del cuore, dell’immaginazione e del raziocinio, l’eloquenza non è frutto di verun’arte; chè se la
natura non forma vigorose, arrendevoli e bilanciate in un uomo queste potenze, qual occhio mai
saprà indagarne i difetti, qual mano applicarvi i rimedi? E non pertanto, mentre la civile filosofia fu
adulterata dall’arte dialettica l’eloquenza cominciò ad essere manomessa dalla rettorica. [66] Già la
metafisica, allettando gl’ingegni più nobili alle sublimi contemplazioni, facea sì ch’ei sdegnassero
di dar utili esempi alla loro patria per aspirare ad ammaestrarla su le leggi del globo, del sole, dei
cieli, dell’etere, del caos, dell’eternità, dell’universo; grandi nomi, incomprensibili idee, e quindi
involute in voci mirabili al volgo. Con questo esempio si coacervarono in un vocabolo solo molte
idee morali che già nell’uso erano determinate e sicure, ma che riunite in una diveniano indistinte e
parvero astratte; indi, sotto colore di dilucidarle, furono tanto divise, che le loro fila facendosi
impercettibili, anche le loro parti sembrarono opposte tra loro, e bisognarono [67] nuovi termini,
astrusi anch’essi, perchè applicati a nozioni ignote all’uso ed all’esperienza: così gli ingegni,
sviandosi nel labirinto delle speculazioni, armandosi di termini universali in cui si presumea
d’indicare l’essenza, le qualità, le quantità, gli accidenti, i caratteri, le differenze e le coerenze di
tutte le cose, e schermendosi o con distinzioni, inesatte sempre perchè le parole erano indefinite ed
ambigue, o con definizioni che promettevano di accertare la natura degli enti, ma che sviavano dalla
certezza del loro uso, s’imparò ad insidiare la ragione e a far sospetta la verità: quindi la moltitudine
de’ sofisti, l’indifferenza del vero ch’essi non sapeano difendere, l’irriverenza al giusto ed al bello
che poteano negare, l’amore del [68] paradosso da cui solo attendeano trionfi, l’infinito numero
delle quistioni, la libidine eterna di controversie, l’arte dialettica insomma. Su queste trame fu
tessuta l’arte rettorica da quei letterati venali che, promettendo di far eloquenti gl’ingegni vani e le
lingue più invereconde, ebbero le cattedre affollate di demagoghi e di pubblicani che già con le
speranze invadeano gli onori, le leggi e l’erario della repubblica. Primo Gorgia, che non poteva
amare una città ov’egli era mercenario e straniero, insegnò in Atene a blandire i vizi e l’ignoranza
del popolo, ammaliandogli l’intelletto con la pompa delle figure, chiudendogli il cuore alla voce
degli affetti e del vero, lusingandogli i sensi con l’azione teatrale e con la cadenza di periodi aculeati
e sonanti
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. Salì sul teatro e si proferì parato a qualunque argomento; e mostrò che si può declamare
con lode senza meditazione
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. Foggiò canoni d’eloquenza e di stile, e fu padre della turba
clamorosa, implacabile de’ grammatici intenti sempre ad angariare gli scrittori obbedienti e a
scomunicare i magnanimi. Insegnò antitesi a chi non avea nervi e spiriti nel pensiero
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, luoghi
comuni a chi non sapea le materie
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, descrizioni ed [70] amplificazioni a chiunque mancava di
fantasia pronta e pittrice, lenocinio di declamazione a chi non avea dignità di aspetto e di voce,
lascivia d’idioma a chi cercava le grazie, superstizioni per le regole inanimate a chi non ha senno da
considerarle calde e parlanti nei sommi scrittori, l’arte, insomma, che nel petto de’ letterati fa
sottentrare all’emulazione l’invidia, all’ardore di fama la vanità degli applausi, all’esempio
l’imitazione, al sapere l’erudizione, l’arte, o giovani, che moltiplica i precettori, che nella prima
educazione snerva le fibre de’ più forti [71] intelletti, che per tanti secoli fe’ ricca d’inezie l’italiana
letteratura. Almeno la letteratura fosse divenuta disutile, senza divenire scellerata ed infame! Ma
quel Gorgia stesso, ravviluppando nelle fallacie dell’arte dialettica anche le verità concedute al
senso e alla mente degl’idioti, celebrò in Atene un mestiero che valeva a coronare il delitto
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, a
insanguinar l’innocenza, ad esaltare le usurpazioni degli opulenti, a santificare le libidini della
democrazia e le carnificine della tirannide, a tradire la patria, a vendere l’anima, a contaminare di
fiele e di sangue la vecchiaia di Socrate.
XIV. E Socrate, che non ambiva nè gloria di scienziato, [72] nè emolumenti di retore, nè dignità di
capitano e di pritano, ma che vedeva quanto le virtù cittadine scadeano con la vera eloquenza e con
esse l’onore e la libertà della patria, ripetea que’ consigli che tanti scrittori hanno serbati a noi
posteri. Ed io li leggeva per emenda della mia vita; ma oggi, poichè nelle poetiche e ne’ trattati non
36 Platone, Hipp. maj.; Cicerone, Orator, cap. 49; Dionisio Alicarnass., Epistola ad Amm., cap. 2.
37 Platone in Gorgia; Cicerone, De finibus lib. II, cap. 1 ed altri.
38 Ecco un passo di Gorgia recato da Plutarco e da noi tradotto letteralmente: La tragedia è un inganno nel quale colui che inganna
diviene più giusto del non ingannante, e l’ingannato più saggio del non ingannato. Vedi l’opuscolo De audiendis poetis.
39 Corace siracusano mandò primo in Grecia un libro rettorico, tessuto su le fallacie dialettiche. Vedi i Prolegomeni ad Ermogene
presso i rettorici antichi; ed Aristotile, Rhet., lib. II, cap. 24. Quindi Protagora, discepolo di Democrito, scrisse il libro Dei luoghi
comuni; Arist., ib., lib. I, cap. 2, e Cicerone, Topic.
40 Gorgia, presso Cicerone, De claris oratoribus, cap. 12.