rovesciati da un ghiribizzo, che godevano la vista di Scutari imporporata dal tramonto e dell’Olimpo
inargentato dalla luna, e la carezza perpetua dei venticelli del Bosforo, pieni di fragranze, che
facevano tremolare le mezzalune d’oro sulla punta delle loro guglie sottili. E infine, nella parte più
segreta dell’arem, il tempietto delle reliquie, o camera della nobile veste, imitata dalla sala aurea
degl’Imperatori bizantini, e chiusa da una porta argentata; nella quale si conservava il mantello del
Profeta, scoperto solennemente, una volta all’anno, in presenza di tutta la Corte, il suo bastone,
l’arco chiuso in una guaina d’argento, le reliquie della Kaaba, e il venerato e tremendo stendardo
delle guerre sante, ravvolto in quaranta coperte di seta, dal quale sarebbe rimasto acciecato, come da
un colpo di fulmine, l’infedele che v’avesse fissato lo sguardo. Tutto quello che aveva di più sacro
la razza, di più prezioso l’impero, di più diletto e di più arcano la dinastia, era raccolto là, in quel
recinto ombroso e discreto, in quella piccola città occulta, verso la quale pareva che convergesse da
tutte le parti la metropoli immensa, come una folla innumerevole che volesse prostrarsi e adorare.
In un angolo di questo terzo recinto, a sinistra di chi entrava, all’ombra di alberi più folti, fra un
mormorio più sonante di fontane e un bisbiglio più fitto d’uccelli, s’innalzava l’arem, che era come
un quartiere separato della cittadina imperiale, e si componeva di molti piccoli edifizii bianchi
coperti da cupolette di piombo, ombreggiati da aranci e da pini a ombrello, separati da giardinetti
cinti di muri rivestiti di caprifoglio e d’edera, in mezzo ai quali serpeggiavano sentieri sparsi di
minutissime conchiglie combinate a musaico, che si perdevano fra i roseti, gli ebani e i mirti; tutto
piccino, chiuso, diviso, suddiviso; i balconi coperti, le finestrine ingraticolate, i loggiati nascosti da
tendine color di rosa, i vetri coloriti, le porte ferrate, le stradicciuole senza uscita; e in ogni parte una
luce crepuscolare dolcissima, una freschezza di foresta, un’aria di mistero e di pace, che faceva
sognare. Qui viveva, amava, languiva, serviva, rinnovandosi continuamente, tutta la grande famiglia
muliebre del Serraglio. Era un vasto monastero, che aveva per religione il piacere e per Dio il
Sultano. C’erano gli appartamenti imperiali. Ci stavano le quattro cadine, amanti titolate del Gran
Signore, ciascuna delle quali aveva il suo chiosco, la sua piccola corte, i suoi grandi ufficiali, le sue
barchette rivestite di raso, le sue carrozze dorate, i suoi eunuchi, le sue schiave e il suo denaro delle
pantofole, ch’era la rendita d’una provincia. Ci abitava la Sultana Madre, col suo corteo
innumerevole d’ustà, divise in compagnie di venti o trenta, ciascuna impiegata a un servizio
speciale. C’era tutta la famiglia del Padiscià, zie, sorelle, figliuole, nipoti, che formavano una corte
nella corte, coi principi bambini e adolescenti. C’erano le ghediclù, di cui le dodici più belle
servivano, ciascuna con un titolo e un ufficio speciale, la persona del Sultano; cento sciaghird, o
novizie, che facevano il tirocinio per occupare i posti vacanti delle ustà; un formicaio di schiave
d’ogni paese, d’ogni colore, d’ogni divisa, scelte fra mille e mille, che empivano quell’enorme
gineceo, scompartito come un alveare in cellette innumerevoli, d’un fremito di gioventù poderosa,
d’un profumo caldo di voluttà affricana ed asiatica, che montava al capo del Nume, e si rispandeva
poi, trasfuso nelle sue passioni formidabili, su tutta la faccia dell’impero.
Quante memorie fra gli alberi di quei giardini e le pareti di quei piccoli chiostri bianchi! Quante
belle figliuole del Caucaso e dell’Arcipelago, delle montagne dell’Albania e dell’Etiopia, del
deserto e del mare, musulmane, nazarene, idolatre, conquistate dai pascià, comprate dai mercanti,
regalate dai principi, rubate dai corsari, passarono, come ombre, sotto quelle cupolette argentine!
Son questi i muri e le volte che videro folleggiare, col capo incoronato di fiori e la barba scintillante
di gemme, il primo Ibraim, il quale faceva rincarare le schiave in tutti i mercati dell’Asia, e
decuplare il prezzo dei profumi dell’Arabia; che assistettero alle furie della sensualità morbosa del
terzo Murad, padre di cento figli; che videro Murad IV, decrepito a trentun’anno, irrompere
barcollando agli amplessi infami; che furono testimoni delle orgie e dei delirii del secondo Selim.
Per questi sentieri passavano, la notte, ebbri di vino e di lussuria, quei dissoluti feroci, a cui la
madre, i vizir, i pascià, offerendo schiave su schiave, non facevano che infocare i desiderii; e
correvano di chiosco in chiosco, cercando la voluttà e non trovando che lo spasimo, fin che la
fantasia stravolta li trascinava, rabbiosi, fuor della reggia, a cercare i resti delle bellezze famose fra
le mura malinconiche dell’Eschi-Seraï. Qui si celebravano quelle strane feste notturne, in cui sulle
cupole, sui tetti e sugli alberi erano disegnate a tratti di fuoco le navi della flotta, e migliaia di vasi
di fiori, illuminati da migliaia di fiammelle, riflesse da innumerevoli specchi, presentavano