, si
difendevano a unghiate e a morsi, cadevano riverse sotto le ginocchia dei baltagì e morivano
strangolate coi cordoni delle tendine. Le Sultane, rientrando in casa, gettavano grida disperate alla
vista delle culle vuote, e voltandosi a interrogare le schiave, n’avevano in risposta un silenzio
tremendo, che voleva dire: Vallo a cercare ai piedi del trono il tuo bambino! Gli eunuchi,
atterriti, venivano ad annunziare alle favorite, svegliate da un tumulto lontano, che le loro teste
erano aspettate e che bisognava prepararsi a morire. Le tre cadine del terzo Selim, condannate al
capestro ed al sacco, sentivano, nella notte, le grida supreme l’una dell’altra, e spiravano nelle
tenebre sotto le mani convulse dei muti. Gelosie mortali e vendette orrende facevano risonare i
chioschi di gemiti e di strida che spandevano il terrore in tutto l’arem. La Circassa madre di Mustafà
lacerava il viso a Rosellana, le favorite rivali schiaffeggiavano Scekerbulì, la sultana Tarchan
vedeva balenare sul capo delle sue creature il pugnale di Maometto IV, la prima cadina del primo
Ahmed strozzava colle proprie mani la schiava rivale, e stramazzava alla sua volta, pugnalata in
viso, sotto i piedi del Padiscià, urlando di dolore e di rabbia; le cadine gelose s’aspettavano nei
corridoi oscuri, si trattavano ad alte grida di «carne venduta» e s’avvinghiavano come tigri
straziandosi il collo e le reni colla punta degli stiletti avvelenati. E chi sa quanti eccidi rimasti
ignoti, di schiave soffocate nelle fontane, freddate a colpi d’elsa nelle tempie, lacerate dal colbac
degli eunuchi, schiacciate fra le porte di ferro dalle braccia d’acciaio di dieci gelose frenetiche! I
veli soffocavano i lamenti, i fiori nascondevano il sangue, due ombre si perdevano nel labirinto dei
viali oscuri portando una cosa nera; le sentinelle delle torri, sulla riva del Mar di Marmara,
sentivano un tonfo nelle acque, e l’arem si ridestava all’alba, come sempre, odoroso e ridente, senza
accorgersi che una delle sue mille stanze era vuota.
Tutte queste immagini mi venivano alla mente, girando per quel recinto, e alzando gli occhi alle
grate di quei chioschi abbandonati e tristi come sepolcri. Eppure, in mezzo a quelle memorie
sinistre, provavo di tratto in tratto un certo batticuore piacevole, una specie di trepidazione
voluttuosa d’adolescente, mista di malinconia e di tenerezza, pensando che le scalette per cui salivo
e scendevo, avevano sentito il peso di quelle donne bellissime e famose; che i sentieri che
calpestavo avevano udito il fruscìo delle loro vesti, che le vôlte di quei piccoli portici di cui
accarezzavo, passando, le colonnine, avevano ripercosso il suono delle loro risa infantili. Mi pareva
che qualche cosa di loro ci dovesse ancora essere dietro quei muri, in quell’aria. Avrei voluto
cercare, gridare quei nomi memorabili, chiamarle a una a una cento volte, e mi pareva che qualche
risposta di voce lontana l’avrei sentita, che qualchecosa di bianco l’avrei visto passare sulle alte
terrazze o in fondo ai boschetti solitarii. E giravo gli occhi qua e là, e interrogavo le grate e le porte.
Quanto avrei dato per sapere dove era stata chiusa la vedova di Alessio Comneno, la più bella delle
prigioniere di Lesbo e la più seducente greca del suo secolo, o dov’era stata pugnalata la cara
figliuola d’Erizzo, governatore di Negroponte, che preferì la morte all’amplesso brutale di
Maometto II! E Currem, la favorita di Solimano, a che finestra si affacciava, coi suoi belli
atteggiamenti languidi di persiana, per fissare nel Mar di Marmara i suoi potenti occhi neri, velati
dalle lunghissime ciglia di seta? Qui, su questo sentiero, non avrà lasciato molte volte le traccie del
suo passo leggiero la bella danzatrice ungherese che levò Saffiè dal cuore di Murad III, scattando
come una lama d’acciaio fra le braccia imperiali? E da quest’aiuola non avrà mai strappato un fiore,
passando, Kesem, la bella greca, la gelosa feroce, dal viso pallido e malinconico, che vide il regno
di sette Sultani? E l’armena gigantesca, che fece impazzir d’amore Ibrahim, non avrà mai immerso
il suo enorme braccio bianco nell’acqua di questa fontana? E chi aveva il piede più piccino, la
piccola favorita di Maometto IV, di cui due babbuccie non facevano la lunghezza d’uno stiletto, o
Rebia Gulnuz, la bevanda delle rose di primavera, che aveva i più begli occhi azzurri
dell’Arcipelago, e non lasciava traccia del suo passo sulle sabbie bianche del suo giardino? E i
capelli più dorati e più morbidi chi li possedeva, Marhfiruz, la favorita dell’astro delle notti, o
Miliclia, la giovane odalisca russa, che soggiogò la ferocia del secondo Otmano? E le fanciulle
persiane ed arabe che addormentavano colle loro favole Ibrahim? E le quaranta giovinette che
bevettero il sangue del terzo Murad? Non ne rimane più nulla, nemmeno una ciocca di capelli,
nemmeno il filo d’un velo, nemmeno un segno nelle pareti? E queste fantasie terminavano tutte in
una visione dolorosa e spaventevole. Le vedevo passare, a file interminabili, lontano, fra i tronchi
fitti degli alberi e sotto i lunghi portici, l’una dietro l’altra, sultane validè, sultane sorelle, cadine,
odalische, schiave, fanciulle appena sbocciate, donne trentenni, vecchie coi capelli bianchi, visi
timidi di vergini e visi terribili di gelose, dominatrici d’imperi, favorite d’un giorno, trastulli
d’un’ora; creature di dieci generazioni e di cento popoli, coi loro bimbi strozzati fra le braccia o per
mano; una col laccio al collo, una con un pugnale nel cuore, un’altra grondante d’acqua del Mar di
Marmara, splendenti di gemme, coperte di ferite, moribonde di veleno, trasfigurate dalle lunghe
agonie del vecchio Serraglio; e passavano mute e leggiere come fantasime, e si perdevano in file
interminabili nell’oscurità dei boschetti, lasciando dietro di una lunga traccia di fiori appassiti e
di goccie di pianto e di sangue; e un’immensa pietà mi stringeva il cuore.
Di dal terzo recinto, si stende un tratto di terreno piano, tutto coperto d’una vegetazione
rigogliosa, e sparso di piccoli edifizi gentili, in mezzo ai quali s’innalza la così detta colonna di
Teodosio, di granito grigio, sormontata da un bel capitello corinzio, e sorretta da un largo
piedestallo, su cui si leggono ancora le due ultime parole d’una iscrizione latina che diceva:
Fortunae reduci ob devictos Gothos. E qui finisce l’alto piano sul quale si distende il grande
rettangolo centrale degli edifizi del Serraglio. Di qui fino al capo del Serraglio, e in tutto lo spazio
compreso fra il circuito dei tre recinti e le mura esteriori, lungo i fianchi della collina, era tutto un
bosco di grandi platani, di cipressi altissimi, di filari di pini, di gruppi d’allori e di terebinti e di
pioppi inghirlandati di pampini, che ombreggiavano una successione di giardini pieni di rose e
d’elitropie, disposti a scaglioni, e attraversati da larghe gradinate di marmo per le quali si scendeva
fino al mare. Lungo le mura, in faccia a Scutari, c’era il nuovo palazzo del Sultano Mahmud, che
s’apriva sul mare in una grande porta rivestita di rame dorato. Vicino al Capo del Serraglio,
s’innalzava l’arem d’estate, che era un vastissimo edifizio semicircolare, capace di cinquecento
donne, con vasti cortili e bagni splendidi e giardini, dove si facevano quelle luminarie fantastiche,
che diventarono celebri sotto il nome di feste dei tulipani. Davanti a quest’arem, fuori delle mura,
sopra la riva del mare, c’era la batteria famosa del Serraglio, formata di venti cannoni di forme
bizzarre, scolpiti e istoriati, ch’erano stati tolti agli eserciti cristiani nelle prime guerre europee. Le
mura avevano otto porte, tre dalla parte della città, e cinque dalla parte del mare. Grandi terrazze di
marmo s’avanzavano dalle mura sulla riva. Strade sotterranee conducevano dalla reggia alle porte
del Mar di Marmara, in modo che i Sultani potevano salvarsi da un assalto imbarcandosi
segretamente, e riparando a Scutari o a Top-Hané. qui era tutto il Serraglio. Vicino alle mura
esterne e per i fianchi della collina s’innalzavano ancora molti chioschi, della forma di piccole
moschee, di fortini e di gallerie, da ognuno dei quali, per un sentiero nascosto da alte spalliere di
verzura, si riusciva alle porte secondarie del terzo recinto. V’era il chiosco Yali, ora distrutto, che si
specchiava nel Corno d’oro. C’è ancora, quasi intatto, il Nuovo chiosco, che è una piccola reggia
rotonda, tutta ornata di dorature e di pitture, nella quale i Sultani andavano, sul tramonto, a godere
la vista delle mille navi del porto. Vicino all’arem d’estate v’era il chiosco degli Specchi, dove fu
segnato il trattato di pace del 1784, con cui la Turchia cedette la Crimea alla Russia, e il chiosco
d’Hassan Pascià, tutto splendente d’oro, le cui pareti coperte di specchi rallegravano con un gioco
fantastico di riflessi le feste e le orgie notturne dei Sultani. Il chiosco del Cannone per le cui finestre
si gettavano nel mare i cadaveri, sorgeva vicino alla batteria del Capo del Serraglio. Il chiosco del
Mare, in cui teneva i suoi divani segreti la Validè di Maometto IV, pendeva a filo sulle correnti
confuse del Mar di Marmara e del Bosforo. Il chiosco delle Rose dominava la spianata in cui
facevano gli esercizi i paggi, e dove fu proclamata, nel 1839, la nuova costituzione dell’Impero, col
famoso hatti-scerif di Gul-Hané. Dall’altra parte del Serraglio c’era ancora il chiosco delle Riviste,
da cui i Sultani vedevano passare, non visti, tutti coloro che andavano al divano; sull’angolo delle
mura vicino a Santa Sofia, il chiosco d’Alai, dal quale Maometto IV gittò all’esercito ribelle la sua
favovita Meleki, e ventinove ufficiali della Corte, sbranati sotto i suoi occhi; e all’altra estremità
delle mura, il chiosco Sepedgiler, vicino al quale i Padiscià davano congedo ai grandi ammiragli che
partivano per le guerre lontane. Così la reggia formidabile, dall’alto del colle, dov’erano raccolte e
nascoste le sue parti più vitali, si sparpagliava per la china e lungo la riva del mare, coronata di torri,
irta di cannoni, inghirlandata di rose; slanciava da tutte le parti le sue barchette dorate, levava al
cielo un nuvolo di profumi come un enorme altare, specchiava nelle acque le mille fiammelle delle
sue feste, gettava dall’alto delle sue mura oro alla folla e cadaveri alle onde, ieri in balìa d’una
schiava, oggi in potere d’un forsennato, domani ludibrio della soldatesca, bella come un’isola fatata
e sinistra come un sepolcro di vivi...
La notte è alta; il Mar di Marmara riflette il cielo ardente di stelle; la luna inargenta le cento
cupole del Serraglio e imbianca le cime dei cipressi e dei platani, che distendono le loro grandi
ombre nei vasti recinti, circondati da innumerevoli finestrine illuminate che si vanno spegnendo a
una a una. I chioschi e le moschee risaltano con una bianchezza di neve in mezzo al verde lugubre
dei boschetti. Le guglie, le punte dei minareti, le mezzelune aeree, le porte di bronzo, le graticole
dorate luccicano fra gli alberi, presentando l’apparenza vaga d’una città d’oro e d’argento. La città
imperiale s’addormenta. Le tre grandi porte son state chiuse ora ora, e le chiavi enormi suonano
ancora fra le mani dei capigì, sotto le vôlte degli alti vestiboli. Un drappello di capigì veglia dinanzi
alla porta della Salute; trenta eunuchi bianchi custodiscono la porta della Felicità, appiccicati ai
muri e immobili come bassorilievi, col volto nell’ombra. Centinaia di sentinelle invisibili, vigilano
dalle mura e dalle torri, guardando il mare, il porto, le strade tenebrose di Stambul, e la mole
enorme e muta di Santa Sofia. Nelle grandi cucine del primo cortile si vede ancora un saliscendi di
lanterne, che rischiarano gli ultimi lavori; poi tutto l’edifizio rimane oscuro. Un lume brilla ancora
nelle case del Veznedar agà e del Defterdar effendi. Qualche cosa brulica, nel secondo recinto,
dinanzi alla casa del Grand’Eunuco nero. Nel labirinto dell’arem si vanno chiudendo le ultime
porte. Gli eunuchi girano per i viali deserti, intorno ai chioschi oscuri, non udendo altro rumore che
lo stormire degli alberi agitati dall’aria marina e il mormorio monotono delle fontane. Un’alta pace
par che regni su tutta la reggia. Eppure una vita febbrile ribolle ancora fra quelle mura. Da tutto quel
popolo di schiave, di soldati, di prigionieri, di servi, i pensieri della notte si levano confusamente, e
superate le mura del Serraglio, volano ai quattro angoli del mondo a cercar luoghi cari e madri
abbandonate dall’infanzia, e a riandare vicende strane e terribili di tempi lontani. Le preghiere e i
lamenti muti s’incrociano per gli anditi e per i boschetti oscuri coi propositi di vendetta e di sangue,
e coi desiderii insensati delle ambizioni segrete. La grande reggia dorme un sonno torbido, interrotto
da riscotimenti improvvisi di diffidenza e di paura. Un bisbiglio diffuso di parole di cento lingue si
confonde col suono dei respiri e col mormorio della vegetazione ventilata. A breve distanza, divisi
da poche pareti, dorme il paggio che s’è prostituito, l’iman che ha predicato la parola di Dio, il
carnefice che ha strozzato un innocente, il principe prigioniero che aspetta la morte, la sultana
innamorata che si prepara alle nozze. Creature diseredate d’ogni bene, riposano accanto a ricchezze
favolose; la bellezza divina, la deformità derisa, tutti i vizii, tutte le sventure, tutte le prostituzioni
dell’anima e della carne, si trovano rinchiuse fra le stesse mura. Le architetture moresche, che
s’innalzano sopra gli alberi, profilano nel cielo stellato le loro mille forme bizzarre ed aeree; sui
muri si allungano ombre graziose di frangie, di festoni e di trine; le fontane illuminate dalla luna
schizzano zaffiri e diamanti; e tutti i profumi del giardino volano, portati dall’aria notturna, confusi
in una fragranza potente che entra per le grate nelle sale a destar fremiti di piacere e sogni lascivi. È
l’ora in cui gli eunuchi, seduti sotto gli alberi, cogli occhi fissi nel lume fioco che traluce dalle
finestre dei chioschi, si rodono l’anima e il cuore, tastando colle dita tremanti la punta del pugnale;
l’ora in cui la povera giovinetta, rubata e venduta di fresco, dal finestrino alto della sua cella, guarda
cogli occhi umidi di lagrime gli orizzonti sereni dell’Asia, rimpiangendo la capanna dov’è nata e la
valle dove sono sepolti i suoi padri; l’ora in cui il galeotto incatenato, il muto macchiato di sangue,
il nano spregiato, misurano con un tremito di sgomento l’infinita distanza che li separa dall’uomo
che è sopra tutti, e interrogano dolorosamente il potere ascoso che tolse all’uno la libertà, all’altro la
parola, al terzo la forma umana per dare ogni cosa ad un solo. È l’ora in cui piangono i reietti e in
cui tremano i grandi, malsicuri del domani. Le lanterne sparse per gli edifizi multiformi rischiarano
fronti pallide di tesorieri curvi sulle carte; teste scarmigliate d’odalische, disperate d’un lungo
abbandono, che cercano il sonno invano sui guanciali infocati; visi abbronzati di giannizzeri erculei,
addormentati con un sorriso feroce, che tradisce la visione di una strage. I muri sottili sentono
aneliti di voluttà e singhiozzi rotti da parole disperate. E mentre in un chiosco spuma il liquore
maledetto in mezzo a un cerchio di baccanti seminude; mentre in una sala semioscura, una povera
sultana, madre da un istante, nasconde, urlando, il viso nei guanciali, per non vedere un lago di
sangue nel quale spira la sua creatura, a cui, per ordine del Padiscià, la levatrice lasciò aperto il tubo
ombelicale; mentre le teste dei bey, uccisi al cader della notte, stillano le loro ultime goccie di
sangue sui marmi delle nicchie di Bab-Umaiun; nel chiosco più alto del terzo recinto, in una sala
tappezzata di damasco vermiglio, sopra un letto di zibellino, in mezzo a un disordine sfarzoso di
cuscini imperlati e di coperte di velluto splendenti d’oro, su cui scende la luce vaga d’una lanterna
moresca d’argento cesellato, appesa al soffitto di cedro, una bella fanciulla bruna, ravvolta in un
grande velo bianco, che pochi anni sono conduceva l’armento a traverso le pianure dell’Arabia
Felice, chinata sul viso pallido del terzo Murad, che riposa, sonnecchiando, ai suoi piedi, gli
mormora con una voce timida e dolce: V’era una volta a Damasco un mercante chiamato Abu-
Eiub che aveva raccolte molte ricchezze e viveva onorevolmente. E possedeva un figliuolo, ch’era
bello e che sapeva molte cose e che si chiamava Schiavo d’amore, e una figliuola bellissima, che
aveva per soprannome Forza dei cuori. Ora Abu-Eiub venne a morire e lasciò tutte le sue mercanzie
fasciate e legate, e su tutte c’era scritto: Per Bagdad. E Schiavo d’amore domandò alla madre:
Perchè c’è scritto per Bagdad su tutte le mercanzie di mio padre? E la madre rispose: Figliuol
mio.... Ma il Padiscià s’è addormentato e la schiava abbandona dolcemente il suo capo sopra i
guanciali. Tutte le porte dell’arem son chiuse, tutti i lumi son spenti, la luna inargenta le cento
cupole, le mezzelune e le finestre dorate luccicano tra gli alberi, le fontane zampillano
rumorosamente nell’alto silenzio della notte: tutto il Serraglio riposa.
E così riposa da trent’anni, abbandonato sulla sua collina solitaria; e si possono ripetere per
esso i versi del poeta persiano che vennero sulle labbra a Maometto il conquistatore quando pose il
piede nel palazzo devastato degl’Imperatori d’Oriente: L’immondo ragno ordisce le sue tele nelle
sale dei re, e dalle vette superbe d’Erasciab, il corvo vibra nell’aria il suo canto sinistro.
GLI ULTIMI GIORNI
A questo punto mi trovo spezzata la catena delle reminiscenze minute e lucide, che permettono
le lunghe descrizioni; e non ricordo più che una serie di corse affannose da una riva all’altra del
Corno d’oro e dall’Europa all’Asia, dopo le quali, la sera, mi vedevo passare davanti
rapidissimamente, come in sogno, città luminose, folle immense, boschi, flotte, colline, e il pensiero
della partenza vicina dava a ogni cosa un leggiero colore di tristezza, come se già quelle visioni non
fossero più che ricordi d’un paese lontano.
[Le moschee]
Eppure alcune immagini rimangono immobili in mezzo alla fuga di persone e di cose, a cui mi
sembra d’assistere quando penso a quei giorni.
Ricordo la bella mattinata in cui visitai la maggior parte delle moschee imperiali, e pensandoci,
mi pare ancora che si faccia intorno a me un immenso vuoto e un silenzio solenne. L’immagine di
Santa Sofia non scema affatto la meraviglia che si prova al primo entrare in mezzo a quelle mura
titaniche. Anche là, come altrove, la religione dei vincitori s’è appropriata l’arte della religione dei
vinti. Quasi tutte le moschee sono imitate dalla Basilica di Giustiniano; hanno la grande cupola, le
mezze cupole sottoposte, i cortili, i portici; qualcheduna, la forma della croce greca. Ma l’islamismo
ha sparso su ogni cosa il colore e la luce propria, in modo che il complesso di quelle forme note
presenta l’apparenza d’un edifizio nuovo, in cui s’intravvedono gli orizzonti d’un mondo
sconosciuto e si sente l’aura d’un altro Dio. Sono navate enormi, d’una semplicità austera e
grandiosa, bianche in ogni parte, e rischiarate da finestre innumerevoli, che mettono per tutto una
luce dolce ed uguale, in cui l’occhio vede ogni cosa, da un’estremità all’altra, e riposa, insieme col
pensiero, quasi addormentato in una quiete soave e diffusa, che somiglia a quella d’una valle
nevosa, coperta da un cielo bianco. Non si crederebbe d’essere in un luogo chiuso se non si sentisse
l’eco sonora del proprio passo. Non v’è nulla che distragga la mente: il pensiero va dritto, a traverso
quel vuoto e quella chiarezza, all’oggetto dell’adorazione. Non v’è argomento di malinconie
di terrori; non vi sono illusioni, misteri, angoli oscuri, in cui brillino vagamente le
immagini d’una gerarchia complicata d’esseri sovrumani, che confondon la mente; non v’è che
l’idea chiara, netta, abbagliante, formidabile d’un Dio solitario, che predilige la nudità severa dei
deserti inondati di luce, e non ammette altro simulacro di stesso che il cielo. Tutte le moschee
imperiali di Costantinopoli presentano questo medesimo aspetto di grandezza che solleva la mente,
e di semplicità che la fissa in un solo pensiero, e differiscono così poco nei particolari, che è
difficile il ricordarle a una, a una. La moschea d’Ahmed, enorme, e pure graziosa e leggera,
all’esterno, come un edifizio aereo, appoggia la sua cupola sopra quattro smisurati pilastri rotondi di
marmo bianco, nel cui seno si potrebbero aprire quattro piccole moschee, ed è la sola di Stambul
che abbia la corona gloriosa di sei minareti. La moschea di Solimano, che è, più che un tempio, una
città sacra, nella quale lo straniero si smarrisce, è formata da tre navate, e la sua cupola, più alta di
quella di Santa Sofia, riposa sopra quattro colonne meravigliose di granito roseo, che fanno pensare
ai fusti dei famosi alberi giganteschi della California. La moschea di Maometto è una Santa Sofia
bianca ed allegra; quella di Baiazet gode la primazia dell’eleganza delle forme; quella di Osmano è
tutta di marmo; quella di Scià-Zadé ha i due più graziosi minareti di Stambul; quella di Ak-Serai è il
più gentile modello del rinascimento dell’arte turca; quella di Selim è la più grave, quella di
Mahmud la più capricciosa, quella della Sultana Vali la più ornata. Ognuna ha qualche bellezza
sua propria o una leggenda o un privilegio. Sultan-Ahmed custodisce lo stendardo del Profeta,
Sultan-Baizit è coronata di colombi, Solimaniè vanta le iscrizioni di Karà-hissari, Validè Sultan ha
la falsa colonna d’oro che costò la vita al conquistatore della Canea; Sultan-Mehemet vede «undici
moschee imperiali chinar la testa intorno a lei, come davanti al manipolo di Giuseppe s’inchinavano
i manipoli dei fratelli». In una s’innalzano le colonne del palazzo imperiale e dell’Augusteon di
Giustiniano, che portarono le statue di Venere, di Teodora e d’Eudossia; in altre si ritrovano i
marmi delle chiese antiche di Calcedonia, colonne delle rovine di Troia, pilastri di templi d’Egitto,
vetri preziosi rapiti alle reggie persiane, materiali di circhi, di fori, di acquedotti, di basiliche: tutto
confuso e svanito nell’immensa bianchezza della religione vincitrice. Dentro differiscono anche
meno che nella forma esterna. In fondo v’è un pulpito di marmo; in faccia, la loggia del Sultano
chiusa da una grata dorata; accanto al Mihrab, due candelabri enormi che sorreggono torcie alte
come fusti di palme; e per tutta la navata, lampade innumerevoli formate di grandi globi di vetro, e
disposte in una maniera bizzarra, che par più propria a una grande festa di ballo che a una solennità
religiosa. Le grandi iscrizioni sacre che girano intorno ai pilastri, alle porte, alle finestre delle
cupole, qualche finto fregio dipinto a imitazione del marmo, e i vetri disegnati e coloriti a fiorami,
sono i soli ornamenti che risaltino nella nudità bianca di quelle mura monumentali. Tesori di marmo
sono profusi nei pavimenti dei vestiboli, nei portici che circondano i cortili, nelle fontane per le
abluzioni, nei minareti; ma non alterano il carattere graziosamente sobrio ed austero dell’edifizio,
tutto bianco, circondato di verde e coronato di cupole, scintillanti sull’azzurro del cielo. E la
moschea non occupa che la parte minore del recinto, il quale abbraccia un labirinto di cortili e di
case. E qui ci sono auditorii per la lettura del Corano e luoghi di deposito per i tesori dei privati,
biblioteche e accademie, scuole di medicina e scuole pei bambini, quartieri per gli studenti e cucine
per i poveri, manicomi, infermerie, ricoveri per i viaggiatori, sale da bagno: una piccola città
ospitale e benefica, affollata intorno alla mole altissima del tempio, come ai piedi d’una montagna, e
ombreggiata da alberi giganteschi. Ma tutte queste immagini si sono oscurate nella mia mente; e
non vedo più, in questo punto, che la piccola macchietta nera della mia persona, quasi smarrita,
come un atomo, nelle enormi navate, in mezzo a lunghe file di piccolissimi turchi prostrati che
pregano; e vo innanzi abbagliato da quella bianchezza, stupito da quella luce strana, sbalordito da
quella immensità, strascicando le mie babbuccie sdruscite e il mio orgoglio schiacciato di
descrittore; e mi par che una moschea si confonda coll’altra, e che mi si stenda d’intorno, in tutte le
direzioni, una successione interminabile di pilastri e di volte, e una folla bianca infinita, nella quale
il mio sguardo si perde.
[Le cisterne]
Le reminiscenze d’un altro giorno son tutte oscure e piene di misteri e di fantasmi. Entro nel
cortile d’una casa musulmana, discendo, al lume di una fiaccola, sino all’ultimo gradino di una scala
tetra e umida, e mi trovo sotto le volte di Kere-batan Serai, la grande cisterna basilica di
Costantino, della quale il volgo di Stambul dice che non si conoscono i confini. Le acque verdastre
si perdono sotto le volte nere, rischiarate qua e da un barlume di luce livida che accresce l’orrore
delle tenebre. La fiaccola colora di fuoco gli archi vicini alla porta, fa luccicare i muri sgocciolanti,
e rivela confusamente file sterminate di colonne che intercettano lo sguardo da tutte le parti, come i
tronchi degli alberi in una fittissima foresta allagata. La fantasia, attratta dalla voluttà del terrore, si
slancia per quelle fughe di portici sepolcrali, sorvolando le acque sinistre, e si smarrisce in infiniti
giri vertiginosi in mezzo alle colonne innumerevoli, mentre la voce sommessa d’un dracomanno
racconta le storie paurose di chi s’avventurò sopra una barca in quel sotterraneo per scoprirne i
confini, e tornò indietro molte ore dopo, remando disperatamente, col volto trasfigurato e coi capelli
irti, mentre le volte lontane echeggiavano di risate fragorose e di fischi acuti; e d’altri che non
tornarono più, che finirono chi sa come, forse impazziti dal terrore, forse morti di fame, forse
trascinati da una corrente misteriosa in un abisso sconosciuto, molto lontano da Stambul, Dio solo
sa dove. Questa visione lugubre sparisce improvvisamente nella grande luce della piazza dell’At-
meidan, e pochi minuti dopo mi trovo daccapo sotto terra, fra le duecento colonne della cisterna
asciutta Bin-birdirek, dove cento operai greci filano la seta, cantando con voci acute una canzone
guerriera, rischiarati da un raggio di luce pallida che si rompe negl’incrociamenti delle arcate; e
sento sopra il mio capo lo strepito confuso d’una carovana che passa. Poi daccapo l’aria aperta e la
luce del sole, e poi di nuovo l’oscurità, sotto altre arcate secolari, in mezzo ad altre file di colonne,
in una quiete di sepolcro, turbata da un suono fioco di voci lontane; e così fino a sera, un
pellegrinaggio misterioso e pensieroso, dopo il quale mi rimane per molto tempo dinanzi agli occhi
l’immagine di un vasto lago sotterraneo, in cui sia sprofondata la metropoli dell’impero greco, e in
cui Stambul, ridente ed incauta debba un giorno alla sua volta sparire.
[Scutari]
Tutta questa oscurità svanisce dinanzi all’immagine splendida di Scutari. Andando a Scutari,
sopra un piroscafo affollato, discutevamo sempre, il mio amico ed io, se il primato della bellezza
appartenesse a quella riva o alle due rive del Corno d’oro. Yunk preferiva Scutari; io, Stambul. Ma
Scutari m’innamorava coi suoi improvvisi cangiamenti d’aspetto, coi quali pare che voglia pigliarsi
gioco di chi le s’avvicina dal mare. Guardata dal Mar di Marmara, non pare che un grande villaggio
disteso sopra una collina. Guardata dal Corno d’oro, presenta già l’aspetto d’una città. Ma quando il
piroscafo, girando intorno alla punta più avanzata della riva asiatica, va dritto verso il suo porto,
allora la cittadina s’allarga e s’innalza; le colline coperte d’edifizi saltan fuori l’una di dietro
all’altra; i sobborghi sbucano dalle valli, le villette si sparpagliano sulle alture; la riva, tutta
variopinta di casette, si svolge a perdita d’occhi; una città enorme, pomposa, teatrale, che non si
comprende dove potesse stare nascosta, si scopre allo sguardo in pochi momenti come all’alzarsi
d’un telone immenso, e fa rimaner stupefatti come aspettando che torni a sparire. Si scende sopra
uno scalo di legno, fra un visibilio di barcaiuoli, di noleggiatori di cavalli e di dracomanni, e si va su
per la via principale che sale dolcemente, serpeggiando, in mezzo a casette rosse e gialle, vestite
d’edera e di pampini, fra muri di giardini riboccanti di verzura, sotto alti pergolati, all’ombra di
grandi platani che chiudono quasi il passaggio; si passa dinanzi a caffè turchi, ingombri di
fannulloni asiatici, che fumano, sdraiati, cogli occhi fissi non si sa dove; s’incontrano branchi di
capre, carri pesanti di campagna, tirati da bufali colla testa infiorata, contadini in fez e in turbante,
convogli funebri musulmani, e brigatelle di hanum villeggianti, che portano mazzi di fiori e
ramoscelli. Par di vedere un’altra Stambul, meno maestosa, ma più gaia e più fresca di quella delle
sette colline. È come una grande città villereccia. La campagna l’invade da tutte le parti. Le
stradicciuole, fiancheggiate da casine da presepio, scendono e salgono per valli e per colline, e si
perdono nel verde dei giardini e degli orti. Nelle parti alte della città regna la pace profonda della
campagna; nelle parti basse brulica la vita affaccendata delle città di mare; dalle grandi caserme che
sorgono qua e là, esce un frastuono confuso di grida, di canti e di tamburi, e migliaia d’uccelletti
saltellano, per le viuzze solitarie. Seguitando un convoglio mortuario, usciamo dalla città, ci
addentriamo nel cimitero famoso, ci smarriamo in una grande foresta di cipressi altissimi, che si
stende da una parte verso il Mar di Marmara e dall’altra verso il Corno d’oro, sopra un vasto terreno
montuoso. Le pietre sepolcrali biancheggiano tutt’intorno fin dove arriva lo sguardo, a mucchi, a
file sterminate, in mezzo ai cespugli e ai fiori selvatici, in una rete infinita di sentieri, fra i tronchi
fittissimi, che lasciano appena vedere l’orizzonte come una lontana striscia luminosa e ondeggiante.
Andiamo innanzi, a caso, in mezzo ai cippi dipinti e dorati, ritti e rovesci, fra le cancellate dei
sepolcri di famiglia, fra i piccoli mausolei dei pascià, fra le colonnette rozze del volgo, vedendo qua
e là mazzi di fiori appassiti e cocuzzoli di cranii che spuntano fra la terra smossa, udendo grugare da
ogni parte i colombi nascosti nei cipressi; e via via, pare che la foresta si allarghi, che le pietre
pullulino, che i sentieri si moltiplichino, che la striscia luminosa dell’orizzonte si allontani, che il
regno della morte s’avanzi a passo a passo con noi; e cominciamo a domandarci come n’usciremo,
quando sbocchiamo inaspettatamente in un larghissimo viale, che ci conduce nella vasta pianura
aperta d’Haidar pascià, dove si raccoglievano gli eserciti musulmani per muovere alle guerre
dell’Asia, e di abbracciamo con uno sguardo il Mar di Marmara, Stambul, l’imboccatura del
Corno d’oro, Galata e Pera, tutto velato leggermente dai vapori della mattina e tinto di colori di
paradiso, che ci fanno risentire un fremito della meraviglia e della gioia dell’arrivo.
[Palazzo di Ceragan]
Un’altra mattina ci troviamo in un carrozzone del tramway, in mezzo a due colossali eunuchi
neri, incaricati da un aiutante di campo d’Abdul-Aziz di condurci a visitare il palazzo imperiale di
Ceragan, posto sulla riva del Bosforo ai piedi del sobborgo di Bescic-Tass. Mi ricordo del
sentimento indefinibile, misto di curiosità e di ribrezzo, che provavo guardando colla coda
dell’occhio l’eunuco che m’era accanto, il quale mi sorpassava di quasi tutta la testa, e teneva stesa
sul ginocchio una mano smisurata; e ogni volta che mi voltavo, sentivo un profumo leggiero di
essenza di bergamotto che usciva dai suoi panni lucidi e corretti di cortigiano. Quando il carrozzone
si fermò, misi la mano in tasca per prendere il portamonete; ma la mano smisurata dell’eunuco
m’afferrò il braccio come una tanaglia di ferro, e i suoi grandi occhi di negro si fissarono nei miei,
come per dire: Cristiano, non mi far questo affronto o ti slogo le ossa. Si discese dinanzi a una
piccola porta arabescata, si percorse un lunghissimo corridoio, dove ci venne incontro un drappello
di servitori in livrea, e infilate le babbuccie, si salì per una larga scala, che metteva alle sale della
reggia. Qui non ci fu bisogno d’evocare i ricordi storici per procurarsi un’illusione di vita. L’aria era
ancora calda dell’alito della Corte. I larghissimi divani coperti di velluto e di raso, che si stendevano
lungo le pareti, erano proprio quelli su cui, poche settimane prima, si erano sedute le odalische del
Gran Signore. Un vago profumo di vita molle e fastosa riempiva ancora l’aria. Si passò per un lungo
giro di sale, decorate con uno stile misto di europeo e di moresco, nitidissime e belle d’una certa
semplicità superba, che ci faceva abbassare la voce; mentre gli eunuchi, borbottando spiegazioni
incomprensibili, ci indicavano ora un angolo, ora una porta, con un gesto circospetto, come se
accennassero a un mistero. Le cortine di seta, i tappeti di mille colori, le tavole di musaico, i bei
quadri a olio messi a contrallume, i begli archi a stalattiti delle porte tramezzate da colonnine arabe,
gli altissimi candelabri simili ad alberi di cristallo che tintinnavano rumorosamente al nostro
passaggio, si succedevano e si confondevano, appena visti, nella nostra fantasia, tutta intesa a
inseguire immagini fuggenti di cadine sorprese. Non mi è rimasta dinanzi agli occhi che la sala da
bagno del Sultano, tutta di marmo bianchissimo, scolpito a stalattiti, a fiori penzoli, a frangio e a
ricami aerei, d’una delicatezza, da far temere che si stacchino a toccarli colla punta delle dita. La
disposizione delle sale mi ricordava vagamente l’Alhambra. Camminavamo in fretta sui tappeti
spessissimi, senza far rumore, quasi furtivamente. Di tanto in tanto un eunuco tirava un cordone,
una tenda verde s’alzava, e vedevamo, per un’ampia finestra, il Bosforo, l’Asia, mille navi, una gran
luce; poi tutto spariva ad un tratto lasciandoci come abbarbagliati da un lampo. Da una finestra
vedemmo di sfuggita un piccolo giardino, chiuso da alti muri, lindo, compassato, monacale, che ci
rivelò in un momento mille segrete malinconie di belle donne assetate d’amore e di libertà, e
disparve improvvisamente dietro la tenda. E le sale non finivan mai, e alla vista d’ogni nuova porta,
affrettavamo il passo per affacciarci inaspettati alla nuova sala; ma non si vedeva più nemmeno lo
strascico d’una veste, le odalische erano scomparse, un silenzio profondo regnava in ogni parte, il
fruscìo che ci faceva voltare indietro curiosamente non era che il fruscìo delle tende pesanti di
broccato che ricadevano sulla soglia della porta; e il tintinnìo dei candelabri di cristallo
c’indispettiva come se fosse la risata argentina di qualche bella nascosta, che ci schernisse. E infine
ci venne in uggia quell’andare e venire senza fine per quella reggia muta, fra quelle ricchezze morte,
vedendo riflesse a ogni passo, dai grandi specchi, quelle faccie nere d’eunuchi, quel drappello
sinistro di servitori pensierosi, e i nostri due visi attoniti di vagabondi; e uscimmo quasi correndo, e
provammo un gran piacere nel ritrovarci all’aria libera, fra le case miserabili, in mezzo alla
popolaglia cenciosa e vociferante del quartiere di Top-hanè.
Eyub
E la necropoli d’Eyub come dimenticarla? Ci andammo una sera al tramonto, e m’è sempre
rimasta nella memoria, così come la vidi, illuminata dagli ultimi raggi del sole. Un caicco
leggerissimo ci condusse fino in fondo al Corno d’oro, e salimmo alla «terra santa» degli Osmani
per un sentiero ripido, fiancheggiato di sepolcri. In quell’ora gli scalpellini che lavorano il giorno
intorno ai cippi, e fanno echeggiare la vasta necropoli dei loro colpi sonori, erano già partiti; il luogo
era deserto. Andammo innanzi, circospetti, guardando intorno se apparisse il volto severo d’un iman
o d’un dervis, poichè là, meno che in ogni altro luogo sacro, è tollerata la curiosità profana di un
giaurro; ma non vedemmo cappelli conici turbanti. Arrivammo, con qualche trepidazione,
sino a quella misteriosa moschea d’Eyub, della quale avevamo visto mille volte dalle colline
dell’altra riva e da tutti i seni del Corno d’oro le cupolone scintillanti e i minareti leggieri. Nel
cortile, all’ombra d’un grande platano, s’innalza in forma di chiosco, perpetuamente rischiarato da
una corona di lampade, il mausoleo che racchiude il corpo del portastendardo famoso del Profeta,
morto coi primi musulmani sotto Bisanzio, e ritrovato otto secoli dopo, sepolto su quella riva, da
Maometto il conquistatore. Maometto gli consacrò quella moschea, nella quale vanno i Padiscià a
cingere solennemente la spada d’Otmano; poichè è quella la moschea più santa di Costantinopoli,
come il cimitero che la circonda è il più sacro dei cimiteri. Intorno alla moschea, all’ombra di grandi
alberi, s’innalzano turbè di Sultane, di vizir, di grandi della Corte, circondati di fiori, splendidi di
marmi e di rabeschi d’oro, e decorati d’iscrizioni pompose. In disparte v’è il tempietto mortuario dei
muftì coperto da una cupola ottagona, nel quale riposano i grandi sacerdoti chiusi in enormi
catafalchi neri, sormontati da altissimi turbanti di mussolina. È una città di tombe, tutta bianca e
ombrosa, e regalmente gentile, che insieme alla tristezza religiosa ispira non so che sentimento di
soggezione mondana, come un quartiere aristocratico, muto d’un silenzio superbo. Si passa in
mezzo a muri bianchi e a cancellate delicatissime da cui scende a ghirlande e a ciocche la verzura
dei giardini funebri, e sporgono i rami delle acacie, delle quercie e dei mirti, e per le trine di ferro
dorato che chiudono le finestre arcate dei turbè, si vedono dentro, in una luce soave, i mausolei
marmorei, tinti dei riflessi verdi degli alberi. In nessun altro luogo di Stambul si spiega così
graziosamente l’arte musulmana di illeggiadrire l’immagine della morte e di farvi fissare il pensiero
senza terrore. È una necropoli, una reggia, un giardino, un panteon, pieno di malinconia e di grazia,
che chiama insieme sulle labbra la preghiera e il sorriso. E da tutte le parti gli si stendono intorno i
cimiteri, ombreggiati da cipressi secolari, attraversati da viali serpeggianti, bianchi di miriadi di
cippi che par che si precipitino giù per le chine per andarsi a tuffare nelle acque o che si affollino
lungo i sentieri per veder passare delle larve. E da mille recessi oscuri, allargando i rami dei
cespugli, si vede a destra, confusamente, Stambul lontana, che presenta l’aspetto d’una fuga di città
azzurrine, staccate l’una dall’altra; sotto, il Corno d’oro, su cui lampeggia l’ultimo raggio del sole;
in faccia, i sobborghi di Sudlugé, di Halidgi-Ogli, di Piri-Pascià, di Hass-kioi, e più lontano il
grande quartiere di Kassim e il profilo vago di Galata, perduti in una dolcezza infinita di tinte
tremole e morenti, che non paion cosa di questa terra.
[Il museo dei Giannizzeri]
Tutto questo svanisce, e mi trovo a passeggiare per lunghissimi cameroni nudi, in mezzo a due
schiere immobili di figure sinistre, che paiono cadaveri inchiodati alle pareti. Non ricordo d’aver
mai provato un senso così vivo di ribrezzo fuorchè a Londra, nell’ultima sala del museo Tussaud,
dove s’intravvedono nell’oscurità i più orrendi assassini d’Inghilterra. È come un museo di spettri, o
piuttosto un sepolcro aperto, in cui si trovano, mummificati, i più famosi personaggi di quella
vecchia Turchia splendida, stravagante e feroce, che non esiste più se non nella memoria dei vecchi
e nella fantasia dei poeti. Sono centinaia di grandi figure di legno, colorite, vestite dei vecchi
costumi, ritte, in atteggiamenti rigidi e superbi, coi visi alti, cogli occhi spalancati, colle mani
sull’else, che par che aspettino un cenno per snudare le lame e far sangue, come al buon tempo
antico. Prima viene la casa del Padiscià: il grand’eunuco, il gran vizir, il muftì, ciambellani e grandi
ufficiali, col capo coperto di turbanti d’ogni colore, piramidali, sferici, quadrati, spropositati,
prodigiosi, con caffettani di broccato di colori smaglianti, coperti di ricami, con tuniche di seta
vermiglia e di seta bianca, strette alla vita da sciarpe di casimir, con vesti dorate, coi petti coperti di
lastre d’oro e d’argento, con armi principesche: due lunghe file di spauracchi bizzarri e splendidi,
che rivelano in modo ammirabile la natura dell’antica corte ottomana, spudoratamente fastosa e
barbaricamente superba. Seguono i paggi che portano le pelliccie del Padiscià, il turbante, lo
sgabello, la spada. Poi le guardie delle porte e dei giardini, le guardie del Sultano, gli eunuchi
bianchi e gli eunuchi neri, con visi di magi e d’idoli, scintillanti, impennacchiati, colle teste coperte
di cappelli persiani e di caschi metallici, di berrette purpuree, di turbanti strani, della forma di
mezzelune, di coni, di piramidi rovescie; armati di verghe d’acciaio, di pugnalacci e di fruste come
un branco d’assassini e di carnefici; e l’uno guarda in aria di disprezzo, un altro digrigna i denti, un
terzo caccia fuor dell’orbita due occhi assetati di sangue, un quarto sorride con un’espressione di
sarcasmo satanico. E in fine, il corpo dei giannizzeri, col suo santo patrono, Emin babà, scheletrito,
vestito d’una tunica bianca, e ufficiali di tutti i gradi simboleggiati dai varii uffici della cucina, e
soldati di ogni classe con tutti gli emblemi e tutte le divise di quell’esercito insolente sterminato
dalla mitraglia di Mahmud. E qui la bizzarria grottesca e puerile dei vestiari, mista al terrore delle
memorie, produce l’impressione d’una pagliacciata feroce. La più sbrigliata fantasia di pittore non
riuscirebbe mai a formare una così pazza confusione di vestimenti da re, da sacerdoti, da briganti,
da giullari. I «portatori d’acqua», i «preparatori della minestra», i «cuochi superiori», i «capi dei
guatteri», i soldati incaricati di servizii speciali, si succedono in lunghe file, colle scope e coi
cucchiai nei turbanti, cui sonagli appesi alle tuniche, cogli otri, colle marmitte famose che davano il
segnale delle rivolte, coi grandi berretti di pelo, colle larghe stoffe cadenti, come mantelli di
negromanti, dalla nuca sui lombi, colle larghe cinture di dischi di metallo cesellato, colle sciabole
gigantesche, cogli occhi di granchio, coi busti enormi, coi volti contratti in atteggiamenti di beffa, di
minaccia e d’insulto. Ultimi vengono i muti del Serraglio, col cordone di seta alla mano, e i nani e i
buffoni, con visi ributtanti di cretini inviperiti, e corone burlesche sul capo. Le grandi vetrine in cui
è chiusa tutta questa gente, danno al luogo una cert’aria di museo anatomico, che rende più
verosimile l’apparenza cadaverica dei simulacri e fa qualche volta torcere il viso con orrore. Arrivati
in fondo, sembra d’esser passati per una sala dell’antico serraglio, in mezzo a tutta la Corte,
agghiacciata di terrore da un grido minaccioso del Padiscià; ed uscendo e incontrando sulla piazza
dell’Atmeidan i pascià in abito nero e i nizam vestiti modestamente alla zuava, oh come par mite ed
amabile la Turchia dei nostri giorni!
E anche di ritorno irresistibilmente fra le tombe, in mezzo agli innumerevoli turbé imperiali
sparsi per la città turca, che rimarranno sempre nella mia memoria come una delle più gentili
manifestazioni dell’arte e della filosofia musulmana. Un firmano ci fece aprire, per il primo, il turbè
di Mahmud il riformatore, posto poco lontano dall’Atmeidan, in un giardino pieno di rose e di
gelsomini. È un bel tempietto esagono, di marmo bianco, coperto di una cupola rivestita di piombo,
sostenuto da pilastri ionici e rischiarato da sette finestre chiuse da inferriate dorate, alcune delle
quali guardano in una delle vie principali di Stambul. Le pareti interne sono ornate di bassorilievi e
decorate di tappeti di seta e di broccato. Nel mezzo sorge il sarcofago coperto di bellissimi scialli
persiani; e v’è sopra il fez, emblema della riforma, col pennacchietto scintillante di diamanti, e
intorno una graziosa balaustrata, intarsiata di madreperla, che racchiude quattro grandi candelabri
d’argento. Lungo le pareti ci sono i sarcofagi di sette sultane. Il pavimento è coperto di stuoie
finissime e di tappeti variopinti. Qua e là, sopra ricchi leggii, brillano dei corani preziosi, scritti in
caratteri d’oro. In una cassetta d’argento v’è un lungo pezzo di mussolina, arrotolato, tutto coperto
di minutissimi caratteri arabi, tracciati dalla mano di Mahmud. Prima di salire al trono, quando
viveva prigioniero nell’antico serraglio, egli trascrisse pazientemente su quel pezzo di stoffa una
gran parte del Corano, e morendo, ordinò che quel suo ricordo giovanile fosse posto sulla sua
tomba. Dall’interno del turbé si vede a traverso le inferriate dorate il verde del giardino e si sente
l’odor delle rose; una luce viva rischiara tutto il tempietto; tutti i rumori della città vi risuonano
come sotto un portico aperto; le donne e i fanciulli, dalla strada, s’affacciano alle finestre e
bisbigliano una preghiera. V’è in tutto questo un che di primitivo e di dolce, che tocca il cuore. Pare
che non il cadavere, ma l’anima del Sultano sia chiusa fra quelle pareti, e che veda e senta ancora il
suo popolo, che passa e lo saluta. Morendo, egli non ha fatto che cambiare di chiosco; dai chioschi
del Serraglio è venuto in quest’altro, non meno ridente, ed è sempre alla luce del sole, in mezzo allo
strepito della vita di Stambul, tra i suoi figli, anzi più vicino ad essi, sull’orlo della via, sotto gli
occhi di tutti, e mostra ancora al popolo il suo pennacchietto scintillante come quando andava alla
moschea, pieno di vita e di gloria, a pregare per la prosperità dell’Impero. E così son quasi tutti gli
altri turbé, quello d’Ahmed, quello di Bajazet, che appoggia la testa sopra un mattone composto
colla polvere raccolta dai suoi abiti e dalle sue babbuccie; quello di Solimano, quello di Mustafà e
di Selim III, quello d’Abdul-Hamid, quello della sultana Rosellana. Son tempietti sostenuti da
pilastri di marmo bianco e di porfido, luccicanti d’ambra e di madreperla; in alcuni dei quali scende
l’acqua piovana, per un’apertura della cupola, a bagnare i fiori e l’erbe intorno ai sarcofagi, coperti
di velluti e di trine; e dalle volte pendono ova di struzzo e lampade dorate che rischiarano le tombe
dei principi, disposte a corona intorno al sepolcro paterno, con su i fazzoletti che servirono a
strozzarli bambini o giovinetti; forse per indurre nei fedeli, colla pietà delle vittime, il sentimento
della necessità fatale di quei delitti. E ricordo, che a furia di vedere immagini di quelle morti,
cominciavo a sentire in me come un principio di asservimento del pensiero e del cuore alla iniqua
ragione di Stato che le sanciva; come a furia di trovare a ogni passo, nelle moschee, nelle fontane,
nei turbé, in mille immagini, ricordato e glorificato il nome d’un uomo, una potenza assoluta e
suprema, qualche cosa, dentro di me, cominciava a sottomettersi; come a furia di errare all’ombra
dei cimiteri e di fissare il pensiero nei sepolcri, cominciavo a considerare sotto un nuovo aspetto,
quasi sereno, la morte; a provare un sentimento più queto e più noncurante della vita; a
abbandonarmi a non so che filosofia odiosa, a un vagare indefinito del pensiero, a uno stato nuovo
dell’animo, in cui mi pareva che il meglio fosse passare il tempo placidamente sognando e lasciare
che quello che è scritto si compia. E provavo un sentimento improvvido di uggia e d’avversione
quando in mezzo a quelle fantasie serene e quiete, mi s’affacciava l’immagine delle nostre città
affaticate, delle nostre chiese oscure, dei nostri cimiteri murati e deserti.
[I dervis]
E anche i dervis mi passano dinanzi, fra le immagini di quegli ultimi giorni; e sono i dervis
Mevlevi (il più famoso dei trentadue ordini) che hanno un notissimo tekké in via di Pera. Ci andai
preparato a vedere dei volti luminosi di santi, rapiti da allucinazioni paradisiache. Ma ci ebbi una
gran delusione. Ahimè! anche nei dervis la fiamma della fede «lambe l’arido stame». La famosa
danza divina non mi parve che una fredda rappresentazione teatrale. Sono curiosi a vedersi, senza
dubbio, quando entrano nella moschea circolare, l’un dietro l’altro, ravvolti in un grande mantello
bruno, col capo basso, colle braccia nascoste, accompagnati da una musica barbara, monotona e
dolcissima, che somiglia al gemito del vento fra i cipressi del cimitero di Scutari, e fa sognare a
occhi aperti; e quando girano intorno, e s’inchinano a due a due dinanzi al Mirab, con un
movimento maestoso e languido che fa nascere un dubbio improvviso sul loro sesso. Così è pure
una bella scena quando buttano in terra il mantello con un gesto vivace, e appariscono tutti vestiti di
bianco, colla lunga gonnella di lana, e allargando le braccia in atto amoroso e rovesciando la testa, si
abbandonano l’un dopo l’altro ai giri, come se fossero slanciati da una mano invisibile; e quando
girano tutti insieme nel mezzo della moschea, equidistanti fra loro, senza scostarsi d’un filo dal
proprio posto, come automi sur un perno, bianchi, leggeri, rapidissimi, colla gonnella gonfia e
ondeggiante, e cogli occhi socchiusi; e quando si precipitano tutti insieme, come atterrati da una
apparizione sovrumana, soffocando contro il pavimento il grido tonante di Allà; e quando
ricominciano a inchinarsi e a baciarsi le mani e a girare intorno, rasente il muro, con un passo
grazioso tra l’andatura e la danza. Ma le estasi, i rapimenti, i volti trasfigurati, che tanti viaggiatori
videro e descrissero, io non li vidi. Non vidi che dei ballerini agilissimi e infaticabili che facevano il
loro mestiere colla massima indifferenza. Vidi anzi delle risa represse; scopersi un giovane dervis
che non pareva punto scontento d’esser guardato fisso da una signora inglese affacciata a una
tribuna in faccia a lui; e ne colsi sul fatto parecchi che, nell’atto di baciar le mani ai compagni,
tiravano a morderli di nascosto, e questi li respingevano a pizzicotti. Ah gl’ipocriti! Quello che mi
fece più senso fu il vedere in tutti quegli uomini, e ce n’eran d’ogni età e d’ogni aspetto, una grazia
e un’eleganza di mosse e d’atteggiamenti, che potrebbero invidiare molti dei nostri ballerini da
salotto; e che è certo un pregio naturale delle razze orientali, dovuto ad una particolare struttura del
corpo. E lo notai anche meglio un altro giorno, in cui potei penetrare in una celletta del tekké, e
veder da vicino un dervis che si preparava alla funzione. Era un giovane imberbe, alto e snello, di
fisonomia femminea. Si stringeva ai fianchi la sottana bianca, guardandosi nello specchio; si voltava
verso di noi e sorrideva; si tastava colle mani la vita sottile; si accomodava in fretta, ma con garbo, e
con un occhio d’artista, tutte le parti del vestimento, come una signora che dia gli ultimi tocchi alla
sua acconciatura; e visto di dietro, con quello strascico, presentava infatti il profilo di un bel fusto di
ragazza vestita da ballo che domandasse un giudizio allo specchio.... Ed era un frate!. Oh strane
cose in vero, come diceva Desdemona a Otello.
[Ciamligià]
Ma il più bello dei miei ultimi ricordi è sulla cima del monte Ciamligià, che s’alza alle spalle di
Scutari. Di diedi alla città il mio ultimo saluto, e fu l’ultima e la più splendida delle mie grandi
visioni di Costantinopoli. Andammo a Scutari allo spuntare del giorno con un tempo nebbioso. La
nebbia c’era ancora, quando s’arrivò sulla cima del monte; ma il cielo prometteva una giornata
serena. Sotto di noi, tutto era nascosto. Era uno spettacolo singolarissimo. Una immensa tenda
grigia orizzontale, che noi dominavamo tutta collo sguardo, copriva Scutari, il Bosforo, il Corno
d’oro, tutta Costantinopoli. Non si vedeva assolutamente nulla. La grande città, con tutti i suoi
sobborghi e tutti i suoi porti, pareva che fosse sparita. Era come un mare di nebbia da cui non usciva
che la cima di Ciamligià, come un’isola. E noi guardavamo quel mare grigio, immaginando di
essere due poveri pellegrini, venuti d’in fondo all’Asia Minore, e arrivati là, prima dell’alba, sopra
quella gran nebbia, senza sapere che ci fosse sotto la grande metropoli dell’Impero ottomano, e
provavamo un gran piacere a seguire colla fantasia il sentimento crescente di stupore e di meraviglia
che quei pellegrini avrebbero provato vedendo apparire a poco a poco, al levarsi del sole, sotto
quell’immenso velo grigio, la città meravigliosa e inaspettata. E infatti, di a poco, il velo
fittissimo si cominciò a rompere nello stesso tempo in varii punti. Si videro apparire qua e là, su
quella vasta superficie grigia, come tanti principii di città, che parevano isolette; un arcipelago di
cittadine nuotanti nella nebbia, e sparpagliate a grandi distanze: la cima di Scutari, le sette cime
delle colline di Stambul, la sommità di Pera, i sobborghi più alti della riva europea del Bosforo, la
cresta di Kassim Pascià, qualcosa di confuso dei più lontani sobborghi del Corno d’Oro, laggiù
verso Eyub e Hass-Kioi; venti piccole Costantinopoli, rosate ed aree, irte di innumerevoli punte
bianche, verdi e argentine. Poi ciascheduna prese a allargarsi, a allargarsi, come se s’innalzasse
lentamente sopra quel mare vaporoso, e venivan su, a galla, da tutte le parti, migliaia di tetti, di
cupole, di torri, di minareti, che pareva s’affollassero, o si schierassero in furia, per trovarsi al
proprio posto prima di esser sorprese dal sole. Già si vedeva sotto tutta Scutari; in faccia, quasi tutta
Stambul; sull’altra riva del Corno d’oro, la parte più alta di tutti i sobborghi che si stendono da
Galata alle Acque dolci; e sulla riva europea del Bosforo, Top-hané, Funduclú, Dolma bagcè, Besci-
tass, e via, a perdita d’occhi, città accanto a città, gradinate immense di edifizi, e città più lontane
che non mostravano che la fronte, suffuse dall’aurora d’un soavissimo rossore di corallo. Ma il
Corno d’oro, il Bosforo, il mare erano ancora nascosti. I pellegrini non ci avrebbero capito nulla.
Avrebbero potuto immaginare che l’immensa città fosse fabbricata sopra due valli profonde, e
perpetuamente nebbiose, di cui l’una entrasse nell’altra, e domandarsi che cosa si potesse
nascondere in quei due abissi misteriosi. Ma ecco, in pochi momenti, il grigio delle ultime nebbie si
chiarisce azzurreggia splende è acqua è una rada uno stretto un mare due mari: tutta
Costantinopoli è là, immersa in un oceano di luce, d’azzurro e di verde, che par creato da un’ora.
Ah! in quel punto, s’ha un bell’avere già contemplato da mille altezze quella bellezza, s’ha un
bell’averla scrutata in tutti i suoi particolari, e aver espresso in mille modi lo stupore e
l’ammirazione; ma bisogna strepitare e gridare ancora; e pensando che fra pochi giorni tutto sparirà
dai nostri occhi, per non esser più che un ricordo confuso, che quel velo di nebbia non si alzerà mai
più, che è quello il momento di dare l’ultimo addio a ogni cosa... non so... sembra di dover partire
per l’esilio e che l’orizzonte della nostra vita s’oscuri.
Eppure anche a Costantinopoli, negli ultimi giorni, ci colse la noia. La mente affaticata si
rifiutava alle nuove impressioni. Passavamo sul ponte senza voltarci. Tutto ci pareva d’un colore.
Giravamo senza scopo, sbadigliando, coll’aria di vagabondi sconclusionati. Passavamo ore ed ore
dinanzi a un caffè turco, cogli occhi fissi sui ciottoli, o alla finestra dall’albergo a guardare i gatti
che vagavano sui tetti delle case dirimpetto. Eravamo sazii d’Oriente; cominciavamo a sentire un
bisogno prepotente di raccoglimento e di lavoro. Poi piovve per due giorni: Costantinopoli si
convertì in un immenso pantano e diventò tutta grigia. E quello fu il colpo di grazia. Ci pigliò
l’umor nero, dicevamo corna della città, eravamo diventati insolenti, sfrontati, pieni di pretese e di
boria europea. Chi ce l’avesse detto il giorno dell’arrivo! E a che punto si giunse! Si giunse a far
festa il giorno che s’uscì dall’ufficio del Lloyd austriaco con due biglietti d’imbarco per Varna e per
il Danubio! Ma c’era un punto nero in quella festa, ed era il dispiacere di doverci separare dai nostri
buoni amici di Pera, coi quali passammo tutte quelle ultime sere, affettuosamente. Com’è tristo
questo dover sempre dire addio, e spezzar sempre dei legami, e lasciare un briciolo del proprio
cuore da per tutto! Non c’è dunque proprio in nessuna parte del mondo una bacchetta fatata con cui
io possa un giorno, a una data ora, far ricomparire tutti insieme intorno a una gran tavola imbandita
tutti i miei buoni amici sparsi alle quattro plaghe dei venti: te da Costantinopoli, Santoro; te dalle
rive dell’Affrica, Selam; te dalle dune dell’Olanda, Ten Brink; te, Segovia, dal Guadalguivir, e te,
Saavedra, dal Tago, per gridarvi che vi avrò sempre nel cuore? Ahimè! la bacchetta non si trova, e
intanto gli anni passano e le speranze volano via.
I TURCHI
Ora, prima di salire sul bastimento austriaco che fuma nel Corno d’oro, in faccia a Galata,
pronto a partire per il Mar Nero, mi rimane da esporre modestamente, da povero viaggiatore, alcune
osservazioni generali, che rispondano alla domanda: – Che cosa t’è parso dei Turchi? – osservazioni
spontanee, liberissime da ogni considerazione degli avvenimenti presenti, e ricavate tali e quali
dalle mie memorie di quei giorni. A quella domanda: Che cosa t’è parso dei Turchi? mi si
ravviva, per prima cosa, l’impressione che produsse in me, così il primo giorno che l’ultimo,
l’aspetto esteriore della popolazione maschia di Stambul. Anche non tenendo conto della differenza
delle forme fisiche, è un’impressione affatto diversa da quella che produce la gente di qualunque
altra città europea. Sembra di vedere un popolo – non so come render meglio la mia idea – nel quale
tutti pensino perpetuamente alla medesima cosa. La stessa impressione possono produrre, in un
abitante dell’Europa meridionale, che osservi superficialmente, gli abitanti delle città nordiche; ma
la cosa è molto diversa. Questi hanno la serietà e il raccoglimento di gente affaccendata, che pensi ai
fatti proprii; i turchi hanno l’aspetto di gente che pensi a qualche cosa remota e indeterminata.
Paiono tutti filosofi assorti in un’idea fissa, o sonnambuli, che camminino senza accorgersi del
luogo dove sono e delle cose che hanno intorno. Guardano tutti diritto e lontano come chi è abituato
a contemplare dei grandi orizzonti, e hanno una vaga espressione di tristezza negli occhi e nella
bocca, come chi è abituato a vivere molto chiuso in stesso. È in tutti la stessa gravità, la stessa
compostezza di modi, lo stesso riserbo del linguaggio, dello sguardo, dei gesti. Paiono tutti signori,
educati tutti ad un modo, dal pascià al merciaiolo, e ammantati d’una specie di dignità aristocratica,
la quale fa che nessuno s’accorgerebbe, a primo aspetto, che ci sia una plebe a Stambul, se non
fosse la differenza dei vestimenti. Son quasi tutti visi freddi, che non rivelano affatto l’animo e il
pensiero. È rarissimo trovare una di quelle fisonomie chiare, così frequenti tra noi, che sono come lo
specchio d’un’indole amorevole o appassionata o bisbetica, e che consentono un giudizio pronto e
sicuro dell’uomo. Fra loro ogni viso è un enimma; il loro sguardo interroga, ma non risponde; la
loro bocca non tradisce nessun movimento del cuore. Non si può dire quanto pesi sull’animo dello
straniero questo mutismo dei volti, questa freddezza, questa uniformità d’atteggiamenti statuarii e di
sguardi fissi, che non dicono nulla. A volte vien voglia di gridare in mezzo alla folla: – Ma scotetevi
una volta! diteci chi siete, che cosa pensate, che cosa vedete dinanzi a voi, per aria, con quegli occhi
di vetro! E la cosa par tanto strana, che si stenta quasi a credere che sia naturale; si dubita, in
qualche momento, che sia una finzione convenuta, o l’effetto passeggiero di qualche malattia
morale comune a tutti i musulmani di Costantinopoli. nell’occhio alle prime, però, in quella
uniformità di modi e d’atteggiamenti, una differenza notevole d’aspetto fra una parte e l’altra della
popolazione. I tratti originali della razza turca, che è bella e robusta, non son rimasti inalterati che
nel basso popolo, che serba per necessità o per sentimento religioso la sobrietà di vita dei suoi padri.
In esso si vedono i corpi asciutti e vigorosi, le teste ben formate, gli occhi vivi, il naso aquilino, le
ossa mascellari prominenti, e un che di forte e d’ardito in tutte le forme della persona. I turchi delle
alte classi, per contro, in cui è antica la corruzione e maggiore la mescolanza del sangue straniero,
hanno per lo più dei corpi grossi d’una molle pinguedine, teste piccine, fronti basse, occhi senza
lampo, labbra cadenti. E a questa differenza fisica corrisponde una non meno grande, o forse
maggiore differenza morale, che è quella che corre fra il turco vero, schietto, antico, e quell’essere
ambiguo, senza colore e senza sapore, che si chiama il turco della riforma. Dal che nasce una grande
difficoltà allo studiare quello che si chiama in modo generale il popolo turco; poichè colla parte di
esso, che ha serbato intatto il carattere nazionale, o non c’è modo di mescolarsi o non c’è verso
d’intendersi; e l’altra parte, colla quale c’è facilità di commercio e d’osservazione, non rappresenta
fedelmente l’indole ne le idee della nazione. Ma la corruzione la nuova tinta di civiltà
europea ha ancora tolto ai turchi delle classi superiori quel non so che d’austero e di vagamente
triste, che si osserva nel popolo basso, e che, non considerato negli individui, ma nella generalità
della popolazione, produce un’impressione innegabilmente favorevole. A giudicarne, in fatti,
dall’apparenza, la popolazione turca di Costantinopoli parrebbe la più civile e la più onesta
dell’Europa. Non si caso, nemmeno per le strade più solitarie di Stambul, che uno straniero sia
insultato; si possono visitare le moschee, anche durante le preghiere, con assai più sicurezza
d’essere rispettati che non potrebbe averne un turco che visitasse le nostre chiese; tra la folla, non
s’incontra mai uno sguardo, non dico insolente, ma neanche troppo curioso; rarissime le risse,
rarissima la gente del popolo che si scanagli in mezzo alla strada, nessun vocìo di donnacole alle
porte, alle finestre, nelle botteghe; nessun’apparenza pubblica di prostituzione, nessun atto
indecente; il mercato poco meno dignitoso della moschea; per tutto una gran parsimonia di gesti e di
parole; non canti, non risate clamorose, non schiamazzi plebei, non crocchi importuni che
impediscano il passo; visi, mani e piedi puliti; rari i cenci, e raramente sudici; punto becerume; e
una manifestazione universale e reciproca di rispetto fra tutte le classi sociali. Ma ciò non è che
apparenza. Il marcio è nascosto. La corruzione è dissimulata dalla separazione dei due sessi, l’ozio è
larvato dalla quiete, la dignità fa da maschera all’orgoglio, la compostezza grave dei visi, che pare
indizio di profondi pensieri, nasconde l’inerzia mortale dell’intelletto, e quella che sembra
temperanza civile di vita, non è che mancanza di vera vita. La natura, la filosofia, l’intera vita di
questo popolo è significata da uno stato particolare dello spirito e del corpo, che si chiama Kief, e
che è il supremo dei suoi piaceri. Aver mangiato parcamente, aver bevuto un bicchiere d’acqua di
fonte, aver detto le preghiere, sentire la carne quieta e la coscienza tranquilla, e star così, in un punto
da cui si veda un vasto orizzonte, seduti all’ombra d’un albero, seguitando collo sguardo i colombi
del cimitero sottoposto, i bastimenti lontani, gl’insetti vicini, le nuvole del cielo e il fumo del
narghilé, pensando vagamente a Dio, alla morte, alla vanità dei beni della terra e alla dolcezza del
riposo eterno d’un’altra vita: ecco il Kief. Star spettatore inoperoso del gran teatro del mondo: ecco
la grande aspirazione del turco. A questo lo porta la sua natura antica di pastore contemplativo e
lento, la sua religione che lega le braccia all’uomo, rimettendo ogni cosa a Dio, la sua tradizione di
soldato dell’islamismo, per il quale non c’è altra azione veramente grande e necessaria che
combattere e vincere per la propria fede, e finita la battaglia, ogni dovere è compiuto. Per lui, tutto è
fatale; l’uomo non è che uno strumento nelle mani della Provvidenza; è inutile che egli si agiti per
dare alle cose umane altro corso da quello che è prescritto nel cielo; la terra è un caravanserai; Dio
ha creato l’uomo perchè vi passi, pregando e ammirando le suo opere; lasciamo fare a Dio; lasciamo
cadere quello che cade e passare quello che passa; non ci affanniamo per rinnovare, non ci
affanniamo per conservare. Così il suo supremo desiderio è la quiete, ed egli si preserva con somma
cura da tutte le commozioni che possono turbare l’armonia pacata della sua vita. Quindi avidità
di sapere, nè febbre di guadagni, furore di viaggi, passioni vaghe e inappagabili d’amore e
d’ambizione. La mancanza dei moltissimi bisogni intellettuali e fisici, per soddisfare i quali noi
lottiamo con un lavoro continuo, fa ch’egli non comprenda nemmeno in noi la ragione di questo
lavoro. Egli lo considera come un indizio di aberrazione morbosa del nostro spirito. L’ultimo scopo
d’ogni fatica parendogli necessariamente la pace di cui egli gode senza affaticarsi, gli pare altresì
che sia più saggio e più utile l’arrivarci per la via breve e piana per cui egli ci arriva. Tutto il grande
lavorìo di pensieri e di braccia dei popoli europei, gli pare un anfanamento puerile, perchè non ne
vede gli effetti in una possessione maggiore della sua felicità ideale. Non lavorando, non ha
sentimento del valore del tempo; e mancandogli questo sentimento, non può desiderare
pregiare tutti i trovati dell’ingegno umano che tendono ad accelerare la vita e il cammino
dell’umanità. È capace di domandarsi a che cosa giovi una strada ferrata se non conduce a una città
dove si possa viver più felici che in quella da cui si parte. La sua fede fatalista, che gli fa parer vano
il darsi pensiero dell’avvenire, è cagione pure ch’egli non pregi nessuna cosa se non per quel tanto
di godimento sicuro e immediato che gli può procurare. Perciò non gli pare che un sognatore
l’europeo che prevede e che prepara, che getta le fondamenta d’un edifizio di cui non vedrà il
compimento, che consuma le sue forze, che sacrifica la sua pace ad un fine dubbio e lontano. Perciò
giudica la nostra razza una razza frivola, meschina, presuntuosa, imbastardita, di cui il solo pregio è
una scienza orgogliosa delle cose terrene, ch’egli disdegna, se non in quanto è costretto a valersene
per non rimanerci al di sotto. E ci disprezza. Per me è questo il sentimento dominante che ispiriamo
noi europei ai veri turchi che costituiscono ancora la grande maggioranza della nazione; e si potrà
negare e fingere di non crederci; ma non si può non sentire da chi sia vissuto poco o molto in mezzo
a loro. E questo sentimento di disprezzo deriva da molte cagioni: la prima delle quali è la
considerazione d’un fatto significantissimo per essi: che cioè, da più di quattro secoli, benchè
relativamente scarsi di numero, dominano una gran parte di Europa di fede avversa alla loro, e vi si
mantengono malgrado tutto quello che accadde e che accade. La parte minima della nazione vede la
cagione di questo fatto nelle gelosie e nelle discordie degli Stati d’Europa; la parte maggiore la vede
invece nella superiorità delle proprie forze, e nel nostro avvilimento. Non cade neppur nella mente,
infatti, a nessun turco del volgo che un’Europa islamitica avrebbe subito e subirebbe l’affronto
d’una conquista cristiana dai Dardanelli al Danubio. Ai vanti della nostra civiltà, essi oppongono il
fatto della loro dominazione. Orgogliosi di sangue, fortificati in quest’orgoglio dalla consuetudine
dell’impero, abituati a sentirsi dire, in nome di Dio, ch’essi appartengono a una razza conquistatrice,
nata alla guerra, non al lavoro, abituati anzi a vivere del lavoro dei vinti, non comprendono
nemmeno come i popoli soggetti a loro possano accampare un diritto qualsiasi all’eguaglianza
civile. Per loro, posseduti da una fede cieca nel regno sensibile della Provvidenza, la conquista
dell’Europa è stata l’adempimento di un decreto di Dio; è Dio che li ha investiti, in segno di
predilezione, di questa sovranità terrena; e il fatto ch’essi la conservino, contro tante forze ostili, è
una prova incontestabile del loro diritto divino, e nello stesso tempo un argomento luminoso in
favore della verità della loro fede. Contro questo loro sentimento si spezzano tutti i ragionamenti di
civiltà, di diritto, d’eguaglianza. La civiltà per loro non è che una forza ostile che vuol disarmarli
senza combattere, a poco a poco, a tradimento, per abbassarli a paro dei loro soggetti e spogliarli
della loro dominazione. Quindi, oltre al disprezzarla come vana, la temono come nemica; e poichè
non possono respingerla colla forza, le oppongono la invincibile resistenza della loro inerzia.
Trasformarsi, incivilirsi, eguagliarsi ai loro soggetti, essi comprendono che significa doversi mettere
a gareggiare con quelli d’ingegno, di studio e di lavoro; acquistare una superiorità nuova; rifare
colle forze dello spirito la conquista già fatta colla spada; e a questo s’oppone, oltre il loro interesse
materiale di dominatori, il loro disprezzo religioso per gli infedeli, la loro alterezza soldatesca, la
loro indolenza fatta seconda natura, l’indole del loro ingegno mancante d’ogni facoltà iniziatrice, e
intorpidito nell’immobilità di quelle cinque idee tradizionali, che formano tutto il patrimonio
intellettuale della nazione. Essi non vedono, d’altra parte, in quella classe sociale, che accetta,
secondo loro, la civiltà europea, e che rappresenta ai loro occhi lo stato in cui l’Europa vorrebbe
veder ridotti tutti i figli d’Osmano, non vedono in quei loro fratelli in soprabito e in guanti, che
balbettano il francese e non vanno alla moschea, un esempio che possa ragionevolmente convertirli.
Come rappresenta la civiltà quella parte della nazione ottomana? Su questo son presso a poco tutti
d’accordo. Il nuovo turco non vale il vecchio. Egli ha preso i nostri panni, i nostri comodi, i nostri
vizii, le nostre vanità; ma non ha accolto, per ora, i nostri sentimenti, le nostre idee; e in
questa trasformazione parziale, ha perduto quello che c’era di buono in fondo alla sua natura
genuina di Osmano. Il vecchio turco non vede per ora altri frutti dell’incivilimento che una più
diffusa peste dicasterica, un’impiegataglia innumerevole, oziosa, inetta, miscredente, rapace,
mascherata alla franca, che disprezza tutte le tradizioni nazionali, e una specie di jeunesse dorée,
corrotta e sfrontata, che promette di riuscire assai peggiore dei suoi padri. Così vestire e così vivere,
giusta il concetto del vero turco, è esser civili; e infatti egli chiama fare, pensare, vivere alla franca,
tutti gli usi e tutte le azioni che non solo la sua coscienza di maomettano, ma la coscienza di
qualunque uomo onesto condanna. Considera quindi gli «inciviliti», non come musulmani più
avanzati degli altri sulla via d’un miglioramento qualsiasi; ma come gente scaduta, traviata, poco
meno che apostata e che traditrice della nazione; e diffida delle novità, e le respinge per quanto è in
lui, non foss’altro che perchè gli vengono da quella parte, in cui egli ne vede tutto giorno gli effetti
funesti. Ogni novità europea è per lui un attentato contro il suo carattere e contro i suoi interessi. Il
governo è rivoluzionario, il popolo è conservatore; la semenza delle nuove idee casca in un terreno
rigido e unito che le rifiuta gli umori per la fecondazione; la mano di chi regge le cose, stringe ed
agita l’elsa; ma la lama gira nel manico. Questa è la ragione per cui tutta l’opera riformatrice che si
va tentando da cinquant’anni, non ha ancora passato la prima pelle della nazione. Si sono mutati i
nomi, sono rimaste le cose. Il poco che fu fatto, fu fatto colla violenza, e a questo il popolo
attribuisce l’audacia crescente degl’infedeli, la corruzione che piglia campo nel cuore dell’impero, e
tutte le sventure nazionali. Perchè mutare le nostre istituzioni, egli si domanda, se son quelle colle
quali abbiamo vinto e dominato per secoli? Perchè adottar quelle che non ebbero forza di resistere
all’urto della nostra spada? L’organesimo, la vita, le tradizioni del popolo turco son quelle d’un
esercito vincitore accampato in Europa; esso ne esercita il comando, ne gode i privilegi e gli ozii, e
ne sente l’orgoglio; e come tutti gli eserciti, preferisce la disciplina di ferro, che gli concede la
prepotenza sui vinti, a una disciplina più mite, ma che incatena il suo arbitrio di vincitore. Ora lo
sperare che questo stato di cose, immobile da secoli, possa mutare nel giro di pochi anni, è un
sogno. Le avanguardie leggere della civiltà possono procedere quanto vogliono rapidamente; ma il
grosso dell’esercito, carico ancora delle pesanti armature medioevali, o non si muove, o non le
segue che alla lontana, a lentissimo passo. Non sono che cose di ieri, convien ricordarsi, il
dispotismo cieco, i giannizzeri, il serraglio coronato di teste, il sentimento dell’invincibilità degli
osmani, il raià considerato e trattato con un essere immondo, gli ambasciatori di Francia vestiti e
pasciuti sul limitare della sala del trono, per simboleggiare la vile povertà degl’infedeli al cospetto
del Gran Signore. Ma su questo argomento, non c’è, credo, gran disparità di pareri nemmeno fra gli
Europei e i Turchi medesimi. La disparità dei giudizii, e quindi la difficoltà per uno straniero di dare
un giudizio proprio, è nell’estimazione delle intime qualità individuali del turco; poichè a
interrogarne i raià, non si sentono che i vilipendii dell’oppresso contro l’oppressore; a domandarne
gli Europei liberi delle colonie, i quali non hanno ragione nè di temere di odiare gli Osmani, non
solo, ma hanno mille ragioni di compiacersi dello stato attuale delle cose, non si ottengono in
generale che giudizii, forse coscienziosamente, ma certo eccessivamente favorevoli. I più di questi
sono concordi nel riconoscere il turco probo, franco, leale, e sinceramente religioso. Ma riguardo al
sentimento religioso, la cui conservazione gli potrebbe esser tenuta in conto d’un grande merito, è
da notarsi che la religione in cui si mantiene saldo, non s’oppone ad alcune delle sue tendenze e ad
alcuno dei suoi interessi; accarezza, anzi, la sua natura sensuale, giustifica la sua inerzia, sancisce la
sua dominazione; egli vi si attiene tenacemente, poichè sente che la sua nazionalità è nel suo dogma
e il suo destino nella sua fede. Riguardo alla probità, si citano molte prove di fatti individuali dei
quali si potrebbero citare esempi innumerevoli anche fra il più corrotto popolo europeo. Ma è da
considerarsi, anche a questo riguardo, che non ha poca parte l’ostentazione nella probità che mostra
il turco nei suoi commerci coi cristiani, coi quali fa spesso per orgoglio quello che non farebbe per
semplice impulso della coscienza, poichè gli ripugna di comparire dappoco in faccia a gente a cui si
tiene superiore di razza e di valore morale. Così nascono pure dalla sua stessa condizione di
dominatore certe qualità, astrattamente pregevoli, di franchezza, di fierezza, di dignità, che non è
ben certo se avrebbe conservate, messo nella condizione di chi gli è soggetto. Non gli si può negare,
però, il sentimento della carità, il quale è il solo balsamo agl’infiniti mali della sua società mal
ordinata, benchè incoraggi l’indolenza e moltiplichi la miseria; altri sentimenti che sono indizii
di gentilezza d’animo, come la gratitudine ch’egli serba per i più piccoli benefizii, il culto dei morti,
la cortesia ospitale, il rispetto degli animali. È bello il suo sentimento dell’eguaglianza di tutte le
classi sociali. È innegabile una certa moderazione severa della sua indole, che traspare dagli
innumerevoli proverbi pieni di saggezza e di prudenza; una certa semplicità patriarcale, una
tendenza vaga alla solitudine e alla malinconia, che esclude la volgarità e la tristizia dell’animo.
Senonchè tutte queste qualità galleggiano, per così dire, al sommo dell’anima sua, nella quiete non
turbata della vita ordinaria; e v’è in fondo, come addormentata, la sua violenta natura asiatica, il suo
fanatismo, il suo furore di soldato, la sua ferocia di barbaro, che, stimolati, prorompono, e ne balza
fuori un altr’uomo. Il perchè è giusta la sentenza che il turco ha un’indole mitissima quando non
taglia le teste. Il tartaro è come rannicchiato dentro di lui, e assopito. Il vigore nativo è rimasto
intero in lui, quasi custodito dalla indolente mollezza della sua vita, la quale non se ne serve che
nelle occasioni supreme. Così gli è rimasto intero il coraggio di cui la cultura dell’intelligenza
rallenta la molla, raffinando il sentimento della vita, resa più cara dal concetto e dalla speranza di
godimenti maggiori. In lui la passione religiosa e guerriera trova un campo non guasto da dubbi,
da ribellioni dello spirito, da cozzi d’idee; una sostanza tutta e istantaneamente infiammabile;
un uomo tutto d’un pezzo che scatta, a un tocco, tutto intero; una lama sempre affilata, su cui non è
scritto che il nome d’un Dio e d’un Sovrano. La vita sociale ha appena digrossato in lui l’uomo
antico della steppa e della capanna. Spiritualmente, egli vive ancora nella città presso a poco come
viveva nella tribù, in mezzo alla gente, ma solitario coi suoi pensieri. Non c’è, anzi, fra loro, una
vera vita sociale. La vita dei due sessi l’immagine di due fiumi paralleli, i quali non confondono
le loro acque, se non qua e per via di comunicazioni sotterranee. Gli uomini si raccolgono fra
loro, ma non vivono in intimità di pensiero gli uni cogli altri; si avvicinano, ma non si legano;
ciascuno preferisce alla espansione di medesimo, quella che un grande poeta definì mirabilmente
la vegetazione sorda delle idee. La nostra conversazione, agile e varia, che scherza, discute, insegna,
ricrea, il nostro bisogno di dare e di ricevere sentimenti e pensieri, questa estrinsecazione reciproca
del nostro essere, in cui l’intelligenza si esercita e il cuore si riscalda, pochissimi tra loro la
conoscono. I loro discorsi radono quasi sempre la terra e trattano per lo più di cose materialmente
necessarie. L’amore è escluso, la letteratura è privilegio di pochi, la scienza è un mito, la politica si
riduce per lo più a una quistione di nomi, gli affari non occupano che una piccolissima parte nella
vita del maggior numero. Alle discussioni astratte la natura della loro intelligenza si rifiuta. Essi non
comprendono bene che quello che vedono e quello che toccano; del che è una prova la loro lingua
stessa, la quale difetta ogni volta che c’è da esprimere un’astrazione; per il che i turchi istruiti sono
costretti a ricorrere all’arabo e al persiano, o a una lingua europea. Essi non sentono il bisogno,
d’altra parte, di forzare la mente a comprendere cose che son fuori dei loro desiderii, e quasi della
loro vita. Il persiano è più investigatore, l’arabo è più curioso: il turco non ha che una suprema
indifferenza per quello che non conosce. E non avendo idee da scambiare, non cerca la compagnia
degli europei; e non ama le loro interminabili e sottili discussioni, loro stessi. ci può esser
intera confidenza fra gli uni e gli altri, dacchè l’uno dei due nasconde perpetuamente una parte di sè:
i suoi affetti più intimi, la sua casa, i suoi piaceri, e quello che più importa, il vero sentimento che
nutre verso l’altro; che è un sentimento invincibile di diffidenza. Il turco tollera l’armeno, sprezza
l’ebreo, odia il greco, diffida del franco. Sopporta, in generale, tutti quanti, come un grosso animale
che si lascia passeggiare sulla schiena una miriade di mosche, riserbandosi a darci su una codata
quando si senta pungere nel vivo. Lascia che tutti facciano, armeggino, rimestino ogni cosa intorno
a lui; si vale degli europei che gli possono essere utili; accetta le novazioni materiali di cui
riconosce il vantaggio immediato; sta a sentire senza batter palpebra le lezioni di civiltà che gli si
danno; muta leggi, foggie e cerimoniali; impara a ripetere correttamente le nostre sentenze
filosofiche; si lascia travestire, imbellettare, mascherare; ma dentro è sempre, immutabilmente,
invincibilmente lo stesso. Eppure ripugna alla ragione il rassegnarsi a credere che l’azione lenta e
continua della civiltà non possa, in un periodo di tempo indeterminato, infondere la scintilla d’una
nuova vita in questo gigantesco soldato asiatico, che dorme a traverso ai due continenti, e non si
sveglia mai che per brandire la spada. Ma considerando gli sforzi fatti e i frutti ottenuti sinora,
questo periodo di tempo appare alla mente tanto lungo, in confronto ai bisogni e alle impazienze dei
popoli cristiani d’Oriente, da rendere vana la speranza che la quistione intorno a cui s’affanna ora
l’Europa si possa risolvere coll’incivilimento progressivo del popolo turco. Questa è l’opinione che
mi son formata nel mio breve soggiorno a Costantinopoli. O in che altro modo si può dunque
risolvere la quistione? Ah! signori, qui proprio non mi credo obbligato a rispondere, perchè non
potrei rispondere senz’aver l’aria di dar consigli all’Europa; e a questo si rifiuta inesorabilmente la
mia modestia. E poi... l’ho già detto che v’è un bastimento austriaco che fuma sul Corno d’oro, in
faccia a Galata, pronto a partire per il Mar Nero; e il lettore lo sa dove deve passare, questo
bastimento!
IL BOSFORO
Appena saliti a bordo, vediamo come un velo grigio stendersi su Costantinopoli, e su questo
velo disegnarsi le montagne della Moravia e dell’Ungheria, e le alpi della bassa Austria. È un rapido
cangiamento di scena che si vede sempre salendo sopra un bastimento in cui s’incontrano già i visi e
si sentono g gli accenti del paese per cui si parte. Siamo imprigionati in un cerchio di faccie
tedesche che ci fanno sentire innanzi tempo il freddo e l’uggia del settentrione. I nostri amici ci
hanno lasciati: non vediamo più che tre fazzoletti bianchi che sventolano sopra un caicco lontano, in
mezzo a un via vai di barconi neri, in faccia alla casa della dogana. Siamo nello stessissimo punto in
cui si fermò il nostro bastimento siciliano il giorno dell’arrivo. È una bella sera d’autunno,
splendida e tiepida. Costantinopoli non ci è mai parsa così ridente e così grande. Per l’ultima volta
cerchiamo di fissarci nella mente i suoi contorni immensi e i suoi colori vaghi di città fatata; e
slanciamo lo sguardo per l’ultima volta in fondo a quel meraviglioso Corno d’oro, che ci si
nasconderà fra pochi momenti per sempre. I fazzoletti bianchi sono scomparsi. Il bastimento si
muove. Tutto pare che si sposti. Scutari viene avanti, Stambul si tira indietro, Galata gira sopra
stessa, come per vederci partire. Addio al Corno d’oro! Un guizzo del bastimento ci rapisce il
sobborgo di Kassim-Pascià, un altro guizzo ci porta via Eyub, un altro, la sesta collina di Stambul;
scompare la quinta, si nasconde la quarta, svanisce la terza, sfuma la seconda; non rimane più che la
collina del Serraglio, la quale, grazie al cielo, non ci lascierà per un pezzo. Navighiamo già nel bel
mezzo del Bosforo, rapidamente. Passa il quartiere di Top-hané, passa il quartiere di Funduclù;
fuggono le facciate bianche e cesellate del palazzo di Dolma-Bagcé; e Scutari distende, per l’ultima
volta, il suo anfiteatro di colli coperti di giardini e di ville. Addio, Costantinopoli! cara e immensa
città, sogno della mia infanzia, sospiro della mia giovinezza, ricordo incancellabile della mia vita!
Addio, bella e immortale regina dell’Oriente! Che il tempo muti le tue sorti, senza offendere la tua
bellezza, e possano vederti un giorno i miei figli colla stessa ebbrezza d’entusiasmo giovanile colla
quale io ti vidi e t’abbandono.
La mestizia dell’addio, però, non durò che pochi momenti, perchè un’altra Costantinopoli, più
vasta, più bella, più allegra di quella che lasciavo sul Corno d’oro, mi si stendeva dinanzi per la
lunghezza di ventisettemila metri, sulle due più belle rive della terra.
Il primo villaggio che si presenta a sinistra, sulla riva europea del Bosforo, è Bescik-Tass; un
grosso villaggio turco, o piuttosto un grande sobborgo di Costantinopoli, che si stende ai piedi d’una
collina, intorno a un piccolo porto. Dietro gli s’apre una bella valle; l’antica valle degli allori di
Stefano, di Bisanzio, che rimonta verso Pera; fra le case s’innalza un gruppo di platani che
ombreggiano il sepolcro del famoso corsaro Barbarossa; un gran caffè, stipato di gente, sporge sulle
acque, sorretto da una selva di palafitte; il porto è pieno di barche e di caicchi; la riva affollata; la
collina coperta di verzura, la valle piena di case e di giardini. Ma non c’è più l’aspetto dei sobborghi
di Costantinopoli. C’è già la grazia e la gaiezza tutta propria e indimenticabile dei villaggi del
Bosforo. Le forme son più piccine, la verzura più fitta, i colori più arditi. È come una nidiata di
casette ridenti, che paiono sospese fra la terra e l’acqua, una cittadina da innamorati e da poeti,
destinata a durare quanto una passione od un estro, piantata per un capriccio, in una bella notte
d’estate. Non vi si è ancora fissato lo sguardo, che già è lontana, e ci passa davanti il palazzo di
Ceragan, o piuttosto una schiera di palazzi di marmo bianco, semplici e magnifici, decorati di
lunghe file di colonne e coronati di terrazze a balaustri, sui quali si drizza una merlatura vivente
d’innumerevoli uccelli bianchi del Bosforo, messi in rilievo dal verde vigoroso delle colline della
riva. Ma qui comincia il caro tormento di veder fuggire mille bellezze, nel punto che se ne ammira
una sola. Mentre noi contempliamo Bescik-Tass e Ceragan, dall’altra parte fugge la riva asiatica,
coperta di villaggi deliziosi, che si vorrebbero poter comprare e portar via, come gioielli. Fugge
Kuzgundgiuk, tinto di tutti i colori dell’iride, col suo piccolo porto, dove dice la tradizione che
approdasse la giovenca Io, dopo aver attraversato il Bosforo, per salvarsi dai tafani di Giunone;
passa Istauros, colla sua bella moschea dai due minareti; scompare il palazzo imperiale di
Beylerbey, coi suoi tetti conici e piramidali, e le sue mura gialle e grigie, che presenta l’aspetto
misterioso e bizzarro di un convento di principesse; e poi il villaggio di Beylerbey, riflesso dalle
acque, dietro al quale s’innalza il monte di Bulgurlù; e tutti questi villaggi, raccolti o sparsi ai piedi
di piccole colline verdissime, e tuffati in una vegetazione opulenta, che par che tenda a coprirli,
sono legati fra loro da ghirlande di ville e di casette e da lunghi filari d’alberi che corrono lungo la
riva, o scendono a zig zag dalle alture al mare, a traverso a innumerevoli giardini e orti e piccoli
prati, disposti a scacchi e a scaglioni, e coloriti d’infinite sfumature di verde.
Bisogna dunque rassegnarsi a veder tutto di volo, girando continuamente la testa a destra e a
sinistra, con una regolarità automatica. Oltrepassato di poco Ceragan, si vede, a sinistra, sulla riva
europea, il grande villaggio Orta-Kioi, al di sopra del quale mostra la sua cupola luccicante la
moschea della Sultana Validè, madre d’Abdul-Aziz, e sporge i suoi tetti graziosi il palazzo di Riza-
Pascià; ai piedi d’una collina, sulla cui cima, in mezzo a una folta vegetazione, s’alzano le muraglie
bianche e leggiere del chiosco imperiale della Stella. Orta-Kioi è abitato da molti banchieri armeni,
franchi e greci. In quel momento vi approdava il piroscafo di Costantinopoli. Una folla sbarcava,
un’altra folla stava aspettando sullo scalo, per imbarcarsi. Erano signore turche, signore europee,
ufficiali, frati, eunuchi, zerbinotti, fez, turbanti, cappellini, cappelli a staio, confusi: spettacolo che si
vede in tutte le venti stazioni del Bosforo, principalmente la sera. In faccia a Orta-Kioi, sulla riva
asiatica, brilla di mille colori, in mezzo a una corona di ville, il villaggio di Cengel, dell’ancora, da
una vecchia ancora di ferro che trovò su quella riva Maometto II; e gli si alza alle spalle il chiosco
bianco, di trista memoria, da cui Murad IV, roso da un’invidia feroce, ordinava la morte della gente
allegra che passava pei campi cantando. Guardando daccapo verso l’Europa, ci troviamo in faccia al
bel villaggio e al porto grazioso di Kuru-Cesmé, l’antica Anaplos, dove Medea, sbarcata con
Giasone, piantò l’alloro famoso; e voltandoci nuovamente verso l’Asia, vediamo i due villaggi
ridenti di Kulleli e di Vani-Kioi, sparsi lungo la riva, a destra e a sinistra d’una smisurata caserma,
simile a un palazzo reale, che si specchia nelle acque. Dietro ai due villaggi s’alza una collina
coronata da un grande giardino, in mezzo al quale biancheggia, quasi tutto nascosto dagli alberi, il
chiosco dove Solimano il Grande visse tre anni, nascosto in una piccola torre, per sottrarsi alle
ricerche delle spie e dei carnefici di suo padre Selim. Mentre noi cerchiamo la torre fra gli alberi, il
bastimento passa dinanzi ad Arnot-Kioi, il villaggio degli Albanesi, ora abitato da Greci, disteso in
forma di mezzaluna, sulla riva europea, intorno a un piccolo seno, pieno di bastimenti a vela. Ma
come si può vedere ogni cosa? Un villaggio ci ruba l’altro, una bella moschea ci distrae da un
paesaggio gentile, e mentre si guardano i villaggi ed i porti, passano i palazzi dei vizir, dei pascià,
delle Sultane, dei grandi eunuchi, dei gran signori; case gialle, azzurre e purpuree, che paiono
galleggianti sull’acqua, vestite d’edera e di liane, coperte di terrazze colme di fiori, e mezzo
nascoste in boschetti di cipressi, d’allori e d’aranci; edifizi sormontati da frontoni corinzii e decorati
di colonne di marmo bianco; villette svizzere, casine giapponesi, piccole reggie moresche, chioschi
turchi, di tre piani, sporgenti l’uno sull’altro, che sospendono sull’azzurro del Bosforo i balconi
ingraticolati degli arem, e spingono innanzi i loro piccoli scali a gradinate e i loro giardinetti
accarezzati dalla corrente; tutti piccoli edifizii leggeri e passeggieri, che rappresentano appunto la
fortuna dei loro abitatori: il trionfo d’una giovinetta, il buon successo d’un intrigo, un’alta carica
che sarà perduta domani, una gloria che finirà nell’esilio, una ricchezza che svapora, una grandezza
che crolla. Non c’è quasi tratto delle due rive che non sia coperto di case. È una specie di Canal
grande d’una smisurata Venezia campestre. Le ville, i chioschi, i palazzi s’alzano l’un dietro l’altro,
disposti in modo che tutta la facciata di ciascheduno è visibile, e quei di dietro paiono piantati sul
tetto di quei davanti, e in mezzo agli uni e agli altri, e di dai più lontani, tutto è verde, per tutto
s’alzano punte e chiome di quercie, di platani, d’aceri, di pioppi, di pini, di fichi, fra cui
biancheggiano fontane e scintillano cupolette di turbé e di moschee solitarie.
Voltandoci verso Costantinopoli, vediamo ancora, confusamente, la collina del Serraglio, e la
cupola enorme di Santa Sofia, che nereggia sul cielo limpido e dorato. Intanto sparisce Arnot-Kioi,
Vani, Kulleli, Cengel, Orta, e tutto è mutato intorno a noi. Par di essere in un vasto lago. Una
piccola baia si apre a sinistra, sulla riva europea; un’altra piccola baia a destra, sulla riva asiatica.
Sulla riva di sinistra si stende a semicerchio la bella cittadina greca di Bebek, ombreggiata da alberi
altissimi, fra i quali sorge una bella moschea antica e il chiosco imperiale d’Humaiun-Habad, dove
altre volte i Sultani ricevevano a convegni segreti gli ambasciatori europei. Una parte della città si
nasconde nella verzura folta d’una piccola valle; un’altra parte si sparpaglia alle falde d’una collina,
coperta di quercie, sulla cima della quale è un bosco famoso per un’eco potentissima, che risponde
alla pesta d’un cavallo collo scalpitìo d’uno squadrone. È un paesaggio grazioso e ridente da
incapricciare una regina; ma si dimentica, voltandosi dalla parte opposta. Qui la riva dell’Asia offre
una veduta da paradiso terrestre. Sopra un largo promontorio si distende, ad arco sporgente, il
villaggio di Kandilli, variopinto come un villaggio olandese, con una moschea bianchissima, e un
folto corteo di villette; dietro al quale s’alza la collina florida di Igiadié, sormontata da una torre
merlata, che spia gl’incendii sulle due rive. A destra di Kandilli, sboccano sulla baia, a breve
distanza l’una dall’altra, due valli: quella del grande e quella del piccolo ruscello celeste, fra le quali
si stende la prateria deliziosa delle Acque dolci d’Asia, coperta di sicomori, di quercie e di platani, e
dominata dal chiosco ricchissimo della madre d’Abdul-Megid, disegnato e scolpito sullo stile del
palazzo di Dolma-Bagcé, e circondato di alti giardini, rosseggianti di rose. E di dal «gran ruscello
celeste» si vedono ancora i mille colori del villaggio d’Anaduli-Hissar, steso alle falde d’un’altura,
su cui si drizzano le torri snelle del castello di Baiazet-Ilderim, che fronteggia il castello di
Maometto II, posto sulla riva europea. Tutto questo bel tratto del Bosforo, in quel momento, era
pieno di vita. Nella baia di Europa guizzavano centinaia di barchette; passavano legni a vela e a
vapore, diretti al porto di Bebek; i pescatori turchi gettavano le reti dai loro gabbiotti aerei, sostenuti
sull’acqua da altissime travi incrociate; un piroscafo di Costantinopoli versava sullo scalo della
cittadina europea una folla di signore greche, di Lazzaristi, di allievi della scuola protestante
americana, di famigliuole cariche d’involti e di vesti; e dalla parte opposta, si vedevano, col
cannocchiale, gruppi di signore musulmane, che passeggiavano sotto gli alberi delle Acque dolci, o
stavano sedute in crocchio sulla sponda del ruscello celeste, mentre un gran numero di caicchi e di
barche a baldacchino, piene di turchi e di turche, andavano e venivano lungo la riva. Pareva una
festa. Era un non so che d’arcadico e d’amoroso, che metteva voglia di buttarsi giù dal bastimento,
di raggiungere a nuoto una delle due rive, e di piantarsi là, e di dire: Nasca che nasca, non mi
voglio più muovere di qui; voglio vivere e morir qui, in mezzo a questa beatitudine musulmana.
Ma a un tratto lo spettacolo cangia e tutte quelle fantasie pigliano il volo. Il Bosforo si stende
diritto dinanzi a noi, e presenta una vaga immagine del Reno; ma d’un Reno ingentilito, e tinto
sempre dei colori caldi e pomposi dell’oriente. A sinistra, un cimitero coperto da un bosco di
cipressi e di pini, rompe la linea delle case, sino a quel punto non interrotta; e subito appresso, alle
falde del piccolo monte roccioso d’Hermaion, s’innalzano le tre grandi torri di Rumili-Hissar, il
castello d’Europa, circondate di avanzi di mura merlate e di torri minori, che scendono in una
gradinata pittoresca di rovine fin sull’orlo della riva. È il castello famoso che innalzò Maometto II
un anno prima della presa di Costantinopoli, malgrado le calde rimostranze di Costantino, i cui
ambasciatori, come tutti sanno, furono rimandati indietro minacciati di morte. È quello il punto in
cui è più impetuosa la corrente (chiamata perciò «gran corrente» dai Greci e corrente di Satana dai
Turchi) ed è pure il tratto più stretto del Bosforo, non distando le due rive che poco più di
cinquecento metri. fu gettato da Mandocle di Samo il ponte di barche su cui passarono i
settecentomila soldati di Dario, e pure si crede che siano passati i diecimila, ritornando dall’Asia.
Ma non rimane più traccia delle due colonne di Mandocle, del trono scavato nella roccia del
monte Hermaion, dal quale il re persiano avrebbe assistito al passaggio del suo esercito. Un piccolo
villaggio turco sorride segretamente, rannicchiato ai piedi del castello, e la riva asiatica fugge
sempre più verde e più allegra. È una successione continua di casette di barcaioli e di giardinieri, di
vallette che riboccano di vegetazione, di piccoli seni solitarii quasi coperti dai rami giganteschi
degli alberi della riva, sotto i quali passano lentamente delle velette bianche di pescatori; di prati
fioriti che scendono con un declivio dolcissimo fino all’orlo della riva; di piccole roccie da giardino
fasciate d’edera; di piccoli cimiteri che biancheggiano sulla sommi di alti poggi tagliati a picco.
Improvvisamente, balza fuori sulla stessa riva asiatica, il bel villaggio di Kanlidgié, tutto vermiglio,
posto su due promontorii rocciosi, contro i quali si rompono le onde rumorosamente, e ornato d’una
bella moschea che slancia i suoi due minareti candidi fuori d’una macchia di cipressi e di pini a
ombrello. E qui ricominciano a innalzarsi i giardini, a modo di belvederi, l’uno dietro l’altro, e a
spesseggiare le ville, fra le quali splende il palazzo incantevole di quel celebre Fuad-Pascià,
diplomatico e poeta, vanitoso, voluttuoso e gentile, che fu chiamato il Lamartine ottomano. Poco
più innanzi, sulla riva europea, si mostra il villaggio amenissimo di Balta-Liman, posto
all’imboccatura d’una valletta, per cui scende nel porto un piccolo fiume, e dominato da una collina
sparsa di ville, fra le quali s’alza l’antico palazzo di Rescid-Pascià; e poi la piccola baia d’Emir-
Ghian-Ogli Bagcè, tutta verde di cipressi, in mezzo ai quali brilla d’una bianchezza di neve una
moschea solitaria, lambita dalle acque, e sormontata da un grande globo irto di raggi d’oro. Intanto
il bastimento s’avvicina ora all’una ora all’altra riva, e allora si vedono mille particolari del grande
paesaggio: qui il vestibolo del selamlik d’una ricca casa turca, aperto sulla sponda, in fondo al quale
fuma un grosso maggiordomo, coricato sopra un divano; un eunuco, ritto sull’ultimo gradino
della scala esterna d’una villa, che aiuta due turche velate a scendere in un caicco; più oltre un
giardinetto circondato di siepi, e quasi interamente coperto da un platano, ai piedi del quale riposa, a
gambe incrociate, un vecchio turco dalla barba bianca, che medita sul Corano; famiglie di
villeggianti raccolte sulle terrazze; branchi di capre e di pecore che pascolano per i prati alti;
cavalieri che galoppano lungo la riva, carovane di cammelli che passano sulla sommità delle colline,
disegnando i loro contorni bizzarri sul cielo sereno.
All’improvviso il Bosforo s’allarga, la scena cangia, siamo di nuovo fra due baie, nel mezzo
d’un vasto lago. A sinistra è una baia stretta e profonda, intorno alla quale gira la cittadina greca
d’Istenia; Sosthenios, dal tempio e dalla statua alata che innalzarono gli Argonauti, in onore del
Genio tutelare che li aveva resi vittoriosi nella lotta contro Amico, re di Bebrice. Grazie a una
leggera curva che descrive il bastimento verso l’Europa, vediamo distintamente i caffè e le casette
schierate lungo la riva, le piccole ville sparse fra gli olivi e i vigneti, la valle che sbocca nel porto, il
torrentello che precipita da un’altura e la famosa fontana moresca di marmo bianco nitidissimo,
ombreggiata da un gruppo d’aceri enormi, da cui spenzolano le reti dei pescatori, in mezzo a un va e
vieni di donnine greche, che portano le anfore sul capo. In faccia a Istenia, sopra la baia della riva
asiatica, fa capolino, fra gli alberi, il villaggio turco di Cibulkú, dove c’era il convento rinomato dei
Vigili, che pregavano e cantavano, senza interruzione, il giorno e la notte. Le due rive del Bosforo
sono piene, da un mare all’altro, delle memorie di questi cenobiti e anacoreti fanatici del quinto
secolo, che erravano per i colli, carichi di croci e di catene, tormentati da cilici e da collari di ferro,
o che stavano settimane e mesi, immobili sulla cima d’una colonna o d’un albero, intorno a cui
andavano a prostrarsi, a digiunare, a pregare, a percotersi il petto principi, soldati, magistrati e
pastori, invocando una benedizione o un consiglio, come una grazia di Dio. Ma è un potere
singolare che ha il Bosforo, quello di sviare irresistibilmente dal passato il pensiero del viaggiatore
che scorra per le prime volte lungo le sue rive. Tutti i ricordi, tutte le immagini più grandi, più belle
o più tristi, che possa fornire la storia o la leggenda di quei luoghi, rimangono offuscate,
soverchiate, sto per dire sepolte da quel rigoglio prodigioso di vegetazione, da quello sfolgorio di
colori festosi, da quella esuberanza di vita, dalla giovinezza poderosa e superba di quella bella
natura tutta sorriso e tutta festa. Bisogna fare uno sforzo per credere che in quelle acque, in mezzo a
quella bellezza fatata, abbiano potuto urtarsi furiosamente, ardersi e insanguinarsi, le flotte dei
bulgari, dei goti, degli eruli, dei bizantini, dei russi, dei turchi. I castelli medesimi, che coronano le
colline, non destano nemmeno un’idea di quel sentimento di terrore poetico, che ispirano in altri
luoghi le rovine di quella natura; e paion piuttosto una decorazione artificiale del paesaggio, che
monumenti veri di guerra, che un giorno abbiano vomitato la morte. Tutto è come velato da una
tinta di languore e di dolcezza che non desta se non pensieri sereni e un desiderio immenso di pace.
Di là da Istenia il Bosforo s’allarga ancora, e il bastimento arriva in pochi minuti in un punto da
cui si gode la più stupenda veduta di quante se ne sono offerte sinora ai nostri occhi. Voltandoci
verso l’Europa, abbiamo davanti la piccola città greca ed armena di Ieni-Kioi, posta alle falde
d’un’alta collina coperta di vigneti e di boschetti di pini, e distesa ad arco sporgente sopra una riva
rocciosa, contro cui si rompe la corrente con grande strepito; e un po’ più in là, la bellissima baia di
Kalender, piena di barchette, contornata di casette da giardino, e inghirlandata da una vegetazione
lussureggiante, sopra la quale sporgono le terrazze aeree d’un chiosco imperiale. Voltandoci
indietro, abbiamo davanti la riva asiatica che s’incurva in un grande arco, formando un meraviglioso
anfiteatro di colli, di villaggi e di porti. È Indgir-Kioi, il villaggio dei fichi, coronato di giardini;
accanto a Indgir-Kioi, Sultanié, che par nascosto in un bosco; dopo Sultanié, il grosso villaggio di
Beikos, circondato di orti e di vigneti, e ombreggiato da altissimi noci, il quale si specchia nel più
bel golfo del Bosforo, che è l’antico golfo dove il re di Bebrice fu vinto da Polluce, e dov’era
l’alloro prodigioso che faceva impazzire chi ne toccava le foglie; e di da Beikos, lontano, il
villaggio di Iali, l’antica Amea, che non par più che un mucchio di fiori gialli e vermigli sopra un
grande tappeto verde. Ma questo non è che un abbozzo del grande quadro. Bisogna immaginare le
forme indescrivibilmente gentili di quei colli, che si vorrebbero accarezzare colla mano; quegli
innumerevoli piccolissimi villaggi senza nome, che paiono messi dalla mano d’un pittore; quella
vegetazione di tutti i climi, quelle architetture di tutti i paesi, quelle gradinate di giardini, quelle
cascatelle d’acqua, quelle ombre cupe, quelle moschee luccicanti, quell’azzurro picchiettato di vele
bianche e quel cielo rosato dal tramonto.
Ma arrivato provai anch’io un senso di sazietà, come lo provan quasi tutti, a un certo punto
del Bosforo. Stanca quella successione interminabile di linee molli e di colori ridenti. È una
monotonia di gentilezza e di grazia in cui il pensiero si addormenta. Si vorrebbe veder sorgere tutt’a
un tratto sopra una di quelle rive una roccia smisurata e deforme o stendersi un lunghissimo tratto di
spiaggia deserta e triste, sparsa degli avanzi d’un naufragio. E allora, per distrarsi, non c’è che a
fissar l’attenzione sulle acque. Il Bosforo pare un porto continuo. Si passa accanto alle corazzate
splendide dell’armata ottomana; in mezzo a flotte di bastimenti mercantili di tutti i paesi, dalle vele
variopinte e dalle poppe bizzarre, affollate di gente strana; s’incontrano i legni dalle forme antiche
dei porti asiatici del Mar Nero, e le piccole corvette eleganti delle Ambasciate; passano, come
saette, le barchette a vela dei signori, che volano a gara, sotto gli occhi degli spettatori schierati sulla
riva; barche di tutte le forme, piene di gente di tutti i colori, si spiccano o approdano ai mille piccoli
scali dei due continenti; i caicchi rimorchiati guizzano in mezzo a lunghe file di barconi carichi di
mercanzie; le lancie imbandierate dei marinai si incrociano colle zattere dei pescatori, coi caicchi
dorati dei Pascià, coi piroscafi di Costantinopoli, pieni di turbanti, di fez e di veli, che attraversano
il canale a zig zag per toccare tutte le stazioni. E siccome anche il nostro bastimento va innanzi
serpeggiando, così tutto questo spettacolo par che ci giri intorno: i promontorii si spostano, le
colline cambiano inaspettatamente di forma, i villaggi si nascondono e poi ricompaiono in un nuovo
aspetto, e davanti e dietro di noi, ora il Bosforo si chiude come un lago, ora s’apre e lascia vedere
una fuga di laghi e di colli lontani; poi, tutt’a un tratto, le colline tornano a congiungersi davanti e di
dietro, e si rimane in una conca verde da cui non si capisce come si potrà uscire; ma s’ha appena il
tempo di scambiar dieci parole con un vicino, che già la conca è sparita, e si vedono intorno nuove
alture, nuove città, nuovi porti.
Si è fra la baia di Terapia, Pharmacia, dei veleni di Medea –, e la baia di Hunchiar Iskelessi,
scalo dei Sultani, dove fu segnato nel 1833 il trattato famoso che chiuse i Dardanelli alle flotte
straniere. Qui lo spettacolo del Bosforo è al penultimo grado della sua bellezza. Terapia è la più
splendida cittadina che orni le sue rive, dopo Bujukderè, e la valle che si apre dietro la baia di
Hunchiar-Iskelessi è la più verde, la più cara, la più poetica valle che si possa ammirare fra il Mar di
Marmara e il Mar Nero. Terapia si stende in parte sopra una riva diritta, ai piedi di una grande
collina, e parte intorno a un seno profondo, che è il suo porto, pieno di bastimenti e di barche, sul
quale sbocca la valletta di Krio-nero, in cui un’altra parte della città s’appiatta fra la verzura. La riva
del mare è tutta coperta di caffè pittoreschi, che sporgono sull’acqua, di alberghi signorili, di casette
pompose, di gruppi d’alberi altissimi, che ombreggiano piazzette e fontane; di là dai quali s’alzano i
palazzi d’estate delle Ambasciate di Francia, d’Italia e di Inghilterra, e sopra questi, un chiosco
imperiale; e tutt’intorno, e su per la collina, terrazze su terrazze, giardini su giardini, ville su ville,
boschetti sopra boschetti; e gente vestita di vivi colori formicola nei caffè, nel porto, sulle rive, su
per i sentieri delle alture, come in una piccola metropoli in festa. Dalla parte dell’Asia, invece, tutto
è pace. Il piccolo villaggio di Hunchiar-Iskelessi, soggiorno prediletto dei ricchi armeni di
Costantinopoli, dorme fra i platani e i cipressi, intorno al suo piccolo porto, percorso da poche
barchette furtive; di dal villaggio, sulla cima d’una vasta scala di giardini, torreggia, solitario, il
chiosco magnifico d’Abdul-Aziz; e di dal chiosco svolta e si nasconde, in mezzo a uno sfarzo
indescrivibile di vegetazione tropicale, la valle favorita dei Padiscià, piena di misteri e di sogni.
Ma tutta questa bellezza non par più nulla, un miglio più innanzi, quando il bastimento è
arrivato davanti al golfo di Bujuk-deré. Qui è la maestà e la grazia suprema del Bosforo. Qui chi era
già stanco della sua bellezza, ed aveva pronunciato irriverentemente il suo nome, si scopre la fronte,
e gli domanda perdono. Si è in mezzo a un vasto lago coronato di meraviglie, che ispira l’idea di
mettersi a girare, come i dervis, sulla prora del bastimento, per veder tutte le rive e tutte le colline in
un punto. Sulla riva d’Europa, intorno a un golfo profondo, dove va a morire la corrente in molli
ondulazioni, alle falde d’una grande collina, sparsa di ville innumerevoli, s’allarga la città di Bujuk-
derè, vasta, colorita come un’immensa aiuola di fiori, tutta palazzine, chioschi e villette tuffate in
una verzura vivissima, che par che esca dai tetti e dai muri, e colmi le strade e le piazze. La città si
stende a destra fino ad un piccolo seno, che è come un golfo nel golfo, intorno a cui gira il villaggio
di Kefele-Kioi; e dietro a questo s’apre una larga vallata, tutta verde di praterie, e biancheggiante di
case, per la quale si va al grande acquedotto di Mahmud e alla foresta di Belgrado. È la valle in cui,
giusta la tradizione, si sarebbe accampato nel 1096 l’esercito della prima crociata; e uno dei sette
platani giganteschi, a cui il luogo deve la sua fama, è chiamato il platano di Goffredo di Buglione.
Di da Kefele-Kioi, s’apre un’altra baia, verde di cipressi e bianca di case, e di dalla baia, si
vede ancora Terapia, sparpagliata ai piedi della sua collina verdecupa. Arrivati fin collo sguardo,
ci si volta indietro, verso l’Asia, e si prova un sentimento vivissimo di sorpresa. Si è dinanzi al più
alto monte del Bosforo, il monte del Gigante, della forma d’una enorme piramide verde, dov’è il
sepolcro famoso, chiamato da tre leggende «letto d’Ercole, fossa d’Amico, tomba di Giosuè giudice
degli Ebrei;» custodito ora da due dervis e visitato dai musulmani infermi, che vanno a deporvi i
brandelli dei loro vestiti. Il monte spinge le sue falde alberate e fiorite fin sulla riva, dove, fra due
promontorii verdeggianti, s’apre la bella baia d’Umuryeri, macchiettata di cento colori dalle case
d’un villaggio musulmano disperso capricciosamente sulle sue sponde, al quale fanno ala altri
branchi di villini e di casette, disseminate, come fiori buttati via, per le praterie e per le alture vicine.
Ma lo spettacolo non è tutto in questo cerchio. Diritto in faccia a noi luccica il Mar Nero; e
voltandoci verso Costantinopoli, si vede ancora, di da Terapia, in una lontananza violacea e
confusa, la baia di Kalender, Kieni-Kioi, Indgir-Kioi, Sultanié, che paiono, piuttosto che prospetti
veri, vedute immaginarie d’un mondo remoto. Il sole tramonta; la riva d’Europa comincia a velarsi
di ombre azzurrine e cineree; la riva d’Asia è ancora dorata; le acque lampeggiano; sciami di
barchette, cariche di mariti e d’amanti, reduci da Costantinopoli, corrono verso la riva europea,
incontrate, arrestate, circuite da altre barchette, cariche di signore e di fanciulli, che vengono dalle
ville; dai caffè di Bujukderè ci arrivano suoni interrotti di musiche e di canti; le aquile ruotano sopra
la montagna del Gigante, i marki bianchi svolazzano lungo la riva, gli alcioni radono le acque, i
delfini guizzano intorno al bastimento, l’aria fresca del Mar Nero ci soffia nel viso. Dove siamo?
Dove andiamo? È un momento d’illusione e d’ebbrezza, in cui i ricordi di tutto quello che vediamo
da due ore sulle due rive del Bosforo, si confondono nella nostra mente nella immagine d’una sola
prodigiosa città, dieci volte più grande di Costantinopoli, abitata da popoli di tutta la terra,
privilegiata di tutti i favori di Dio, e abbandonata a una festa perpetua, che ci riempie di tristezza e
d’invidia.
Ma questa è l’ultima visione. Il bastimento esce rapidamente fuori del golfo di Buiukderé.
Vediamo a sinistra il villaggio di Sariyer, circondato di cimiteri, dinanzi al quale s’apre una piccola
baia, formata da quell’antico promontorio di Simas, dove s’innalzava il tempio a Venere meretricia,
oggetto d’un culto particolare dei naviganti greci; poi il villaggio di Jeni-Makallé; poi il forte di
Teli-Tabia, che fa fronte a un altro piccolo forte posto sulla riva asiatica, ai piedi del monte del
Gigante; poi il castello Rumili-Cavak, che segna i suoi contorni severi sul cielo rosato dagli ultimi
chiarori del crepuscolo. Sull’altra riva, di fronte a Rumili-Kavak, s’alza un’altra fortezza, la quale
corona il promontorio, ove sorgeva il tempio dei dodici Dei, costrutto dall’argivo Frygos, vicino a
quello di Giove «distributore dei venti propizii», fondato dai Calcedonesi, e convertito poi da
Giustiniano in una chiesa consacrata all’arcangelo Michele. È quello il punto dove il Bosforo si
restringe per l’ultima volta, fra l’estremo contrafforte delle montagne di Bitinia e l’estrema punta
della catena dell’Hemus; considerato sempre come la prima porta del canale, da difendersi contro le
invasioni del Settentrione, e teatro, perciò, di lotte ostinate fra bizantini e barbari, fra veneziani e
genovesi. Due castelli genovesi, posti l’uno in faccia all’altro, fra i quali era stesa una catena di
ferro che chiudeva il canale, mostrano ancora confusamente, presso, le loro torri e le loro mura
rovinate. Da quel punto il Bosforo va diritto, gradatamente allargandosi, al mare; le due rive sono
alte e ripide, come due enormi bastioni, e non mostrano più che qualche gruppo di case meschine,
qualche torre solitaria, qualche rovina di monastero, qualche avanzo di moli e d’argini antichi. Dopo
un lungo tragitto, vediamo ancora scintillare sulla riva europea i lumi del villaggio di Buiuk-Liman,
e dall’altra parte la lanterna d’una fortezza, che domina il promontorio dell’Elefante; poi, a sinistra,
la gran massa rocciosa dell’antica Gipopoli, dove sorgeva il palazzo di Fineo, infestato dalle Arpie;
e a destra la fortezza del capo Poiraz, che ci appare come una vaga macchia oscura sul cielo
grigiastro. Qui le rive sono lontanissime; il canale par già un grande golfo; la notte discende, la
brezza marina geme fra i cordami del bastimento, e il tristo mare cimmerium stende dinanzi a noi il
suo infinito orizzonte livido e inquieto. Ma il pensiero non si può ancora staccare da quelle rive
piene di poesia e di memorie, non più sopraffatte dalla bellezza della natura; e vola, a sinistra, ai
piedi dei piccoli Balcani, a cercare la torre d’Ovidio esule, e la muraglia meravigliosa d’Anastasio; e
vaga, a destra, per una vasta terra vulcanica, a traverso le foreste infestate dai cinghiali e dagli
sciacalli, in mezzo alle capanne d’un popolo selvaggio e malnoto, di cui ci par di vedere le ombre
bizzarre affollate sull’alta riva, che c’imprechino un viaggio malavventurato sulle fera litora Ponti.
Due punti luminosi rompono per l’ultima volta l’oscurità, come gli occhi ardenti di due ciclopi,
messi a guardia dello stretto fatato: l’Anaduli-Fanar, il fanale dell’Asia, a destra; e il Rumili-Fanar a
sinistra, ai piedi del quale le Simplegadi favolose ci mostrano ancora vagamente, nell’ombra della
riva, i profili tormentati delle loro roccie. Poi i due lidi dell’Europa e dell’Asia non son più che due
striscie nere, e poi quocumque adspicias, nihil est nisi pontus et aer, come cantava il povero Ovidio.
Ma la vedo ancora, la mia Costantinopoli, dietro a quelle due rive nere scomparse; la vedo più
grande e più luminosa ch’io non l’abbia mai veduta dal ponte della Sultana Validé e dalle alture di
Scutari; e le parlo e la saluto e l’adoro come l’ultima e la più cara visione della mia giovinezza che
tramonta. Ma uno spruzzo improvviso d’acqua salsa m’innaffia il volto e mi butta in terra il
cappello; mi sveglio; mi guardo intorno;– la prora è deserta, il cielo è nebbioso, un vento rigido
d’autunno mi agghiaccia le ossa, il mio buon Yunk, preso dal mal di mare, m’ha lasciato; non sento
più che il tintinnio delle lanterne e lo scricchiolìo del bastimento che fugge, sballottato dalle onde,
nell’oscurità della notte.... Il mio bel sogno orientale è finito.
FINE.
INDICE
L’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
Lungo il Corno d’oro
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo
Livros Grátis
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