Download PDF
ads:
TITOLO: ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
AUTORE: DODGSON, CHARLES LUTWIDGE (ALIAS LEWIS CARROLL)
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: NO
LICENZA: QUESTO TESTO È DISTRIBUITO CON LA LICENZA
SPECIFICATA AL SEGUENTE INDIRIZZO INTERNET:
HTTP://WWW.LIBERLIBER.IT/BIBLIOTECA/LICENZE/
TRATTO DA: NEL PAESE DELLO SPECCHIO, ISTITUTO
EDITORIALE ITALIANO, MILANO 1914
CODICE ISBN: INFORMAZIONE NON DISPONIBILE
1A EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 6 MAGGIO 1996
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: AFFIDABILITÀ BASSA
1: AFFIDABILITÀ MEDIA
2: AFFIDABILITÀ BUONA
3: AFFIDABILITÀ OTTIMA
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
MARCO CAPODURO, MARCO_CAPODURO@RCM.INET.IT,
CLAUDIO PAGANELLI, CLAUDIO_PAGANELLI@RCM.INET.IT,
SERGIO SEGHETTI, SERGIO_SEGHETTI@RCM.INET.IT
REVISIONE:
MARCO CAPODURO, MARCO_CAPODURO@RCM.INET.IT,
CLAUDIO PAGANELLI, CLAUDIO_PAGANELLI@RCM.INET.IT
ads:
Livros Grátis
http://www.livrosgratis.com.br
Milhares de livros grátis para download.
ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
di Lewis Carroll
I
NELLA CONIGLIERA
Alice cominciava a sentirsi assai stanca di sedere sul poggetto accanto a sua sorella, senza
far niente: aveva una o due volte data un'occhiata al libro che la sorella stava leggendo, ma non
v'erano nè dialoghi nè figure, — e a che serve un libro, pensò Alice, — senza dialoghi nè figure?
E si domandava alla meglio, (perchè la canicola l'aveva mezza assonnata e istupidita), se per
il piacere di fare una ghirlanda di margherite mettesse conto di levarsi a raccogliere i fiori,
quand'ecco un coniglio bianco dagli occhi rosei passarle accanto, quasi sfiorandola.
Non c'era troppo da meravigliarsene, nè Alice pensò che fosse troppo strano sentir parlare il
Coniglio, il quale diceva fra se: “Oimè! oimè! ho fatto tardi!” (quando in seguito ella se ne ricordò,
s'accorse che avrebbe dovuto meravigliarsene, ma allora le sembrò una cosa naturalissima): ma
quando il Coniglio trasse un orologio dal taschino della sottoveste e lo consultò, e si mise a
scappare, Alice saltò in piedi pensando di non aver mai visto un coniglio con la sottoveste e il
taschino, con un orologio da cavar fuori, e, ardente di curiosità, traversò il campo correndogli
appresso e arrivò appena in tempo per vederlo entrare in una spaziosa conigliera sotto la siepe.
Un istante dopo, Alice scivolava giù correndogli appresso, senza pensare a come avrebbe
fatto poi per uscirne.
La buca della conigliera filava dritta come una galleria, e poi si sprofondava così
improvvisamente che Alice non ebbe un solo istante l'idea di fermarsi: si sentì cader giù rotoloni in
una specie di precipizio che rassomigliava a un pozzo profondissimo.
Una delle due: o il pozzo era straordinariamente profondo o ella ruzzolava giù con grande
lentezza, perchè ebbe tempo, cadendo, di guardarsi intorno e di pensar meravigliata alle
conseguenze. Aguzzò gli occhi, e cercò di fissare il fondo, per scoprire qualche cosa; ma in fondo
era buio pesto e non si scopriva nulla. Guardò le pareti del pozzo e s'accorse che erano rivestite di
scaffali di biblioteche; e sparse qua e di mappe e quadri, sospesi a chiodi. Mentre continuava a
scivolare, affer un barattolo con un'etichetta, lesse l'etichetta: “Marmellata d'Arance” ma, oimè!
con sua gran delusione, era vuoto; non volle lasciar cadere il barattolo per non ammazzare chi si
fosse trovato in fondo, e quando arrivò più giù, lo depose su un altro scaffale.
“Bene, pensava Alice, dopo una caduta come questa, se mai mi avviene di ruzzolare
per le scale, mi sembrerà meno che nulla; a casa poi come mi crederanno coraggiosa! Anche a cader
dal tetto non mi farebbe nessun effetto!” (E probabilmente diceva la verità).
E giù, e giù, e giù! Non finiva mai quella caduta? Chi sa quante miglia ho fatte a
quest'ora? esclamò Alice. Forse sto per toccare il centro della terra. Già saranno più di
quattrocento miglia di profondità. (Alice aveva apprese molte cose di questa specie a scuola, ma
quello non era il momento propizio per sfoggiare la sua erudizione, perchè nessuno l'ascoltava; ma
ad ogni modo non era inutile riandarle mentalmente.) Sì, sarà questa la vera distanza, o press'a
poco,... ma vorrei sapere a qual grado di latitudine o di longitudine sono arrivata. (Alice veramente,
non sapeva che fosse la latitudine o la longitudine, ma le piaceva molto pronunziare quelle parole
altisonanti!) Passò qualche minuto e poi ricominciò: Forse traverso la terra! E se dovessi uscire
fra quelli che camminano a capo in giù! Credo che si chiamino gli Antitodi. Fu lieta che in quel
momento non la sentisse nessuno, perchè quella parola non le sonava bene... Domanderei subito
come si chiama il loro paese... Per piacere, signore, è questa la Nova Zelanda? o l'Australia? e
cercò di fare un inchino mentre parlava (figurarsi, fare un inchino, mentre si casca giù a rotta di
collo! Dite, potreste voi fare un inchino?). Ma se farò una domanda simile mi prenderanno per
ads:
una sciocca. No, non la farò: forse troverò il nome scritto in qualche parte.
E sempre giù, e sempre giù, e sempre giù! Non avendo nulla da fare, Alice ricominciò a
parlare: Stanotte Dina mi cercherà. (Dina era la gatta). Spero che penseranno a darle il latte
quando sarà l'ora del tè. Cara la mia Dina! Vorrei che tu fossi qui con me! In aria non vi son topi,
ma ti potresti beccare un pipistrello: i pipistrelli somigliano ai topi. Ma i gatti, poi, mangiano i
pipistrelli? E Alice cominciò a sonnecchiare, e fra sonno e veglia continuò a dire fra i denti: I
gatti, poi, mangiano i pipistrelli? I gatti, poi, mangiano i pipistrelli? E a volte: I pipistrelli
mangiano i gatti? perchè non potendo rispondere all'una all'altra domanda, non le
importava di dirla in un modo o nell'altro. Sonnecchiava di già e sognava di andare a braccetto con
Dina dicendole con faccia grave: “Dina, dimmi la verità, hai mangiato mai un pipistrello?” quando,
patapunfete! si trovò a un tratto su un mucchio di frasche e la caduta cessò.
Non s'era fatta male e saltò in piedi, svelta. Guardo in alto: era buio: ma davanti vide un
lungo corridoio, nel quale camminava il Coniglio bianco frettolosamente. Non c'era tempo da
perdere: Alice, come se avesse le ali, gli corse dietro, e lo sentì esclamare, svoltando al gomito:
Perdinci! veramente ho fatto tardi! Stava per raggiungerlo, ma al gomito del corridoio non vide
più il coniglio; ed essa si trovò in una sala lunga e bassa, illuminata da una fila di lampade pendenti
dalla volta. Intorno intorno alla sala c'erano delle porte ma tutte chiuse. Alice andò su e giù,
picchiando a tutte, cercando di farsene aprire qualcuna, ma invano, e malinconicamente si mise a
passeggiare in mezzo alla sala, pensando a come venirne fuori.
A un tratto si trovò accanto a un tavolinetto, tutto di solido cristallo, a tre piedi: sul
tavolinetto c'era una chiavetta d'oro. Subito Alice pensò che la chiavetta appartenesse a una di quelle
porte; ma oimè! o le toppe erano troppo grandi, o la chiavetta era troppo piccola. Il fatto sta che non
potè aprirne alcuna. Fatto un secondo giro nella sala, capitò innanzi a una cortina bassa non ancora
osservata: e dietro v'era un usciolo alto una trentina di centimetri: provò nella toppa la chiavettina
d'oro, e con molta gioia vide che entrava a puntino!
Aprì l'uscio e guardò in un piccolo corridoio, largo quanto una tana da topi: s'inginocchiò e
scorse di dal corridoio il più bel giardino del mondo. Oh! quanto desiderò di uscire da quella sala
buia per correre su quei prati di fulgidi fiori, e lungo le fresche acque delle fontane; ma non c'era
modo di cacciare neppure il capo nella buca. “Se almeno potessi cacciarvi la testa! pensava la
povera Alice. Ma a che servirebbe poi, se non posso farci passare le spalle! Oh, se potessi
chiudermi come un telescopio! Come mi piacerebbe! Ma come si fa?” E quasi andava cercando il
modo. Le erano accadute tante cose straordinarie, che Alice aveva cominciato a credere che poche
fossero le cose impossibili. Ma che serviva star piantata innanzi all'uscio? Alice tornò verso il
tavolinetto quasi con la speranza di poter trovare un'altra chiave, o almeno un libro che indicasse la
maniera di contrarsi come fa un cannocchiale: vi trovò invece un'ampolla, (e certo prima non c'era,
— disse Alice), con un cartello sul quale era stampato a lettere di scatola: “Bevi.”
È una parola, bevi! Alice che era una bambina prudente, non volle bere. Voglio
vedere se c'è scritto: “Veleno” disse, perchè aveva letto molti raccontini intorno a fanciulli
ch'erano stati arsi, e mangiati vivi da bestie feroci, e cose simili, e tutto perchè non erano stati
prudenti, e non s'erano ricordati degl'insegnamenti ricevuti in casa e a scuola; come per esempio, di
non maneggiare le molle infocate perchè scottano; di non maneggiare il coltello perchè taglia e dalla
ferita esce il sangue; e non aveva dimenticato quell'altro avvertimento: “Se tu bevi da una bottiglia
che porta la scritta “Veleno”, prima o poi ti sentirai male.”
Ma quell'ampolla non aveva l'iscrizione “Veleno”. Quindi Alice si arrischiò a berne un
sorso. Era una bevanda deliziosa (aveva un sapore misto di torta di ciliegie, di crema, d'ananasso, di
gallinaccio arrosto, di torrone, e di crostini imburrati) e la tracannò d'un fiato.
Che curiosa impressione! disse Alice, mi sembra di contrarmi come un
cannocchiale!
Proprio così. Ella non era più che d'una ventina di centimetri d'altezza, e il suo grazioso
visino s'irradiò tutto pensando che finalmente ella era ridotta alla giusta statura per passar per
quell'uscio, ed uscire in giardino. Prima attese qualche minuto per vedere se mai diventasse più
piccola ancora. È vero che provò un certo sgomento di quella riduzione: perchè, chi sa, potrei
rimpicciolire tanto da sparire come una candela, si disse Alice. E allora a chi somiglierei?
E cercò di farsi un'idea dell'apparenza della fiamma d'una candela spenta, perchè non poteva
nemmeno ricordarsi di non aver mai veduto niente di simile!
Passò qualche momento, e poi vedendo che non le avveniva nient'altro, si preparò ad uscire
in giardino. Ma, povera Alice, quando di fronte alla porticina si accorse di aver dimenticata la
chiavetta d'oro, e quando corse al tavolo dove l'aveva lasciata, rilevò che non poteva più giungervi:
vedeva chiaramente la chiave attraverso il cristallo, e si sforzò di arrampicarsi ad una delle gambe
del tavolo, e di salirvi, ma era troppo sdrucciolevole. Dopo essersi chi sa quanto affaticata per
vincere quella difficoltà, la poverina si sedette in terra e pianse.
Sì, ma che vale abbandonarsi al pianto! si disse Alice. Ti consiglio invece, cara
mia, di finirla con quel piagnucolìo!
Di solito ella si dava dei buoni consigli (benchè raramente poi li seguisse), e a volte poi si
rimproverava con tanta severità che ne piangeva. Si rammentò che una volta stava per
schiaffeggiarsi, per aver rubato dei punti in una partita di croquet giocata contro stessa; perchè
quella strana fanciulla si divertiva a credere di essere in due. “Ma ora è inutile voler credermi in due
— pensò la povera Alice, — mi resta appena tanto da formare un'unica bambina.”
Ecco che vide sotto il tavolo una cassettina di cristallo. L'aprì e vi trovò un piccolo
pasticcino, sul quale con uva di Corinto era scritto in bei caratteri “Mangia”. Bene! mangerò,
si disse Alice, e se mi farà crescere molto, giungerò ad afferrare la chiavetta, e se mi farà
rimpicciolire mi insinuerò sotto l'uscio: in un modo o nell'altro arriverò nel giardino, e poi sarà quel
che sarà!
Ne mang un pezzetto, e, mettendosi la mano in testa, esclamò ansiosa: “Ecco, ecco!” per
avvertire il suo cambiamento; ma restò sorpresa nel vedersi della stessa statura. Certo avviene
sempre così a quanti mangiano pasticcini; ma Alice s'era tanto abituata ad assistere a cose
straordinarie, che le sembrava stupido che la vita si svolgesse in modo naturale.
E tornò alla carica e in pochi istanti aveva mangiato tutto il pasticcino.
II
LO STAGNO DI LAGRIME
— Stranissimo, e sempre più stranissimo! esclamò Alice (era tanta la sua meraviglia che non
sapeva più parlare correttamente) mi allungo come un cannocchiale, come il più grande
cannocchiale del mondo! Addio piedi! (perchè appena si guardò i piedi le sembrò di perderli di
vista, tanto s'allontanavano.) — Oh i miei poveri piedi! chi mai v'infilerà più le calze e vi metterà le
scarpe? Io non potrò più farlo! Sarò tanto lontana che non potrò più pensare a voi: bisogna che vi
adattiate. Eppure bisognerebbe che io li trattassi bene, pensò Alice, se no, non vorranno
andare dove voglio andare io! Vediamo un po'... ogni anno a Natale regalerò loro un bel paio di
stivaletti!
E andava nel cervello mulinando come dovesse fare.
“Li manderò per mezzo del procaccia, ella pensava, ma sarà curioso mandar a regalar
le scarpe ai propri piedi! E che strano indirizzo!
Al signor Piedestro d'Alice
Tappeto
Accanto al parafuoco
(con i saluti di Alice)
“Poveretta me! quante sciocchezze dico!”
In quel momento la testa le urtò contro la volta della sala: aveva più di due metri e settanta di
altezza! Subito afferrò la chiavettina d'oro e via verso la porta del giardino.
Povera Alice! Non potè far altro che sedersi in terra, poggiandosi di fianco per guardare il
giardino con la coda dell'occhio; ma entrarvi era più difficile che mai: si sedè di nuovo dunque e si
rimise a piangere.
Ti dovresti vergognare, — si disse Alice, figurarsi, una ragazzona come te (e davvero
lo poteva dire allora) mettersi a piangere. Smetti, ti dico! Pure continuò a versar lagrime a fiotti,
tanto che riuscì a formare uno stagno intorno a di più d'un decimetro di altezza, e largo più di
metà della sala.
Qualche minuto dopo sentì in lontananza come uno scalpiccio; e si asciugò in fretta gli
occhi, per vedere chi fosse. Era il Coniglio bianco di ritorno, splendidamente vestito, con un paio di
guanti bianchi in una mano, e un gran ventaglio nell'altra: trotterellava frettolosamente e
mormorava: “Oh! la Duchessa, la Duchessa! Monterà certamente in bestia. L'ho fatta tanto
attendere!” Alice era così disperata, che avrebbe chiesto aiuto a chiunque le fosse capitato: così
quando il Coniglio le passò accanto, gli disse con voce tremula e sommessa: “Di grazia,
signore...” Il Coniglio sussultò, lasciò cadere a terra i guanti e il ventaglio, e in mezzo a quel buio si
mise a correre di sghembo precipitosamente.
Alice raccolse il ventaglio e i guanti, e perchè la sala sembrava una serra si rinfrescò
facendosi vento e parlando fra sè: Povera me! Come ogni cosa è strana oggi! Pure ieri le cose
andavano secondo il loro solito. Non mi meraviglierei se stanotte fossi stata cambiata! Vediamo:
non son stata io, io in persona a levarmi questa mattina? Mi pare di ricordarmi che mi son trovata un
po' diversa. Ma se non sono la stessa dovrò domandarmi: Chi sono dunque? Questo è il problema.
E ripensò a tutte le bambine che conosceva, della sua stessa età, per veder se non fosse per caso
una di loro.
Certo non sono Ada, disse, perchè i suoi capelli sono ricci e i miei no. Non sono
Isabella, perchè io so tante belle cose e quella poverina è tanto ignorante! e poi Isabella è Isabella e
io sono io. Povera me! in che imbroglio sono! Proviamo se mi ricordo tutte le cose che sapevo una
volta: quattro volte cinque fanno dodici, e quattro volte sei fanno tredici, e quattro volte sette
fanno... Oimè! Se vado di questo passo non giungerò mai a venti! Del resto la tavola pitagorica non
significa niente: proviamo la geografia: Londra è la capitale di Parigi, e Parigi è la capitale di Roma,
e Roma... no, sbaglio tutto! Davvero che debbo essere Isabella! Proverò a recitare “La vispa
Teresa”; incrociò le mani sul petto, come se stesse per ripetere una lezione, e cominciò a recitare
quella poesiola, ma la sua voce sonava strana e roca, e le parole non le uscivano dalle labbra come
una volta:
La vispa Teresa
avea su una fetta
di pane sorpresa
gentile cornetta;
e tutta giuliva
a chiunque l'udiva
gridava a distesa:
— L'ho intesa, l'ho intesa! —
Mi pare che le vere parole della poesia non siano queste, disse la povera Alice, e le
tornarono i lagrimoni. Insomma, continuò a dire, forse sono Isabella, dovrò andare ad
abitare in quella stamberga, e non aver più balocchi, e tante lezioni da imparare! Ma se sono
Isabella, caschi il mondo, resterò qui! Inutilmente, cari miei, caccerete il capo dal soffitto per dirmi:
“Carina, vieni su!” Leverò soltanto gli occhi e dirò: “Chi sono io? Ditemi prima chi sono. Se sarò
quella che voi cercate, verrò su; se no, resterò qui inchiodata finchè non sarò qualche altra.” “Ma
oimè! esclamò Alice con un torrente di lagrime: Vorrei che qualcuno s'affacciasse lassù! Son
tanto stanca di esser qui sola!”
E si guardò le mani, e si stupì vedendo che s'era infilato uno dei guanti lasciati cadere dal
Coniglio. — Come mai, — disse, — sono ridiventata piccina?
Si levò, s'avvicinò al tavolo per misurarvisi; e osservò che s'era ridotta a circa sessanta
centimetri di altezza e che andava rapidamente rimpicciolendosi: indovinò che la cagione di quella
nuova trasformazione era il ventaglio che aveva in mano. Lo butsubito a terra. Era tempo; se no,
si sarebbe assottigliata tanto che sarebbe interamente scomparsa.
L'ho scampata bella! disse Alice tutta sgomenta di quell'improvviso cambiamento, ma
lieta di esistere ancora. — E ora andiamo in giardino! — Si diresse subito verso l'usciolino; ma ahi!
l'usciolino era chiuso, e la chiavettina d'oro era sul tavolo come prima. “Si va male, pensò la
bambina disperata, non sono stata mai così piccina! E dichiaro che tutto questo non mi piace,
non mi piace, non mi piace!”
Mentre diceva così, sdrucciolò e punfete! affondò fino al mento nell'acqua salsa. Sulle prime
credè di essere caduta in mare e: “In tal caso, potrò tornare a casa in ferrovia” — disse fra sè. (Alice
era stata ai bagni e d'allora immaginava che dovunque s'andasse verso la spiaggia si trovassero
capanni sulla sabbia, ragazzi che scavassero l'arena, e una fila di villini, e di dietro una stazione di
strada ferrata). Ma subito si avvide che era caduta nello stagno delle lagrime versate da lei quando
aveva due e settanta di altezza.
Peccato ch'io abbia pianto tanto! disse Alice, nuotando e cercando di giungere a riva.
Ora che sarò punita, naufragando nelle mie stesse lagrime! Sarà proprio una cosa straordinaria!
Ma tutto è straordinario oggi!
E sentendo qualche cosa sguazzare nello stagno, si volse e le parve vedere un vitello marino
o un ippopotamo, ma si ricordò d'essere in quel momento assai piccina, e s'accorse che l'ippopotamo
non era altro che un topo, cascato come lei nello stagno.
Pensava Alice: “Sarebbe bene, forse, parlare a questo topo. Ogni cosa è strana quaggiù che
non mi stupirei se mi rispondesse. A ogni modo, proviamo.” E cominciò: O topo, sai la via
per uscire da questo stagno? O topo, io mi sento veramente stanca di nuotare qui. Alice pensava
che quello fosse il modo migliore di parlare a un topo: non aveva parlato a un topo prima, ma
ricordava di aver letto nella grammatica latina di suo fratello: “Un topo di un topo a un topo
— un topo. —” Il topo la guardò, la squadrò ben bene co' suoi occhiettini ma non rispose.
Forse non capisce la mia lingua, disse Alice; forse è un francese, ed è venuto qui
con l'esercito napoleonico: Con tutte le sue nozioni storiche, Alice non sapeva esattamente quel
che si dicesse. E riprese: “Où est ma chatte?” che era la prima frase del suo libriccino di francese. Il
topo fece un salto nell'acqua e tremò come una canna al vento.
— Scusami, soggiunse Alice, avvedendosi di aver scossi i nervi delicati della bestiola.
Non ho pensato che a te non piacciono i gatti.
Come mi possono piacere i gatti? domandò il topo con voce stridula e sdegnata
Piacerebbero a te i gatti, se fossi in me?
— Forse no, — rispose Alice carezzevolmente, — ma non ti adirare, sai! E pure, se ti facessi
veder Dina, la mia gatta, te ne innamoreresti. È una bestia così tranquilla e bella. E nuotando di
mala voglia e parlando a volte a stessa, Alice continuava: E fa così bene le fusa quando si
accovaccia accanto al fuoco, leccandosi le zampe e lavandosi il muso, ed è così soffice e soave
quando l'accarezzo, ed è così svelta ad acchiappare i topi... Oh! scusa! esclamò di nuovo Alice,
perchè il topo aveva il pelo tutto arruffato e pareva straordinariamente offeso. No, non ne
parleremo più, se ti dispiace.
Già, non ne parleremo, gridò il Topo, che aveva la tremarella fino alla punta dei baffi.
Come se stessi io a parlar di gatti! La nostra famiglia ha odiato sempre i gatti; bestie sozze,
volgari e basse! non me li nominare più.
No, no! rispose volonterosa Alice, e cambiando discorso, aggiunse: Di', ti
piacciono forse... ti piacciono... i cani? Il topo non rispose, e Alice continuò: vicino a casa
mia abita un bellissimo cagnolino, se lo vedessi! Ha certi begli occhi luccicanti, il pelo cenere,
riccio e lungo! Raccoglie gli oggetti che gli si gettano e siede sulle gambe di dietro per chiedere lo
zucchero, e fa tante altre belle cosettine... non ne ricordo neppure la metà... appartiene a un fattore,
il quale dice che la sua bestiolina vale un tesoro, perchè gli è molto utile, e uccide tutti i topi... oimè!
esclamò Alice tutta sconsolata: Temo di averti offeso di nuovo! E veramente l'aveva
offeso, perchè il Topo si allontanò, nuotando in furia e agitando le acque dello stagno.
Alice lo richiamò con tono soave: Topo caro, vieni qua; ti prometto di non parlar più di
gatti e di cani! — Il Topo si voltò nuotando lentamente: aveva il muso pallido (d'ira, pensava Alice)
e disse con voce tremante: Approdiamo, e ti racconterò la mia storia. Comprenderai perchè io
detesti tanto i gatti e i cani.
Era tempo d'uscire, perchè lo stagno si popolava di uccelli e d'altri animali cadutivisi dentro:
un'anitra, un Dronte, un Lori, un Aquilotto, ed altre bestie curiose. Alice si mise alla loro testa e tutti
la seguirono alla riva.
III
CORSA SCOMPIGLIATA
RACCONTO CON LA CODA
L'assemblea che si raccolse sulla riva era molto bizzarra. Figurarsi, gli uccelli avevano le
penne inzuppate, e gli altri animali, col pelo incollato ai corpi, grondavano tutti acqua tristi e
melanconici.
La prima questione, messa sul tappeto, fu naturalmente il mezzo per asciugarsi: si
consultarono tutti, e Alice dopo poco si mise a parlar familiarmente con loro, come se li conoscesse
da un secolo uno per uno. Discusse lungamente col Lori, ma tosto costui le mostrò un viso
accigliato, dicendo perentoriamente: Son più vecchio di te, perc ne so più di te; ma Alice
non volle convenirne se prima non le avesse detto quanti anni aveva. Il Lori non volle dirglielo, e la
loro conversazione fu troncata.
Il Topo, che sembrava persona d'una certa autorità fra loro, gridò:
— Si seggano, signori, e mi ascoltino! In pochi momenti seccherò tutti! — Tutti sedettero in
giro al Topo. Alice si mise a guardare con una certa ansia, convinta che se non si fosse rasciugata
presto, si sarebbe beccato un catarro coi fiocchi.
Ehm! disse il Topo, con accento autorevole, siete tutti all'ordine? Questa domanda
è bastantemente secca, mi pare! Silenzio tutti, per piacere! Guglielmo il Conquistatore, la cui causa
era favorita dal papa, fu subito sottomesso dagli inglesi...
— Uuff! — fece il Lori con un brivido.
— Scusa! — disse il Topo con cipiglio, ma con molta cortesia: — Dicevi qualche cosa?
— Niente affatto! — rispose in fretta il Lori.
— M'era parso di sì — soggiunse il Topo. — Continuo: Edwin e Morcar, i conti di Mercia e
Northumbria, si dichiararono per lui; e anche, Stigand, il patriottico arcivescovo di Canterbury,
trovò che... — Che cosa? — disse l'anitra.
Trovo che — replicò vivamente il Topo — tu sai che significa “che?”
Significa una cosa, quando trovo qualche cosa? rispose l'Anitra; un ranocchio o un
verme. Si tratta di sapere che cosa trovò l'arcivescovo di Canterbury.
Il Topo non le badò e continuò: Trovò che era opportuno andare con Edgar Antheling
incontro a Guglielmo per offrirgli la corona. In principio Guglielmo usò moderazione; ma
l'insolenza dei Normanni... Ebbene, cara, come stai ora? — disse rivolto ad Alice.
Bagnata come un pulcino, rispose Alice afflitta, mi sembra che il tuo racconto
secchi, ma non asciughi affatto.
In questo caso, disse il Dronte in tono solenne, levandosi in piedi, propongo che
l'assemblea si aggiorni per l'adozione di rimedi più energici...
Ma parla italiano! esclamò l'Aquilotto. Non capisco neppur la metà di quei tuoi
paroloni, e forse tu stesso non ne capisci un'acca. L'Aquilotto chinò la testa per nascondere un
sorriso, ma alcuni degli uccelli si misero a sghignazzare sinceramente.
Volevo dire, continuò il Dronte, offeso, che il miglior modo di asciugarsi sarebbe
di fare una corsa scompigliata.
Che è la corsa scompigliata? domandò Alice. Non le premeva molto di saperlo, ma il
Dronte taceva come se qualcheduno dovesse parlare, mentre nessuno sembrava disposto ad aprire
bocca o becco.
Ecco, disse il Dronte, il miglior modo di spiegarla è farla. (E siccome vi
potrebbe venire in mente di provare questa corsa in qualche giorno d'inverno, vi dirò come la
diresse il Dronte.)
Prima tracciò la linea dello steccato, una specie di circolo, (— che la forma sia esatta o no,
non importa, disse) e poi tutta la brigata entrò nello steccato disponendosi in questo o in quel
punto. Non si udì: Uno, due tre... via! 'ma tutti cominciarono a correre a piacere; e si fermarono
quando vollero, di modo che non si seppe quando la corsa fosse terminata. A ogni modo, dopo che
ebbero corso una mezz'ora o quasi, e si sentirono tutti bene asciugati, il Dronte esclamò: — La corsa
è finita! — e tutti lo circondarono anelanti domandando: — Ma chi ha vinto?
Per il Dronte non era facile rispondere, perciò sedette e restò a lungo con un dito appoggiato
alla fronte (tale e quale si rappresenta Shakespeare nei ritratti), mentre gli altri tacevano. Finalmente
il Dronte disse: — Tutti hanno vinto e tutti debbono essere premiati.
—. Ma chi distribuirà i premi? — replicò un coro di voci.
Lei, s'intende! disse il Dronte, indicando con un dito Alice. E tutti le si affollarono
intorno; gridando confusamente: — I premi! i premi!
Alice non sapeva che fare, e nella disperazione si cacciò le mani in tasca, e ne cavò una
scatola di confetti (per buona sorte non v'era entrata l'acqua,) e li distribuì in giro. Ce n'era appunto
uno per ciascuno. — Ma dovrebbe esser premiata anche lei, — disse il Topo.
Naturalmente, soggiunse gravemente il Dronte; Che altro hai in tasca? chiese ad
Alice.
— Un ditale, rispose mestamente la fanciulla.
Dài qui, — replicò il Dronte.
E tutti l'accerchiarono di nuovo, mentre il Dronte con molta gravità le offriva il ditale,
dicendo: La preghiamo di accettare quest'elegante ditale; e tutti applaudirono a quel breve
discorso.
Bisognava ora mangiare i confetti; cosa che cagionò un po' di rumore e di confusione, perchè
gli uccelli grandi si lagnavano che non avevano potuto assaporarli, e i piccoli, avendoli inghiottiti
d'un colpo, corsero il rischio di strozzarsi e si dovè picchiarli sulla schiena. Ma anche questo finì, e
sedettero in circolo pregando il Topo di dire qualche altra cosa.
— Ricordati che mi hai promesso di narrarmi la tua storia, — disse Alice, — e la ragione per
cui tu odii i G. e i C., — soggiunse sommessamente, temendo di offenderlo di nuovo.
— La mia storia è lunga e triste e con la coda! — rispose il Topo, sospirando.
— Certo è una coda lunga, — disse Alice, guardando con meraviglia la coda del topo, — ma
perchè la chiami trista? E continuò a pensarci impacciata, mentre il Topo parlava. Così l'idea che
ella si fece di quella storia con la coda fu press'a poco questa:
Furietta disse
al Topo
che avea
sorpreso
in casa:
Andiamo
in tribunale;
per farti
processare
Non voglio
le tue scuse,
o Topo
scellerato.
Quest'oggi
non ho niente
nel mio villin
da fare.
Disse a
Furietta
il Topo:
Ma come
andare
in Corte?
Senza giurati
e giudici
Sarebbe
una vendetta!
Sarò giurato
e giudice,
rispose
Furietta,
E passerò
soffiando
la tua
sentenza
a morte.
Tu non stai attenta! — disse il Topo ad Alice severamente. — A che cosa pensi?
Scusami, rispose umilmente Alice: sei giunto alla quinta vertebra della coda, non è
vero?
— No, do...po, — riprese il Topo irato, scandendo le sillabe.
C'è un nodo? esclamò Alice sempre pronta e servizievole, e guardandosi intorno.
Ti aiuterò a scioglierlo!
Niente affatto! rispose il Topo, levandosi e facendo l'atto di andarsene. Tu m'insulti
dicendo tali sciocchezze!
— Ma, no! — disse Alice con umiltà. — Tu t'offendi con facilità!
Per tutta risposta il Topo si mise a borbottare. — Per piacere, ritorna e finisci il tuo racconto!
gridò Alice; e tutti gli altri s'unirono in coro: Via finisci il racconto! Ma il Topo crollò il
capo con un moto d'impazienza, e affrettò il passo.
Peccato che non sia rimasto! disse sospirando il Lori; appena il Topo si fu dileguato.
Un vecchio granchio colse quell'occasione per dire alla sua piccina: Amor mio, ti serva di
lezione, e bada di non adirarti mai!
— Papà, — disse la piccina sdegnosa, — tu stancheresti anche la pazienza d'un'ostrica!
Ah, se Dina fosse qui! disse Alice parlando ad alta voce, ma senza rivolgersi
particolarmente
a nessuno. — Lo riporterebbe indietro subito!
— Scusa la domanda, chi è Dina? — domando il Lori.
Alice rispose sollecitamente sempre pronta a parlare del suo animale prediletto: La mia
gatta. Fa prodigi, quando caccia i topi! E se la vedessi correr dietro gli uccelli! Un uccellino lo fa
sparire in un boccone.
Questo discorso produsse una grande impressione nell'assemblea. Alcuni uccelli spiccarono
immediatamente il volo: una vecchia gazza si avviluppò ben bene dicendo: è tempo di tornare a
casa; l'aria notturna mi fa male alla gola! Un canarino chiamò con voce tremula tutti i suoi
piccini. Via, via cari miei! È tempo di andare a letto! Ciascuno trovò un pretesto per
andarsene, e Alice rimase sola.
“Non dovevo nominare Dina! disse malinconicamente tra sè. Pare che quaggiù
nessuno le voglia bene; ed è la migliore gatta del mondo! Oh, cara Dina, chi sa se ti rivedrò mai
più!” E la povera Alice ricominciò a piangere, perchè si sentiva soletta e sconsolata. Ma alcuni
momenti dopo avvertì di nuovo uno scalpiccio in lontananza, e guardò fissamente nella speranza
che il Topo, dopo averci ripensato, tornasse per finire il suo racconto.
IV
LA CASETTINA DEL CONIGLIO
Era il Coniglio bianco che tornava trotterellando bel bello e guardandosi ansiosamente
intorno, come avesse smarrito qualche cosa, e mormorando tra sè: “Oh la duchessa! la duchessa! Oh
zampe care! pelle e baffi miei, siete accomodati per le feste ora! Ella mi farà ghigliottinare, quant'è
vero che le donnole sono donnole! Ma dove li ho perduti?”
Alice indovinò subito ch'egli andava in traccia del ventaglio e del paio di guanti bianchi, e,
buona e servizievole com'era, si diede un gran da fare per ritrovarli. Ma invano. Tutto sembrava
trasformato dal momento che era caduta nello stagno; e la gran sala col tavolino di cristallo, e la
porticina erano interamente svanite.
Non appena il Coniglio si accorse di Alice affannata alla ricerca, gridò in tono d'ira:
Marianna, che fai qui? Corri subito a casa e portami un paio di guanti e un ventaglio! Presto, presto!
Alice fu così impaurita da quella voce, che, senz'altro, corse velocemente verso il luogo
indicato, senza dir nulla sull'equivoco del Coniglio.
“Mi ha presa per la sua cameriera, disse fra sè, mentre continuava a correre. E si
sorprenderà molto quando saprà chi sono! Ma è meglio portargli il ventaglio e i guanti, se pure
potrò trovarli”.
E così dicendo, giunse innanzi a una bella casettina che aveva sull'uscio una lastra di ottone
lucente, con questo nome: G. Coniglio. Entrò senza picchiare, e in fretta fece tutta la scala, temendo
d'incontrare la vera Marianna, ed essere da lei espulsa di lì prima di trovare il ventaglio e i guanti.
“Strano, pensava Alice, essere mandata da un Coniglio a far dei servizi! Non mi
meraviglierò, se una volta o l'altra, Dina mi manderà a sbrigare delle commissioni per lei!” E
cominciò a fantasticare intorno alle probabili scene: “Signorina Alice! Venga qui subito, e si prepari
per la passeggiata!” “Eccomi qui, zia! Ma dovrei far la guardia a questo buco fino al ritorno di Dina,
perchè non ne scappi il topo...” “Ma non posso credere, continuò Alice, che si permetterebbe
a Dina di rimanere in casa nostra, se cominciasse a comandare la gente a questo modo.”
In quell'atto era entrata in una graziosa cameretta, con un tavolo nel vano della finestra. Sul
tavolo c'era, come Alice aveva sperato, un ventaglio e due o tre paia di guanti bianchi e freschi;
prese il ventaglio e un paio di guanti, e si preparò ad uscire, quando accanto allo specchio scorse
una boccettina. Questa volta non v'era alcuna etichetta con la parola “Bevi”. Pur nondimeno la
stappò e se la portò alle labbra. “Qualche cosa di straordinario mi accade tutte le volte che bevo o
mangio, disse fra sè; vediamo dunque che mi farà questa bottiglia. Spero che mi farà crescere di
nuovo, perchè son proprio stanca di essere così piccina!”
E così avvenne, prima di quando s'aspettasse: non aveva ancor bevuto metà della boccettina
che urtò con la testa contro la volta, di modo che dovette abbassarsi subito, per non rischiare di
rompersi l'osso del collo. Subito depose la fiala dicendo: Basta per ora, spero di non crescere di
più; ma intanto come farò ad uscire! Se avessi bevuto un po' meno!
Oimè! troppo tardi! Continuò a crescere, a crescere, e presto dovette inginocchiarsi, perchè
non poteva più star in piedi; e dopo un altro minuto non c'era più spazio neanche per stare
inginocchiata. Dovette sdraiarsi con un gomito contro l'uscio, e con un braccio intorno al capo. E
cresceva ancora. Con un estremo sforzo, cacciò una mano fuori della finestra, ficcò un piede nel
caminetto, e si disse: Qualunque cosa accada non posso far di più. Che sarà di me?
Fortunatamente, la virtù della boccettina magica aveva prodotto il suo massimo effetto, ed
Alice non crebbe più: ma avvertiva un certo malessere, e, giacchè non era probabile uscire da quella
gabbia, non c'è da stupire se si giudicò infelicissima:
“Stavo così bene a casa! pensò la povera Alice, senza diventar grande o piccola e
sentirmi comandare dai sorci e dai conigli. Ah; se non fossi discesa nella conigliera!... e pure... e
pure... questo genere di vita è curioso! Ma che cosa mi è avvenuto? Quando leggevo i racconti delle
fate, credevo che queste cose non accadessero mai, ed ora eccomi un perfetto racconto di fate. Si
dovrebbe scrivere un libro sulle mie avventure, si dovrebbe! Quando sarò grande lo scriverò io... Ma
sono già grande, soggiunse afflitta, e qui non c'è spazio per crescere di più. Ma come,
pensò Alice, non sarò mai maggiore di quanto sono adesso? Da una parte, sarebbe un bene non
diventare mai vecchia; ma da un'altra parte dovrei imparare sempre le lezioni, e mi seccherebbe! Ah
sciocca che sei! rispose Alice a stessa. Come potrei imparare le lezioni qui? C'è appena
posto per me! I libri non c'entrano!”
E continuò così, interrogandosi e rispondendosi, sostenendo una conversazione tra Alice e
Alice; ma dopo pochi minuti sentì una voce di fuori, e si fermò per ascoltare.
Marianna! Marianna! diceva la voce, portami subito i guanti! Poi s'udì uno
scalpiccio per la scala. Alice pensò che il Coniglio venisse per sollecitarla e tremò da scuotere la
casa, dimenticando d'esser diventata mille volte più grande del Coniglio, e che non aveva alcuna
ragione di spaventarsi.
Il Coniglio giunse alla porta, e cercò di aprirla. Ma la porta si apriva al di dentro e il gomito
d'Alice era puntellato di dietro; così che ogni sforzo fu vano. Alice udì che il Coniglio diceva tra sè:
— Andrò dalla parte di dietro, ed entrerò dalla finestra.
“Non ci entrerai!” pensò Alice, e aspettò sinchè le parve che il Coniglio fosse arrivato sotto
la finestra. Allora aprì d'un tratto la mano e fece un gesto in aria. Non afferrò nulla; ma sentì delle
piccole strida e il rumore d'una caduta, poi un fracasso di vetri rotti e comprese che il poverino
probabilmente era cascato su qualche campana di cocomeri o qualche cosa di simile.
Poi s'udì una voce adirata, quella del Coniglio: Pietro! Pietro! Dove sei? E una
voce ch'essa non aveva mai sentita: — Sono qui! Stavo scavando le patate, eccellenza!
Scavando le patate! — fece il Coniglio, pieno d'ira. — Vieni qua! Aiutami ad uscire di qui...!
— Si sentì un secondo fracasso di vetri infranti
— Dimmi, Pietro, che c'è lassù alla finestra?
— Perbacco! è un braccio, eccellenza!
— Un braccio! Zitto, bestia! Esistono braccia così grosse? Riempie tutta la finestra!
— Certo, eccellenza: eppure è un braccio!
— Bene, ma che c'entra con la mia finestra? Va a levarlo!
Vi fu un lungo silenzio, poi Alice sentì qua e là un bisbiglio, e un dialogo come questo:
Davvero non me la sento, eccellenza, per nulla affatto! Fa come ti dico, vigliacco! E
allora Alice di nuovo aprì la mano e fece un gesto in aria. Questa volta si udirono due strilli acuti, e
un nuovo fracasso di vetri.
“Quante campane di vetro ci sono laggiù! pensò Alice. Chi sa che faranno dopo! Magari
potessero cacciarmi fuori dalla finestra. Certo non intendo di rimanere qui!”
Attese un poco senza udire più nulla; finalmente s'udì un cigolìo di ruote di carri e molte
voci che parlavano insieme. Essa potè afferrare queste parole: Dov'è l'altra scala?... Ma io non
dovevo portarne che una... Guglielmo ha l'altra. Guglielmo! portala qui. Su, appoggiala a
quest'angolo... No, no, lègale insieme prima. Non vedi che non arrivano neppure a metà!... Oh! vi
arriveranno! Non fare il difficile!... Qua, Guglielmo, afferra questa fune... Ma reggerà il tetto? Bada
a quella tegola che si muove.... Ehi! casca! attenti alla testa! Punfete” Chi è stato? Guglielmo,
immagino!... Chi andrà giù per il camino?... Io no!... Vuoi andare tu?... No, neppure io!... Scenderà
Guglielmo!... Ohi! Guglielmo! il padrone dice che devi scendere giù nel camino!
“Magnifico!” — disse Alice fra sè. — Così questo Guglielmo scenderà dal camino? Pare che
quei signori aspettino tutto da Guglielmo! Non vorrei essere nei suoi panni. Il camino è molto
stretto, ma qualche calcio, credo, glielo potrò assestare.”
E ritirò il piede più che potè lungi dal camino, ed attese sinchè sentì un animaletto (senza
che potesse indovinare a che specie appartenesse) che raschiava e scendeva adagino adagino per la
canna del camino. — È Guglielmo! — ella disse, e tirò un gran calcio, aspettando il seguito.
La prima cosa che sentì fu un coro di voci che diceva: — Ecco Guglielmo che vola! — e poi
la voce sola del Coniglio: — Pigliatelo voi altri presso la siepe! — e poi silenzio, e poi di nuovo una
gran confusione di voci... Sostenetegli il capo... un po' d'acquavite... Non lo strozzate... Com'è
andata amico?... Che cosa ti è accaduto? Racconta!
Finalmente si sentì una vocina esile e stridula (— Guglielmo, pensò Alice):
Veramente, non so. Basta, grazie, ora mi sento meglio... ma son troppo agitato per raccontarvelo...
tutto quello che mi ricordo si è qualche cosa come un babau che m'ha fatto saltare in aria come un
razzo!
— Davvero, poveretto! — dissero gli altri.
Si deve appiccar fuoco alla casa! esclamò la voce del Coniglio; ma Alice gridò subito
con quanta forza aveva in gola: — Se lo fate, guai! Vi farò acchiappare da Dina!
Si fece immediatamente un silenzio mortale, e Alice disse fra sè: “Chi sa che faranno ora! Se
avessero tanto di cervello in testa scoperchierebbero la casa.”
Dopo uno o due minuti cominciarono a muoversi di nuovo e sentì il Coniglio dire:
Basterà una carriola piena per cominciare. —
“Piena di che?” — pensò Alice; ma non restò molto in dubbio, perchè subito una grandine di
sassolini cominciò a tintinnare contro la finestra ed alcuni la colpirono in faccia. “Bisogna finirla!”
— pensò Alice, e strillò: — Non vi provate più! — Successe di nuovo un silenzio di tomba.
Alice osservò con sorpresa che i sassolini si trasformavano in pasticcini, toccando il
pavimento, e subito un'idea la fece sussultare di gioia: Se mangio uno di questi pasticcini,
disse, certo avverrà un mutamento nella mia statura. Giacchè non potranno farmi più grande, mi
faranno forse più piccola.
E ingoiò un pasticcino, e si rallegrò di veder che cominciava a contrarsi. Appena si sentì
piccina abbastanza per uscir dalla porta, scappò da quella casa, e incontrò una folla di piccoli
animali e d'uccelli che aspettavano fuori. La povera Lucertola (era Guglielmo) stava nel mezzo,
sostenuta da due Porcellini d'India, che la facevano bere da una bottiglia. Appena comparve Alice,
tutti le si scagliarono contro; ma la fanciulla si mise a correre più velocemente che le fu possibile, e
riparò incolume in un folto bosco.
“La prima cosa che dovrò fare, pensò Alice, vagando nel bosco, è di ricrescere e
giungere alla mia statura normale; la seconda, di trovare la via per entrare in quel bel giardino.
Credo che non ci sia altro di meglio da fare”.
Il suo progetto era eccellente, senza dubbio; ma la difficoltà stava nel fatto ch'ella non
sapeva di dove cominciare a metterlo in atto. Mentre aguzzava gli occhi, guardando fra gli alberi
della foresta, un piccolo latrato acuto al di sopra di lei la fece guardare in su presto presto.
Un enorme cucciolo la squadrava con i suoi occhi tondi ed enormi, e allungando una zampa
cercava di toccarla. Poverino! disse Alice in tono carezzevole, e per ammansirlo si provò a
dirgli: Te', te'! ma tremava come una canna, pensando che forse era affamato. In questo caso
esso l'avrebbe probabilmente divorata, nonostante tutte le sue carezze.
Per far la disinvolta, prese un ramoscello e lo presentò al cagnolino; il quale diede un balzo
in aria come una palla con un latrato di gioia, e s'avventò al ramoscello come per sbranarlo. Allora
Alice si mise cautamente dietro un cardo altissimo per non esser travolta; quando si affacciò
dall'altro lato, il cagnolino s'era avventato nuovamente al ramoscello, ed aveva fatto un capitombolo
nella furia di afferrarlo. Ma ad Alice sembrò che fosse come voler scherzare con un cavallo da
trasporto. Temendo d'esser calpestata dalle zampe della bestia, si rifugiò di nuovo dietro al cardo:
allora il cagnolino cominciò una serie di cariche contro il ramoscello, andando sempre più in , e
rimanendo sempre più in qua del necessario, abbaiando raucamente sinchè non s'acquattò ansante a
una certa distanza con la lingua penzoloni, e i grandi occhi semichiusi.
Alice colse quell'occasione per scappare. Corse tanto da perdere il fiato, sinchè il latrato del
cagnolino si perse in lontananza.
— E pure che bel cucciolo che era! — disse Alice, appoggiandosi a un ranuncolo e facendosi
vento con una delle sue foglie. Oh, avrei voluto insegnargli dei giuochi se... se fossi stata d'una
statura adatta! Poveretta me! avevo dimenticato che avevo bisogno di crescere ancora! Vediamo,
come debbo fare? Forse dovrei mangiare o bere qualche cosa; ma che cosa?
Il problema era questo: che cosa? Alice guardò intorno fra i fiori e i fili d'erba; ma non potè
veder nulla che le sembrasse adatto a mangiare o a bere per l'occasione. C'era però un grosso fungo
vicino a lei, press'a poco alto quanto lei; e dopo che l'ebbe esaminato di sotto, ai lati e di dietro, le
parve cosa naturale di vedere che ci fosse di sopra.
Alzandosi in punta dei piedi, si affacciò all'orlo del fungo, e gli occhi suoi s'incontrarono con
quelli d'un grosso Bruco turchino che se ne stava seduto nel centro con le braccia conserte, fumando
tranquillamente una lunga pipa, e non facendo la minima attenzione ne a lei, nè ad altro.
V
CONSIGLI DEL BRUCO
Il Bruco e Alice si guardarono a vicenda per qualche tempo in silenzio; finalmente il Bruco
staccò la pipa di bocca, e le parlò con voce languida e sonnacchiosa:
Chi sei? — disse il Bruco.
Non era un bel principio di conversazione. Alice rispose con qualche timidezza: Davvero
non te lo saprei dire ora. So dirti chi fossi, quando mi son levata questa mattina, ma d'allora credo di
essere stata cambiata parecchie volte.
— Che cosa mi vai contando? — disse austeramente il Bruco. — Spiegati meglio.
Temo di non potermi spiegare, disse Alice, perchè non sono più quella di prima,
come vedi.
— Io non vedo nulla, — rispose il Bruco.
Temo di non potermi spiegare più chiaramente, soggiunse Alice in maniera assai
gentile, perchè dopo esser stata cambiata di statura tante volte in un giorno, non capisco più
nulla.
— Non è vero! — disse il Bruco.
Bene, non l'hai sperimentato ancora, disse Alice, ma quando ti trasformerai in
crisalide, come ti accadrà un giorno, e poi diventerai farfalla, certo ti sembrerà un po'strano, non
è vero?
— Niente affatto, — rispose il Bruco.
— Bene, tu la pensi diversamente, — replicò Alice; — ma a me parrebbe molto strano.
— A te! — disse il Bruco con disprezzo. — Chi sei tu?
E questo li ricondusse di nuovo al principio della conversazione.
Alice si sentiva un po' irritata dalle brusche osservazioni del Bruco e se ne stette sulle sue,
dicendo con gravità: — Perchè non cominci tu a dirmi chi sei?
— Perchè? — disse il Bruco.
Era un'altra domanda imbarazzante. Alice non seppe trovare una buona ragione. Il Bruco
pareva di cattivo umore e perciò ella fece per andarsene.
— Vieni qui! — la richiamò il Bruco. — Ho qualche cosa d'importante da dirti.
La chiamata prometteva qualche cosa: Alice si fece innanzi.
— Non arrabbiarti! — disse il Bruco.
— E questo è tutto? — rispose Alice, facendo uno sforzo per frenarsi.
— No, — disse il Bruco.
Alice pensò che poteva aspettare, perchè non aveva niente di meglio da fare, e perchè forse il
Bruco avrebbe potuto dirle qualche cosa d'importante. Per qualche istante il Bruco fumò in silenzio,
finalmente sciolse le braccia, si tolse la pipa di bocca e disse:
— E così, tu credi di essere cambiata?
— Ho paura di sì, signore, — rispose Alice. — Non posso ricordarmi le cose bene come una
volta, e non rimango della stessa statura neppure per lo spazio di dieci minuti!
— Che cosa non ricordi? — disse il Bruco.
— Ecco, ho tentato di dire “La vispa Teresa” e l'ho detta tutta diversa! soggiunse
melanconicamente Alice.
— Ripetimi “Sei vecchio, caro babbo”, — disse il Bruco.
Alice incrociò le mani sul petto, e cominciò:
“Sei vecchio, caro babbo” — gli disse il ragazzino —
“sulla tua chioma splende — quasi un candore alpino;
eppur costantemente — cammini sulla testa:
ti sembra per un vecchio — buona maniera questa?”
“Quand'ero bambinello” — rispose il vecchio allora —
“temevo di mandare — il cerebro in malora;
ma adesso persuaso — di non averne affatto,
a testa in giù cammino — più agile d'un gatto.”
“Sei vecchio, caro babbo” — gli disse il ragazzino —
e sei capace e vasto — più assai d'un grosso tino:
e pur sfondato hai l'uscio — con una capriola;
“dimmi di quali acrobati — andasti, babbo, a scuola?”
“Quand'ero bambinello.” — rispose il padre saggio,
per rafforzar le membra, — io mi facea il massaggio
sempre con quest'unguento. — Un franco alla boccetta.
“chi comperarlo vuole, — fa bene se s'affretta”
“Sei vecchio, caro babbo,” — gli disse il ragazzino, —
“e tu non puoi mangiare — che pappa nel brodino;
pure hai mangiato un'oca — col becco e tutte l'ossa
Ma dimmi, ove la pigli, — o babbo, tanta possa?”
“Un dì apprendevo legge.” — il padre allor gli disse, —
“ed ebbi con mia moglie continue liti e risse,
e tanta forza impressi — alle ganasce allora,
tanta energia, che, vedi, — mi servon bene ancora.”
“Sei vecchio. caro babbo,” — gli disse il ragazzino
“e certo come un tempo — non hai più l'occhio fino:
pur reggi in equilibrio — un pesciolin sul naso:
or come così desto — ti mostri in questo caso?”
“A tutte le domande — io t'ho risposto già,
“e finalmente basta!” — risposegli il papà:
“se tutto il giorno poi — mi vuoi così seccare.
ti faccio con un calcio — le scale ruzzolare”
— Non l'hai detta fedelmente, — disse il Bruco.
— Temo di no, — rispose timidamente Alice, — certo alcune parole sono diverse.
— L'hai detta male, dalla prima parola all'ultima, — disse il Bruco con accento risoluto.
Vi fu un silenzio per qualche minuto.
Il Bruco fu il primo a parlare:
— Di che statura vuoi essere? — domandò.
Oh, non vado tanto pel sottile in fatto di statura, rispose in fretta Alice; soltanto
non è piacevole mutar così spesso, sai.
— Io non ne so nulla, — disse il Bruco.
Alice non disse sillaba: non era stata mai tante volte contraddetta, e non ne poteva proprio
più.
— Sei contenta ora? — domandò il Bruco.
— Veramente vorrei essere un pochino più grandetta, se non ti dispiacesse, — rispose Alice,
— una statura di otto centimetri è troppo meschina!
Otto centimetri fanno una magnifica statura! disse il Bruco collerico, rizzandosi come
uno stelo, mentre parlava (egli era alto esattamente otto centimetri).
Ma io non ci sono abituata! si scusò Alice in tono lamentoso. E poi pensò fra sè:
“Questa bestiolina s'offende per nulla!”
Col tempo ti ci abituerai, disse il Bruco, e rimettendosi la pipa in bocca ricominciò a
fumare.
Questa volta Alice aspettò pazientemente che egli ricominciasse a parlare. Dopo due o tre
minuti, il Bruco si tolse la pipa di bocca, sbadigliò due o tre volte, e si scosse tutto. Poi discese dal
fungo, e se ne andò strisciando nell'erba, dicendo soltanto queste parole: Un lato ti farà diventare
più alta e l'altro ti farà diventare più bassa.
“Un lato di che cosa? L'altro lato di che cosa?” pensò Alice fra sè.
Del fungo, disse il Bruco, come se Alice lo avesse interrogato ad alta voce; e subito
scomparve.
Alice rimase pensosa un minuto guardando il fungo, cercando di scoprirne i due lati, ma
siccome era perfettamente rotondo, trovò la cosa difficile. A ogni modo allungò più che le fu
possibile le braccia per circondare il fungo, e ne ruppe due pezzetti dell'orlo a destra e a sinistra.
— Ed ora qual è un lato e qual è l'altro?si domandò, e si mise ad addentare, per provarne
l'effetto, il pezzettino che aveva a destra; l'istante dopo si sentì un colpo violento sotto il mento.
Aveva battuto sul piede!
Quel mutamento subitaneo la spaventò molto; ma non c'era tempo da perdere, perchè ella si
contraeva rapidamente; così si mise subito ad addentare l'altro pezzo. Il suo mento era talmente
aderente al piede che a mala pena trovò spazio per aprir la bocca; finalmente riuscì a inghiottire una
briccica del pezzettino di sinistra.
Ecco, la mia testa è libera finalmente! esclamò Alice gioiosa; ma la sua allegrezza si
mutò in terrore, quando si accorse che non poteva più trovare le spalle: tutto ciò che poteva vedere,
guardando in basso, era un collo lungo lungo che sembrava elevarsi come uno stelo in un mare di
foglie verdi, che stavano a una bella distanza al di sotto.
Che cosa è mai quel campo verde? disse Alice. E le mie spalle dove sono? Oh
povera me! perchè non vi veggo più, o mie povere mani? E andava movendole mentre parlava,
ma non seguiva altro effetto che un piccolo movimento fra le foglie verdi lontane.
E siccome non sembrava possibile portar le mani alla testa, tentò di piegare la testa verso le
mani, e fu contenta di rilevare che il collo si piegava e si moveva in ogni senso come il corpo d'un
serpente. Era riuscita a curvarlo in giù in forma d'un grazioso zig-zag, e stava per tuffarlo fra le
foglie (le cime degli alberi sotto i quali s'era smarrita), quando sentì un sibilo acuto, che glielo fece
ritrarre frettolosamente: un grosso Colombo era volato su di lei e le sbatteva violentemente le ali
contro la faccia.
— Serpente! — gridò il Colombo.
— Io non sono un serpente, — disse Alice indignata. — Vattene!
Serpente, dico! ripetè il Colombo, ma con tono più dimesso, e soggiunse
singhiozzando: — Ho cercato tutti i rimedi, ma invano.
— Io non comprendo affatto di che parli, — disse Alice.
Ho provato le radici degli alberi, ho provato i clivi, ho provato le siepi, continuò il
Colombo senza badarle; — ma i serpenti! Oh, non c'è modo di accontentarli!
Alice sempre più confusa, pensò che sarebbe stato inutile dir nulla, sin che il Colombo non
avesse finito.
Come se fosse poco disturbo covar le uova, disse il Colombo. Bisogna vegliarle
giorno e notte! Sono tre settimane che non chiudo occhio!
— Mi dispiace di vederti così sconsolato! disse Alice, che cominciava a comprendere.
E appunto quando avevo scelto l'albero più alto del bosco, continuò il Colombo con
un grido disperato, e mi credevo al sicuro finalmente, ecco che mi discendono dal cielo! Ih!
Brutto serpente!
— Ma io non sono un serpente, ti dico! — rispose Alice. — lo sono una... Io sono una...
— Bene, chi sei? — chiese il Colombo. — È chiaro che tu cerchi dei raggiri per ingannarmi!
Io... io sono una bambina, rispose Alice, ma con qualche dubbio, perchè si
rammentava i molti mutamenti di quel giorno.
— È una frottola! — disse il Colombo col tono del più amaro disprezzo. — Ho veduto molte
bambine in vita mia, ma con un collo come il tuo, mai. No, no! Tu sei un serpente, è inutile negarlo.
Scommetto che avrai la faccia di dirmi che non hai assaggiato mai un uovo!
Ma certo che ho mangiato delle uova, soggiunse Alice, che era una bambina molto
sincera. — Non son soli i serpenti a mangiare le uova; le mangiano anche le bambine.
Non ci credo, disse il Colombo, ma se così fosse le bambine sarebbero un'altra
razza di serpenti, ecco tutto.
Questa idea parve così nuova ad Alice che rimase in silenzio per uno o due minuti; il
Colombo colse quell'occasione per aggiungere: Tu vai a caccia di uova, questo è certo, e che
m'importa, che tu sia una bambina o un serpente?
Ma importa moltissimo a me, — rispose subito Alice. — A ogni modo non vado in cerca
di uova; e anche se ne cercassi, non ne vorrei delle tue; crude non mi piacciono.
Via dunque da me! disse brontolando il Colombo, e si accovacciò nel nido. Alice
s'appiattò come meglio potè fra gli alberi, perchè il collo le s'intralciava tra i rami, e spesso doveva
fermarsi per distrigarnelo. Dopo qualche istante, si ricordò che aveva tuttavia nelle mani i due
pezzettini di fungo, e si mise all'opera con molta accortezza addentando ora l'uno ora l'altro, e così
diventava ora più alta ora più bassa, finchè riuscì a riavere la sua statura giusta.
Era da tanto tempo che non aveva la sua statura giusta, che da prima le parve strano; ma vi si
abituò in pochi minuti, e ricominciò a parlare fra secondo il solito. Ecco sono a metà del mio
piano! Sono pure strani tutti questi mutamenti! Non so mai che diventerò da un minuto all'altro! Ad
ogni modo, sono tornata alla mia statura normale: ora bisogna pensare ad entrare in quel bel
giardino... Come farò, poi?
E così dicendo, giunse senza avvedersene in un piazzale che aveva nel mezzo una casettina
alta circa un metro e venti. Chiunque vi abiti, pensò Alice, non posso con questa mia
statura fargli una visita; gli farei una gran paura!
E cominciò ad addentare il pezzettino che aveva nella destra, e non osò di avvicinarsi alla
casa, se non quando ebbe la statura d'una ventina di centimetri.
VI
PORCO E PEPE
Per un po' si mise a guardare la casa, e non sapeva che fare, quando ecco un valletto in livrea
uscire in corsa dalla foresta... (lo prese per un valletto perchè era in livrea, altrimenti al viso lo
avrebbe creduto un pesce), e picchiare energicamente all'uscio con le nocche delle dita. La porta fu
aperta da un altro valletto in livrea, con una faccia rotonda e degli occhi grossi, come un ranocchio;
ed Alice osservò che entrambi portavano delle parrucche inanellate e incipriate. Le venne la
curiosità di sapere di che si trattasse, e uscì cautamente dal cantuccio della foresta, e si mise ad
origliare.
Il pesce valletto ca di sotto il braccio un letterone grande quasi quanto lui, e lo presentò
all'altro, dicendo solennemente: “Per la Duchessa. Un invito della Regina per giocare una partita di
croquet.” Il ranocchio valletto rispose nello stesso tono di voce, ma cambiando l'ordine delle parole:
“Dalla Regina. Un invito per la Duchessa per giocare una partita di croquet.”
Ed entrambi s'inchinarono sino a terra, e le ciocche de' loro capelli si confusero insieme.
Alice scoppiò in una gran risata, e si rifugiò nel bosco per non farsi sentire, e quando tornò il
pesce valletto se n'era andato, e l'altro s'era seduto sulla soglia dell'uscio, fissando stupidamente il
cielo.
Alice si avvicinò timidamente alla porta e picchiò.
— È inutile picchiare, — disse il valletto, — e questo per due ragioni. La prima perchè io sto
dalla stessa parte della porta dove tu stai, la seconda perc di dentro si sta facendo tanto fracasso,
che non sentirebbe nessuno. E davvero si sentiva un gran fracasso di dentro, un guaire e uno
starnutire continui, e di tempo in tempo un gran scroscio, come se un piatto o una caldaia andasse in
pezzi.
— Per piacere, — domandò Alice, — che ho da fare per entrare?
— Il tuo picchiare avrebbe un significato, — continuò il valletto senza badarle, — se la porta
fosse fra noi due. Per esempio se tu fossi dentro, e picchiassi, io potrei farti uscire, capisci.
E parlando continuava a guardare il cielo, il che ad Alice pareva un atto da maleducato. “Ma
forse non può farne a meno, — disse fra sè — ha gli occhi quasi sull'orlo della fronte! Potrebbe però
rispondere a qualche domanda...” — Come fare per entrare? — disse Alice ad alta voce.
— Io me ne starò qui, — osservò il valletto, — fino a domani...
In quell'istante la porta si aprì, e un gran piatto volò verso la testa del valletto, gli sfiorò il
naso e si ruppe in cento pezzi contro un albero più oltre.
—...forse fino a poidomani, — continuò il valletto come se nulla fosse accaduto.
— Come debbo fare per entrare? — gridò Alice più forte.
— Devi entrare? — rispose il valletto. — Si tratta di questo principalmente, sai.
Senza dubbio, ma Alice non voleva sentirlo dire. “È spaventoso, mormorò fra sè, il
modo con cui discutono queste bestie. Mi farebbero diventar matta!”
Il valletto colse l'occasione per ripetere l'osservazione con qualche variante: io me ne
starò seduto qui per giorni e giorni.
— Ma io che debbo fare? — domandò Alice.
— Quel che ti pare e piace, — rispose il valletto, e si mise a fischiare.
— È inutile discutere con lui,disse Alice disperata: — è un perfetto imbecille! — Aprì la
porta ed entrò.
La porta conduceva di filato a una vasta cucina, da un capo all'altro invasa di fumo: la
Duchessa sedeva in mezzo su uno sgabello a tre piedi, cullando un bambino in seno; la cuoca era di
fronte al fornello, rimestando in un calderone che pareva pieno di minestra.
“Certo, c'è troppo pepe in quella minestra!” disse Alice a stessa, non potendo frenare
uno starnuto.
Davvero c'era troppo sentor di pepe in aria.
Anche la Duchessa starnutiva qualche volta; e quanto al bambino non faceva altro che
starnutire e strillare senza un istante di riposo. I soli due esseri che non starnutivano nella cucina,
erano la cuoca e un grosso gatto, che se ne stava accoccolato sul focolare, ghignando con tutta la
bocca, da un orecchio all'altro.
Per piacere, domandò Alice un po' timidamente, perchè non era certa che fosse buona
creanza di cominciare lei a parlare, — perchè il suo gatto ghigna così?
— È un Ghignagatto, — rispose la Duchessa, — ecco perchè. Porco!
Ella pronunciò l'ultima parola con tanta energia, che Alice fece un balzo; ma subito
comprese che quel titolo era dato al bambino, e non già a lei. Così si riprese e continuò:
Non sapevo che i gatti ghignassero a quel modo: anzi non sapevo neppure che i gatti
potessero ghignare.
— Tutti possono ghignare, — rispose la Duchessa; — e la maggior parte ghignano.
Non ne conosco nessuno che sappia farlo, replicò Alice con molto rispetto, e contenta
finalmente di conversare.
— Tu non sai molto, — disse la Duchessa; — non c'è da dubitarne!
Il tono secco di questa conversazione non piacque ad Alice, che volle cambiar discorso.
Mentre cercava un soggetto, la cuoca tolse il calderone della minestra dal fuoco, e tosto si mise a
gettare tutto ciò che le stava vicino contro la Duchessa e il bambino... Scagliò prima le molle, la
padella, e l'attizzatoio; poi un nembo di casseruole, di piatti e di tondi. La duchessa non se ne dava
per intesa, nemmeno quand'era colpita; e il bambino guaiva già tanto, che era impossibile dire se i
colpi gli facessero male o no.
Ma badi a quel che fa! gridò Alice, saltando qua e atterrita. Addio naso!
continuò a dire, mentre un grosso tegame sfiorava il naso del bimbo e poco mancò non glielo
portasse via.
Se tutti badassero ai fatti loro, esclamò la Duchessa con un rauco grido, il mondo
andrebbe molto più presto di quanto non faccia.
Non sarebbe un bene, disse Alice, lieta di poter sfoggiare la sua dottrina. Pensi che
sarebbe del giorno e della notte! La terra, com'ella sa, ci mette ventiquattro ore a girare intorno al
suo asse...
— A proposito di asce! — gridò la Duchessa, — tagliatele la testa!
Alice guardò ansiosamente la cuoca per vedere se ella intendesse obbedire; ma la cuoca era
occupata a rimestare la minestra, e, non pareva che avesse ascoltato, perciò andò innanzi dicendo:
— Ventiquattro ore, credo; o dodici? Io...
Oh non mi seccare, — disse la Duchessa. Ho sempre odiato i numeri! — E si rimise a
cullare il bimbo, cantando una certa sua ninnananna, e dandogli una violenta scossa alla fine d'ogni
strofa:
Vo col bimbo per la corte,
se starnuta dàgli forte: lui
lo sa che infastidisce
e per picca starnutisce.
Coro
(al quale si unisce la cuoca)
Ahi ahi ahi!!!
Mentre la Duchessa cantava il secondo verso, scoteva il bimbo su e giù con molta violenza,
e il poverino strillava tanto che Alice appena potè udire le parole della canzoncina:
Vo col bimbo per le corte,
se starnuta gli dò forte;
lui se vuole può mangiare
tutto il pepe che gli pare.
Coro
Ahi, ahi ahi!!!
Tieni, lo potrai cullare un poco se ti piace! disse la Duchessa ad Alice, buttandole il
bimbo in braccio. — Vado a prepararmi per giocare una partita a croquet con la Regina. — E uscì in
fretta dalla stanza. La cuoca le scaraventò addosso una padella, e per un pelo non la colse.
Alice afferrò il bimbo, ma con qualche difficoltà, perchè era una creatura stranissima;
springava le mani e i piedi in tutti i sensi, “proprio come una stella di mare” pensò Alice. Il
poverino quando Alice lo prese, ronfava come una macchina a vapore e continuava a contorcersi e a
divincolarsi così che, per qualche istante, ella dubitò di non poterlo neanche reggere.
Appena la fanciulla ebbe trovato la maniera di cullarlo a modo, (e questo consistè nel ridurlo
a una specie di nodo, e nell'afferrarlo al piede sinistro e all'orecchio destro, per impedirgli di
sciogliersi) lo portò all'aria aperta.
Se non mi porto via questo bambino, osservò Alice, è certo che fra qualche giorno
lo ammazzeranno; non sarebbe un assassinio l'abbandonarlo? Disse le ultime parole a voce alta,
e il poverino si mise a grugnire per risponderle (non starnutiva più allora). — Non grugnire, — disse
Alice, — non è educazione esprimersi a codesto modo.
Il bambino grugnì di nuovo, e Alice lo guardò ansiosamente in faccia per vedere che avesse.
Aveva un naso troppo all'insù, e non c'era dubbio che rassomigliava più a un grugno che a un naso
vero e proprio; e poi gli occhi gli stavano diventando così piccoli che non parevano di un bambino:
in complesso quell'aspetto non piaceva ad Alice. “Forse singhiozzava”, pensò, e lo guardò di nuovo
negli occhi per vedere se ci fossero lagrime.
Ma non ce n'erano. Carino mio, se tu ti trasformi in un porcellino, disse Alice
seriamente, non voglio aver più nulla a che fare con te. Bada dunque! Il poverino si rimise a
singhiozzare (o a grugnire, chi sa, era difficile dire) e si andò innanzi in silenzio per qualche tempo.
Alice, intanto, cominciava a riflettere: “Che cosa ho da fare di questa creatura quando arrivo
a casa?” allorchè quella creatura grugnì di nuovo e con tanta energia, che ella lo guar in faccia
sgomenta. Questa volta non c'era dubbio: era un porcellino vero e proprio, ed ella si convinse che
era assurdo portarlo oltre.
Così depose la bestiolina in terra, e si sentì sollevata quando la vide trottar via
tranquillamente verso il bosco. Se fosse cresciuto, sarebbe stato un ragazzo troppo brutto; ma
diventerà un magnifico porco, credo. E si ricordò di certi fanciulli che conosceva, i quali
avrebbero potuto essere degli ottimi porcellini, e stava per dire: Se si sapesse il vero modo di
trasformarli... quando sussultò di paura, scorgendo il Ghignagatto, seduto su un ramo d'albero a
pochi passi di distanza.
Il Ghignagatto si mise soltanto a ghignare quando vide Alice.“Sembra di buon umore,
essa pensò; ma ha le unghie troppo lunghe, ed ha tanti denti,” perciò si dispose a trattarlo con
molto rispetto.
— Ghignagatto, — cominciò a parlargli con un poco di timidezza, perchè non sapeva se quel
nome gli piacesse; comunque egli fece un ghigno più grande. “Ecco, ci ha piacere,” pensò Alice e
continuò: — Vorresti dirmi per dove debbo andare?
— Dipende molto dal luogo dove vuoi andare, — rispose il Gatto.
— Poco m'importa dove... — disse Alice.
— Allora importa poco sapere per dove devi andare, — soggiunse il Gatto.
—...purchè giunga in qualche parte, — riprese Alice come per spiegarsi meglio.
— Oh certo vi giungerai! — disse il Gatto, non hai che da camminare.
Alice sentì che quegli aveva ragione e tentò un'altra domanda. Che razza di gente c'è in
questi dintorni?
Da questa parte, rispose il Gatto, facendo un cenno con la zampa destra, abita un
Cappellaio; e da questa parte, indicando con l'altra zampa, abita una Lepre di Marzo. Visita
l'uno o l'altra, sono tutt'e due matti.
— Ma io non voglio andare fra i matti, — osservò Alice.
Oh non ne puoi fare a meno, disse il Gatto, qui siamo tutti matti. Io sono matto, tu
sei matta.
— Come sai che io sia matta? — domandò Alice.
— Tu sei matta, — disse il Gatto, — altrimenti non saresti venuta qui.
Non parve una ragione sufficiente ad Alice, ma pure continuò: E come sai che tu sei
matto?
— Intanto, — disse il Gatto, — un cane non è matto. Lo ammetti?
— Ammettiamolo, — rispose Alice.
Bene, continuò il Gatto, un cane brontola quando è in collera, e agita la coda
quando è contento. Ora io brontolo quando sono contento ed agito la coda quando sono triste.
Dunque sono matto.
— Io direi far le fusa e non già brontolare, — disse Alice.
— Di' come ti pare, — rispose il Gatto. — Vai oggi dalla Regina a giocare a croquet?
— Sì, che ci andrei, — disse Alice, — ma non sono stata ancora invitata.
— Mi rivedrai da lei, — disse il Gatto, e scomparve.
Alice non se ne sorprese; si stava abituando a veder cose strane. Mentre guardava ancora il
posto occupato dal Gatto, eccolo ricomparire di nuovo.
A proposito, che n'è successo del bambino? disse il Gatto. —.Avevo dimenticato di
domandartelo.
— S'è trasformato in porcellino, — rispose Alice tranquillamente, come se la ricomparsa del
Gatto fosse più che naturale.
— Me l'ero figurato, — disse il Gatto, e svanì di nuovo.
Alice aspettò un poco con la speranza di rivederlo, ma non ricomparve più, ed ella pochi
istanti dopo prese la via dell'abitazione della Lepre di Marzo. “Di cappellai ne ho veduti tanti,
disse fra sè: sarà più interessante la Lepre di Marzo. Ma siccome siamo nel mese di maggio, non
sarà poi tanto matta... almeno sarà meno matta che in marzo”. Mentre diceva così guardò in su, e
vide di nuovo il Gatto, seduto sul ramo d'un albero.
— Hai detto porcellino o porcellana? — domandò il Gatto.
Ho detto porcellino, rispose Alice; ma ti prego di non apparire e scomparire con
tanta rapidità: mi fai girare il capo!
Hai ragione, disse il Gatto; e questa volta svanì adagio adagio; cominciando con la
fine della coda e finendo col ghigno, il quale rimase per qualche tempo sul ramo, dopo che tutto
s'era dileguato.
Curioso! ho veduto spesso un gatto senza ghigno; osservò Alice, mai un ghigno
senza Gatto. È la cosa più strana che mi sia capitata!
Non s'era allontanata di molto, quando arrivò di fronte alla dimora della Lepre di Marzo:
pensò che fosse proprio quella, perchè i comignoli avevano la forma di orecchie, e il tetto era
coperto di pelo. La casa era così grande che ella non osò avvicinarsi se non dopo aver
sbocconcellato un po' del fungo che aveva nella sinistra, e esser cresciuta quasi sessanta centimetri
di altezza: ma questo non la rendeva più coraggiosa. Mentre si avvicinava, diceva fra sè: “E se poi
fosse pazza furiosa? Sarebbe meglio che fossi andata dal Cappellaio.”
VII
UN TÈ DI MATTI
Sotto un albero di rimpetto alla casa c'era una tavola apparecchiata. Vi prendevano il la
Lepre di Marzo e il Cappellaio. Un Ghiro profondamente addormentato stava fra di loro, ed essi se
ne servivano come se fosse stato un guanciale, poggiando su di lui i gomiti, e discorrendogli sulla
testa. “Un gran disturbo per il Ghiro, pensò Alice, ma siccome dorme, immagino che non se
ne importi nè punto, nè poco.”
La tavola era vasta, ma i tre stavano stretti tutti in un angolo: Non c'è posto! Non c'è
posto! — gridarono, vedendo Alice avvicinarsi.
C'è tanto posto! disse Alice sdegnata, e si sdraiò in una gran poltrona, a un'estremità
della tavola.
— Vuoi un po' di vino? — disse la Lepre di Marzo affabilmente.
Alice osservò la mensa, e vide che non c'era altro che tè. Non vedo il vino, ella
osservò.
— Non ce n'è, replicò la Lepre di Marzo.
— Ma non è creanza invitare a bere quel che non c'è, — disse Alice in collera.
Neppure è stata creanza da parte tua sederti qui senza essere invitata, osservò la Lepre
di Marzo.
Non sapevo che la tavola ti appartenesse, rispose Alice; è apparecchiata per più di
tre.
Dovresti farti tagliare i capelli, disse il Cappellaio. Egli aveva osservato Alice per
qualche istante con molta curiosità, e quelle furono le sue prime parole.
—Tu non dovresti fare osservazioni personali, disse Alice un po' severa; è
sconveniente.
Il Cappellaio spalancò gli occhi; ma quel che rispose fu questo:Perchè un corvo somiglia
a uno scrittoio?
Ecco, ora staremo allegri! pensò Alice. —Sono contenta che hanno cominciato a
proporre degli indovinelli... credo di poterlo indovinare, — soggiunse ad alta voce.
— Intendi dire che credi che troverai la risposta? — domandò la Lepre di Marzo.
— Appunto, — rispose Alice.
— Ebbene, dicci ciò che intendi, — disse la Lepre di Marzo.
— Ecco, — riprese Alice in fretta; — almeno intendo ciò che dico... è lo stesso, capisci.
— Ma che lo stesso! — disse il Cappellaio.
— Sarebbe come dire che “veggo ciò che mangio” sia lo stesso di “mangio quel che veggo.”
Sarebbe come dire, soggiunse la Lepre di Marzo, che “mi piace ciò che prendo”,
sia lo stesso che “prendo ciò che mi piace?”
Sarebbe come dire, aggiunse il Ghiro che pareva parlasse nel sonno, che “respiro
quando dormo”, sia lo stesso che “dormo quando respiro?”
È lo stesso per te, disse il Cappellaio. E qui la conversazione cadde, e tutti stettero
muti per un poco, mentre Alice cercava di ricordarsi tutto ciò che sapeva sui corvi e sugli scrittoi, il
che non era molto.
Il Cappellaio fu il primo a rompere il silenzio. Che giorno del mese abbiamo? disse,
volgendosi ad Alice. Aveva cavato l'orologio dal taschino e lo guardava con un certo timore,
scuotendolo di tanto in tanto, e portandoselo all'orecchio.
Alice meditò un po' e rispose: — Oggi ne abbiamo quattro.
Sbaglia di due giorni! osservò sospirando il Cappellaio. Te lo avevo detto che il
burro avrebbe guastato il congegno! — soggiunse guardando con disgusto la Lepre di Marzo.
— Il burro era ottimo, — rispose umilmente la Lepre di Marzo.
ma devono esserci entrate anche delle molliche di pane, borbottò il Cappellaio,
— non dovevi metterlo dentro col coltello del pane.
La Lepre di Marzo prese l'orologio e lo guardò malinconicamente: poi lo tuffò nella sua
tazza di tè, e l'osservò di nuovo: ma non seppe far altro che ripetere l'osservazione di dianzi: Il
burro era ottimo, sai.
Alice, che l'aveva guardato curiosamente, con la coda dell'occhio, disse:
— Che strano orologio! segna i giorni e non dice le ore.
— Perchè? — esclamò il Cappellaio. — Che forse il tuo orologio segna in che anno siamo?
No, si affrettò a rispondere Alice ma l'orologio segna lo stesso anno per molto
tempo.
— Quello che fa il mio, — rispose il Cappellaio.
Alice ebbe un istante di grande confusione. Le pareva che l'osservazione del Cappellaio non
avesse alcun senso; e pure egli parlava correttamente. Non ti comprendo bene! disse con la
maggiore delicatezza possibile.
— Il Ghiro s'è di nuovo addormentato, — disse il Cappellaio, e gli versò sul naso un poco di
tè bollente.
Il Ghiro scosse la testa con atto d'impazienza, e senza aprire gli occhi disse: Già! Già!
stavo per dirlo io.
Credi ancora di aver sciolto l'indovinello? disse il Cappellaio, volgendosi di nuovo ad
Alice.
— No, ci rinunzio, — rispose Alice. — Qual'è la risposta?
— Non la so, — rispose il Cappellaio.
— Neppure io, — rispose la Lepre di Marzo.
Alice sospirò seccata, e disse: Ma credo potresti fare qualche cosa di meglio che perdere
il tempo, proponendo indovinelli senza senso.
— Se tu conoscessi il tempo come lo conosco io, — rispose il Cappellaio, — non diresti che
lo perdiamo. Domandaglielo.
— Non comprendo che vuoi dire, — osservò Alice.
— Certo che non lo comprendi! — disse il Cappellaio, scotendo il capo con aria di disprezzo
— Scommetto che tu non hai mai parlato col tempo.
Forse no, rispose prudentemente Alice; ma so che debbo battere il tempo quando
studio la musica.
Ahi, adesso si spiega, disse il Cappellaio. Il tempo non vuol esser battuto. Se tu
fossi in buone relazioni con lui, farebbe dell'orologio ciò che tu vuoi. Per esempio, supponi che
siano le nove, l'ora delle lezioni, basterebbe che gli dicessi una parolina all orecchio, e in un lampo
la lancetta andrebbe innanzi! Mezzogiorno, l'ora del desinare!
(“Vorrei che fosse mezzogiorno,” bisbigliò fra sè la Lepre di Marzo).
Sarebbe magnifico, davvero disse Alice pensosa: ma non avrei fame a quell'ora,
capisci.
Da principio, forse, no, riprese il Cappellaio, ma potresti fermarlo su le dodici fin
quando ti parrebbe e piacerebbe.
— E tu fai così? — domandò Alice.
Il Cappellaio scosse mestamente la testa e rispose: Io no. Nel marzo scorso abbiamo
litigato... proprio quando diventò matta lei... (e indicò col cucchiaio la Lepre di Marzo...) Fu al
gran concerto dato dalla Regina di Cuori... ivi dovetti cantare:
Splendi, splendi, pipistrello!
Su pel cielo vai bel bello!
— Conosci tu quest'aria?
— Ho sentito qualche cosa di simile, — disse Alice.
— Senti, è così, — continuò il Cappellaio:
Non t'importa d'esser solo
e sul mondo spieghi il volo.
Splendi. splendi...
A questo il Ghiro si riscosse, e cominciò a cantare nel sonno:
Teco il pane; teco il pane aggiungerò....
e via via andò innanzi fino a che gli dovettero dare dei pizzicotti per farlo tacere.
Ebbene, avevo appena finito di cantare la prima strofa, disse il Cappellaio, quando
la Regina proruppe infuriata: — Sta assassinando il tempo! Tagliategli la testa!
— Feroce! — esclamò Alice.
E d'allora, continuò melanconicamente il Cappellaio, il tempo non fa più nulla di
quel che io voglio! Segna sempre le sei!
Alice ebbe un'idea luminosa e domandò: È per questo forse che vi sono tante tazze
apparecchiate?
— Per questo, — rispose il Cappellaio, — è sempre l'ora del tè, e non abbiamo mai tempo di
risciacquare le tazze negl'intervalli.
— Così le fate girare a turno, immagino... disse Alice.
— Proprio così, — replicò il Cappellaio: a misura che le tazze hanno servito.
— Ma come fate per cominciare da capo? s'avventurò a chiedere Alice.
Se cambiassimo discorso? disse la Lepre di Marzo sbadigliando, Questo discorso
mi annoia tanto. Desidero che la signorina ci racconti una storiella.
— Temo di non saperne nessuna, — rispose Alice con un po' di timore a quella proposta.
Allora ce la dirà il Ghiro! gridarono entrambi. Risvegliati Ghiro! e gli dettero
dei forti pizzicotti dai due lati.
Il Ghiro aprì lentamente gli occhi, e disse con voce debole e roca:
— Io non dormivo! Ho sentito parola per parola ciò che avete detto.
— Raccontaci una storiella! — disse la Lepre di Marzo.
— Per piacere, diccene una! — supplicò Alice.
— E sbrigati! — disse il Cappellaio, — se no ti riaddormenterai prima di finirla.
C'erano una volta tre sorelle, cominciò in gran fretta il Ghiro. Si chiamavano Elsa,
Lucia e Tilla; e abitavano in fondo a un pozzo...
Che cosa mangiavano? domandò Alice, la quale s'interessava sempre molto al
mangiare e al bere.
— Mangiavano teriaca, — rispose il Ghiro dopo averci pensato un poco.
— Impossibile, — osservò gentilmente Alice. — si sarebbero ammalate.
— E infatti erano ammalate, — rispose il Ghiro, — gravemente ammalate.
Alice cercò di immaginarsi quella strana maniera di vivere, ma ne fu più che confusa e
continuò: — Ma perchè se ne stavano in fondo a un pozzo?
— Prendi un po' più di tè! — disse la Lepre di Marzo con molta serietà.
Non ne ho avuto ancora una goccia, rispose Alice in tono offeso, così non posso
prenderne un po' di più.
Vuoi dire che non ne puoi prendere meno. disse il Cappellaio: è molto più facile
prenderne più di nulla che meno di nulla.
— Nessuno ha domandato il tuo parere, — soggiunse Alice.
Chi è ora che fa delle osservazioni personali? domandò il Cappellaio con aria di
trionfo.
Alice non seppe che rispondere; ma prese una tazza di con pane e burro, e volgendosi al
Ghiro, gli ripetè la domanda: — Perchè se ne stavano in fondo a un pozzo?
Il Ghiro si prese un minuto o due per riflettere, e rispose: — Era un pozzo di teriaca.
Ma non s'è sentita mai una cosa simile! interruppe Alice sdegnata. Ma la Lepre di Marzo
e il Cappellaio facevano: St! st! e il Ghiro continuò burbero: Se non hai educazione,
finisciti da te la storiella.
No, continua pure! disse Alice molto umilmente: Non ti interromperò più. Forse
esiste un pozzo così.
Soltanto uno! rispose il Ghiro indignato. A ogni modo acconsentì a continuare: E
quelle tre sorelle... imparavano a trarne...
— Che cosa traevano? — domandò Alice, dimenticando che aveva promesso di tacere.
— Teriaca, — rispose il Ghiro, questa volta senza riflettere.
Mi occorre una tazza pulita, interruppe il Cappellaio; moviamoci tutti d'un posto
innanzi.
E mentre parlava si mosse, e il Ghiro lo seguì: la Lepre di Marzo occupò il posto del Ghiro,
e Alice si sedette di mala voglia al posto della Lepre di Marzo. Il solo Cappellaio s'avvantagg
dello spostamento: e Alice si trovò peggio di prima, perchè la Lepre di Marzo s'era rovesciato il
vaso del latte nel piatto.
Alice, senza voler offender di nuovo il Ghiro disse con molta discrezione: Non
comprendo bene. Di dove traevano la teriaca?
Tu puoi trarre l'acqua da un pozzo d'acqua? disse il Cappellaio; così immagina,
potresti trarre teriaca da un pezzo di teriaca... eh! scioccherella!
— Ma esse erano nel pozzo, — disse Alice al Ghiro.
- Sicuro, e ci stavano bene, — disse il Ghiro.
— Imparavano a trarre, — continuò il Ghiro, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi, perchè
cadeva di sonno; — e traevano cose d'ogni genere... tutte le cose che cominciano con una T...
— Perchè con una T? — domandò Alice.
— Perchè no? — gridò la Lepre di Marzo.
Alice non disse più sillaba.
Il Ghiro intanto aveva chiusi gli occhi cominciando a sonnecchiare; ma, pizzicato dal
Cappellaio, si destò con un grido, e continuò: Che cominciano con una T. come una trappola, un
topo, una topaia, un troppo... già tu dici: “il troppo stroppia”, oh, non hai mai veduto come si tira il
troppo stroppia?”
— Veramente, ora che mi domandi, — disse Alice, molto confusa, — non saprei...
— Allora stai zitta, — disse il Cappellaio.
Questo saggio di sgarbatezza sdegnò grandemente Alice, la quale si levò d'un tratto e se ne
uscì. Il Ghiro si addormentò immediatamente, e nessuno degli altri due si accorse che Alice se n'era
andata, benchè ella si fosse voltata una o due volte, con una mezza speranza d'essere richiamata:
l'ultima volta vide che essi cercavano di tuffare il Ghiro nel vaso del tè.
Non ci tornerò mai più, disse Alice entrando nel bosco. È la più stupida gente che
io m'abbia mai conosciuta.
Mentre parlava così osservò un albero con un uscio nel tronco. “Curioso, pensò Alice. —
Ma ogni cosa oggi è curiosa. Credo che farò bene ad entrarci subito”. Ed entrò.
Si trovò.di nuovo nella vasta sala, e presso il tavolino di cristallo. Questa volta saprò far
meglio, — disse, e prese la chiavetta d'oro ed aprì la porta che conduceva nel giardino. Poi si mise a
sbocconcellare il fungo (ne aveva conservato un pezzetto in tasca), finchè ebbe un trenta centimetri
d'altezza o giù di lì: percorse il piccolo corridoio: e poi si trovò finalmente nell'ameno giardino in
mezzo alle aiuole fulgide di fiori, e alle freschissime fontane.
VIII
IL CROQUET DELLA REGINA
Un gran cespuglio di rose stava presso all'ingresso del giardino. Le rose germogliate erano
bianche, ma v'erano intorno tre giardinieri occupati a dipingerle rosse. “È strano!” pensò Alice, e
s'avvicinò per osservarli, e come fu loro accanto, sentì dire da uno: Bada, Cinque! non mi
schizzare la tua tinta addosso!
— E che vuoi da me? — rispose Cinque in tono burbero. — Sette mi ha urtato il braccio.
Sette lo guardò e disse: — Ma bene! Cinque dà sempre la colpa agli altri!
Tu faresti meglio a tacere! disse Cinque. Proprio ieri la Regina diceva che tu
meriteresti di essere decapitato!
— Perchè? — domandò il primo che aveva parlato.
— Questo non ti riguarda, Due! — rispose Sette.
Sì, che gli riguarda! disse Cinque; e glielo dirò io... perchè hai portato al cuoco bulbi
di tulipani invece di cipolle.
Sette scagliò lontano il pennello, e stava per dire: Di tutte le cose le più ingiuste...
quando incontrò gli occhi di Alice e si mangiò il resto della frase. Gli altri similmente si misero a
guardarla e le fecero tutti insieme una profonda riverenza.
Volete gentilmente dirmi, domandò Alice, con molta timidezza, perchè state
dipingendo quelle rose?
Cinque e Sette non risposero, ma diedero uno sguardo a Due. Due disse allora sottovoce:
Perchè questo qui doveva essere un rosaio di rose rosse. Per isbaglio ne abbiamo piantato uno di
rose bianche. Se la Regina se ne avvedesse, ci farebbe tagliare le teste a tutti. Così, signorina,
facciamo il possibile per rimediare prima ch'essa venga a...
In quell'istante Cinque che guardava attorno pieno d'ansia, gridò: La Regina! la Regina!
e i tre giardinieri si gettarono immediatamente a faccia a terra. Si sentì un gran scalpiccìo, e
Alice si volse curiosa a veder la Regina.
Prima comparvero dieci soldati armati di bastoni: erano della forma dei tre giardinieri,
bislunghi e piatti, le mani e i piedi agli angoli: seguivano dieci cortigiani, tutti rilucenti di diamanti;
e sfilavano a due a due come i soldati. Venivano quindi i principi reali, divisi a coppie e saltellavano
a due a due, tenendosi per mano: erano ornati di cuori.
Poi sfilavano gli invitati, la maggior parte re e regine, e fra loro Alice riconobbe il Coniglio
Bianco che discorreva in fretta nervosamente, sorridendo di qualunque cosa gli si dicesse. Egli
passò innanzi senza badare ad Alice. Seguiva il fante di cuori, portando la corona reale sopra un
cuscino di velluto rosso; e in fondo a tutta questa gran processione venivano IL RE E LA REGINA DI
CUORI.
Alice non sapeva se dovesse prosternarsi, come i tre giardinieri, ma non potè ricordarsi se ci
fosse un costume simile nei cortei reali.
“E poi, a che servirebbero i cortei, riflettè, se tutti dovessero stare a faccia per terra e
nessuno potesse vederli?”
Così rimase in piedi ad aspettare.
Quando il corteo arrivò di fronte ad Alice, tutti si fermarono e la guardarono; e la Regina
gridò con cipiglio severo: Chi è costei? e si volse al fante di cuori, il quale per tutta risposta
sorrise e s'inchinò.
Imbecille! disse la Regina, scotendo la testa impaziente; indi volgendosi ad Alice,
continuò a dire: — Come ti chiami, fanciulla?
Maestà, mi chiamo Alice, rispose la fanciulla con molta garbatezza, ma soggiunse fra
sè: “Non è che un mazzo di carte, dopo tutto? Perchè avrei paura?”
E quelli chi sono? domandò la Regina indicando i tre giardinieri col viso a terra
intorno al rosaio; perchè, comprendete, stando così in quella posizione, il disegno posteriore
rassomigliava a quello del resto del mazzo, e la Regina non poteva distinguere se fossero
giardinieri, o soldati, o cortigiani, o tre dei suoi stessi figliuoli.
Come volete che io lo sappia? rispose Alice, che si meravigliava del suo coraggio.
È cosa che non mi riguarda.
La Regina diventò di porpora per la rabbia e, dopo di averla fissata selvaggiamente come
una bestia feroce, gridò: — Tagliatele la testa, subito!...
— Siete matta! — rispose Alice a voce alta e con fermezza; e la Regina tacque.
Il Re mise la mano sul braccio della Regina, e disse timidamente: — Rifletti, cara mia, è una
bambina!
La Regina irata gli voltò le spalle e disse al fante: — Voltateli!
Il fante obbedì, e con un piede voltò attentamente i giardinieri.
Alzatevi! gridò la Regina, e i tre giardinieri, si levarono immediatamente in piedi,
inchinandosi innanzi al Re e alla Regina, ai principi reali, e a tutti gli altri.
— Basta! — strillò la regina. — Mi fate girare la testa. — E guardando il rosaio continuò: —
Che facevate qui?
— Con buona grazia della Maestà vostra, — rispose Due umilmente, piegando il ginocchio a
terra, tentavamo...
Ho compreso! disse la Regina, che aveva già osservato le rose, Tagliate loro la
testa! E il corteo reale si rimise in moto, lasciando indietro tre soldati, per mozzare la testa agli
sventurati giardinieri, che corsero da Alice per esserne protetti.
Non vi decapiteranno! disse Alice, e li mise in un grosso vaso da fiori accanto a lei. I
tre soldati vagarono qua e là per qualche minuto in cerca di loro, e poi tranquillamente seguirono gli
altri.
— Avete loro mozzata la testa? — gridò la Regina.
— Maestà, le loro teste se ne sono andate! — risposero i soldati.
— Bene! — gridò la Regina. — Si gioca il croquet?
I soldati tacevano e guardavano Alice, pensando che la domanda fosse rivolta a lei.
— Sì! — gridò Alice.
Venite qui dunque! — urlò la Regina. E Alice seguì il corteo, curiosa di vedere il seguito.
Che bel tempo! disse una timida voce accanto a lei. Ella s'accorse di camminare
accanto al Coniglio bianco, che la scrutava in viso con una certa ansia.
— Bene, — rispose Alice: — dov'è la Duchessa?
— St! st! — disse il Coniglio a voce bassa, con gran fretta. Si guardò ansiosamente d'intorno
levandosi in punta di piedi, avvicinò la bocca all'orecchio della bambina: È stata condannata a
morte.
— Per qual reato? — domandò Alice.
— Hai detto: “Che peccato?” — chiese il Coniglio.
— Ma no, — rispose Alice: — Ho detto per che reato?
— Ha dato uno schiaffo alla Regina... —cominciò il coniglio.
Alice ruppe in una risata.
Zitta! bisbigliò il Coniglio tutto tremante. Ti potrebbe sentire la Regina! Sai, è
arrivata tardi, e la Regina ha detto...
Ai vostri posti! gridò la Regina con voce tonante. E gl'invitati si sparpagliarono in
tutte le direzioni, l'uno rovesciando l'altro: finalmente, dopo un po', poterono disporsi in un certo
ordine, e il giuoco cominciò. Alice pensava che in vita sua non aveva mai veduto un terreno più
curioso per giocare il croquet; era tutto a solchi e zolle; le palle erano ricci, i mazzapicchi erano
fenicotteri vivi, e gli archi erano soldati vivi, che si dovevano curvare e reggere sulle mani e sui
piedi.
La principale difficoltà consisteva in ciò, che Alice non sapeva come maneggiare il suo
fenicottero; ma poi riuscì a tenerselo bene avviluppato sotto il braccio, con le gambe penzoloni; ma
quando gli allungava il collo e si preparava a picchiare il riccio con la testa, il fenicottero girava il
capo e poi si metteva a guardarla in faccia con una espressione di tanto stupore che ella non poteva
tenersi dallo scoppiare dalle risa: e dopo che gli aveva fatto abbassare la testa, e si preparava a
ricominciare, ecco che il riccio si era svolto, e se n'andava via. Oltre a ciò c'era sempre una zolla o
un solco dove voleva scagliare il riccio, e siccome i soldati incurvati si alzavano e andavan
vagando qua e là, Alice si persuase che quel giuoco era veramente difficile.
I giocatori giocavano tutti insieme senza aspettare il loro turno, litigando sempre e
picchiandosi a cagion dei ricci; e in breve la Regina diventò furiosa, e andava qua e pestando i
piedi e gridando: Mozzategli la testa! oppure: Mozzatele la testa! almeno una volta al
minuto.
— Alice cominciò a sentirsi un po' a disagio: e vero che non aveva avuto nulla da dire con la
Regina; ma poteva succedere da un momento all'altro, e pensò: “Che avverrà di me? Qui c'è la
smania di troncar teste. Strano che vi sia ancora qualcuno che abbia il collo a posto!”
E pensava di svignarsela, quando scorse uno strano spettacolo in aria. Prima ne restò
sorpresa, ma dopo aver guardato qualche istante, vide un ghigno e disse fra sè: “È Ghignagatto:
potrò finalmente parlare con qualcuno.”
— Come va il giuoco? — disse il Gatto, appena ebbe tanto di bocca da poter parlare.
Alice aspettò che apparissero gli occhi, e poi fece un cenno col capo. “È inutile parlargli,
pensò, aspettiamo che appaiano le orecchie, almeno una.” Tosto apparve tutta la testa, e Alice
depose il suo fenicottero, e cominciò a raccontare le vicende del giuoco, lieta che qualcuno le
prestasse attenzione. Il Gatto intanto dopo aver messa in mostra la testa, cre bene di non far
apparire il resto del corpo.
Non credo che giochino realmente, disse Alice lagnandosi. Litigano con tanto
calore che non sentono neanche la loro voce... non hanno regole nel giuoco; e se le hanno, nessuno
le osserva... E poi c'è una tal confusione con tutti questi oggetti vivi; che non c'è modo di
raccapezzarsi. Per esempio, ecco l'arco che io dovrei attraversare, che scappa via dall'altra estremità
del terreno... Proprio avrei dovuto fare croquet col riccio della Regina, ma è fuggito non appena ha
visto il mio.
— Ti piace la Regina? — domandò il Gatto a voce bassa.
Per nulla! rispose Alice; essa è tanto... Ma s'accorse che la Regina le stava
vicino in ascolto, e continuò —...abile al giuoco, ch'è inutile finire la partita.
La Regina sorrise e passò oltre.
Con chi parli? domandò il Re che s'era avvicinato ad Alice, e osservava la testa del
Gatto con grande curiosità.
Con un mio amico... il Ghignagatto, disse Alice; vorrei presentarlo a Vostra
Maestà.
— Quel suo sguardo non mi piace, — rispose il Re; — però se vuole, può baciarmi la mano.
— Non ho questo desiderio, — osservò il Gatto.
— Non essere insolente, — disse il Re, — e non mi guardare in quel modo. — E parlando si
rifugiò dietro Alice.
Un gatto può guardare in faccia a un re, osservò Alice, l'ho letto in qualche libro,
ma non ricordo dove.
Ma bisogna mandarlo via, — disse il Re risoluto; e chiamò la Regina che passava in quel
momento: — Cara mia, vorrei che si mandasse via quel Gatto!
La Regina conosceva un solo modo per sciogliere tutte le difficoltà, grandi o piccole, e senza
neppure guardare intorno, gridò: — Tagliategli la testa!
— Andrò io stesso a chiamare il carnefice, — disse il Re, e andò via a precipizio.
Alice pensò che intanto poteva ritornare per vedere il progresso del gioco, mentre udiva da
lontano la voce della Regina che s'adirava urlando. Ella aveva sentito già condannare a morte tre
giocatori che avevano perso il loro turno. Tutto ciò non le piaceva, perchè il gioco era diventato una
tal confusione ch'ella non sapeva più se fosse la sua volta di tirare o no. E si mise in cerca del suo
riccio.
Il riccio stava allora combattendo contro un altro riccio; e questa sembrò ad Alice una buona
occasione per batterli a croquet l'uno contro l'altro: ma v'era una difficoltà: il suo fenicottero era
dall'altro lato del giardino, e Alice lo vide sforzarsi inutilmente di volare su un albero.
Quando le riuscì d'afferrare il fenicottero e a ricondurlo sul terreno, la battaglia era finita e i
due ricci s'erano allontanati. “Non importa, pensò Alice, tanto tutti gli archi se ne sono andati
dall'altro lato del terreno.” E se lo accomodò per benino sotto il braccio per non farselo scappare
più, e ritornò dal Gatto per riattaccare discorso con lui.
Ma con sorpresa trovò una gran folla raccolta intorno al Ghignagatto; il Re, la Regina e il
carnefice urlavano tutti e tre insieme, e gli altri erano silenziosi e malinconici.
Quando Alice apparve fu chiamata da tutti e tre per risolvere la questione. Essi le ripeterono
i loro argomenti; ma siccome parlavano tutti in una volta, le fu difficile intendere che volessero.
Il carnefice sosteneva che non si poteva tagliar la testa dove mancava un corpo da cui
staccarla; che non aveva mai avuto da fare con una cosa simile prima, e che non voleva cominciare
a farne alla sua età.
L'argomento del Re, era il seguente: che ogni essere che ha una testa può essere decapitato, e
che il carnefice non doveva dire sciocchezze.
L'argomento della Regina era questo: che se non si fosse eseguito immediatamente il suo
ordine, avrebbe ordinato l'esecuzione di quanti la circondavano. (E quest'ingiunzione aveva dato a
tutti quell'aria grave e piena d'ansietà.)
Alice non seppe dir altro che questo: Il Gatto è della Duchessa: sarebbe meglio
interrogarla.
Ella è in prigione, disse la Regina al carnefice: Conducetela qui. E il carnefice
volò come una saetta.
Andato via il carnefice, la testa del Gatto cominciò a dileguarsi, e quando egli tornò con la
Duchessa non ce n'era più traccia: il Re e il carnefice corsero qua e per ritrovarla, mentre il resto
della brigata si rimetteva a giocare.
IX
STORIA DELLA FALSA TESTUGGINE
Non puoi immaginare la mia gioia nel rivederti, bambina mia! disse la Duchessa
infilando affettuosamente il braccio in quello di Alice, e camminando insieme.
Alice fu lieta di vederla di buon umore, e pensò che quando l'aveva vista in cucina era stato
il pepe, forse, a renderla intrattabile. “Quando sarò Duchessa, si disse (ma senza soverchia
speranza), non vorrò avere neppure un granello di pepe in cucina. La minestra è saporosa anche
senza pepe. È il pepe, certo, che irrita tanta gente, continuò soddisfatta d'aver scoperta una specie di
nuova teoria, l'aceto la inacidisce... la camomilla la fa amara... e i confetti e i pasticcini
addolciscono il carattere dei bambini. Se tutti lo sapessero, non lesinerebbero tanto in fatto di
dolci.”
In quell'istante aveva quasi dimenticata la Duchessa, e sussultò quando si sentì dire
all'orecchio: Tu pensi a qualche cosa ora, cara mia, e dimentichi di parlarmi. Ora non posso dirti
la morale, ma me ne ricorderò fra breve.
— Forse non ne ha, — Alice si arrischiò di osservare.
Zitta! zitta! bambina! disse la Duchessa. Ogni cosa ha la sua morale, se si sa
trovarla - .E le si strinse più da presso.
Ad Alice non piaceva esserle così vicina; primo; perchè la Duchessa era bruttissima;
secondo, perché era così alta che poggiava il mento sulle spalle d'Alice, un mento terribilmente
aguzzo! Ma non volle mostrarsi scortese, e sopportò quella noia con molta buona volontà.
— Il giuoco va meglio, ora, — disse per alimentare un po' la conversazione.
Eh sì, rispose la Duchessa, e questa è la morale: “È l'amore, è l'amore che fa girare
il mondo.”
— Ma qualcheduno ha detto invece, — bisbigliò Alice, — se ognuno badasse a sè, il mondo
andrebbe meglio.
Bene! È lo stesso, disse la Duchessa, conficcando il suo mento aguzzo nelle spalle
d'Alice: — E la morale è questa: “Guardate al senso; le sillabe si guarderanno da sè.”
(“Come si diletta a trovare la morale in tutto!” pensò Alice.)
Scommetto che sei sorpresa, perchè non ti cingo la vita col braccio, disse la Duchessa
dopo qualche istante, — ma si è perchè non so di che carattere sia il tuo fenicottero. Vogliamo far la
prova?
— Potrebbe morderla, — rispose Alice, che non desiderava simili esperimenti.
È vero, disse la Duchessa, i fenicotteri e la mostarda non fanno che mordere, e la
morale è questa: “Gli uccelli della stessa razza se ne vanno insieme.”
— Ma la mostarda non è un uccello, — osservò Alice.
— Bene, come sempre, disse la Duchessa, — tu dici le cose con molta chiarezza!
— È un minerale, credo, — disse Alice.
Già, rispose la Duchessa, che pareva accettasse tutto quello che diceva Alice; in
questi dintorni c'è una miniera di mostarda e la morale è questa: “La miniera è la maniera di gabbar
la gente intera.”
Oh lo so! esclamò Alice, che non aveva badato a queste parole; è un vegetale,
benchè non sembri.
— Proprio così, — disse la Duchessa, — e la morale è questa: “Sii ciò che vuoi parere” o, se
vuoi che te la dica più semplicemente: “Non credere mai d'essere diversa da quella che appari agli
altri di esser o d'esser stata, o che tu possa essere, e l'essere non è altro che l'essere di quell'essere
ch'è l'essere dell'essere, e non diversamente.”
Credo che la intenderei meglio, disse Alice con molto garbo, se me la scrivesse;
non posso seguir con la mente ciò che dice.
Questo è nulla rimpetto a quel che potrei dire, se ne avessi voglia, soggiunse la
Duchessa.
— Non s'incomodi a dire qualche altra cosa più lunga, — disse Alice.
Non mi parlar d'incomodo! rispose la Duchessa. Ti faccio un regalo di ciò che ho
detto finora.
“Un regalo che non costa nulla, pensò Alice; meno male che negli onomastici e nei
genetliaci non si fanno regali simili”. — Ma non osò dirlo a voce alta.
Sempre pensosa? domandò la Duchessa, dando alla spalla della bambina un altro
colpo del suo mento acuminato.
— N'ho ben ragione! rispose vivamente Alice, perchè cominciava a sentirsi un po'
seccata.
E la Duchessa:
— La stessa ragione che hanno i porci di volare: e la mora...
A questo punto, con gran sorpresa d'Alice, la voce della Duchessa andò morendo e si spense
in mezzo alla sua favorita parola: morale. Il braccio che era in quello d'Alice cominciò a tremare.
Alice alzò gli occhi, e vide la Regina ritta di fronte a loro due, le braccia conserte, le ciglia
aggrottate, come un uragano.
— Maestà che bella giornata! — balbettò la Duchessa con voce bassa e fioca.
Vi avverto a tempo, — gridò la Regina, pestando il suolo; — o voi o la vostra testa dovranno
andarsene immediatamente! Scegliete!
La Duchessa scelse e in un attimo sparì.
Ritorniamo al giuoco, disse la Regina ad Alice; ma Alice era troppo atterrita, e non
rispose sillaba, seguendola lentamente sul terreno.
Gl'invitati intanto, profittando dell'assenza della Regina, si riposavano all'ombra: però
appena la videro ricomparire, tornarono ai loro posti; la Regina accennò soltanto che se avessero
ritardato un momento solo, avrebbero perduta la vita.
Mentre giocavano, la Regina continuava a querelarsi con gli altri giocatori, gridando sempre:
Tagliategli la testa! oppure: Tagliatele la testa! Coloro ch'erano condannati a morte
erano arrestati da soldati che dovevano servire d'archi al gioco, e così in meno di mezz'ora, non
c'erano più archi, e tutti i giocatori, eccettuati il Re, la Regina e Alice, erano in arresto e condannati
nel capo.
Finalmente la Regina lasciò il giuoco, senza più fiato, e disse ad Alice: Non hai veduto
ancora la Falsa-testuggine?
— No, — disse Alice. — Non so neppure che sia la Falsa-testuggine.
— È quella con cui si fa la minestra di Falsa-testuggine, — disse la Regina.
— Non ne ho mai veduto, nè udito parlare, — soggiunse Alice.
— Vieni dunque, — disse la Regina, ed essa ti racconterà la sua storia.
Mentre andavano insieme, Alice sentì che il Re diceva a voce bassa a tutti i condannati:
Faccio grazia a tutti.
Oh come sono contenta! disse fra Alice, perchè era afflittissima per tutte quelle
condanne ordinate dalla Regina. Tosto arrivarono presso un Grifone sdraiato e addormentato al sole.
(Se voi non sapete che sia un Grifone, guardate la figura.) Su, su, pigro! disse la Regina,
conducete questa bambina a vedere la Falsa-testuggine che le narrerà la sua storia. Io debbo tornare
indietro per assistere alle esecuzioni che ho ordinate. E andò via lasciando Alice sola col
Grifone. Non piacque ad Alice l'aspetto della bestia, ma poi riflettendo che, dopo tutto, rimaner col
Grifone era più sicuro che star con quella feroce Regina, rimase in attesa.
Il Grifone si levò, si sfregò gli occhi, aspettò che la Regina sparisse interamente e poi si mise
a ghignare:
— Che commedia! — disse il Grifone, parlando un po' per sè, un po' per Alice.
— Quale commedia? — domandò Alice.
Quella della Regina, soggiunse il Grifone. È una sua mania, ma a nessuno viene
tagliata la testa, mai. Vieni!
Qui tutti mi dicono: “Vieni!” — osservò Alice, seguendolo lentamente. Non sono mai
stata comandata così in tutta la mia vita!
Non s'erano allontanati di molto che scorsero in distanza la Falsa-testuggine, seduta
malinconicamente sull'orlo d'una rupe. Avvicinatasi un po' più, Alice la sentì sospirare come se le si
rompesse il cuore. N'ebbe compassione. Che ha? domandò al Grifone, e il Grifone rispose
quasi con le stesse parole di prima: — È una mania che l'ha presa, ma non ha nulla. Vieni!
E andarono verso la Falsa-testuggine, che li guardò con certi occhioni pieni di lagrime, ma
senza far motto.
— Questa bambina, — disse il Grifone, — vorrebbe sentire la tua storia, vorrebbe.
Gliela dirò, rispose la Falsa-testuggine, con voce profonda. Sedete, e non dite
sillaba, prima che io termini.
E sedettero e per qualche minuto nessuno parlò. Alice intanto osservo fra sè: “Come potrà
mai finire se non comincia mai?” Ma aspettò pazientemente.
Una volta, disse finalmente la Falsa-testuggine con un gran sospiro, io ero una
testuggine vera.
Quelle parole furono seguite da un lungo silenzio, interrotto da qualche “Hjckrrh!” del
Grifone e da continui e grossi singhiozzi della Falsa-testuggine. Alice stava per levarsi e dirle:
Grazie della vostra storia interessante, quando pensò che ci doveva essere qualche altra cosa, e
sedette tranquillamente senza dir nulla.
Quando eravamo piccini, riprese finalmente la Falsa-testuggine, un po' più tranquilla,
ma sempre singhiozzando di quando in quando, andavamo a scuola al mare. La maestra era una
vecchia testuggine... — e noi la chiamavamo tartarug...
— Perchè la chiamavate tartaruga se non era tale? — domandò Alice.
La chiamavamo tartaruga, perchè c'insegnava, disse la Falsa-testuggine con dispetto:
Hai poco sale in zucca!
Ti dovresti vergognare di fare domande così semplici, aggiunse il Grifone; e poi
tacquero ed entrambi fissarono gli occhi sulla povera Alice che avrebbe preferito sprofondare
sotterra. Finalmente il Grifone disse alla Falsa-testuggine: Va innanzi, cara mia! e non ti
dilungare tanto!
E così la Falsa-testuggine continuò:
— Andavamo a scuola al mare, benchè tu non lo creda...
— Non ho mai detto questo! — interruppe Alice.
— Sì che l'hai detto, — disse la Falsa-testuggine .
Zitta! soggiunse il Grifone, prima che. Alice potesse rispondere. La Falsa-testuggine
continuò:
— Noi fummo educate benissimo... infatti andavamo a scuola tutti i giorni...
Anch'io andavo a scuola ogni giorno, — disse Alice; — non serve inorgoglirsi per così poco.
— E avevate dei corsi facoltativi? — domandò la Falsa-testuggine con ansietà.
— Sì, — rispose Alice; — imparavamo il francese e la musica.
— E il bucato? — disse la Falsa-testuggine.
— No, il bucato, no, — disse Alice indignata.
— Ah! e allora che scuola era?disse la Falsa-testuggine, come se si sentisse sollevata. —
Nella nostra, c'era nella fine del programma: Corsi facoltativi: francese, musica, e bucato.
— E vivendo in fondo al mare, — disse Alice, — a che vi serviva?
Non ebbi mai il mezzo per impararlo, soggiunse sospirando la Falsa-testuggine;
così seguii soltanto i corsi ordinari.
— Ed erano? — domandò Alice.
— Annaspare e contorcersi, prima di tutto, — rispose la Falsa-testuggine. — E poi le diverse
operazioni dell'aritmetica... ambizione, distrazione, bruttificazione, e derisione.
— Non ho mai sentito parlare della bruttificazione, — disse Alice. — Che cos'è?
Il Grifone levò le due zampe in segno di sorpresa ed esclamò: Mai sentito parlare di
bruttificazione! Ma sai che significhi bellificazione, spero.
— Sì, — rispose Alice, ma un po' incerta: — significa... rendere... qualche cosa... più bella.
Ebbene, continua il Grifone, se non sai che significa bruttificazione mi par che ti
manchi il comprendonio.
Alice non si sentiva incoraggiata a fare altre domande. Così si volse alla Falsa-testuggine e
disse: — Che altro dovevate imparare?
C'era il mistero, rispose la Falsa-testuggine, contando i soggetti sulle natatoie... il
mistero antico e moderno con la marografia: poi il disdegno... il maestro di disdegno era un vecchio
grongo, e veniva una volta la settimana: c'insegnava il disdegno, il passaggio, e la frittura ad occhio.
— E che era? — disse Alice.
Non te la potrei mostrare, rispose la Falsa-testuggine, perchè vedi son tutta d'un
pezzo. E il Grifone non l'ha mai imparata.
Non ebbi tempo, rispose il Grifone: ma studiai le lingue classiche e bene. Ebbi per
maestro un vecchio granchio, sapete.
Non andai mai da lui, disse la Falsa-testuggine con un sospiro: dicevano che
insegnasse Catino e Gretto.
Proprio così, disse il Grifone, sospirando anche lui, ed entrambe le bestie si nascosero
la faccia tra le zampe.
Quante ore di lezione al giorno avevate? disse prontamente Alice per cambiar
discorso.
Dieci ore il primo giorno, rispose la Falsa-testuggine: nove il secondo, e così di
seguito.
— Che strano metodo! — esclamò Alice.
Ma è questa la ragione perchè si chiamano lezioni, osservò il Grifone: perchè c'è
una lesione ogni giorno.
Era nuovo per Alice, e ci pensò su un poco, prima di fare questa osservazione: Allora
l'undecimo giorno era vacanza?
— Naturalmente, — disse la Falsa-testuggine.
— E che si faceva il dodicesimo? — domandò vivamente Alice.
Basta in quanto alle lezioni: dille ora qualche cosa dei giuochi, interruppe il Grifone,
in tono molto risoluto.
X
IL BALLO DEI GAMBERI
La Falsa-testuggine cacciò un gran sospiro e si passò il rovescio d'una natatoia sugli occhi.
Guardò Alice, e cercò di parlare, ma per qualche istante ne fu impedita dai singhiozzi.
Come se avesse un osso in gola, disse il Grifone, e si mise a scuoterla e a batterle la
schiena. Finalmente la Falsa-testuggine ricuperò la voce e con le lagrime che le solcavano le gote,
riprese:
Forse tu non sei vissuta a lungo sott'acqua... ( Certo che no, disse Alice) e forse
non sei mai stata presentata a un gambero... (Alice stava per dire: Una volta assaggiai... ma
troncò la frase e disse: No mai): così tu non puoi farti un'idea della bellezza d'un ballo di
gamberi?
— No, davvero, — rispose Alice. — Ma che è mai un ballo di gamberi?
— Ecco, — disse il Grifone, — prima di tutto si forma una linea lungo la spiaggia...
Due! gridò la Falsa-testuggine. Foche, testuggini di mare, salmoni e simili: poi
quando si son tolti dalla spiaggia i polipi...
— E generalmente così facendo si perde del tempo, — interruppe il Grifone.
— ...si fa un avant-deux.
— Ciascuno con un gambero per cavaliere, — gridò il Grifone.
— Eh già! — disse la Falsa-testuggine: — si fa un avant-deux, e poi un balancé...
— Si scambiano i gamberi e si ritorna en place, — continuò il Grifone.
— E poi capisci? — continuò la Falsa-testuggine, — si scaraventano i...
— I gamberi! — urlo il Grifone, saltando come un matto.
...nel mare, più lontano che si può...
— Quindi si nuota dietro di loro! — strillò il Grifone.
— Si fa capitombolo in mare! — gridò la Falsa-testuggine, saltellando pazzamente qua e la.
— Si scambiano di nuovo i gamberi! — Vociò il Grifone.
Si ritorna di nuovo a terra, e... e questa è la prima figura, disse la Falsa-testuggine,
abbassando di nuovo la voce. E le due bestie che poco prima saltavano come matte, si accosciarono
malinconicamente e guardarono Alice.
— Vuoi vederne un saggio? — domandò la Falsa-testuggine.
— Mi piacerebbe molto, — disse Alice.
Coraggio, proviamo la prima figura! disse la Falsa-testuggine al Grifone. Possiamo
farla senza gamberi. Chi canta?
— Canta tu, — disse il Grifone. — Io ho dimenticate le parole.
E cominciarono a ballare solennemente intorno ad Alice, pestandole i piedi di quando in
quando, e agitando le zampe anteriori per battere il tempo. La Falsa-testuggine cantava adagio
adagio malinconicamente:
Alla chiocciola il nasello: “Su, dicea, cammina presto;
mi vien dietro un cavalluccio — che uno stinco m'ha già pesto:
vedi quante mai testuggini — qui s'accalcan per ballare!”
Presto vuoi, non vuoi danzare?
Presto vuoi, non vuoi danzare?
“Tu non sai quant'è squisita — come è dolce questa danza
quando in mar ci scaraventano — senza un'ombra di esitanza!”
Ma la chiocciola rispose: — “Grazie, caro, è assai lontano,
e arrivar colà non posso — camminando così piano.”
Non potea, volea danzare!
Non potea, volea danzare!
“Ma che importa s'è lontano” — all'amica fe' il nasello
“dèi saper che all'altra sponda — c'è un paese assai più bello!
Più lontan della Sardegna — più vicino alla Toscana.
Non temer, vi balleremo — tutti insieme la furlana.”
Presto vuoi, non vuoi danzare?
Presto vuoi, non vuoi danzare?
Grazie, è un bel ballo, disse Alice, lieta che fosse finito; e poi quel canto curioso
del nasello mi piace tanto!
— A proposito di naselli, — disse la Falsa-testuggine, — ne hai veduti, naturalmente?
— Sì, — disse Alice, — li ho veduti spesso a tavo... — E si mangiò il resto.
Non so dove sia Tavo, disse la Falsa-testuggine ma se li hai veduti spesso, sai che
cosa sono.
— Altro! — rispose Alice meditabonda, — hanno la coda in bocca e sono mollicati.
— Ma che molliche! soggiunse la Falsa-testuggine, — le molliche sarebbero spazzate dal
mare. Però hanno la coda in bocca; e la ragione è questa...
E a questo la Falsa-testuggine sbadigliò e chiuse gli occhi. — Digliela tu la ragione, — disse
al Grifone.
— La ragione è la seguente, — disse il Grifone. — Essi vollero andare al ballo; e poi furono
buttati in mare; e poi fecero il capitombolo molto al di là, poi tennero stretta la coda fra i denti; e poi
non poterono distaccarsela più; e questo è tutto.
— Grazie, — disse Alice, — molto interessante. Non ne seppi mai tanto dei naselli.
— Presto facci un racconto delle tue avventure, — disse il Grifone.
Ne potrei raccontare cominciando da stamattina, disse timidamente Alice; ma è
inutile raccontarvi quelle di ieri, perchè... ieri io ero un altra.
— Come un'altra? Spiegaci, — disse la Falsa-testuggine.
No, no! prima le avventure, esclamò il Grifone impaziente; le spiegazioni
occupano tanto tempo.
Così Alice cominciò a raccontare i suoi casi, dal momento dell'incontro col Coniglio bianco;
ma tosto si cominciò a sentire un po' a disagio, chè le due bestie le si stringevano da un lato e l'altro,
spalancando gli occhi e le bocche; ma la bambina poco dopo riprese coraggio. I suoi uditori si
mantennero tranquilli sino a che ella giunse alla ripetizione del “Sei vecchio, caro babbo”, da lei
fatta al Bruco. Siccome le parole le venivano diverse dal vero originale, la Falsa-testuggine cacciò
un gran sospiro, e disse: — È molto curioso!
— È più curioso che mai! — esclamò il Grifone.
È scaturito assolutamente diverso! soggiunse la Falsa-testuggine, meditabonda.
Vorrei che ella ci recitasse qualche cosa ora. Dille di cominciare.
E guardò il Grifone, pensando ch'egli avesse qualche specie d'autorità su Alice.
— Levati in piedi, — disse il Grifone, — e ripetici la canzone: “Trenta quaranta...”
Oh come queste bestie danno degli ordini, e fanno recitar le lezioni! pensò Alice;
sarebbe meglio andare a scuola subito!
A ogni modo, si levò, e cominciò a ripetere la canzone; ma la sua testolina era così piena di
gamberi e di balli, che non sapeva che si dicesse, e i versi le venivano male:
“Son trenta e son quaranta,” — il gambero già canta,
“M'ha troppo abbrustolito — mi voglio inzuccherare,
In faccia a questo specchio — mi voglio spazzolare,
E voglio rivoltare — e piedi e naso in su!”
— Ma questo è tutto diverso da quello che recitavo da bambino, — disse il Grifone.
È la prima volta che lo sento, osservò la Falsa-testuggine; ed è una vera
sciocchezza!
Alice non rispose: se ne stava con la faccia tra le mani, sperando che le cose tornassero
finalmente al loro corso naturale.
— Vorrei che me lo spiegassi, — disse la Falsa-testuggine.
— Non sa spiegarlo, — disse il Grifone; — comincia la seconda strofa.
A proposito di piedi, continuò la Falsa-testuggine, come poteva rivoltarli, e col
naso, per giunta?
È la prima posizione nel ballo, disse Alice; ma era tanto confusa che non vedeva l'ora
di mutar discorso.
— Continua la seconda strofa, — replicò il Grifone con impazienza; — comincia: “Bianca la
sera.”
Alice non osò disubbidire, benchè sicura che l'avrebbe recitata tutt'al rovescio, e continuò
tremante:
“Al nereggiar dell'alba — nel lor giardino, in fretta,
tagliavano un pasticcio — l'ostrica e la civetta.”
Perchè recitarci tutta questa robaccia? interruppe la Falsa-testuggine; se non ce la
spieghi? Fai tanta confusione!
— Sì, sarebbe meglio smettere, — disse il Grifone. E Alice fu più che lieta di terminare.
Vogliamo provare un'altra figura del ballo dei gamberi? continuò il Grifone. O
preferiresti invece che la Falsa-testuggine cantasse lei?
— Oh, sì, se la Falsa-testuggine vorrà cantare! — rispose Alice; ma con tanta premura, che il
Grifone offeso gridò: Ah tutti i gusti sono gusti. Amica, cantaci la canzone della “Zuppa di
testuggine.”
La Falsa-testuggine sospirò profondamente, e con voce soffocata dai singhiozzi cantò così:
Bella zuppa così verde
in attesa dentro il tondo
chi ti vede e non si perde
nel piacere più profondo?
Zuppa cara, bella zuppa,
zuppa cara, bella zuppa,
bella zuppa, bella zuppa,
zuppa cara,
bella bella bella zuppa!
Bella zuppa, chi è il meschino
che vuol pesce, caccia od altro?
Sol di zuppa un cucchiaino
preferir usa chi è scaltro.
Solo un cucchiain di zuppa,
cara zuppa, bella zuppa,
cara zuppa, bella zuppa,
zuppa cara,
bella bella bella zuppa!
— Ancora il coro! — gridò il Grifone.
E la Falsa-testuggine si preparava a ripeterlo, quando si udì una voce in distanza:
— Si comincia il processo!
Vieni, vieni! gridò il Grifone, prendendo Alice per mano, e fuggiva con lei senza
aspettare la fine.
Che processo? domandò Alice; ma il Grifone le rispose: Vieni! e fuggiva più
veloce, mentre il vento portava più flebili le melanconiche parole:
Zuppa cara,
bella bella bella zuppa!
XI
CHI HA RUBATO LE TORTE?
Arrivati, videro il Re e la Regina di cuori seduti in trono, circondati da una gran folla di
uccellini, di bestioline e da tutto il mazzo di carte: il Fante stava davanti, incatenato, con un soldato
da un lato e l'altro: accanto al Re stava il Coniglio bianco con una tromba nella destra e un rotolo di
pergamena nella sinistra. Nel mezzo della corte c'era un tavolo, con un gran piatto di torte
d'apparenza così squisita che ad Alice venne l'acquolina in bocca.
“Vorrei che si finisse presto il processo, pensò Alice, e che si servissero le torte!” Ma
nessuno si muoveva intanto, ed ella cominciò a guardare intorno per ammazzare il tempo.
Alice non aveva mai visto un tribunale, ma ne aveva letto qualche cosa nei libri, e fu lieta di
riconoscere tutti quelli che vedeva.
“Quello è il giudice, disse fra sè, perchè porta quel gran parruccone. E quello è il
banco dei giurati, osservò Alice, e quelle dodici creature, doveva dire “creature”, perchè
alcune erano quadrupedi, ed altre uccelli, sono sicuramente i giurati.” E ripetè queste parole due
o tre volte, superba della sua scienza, perchè giustamente si diceva che pochissime ragazze dell'e
sua sapevano tanto.
I dodici giurati erano affaccendati a scrivere su delle lavagne. Che fanno? bisbigliò
Alice nell'orecchio del Grifone. Non possono aver nulla da scrivere se il processo non è ancora
cominciato.
Scrivono i loro nomi, bisbigliò il Grifone; temono di dimenticarseli prima della
fine del processo.
Che stupidi! esclamò Alice sprezzante, ma tacque subito, perchè il Coniglio bianco,
esclamò: — Silenzio in corte! — e il Re inforcò gli occhiali, mettendosi a guardare ansiosamente da
ogni lato per scoprire i disturbatori.
Alice vedeva bene, come se fosse loro addosso, che scrivevano “stupidi”, sulle lavagne:
osservò altresì che uno di loro non sapeva sillabare “stupidi”, e domandava al vicino come si
scrivesse.
“Le lavagne saranno tutte uno scarabocchio prima della fine del processo!” pensò Alice.
Un giurato aveva una matita che strideva. Alice non potendo resistervi, girò intorno al
tribunale, gli giunse alle spalle e gliela strappò di sorpresa. Lo fece con tanta rapidità che il povero
giurato (era Guglielmo, la lucertola) non seppe più che fosse successo della matita. Dopo aver girato
qua e per ritrovarla, fu costretto a scrivere col dito tutto il resto della giornata. Ma a che pro, se il
dito non lasciava traccia sulla lavagna?
— Usciere! leggete l'atto d'accusa, — disse il Re.
Allora il Coniglio diè tre squilli di tromba, poi spiegò il rotolo della pergamena, e lesse così:
“La Regina di cuori
fece le torte in tutto un dì d'estate:
Tristo, il Fante di cuori
di nascosto le torte ha trafugate!”
— Ponderate il vostro verdetto! — disse il Re ai giurati.
Non ancora, non ancora ! interruppe vivamente il Coniglio. Vi son molte cose da
fare prima!
— Chiamate il primo testimone, disse il Re; e il Coniglio bianco diè tre squilli di tromba,
e chiamò: — Il primo testimone!
Il testimone era il Cappellaio. S'avanzò con una tazza di in una mano, una fetta di pane
imburrato nell'altra.
Domando perdono alla maestà vostra, disse, se vengo con le mani impedite; ma non
avevo ancora finito di prendere il tè quando sono stato chiamato.
— Avreste dovuto finire, — rispose il Re. Quando avete cominciato a prenderlo?
Il Cappellaio guardò la Lepre di Marzo che lo aveva seguito in corte, a braccetto col Ghiro.
— Credo che fosse il quattordici di marzo, — disse il Cappellaio.
— Il quindici, — esclamò la Lepre di Marzo.
— Il sedici, — soggiunse il Ghiro.
— Scrivete questo, — disse il Re ai giurati.
E i giurati si misero a scrivere prontamente sulle lavagne, e poi sommarono i giorni
riducendoli a lire e centesimi.
— Cavatevi il cappello, — disse il Re al Cappellaio.
— Non è mio, — rispose il Cappellaio.
— È rubato allora! — esclamò il Re volgendosi ai giurati, i quali subito annotarono il fatto.
Li tengo per venderli, soggiunse il Cappellaio per spiegare la cosa: Non ne ho di
miei. Sono cappellaio.
La Regina inforcò gli occhiali, e cominciò a fissare il Cappellaio, che diventò pallido dallo
spavento.
Narraci quello che sai, disse il Re, e non aver paura... ti farò decapitare
immediatamente.
Queste parole non incoraggiarono il testimone, che non si reggeva più in piedi. Guardava
angosciosamente la Regina, e nella confusione addentò la tazza invece del pane imburrato.
Proprio in quel momento, Alice provò una strana sensazione, che la sorprese molto finchè
non se ne diede ragione: cominciava a crescere di nuovo; pensò di lasciare il tribunale, ma poi
riflettendoci meglio volle rimanere finchè per lei ci fosse spazio.
— Perchè mi urti così? — disse il Ghiro che le sedeva da presso. — Mi manca il respiro.
— Che ci posso fare? — disse affabilmente Alice. — Sto crescendo.
— Tu non hai diritto di crescere qui, — urlò il Ghiro.
— Non dire delle sciocchezze, — gridò Alice, — anche tu cresci.
Sì, ma io cresco a un passo ragionevole, soggiunse il Ghiro, e non in quella maniera
ridicola. — E brontolando si levò e andò a mettersi dall'altro lato.
Intanto la Regina non aveva mai distolto lo sguardo dal Cappellaio e mentre il Ghiro
attraversava la sala del tribunale, disse a un usciere: - Dammi la lista dei cantanti dell'ultimo
concerto!
A quest'ordine il Cappellaio si mise a tremare così che le scarpe gli sfuggirono dai piedi.
Narraci quello che sai, ripetè adirato il Re, o ti farò tagliare la testa, abbi o no
paura.
Maestà: sono un povero disgraziato, cominciò il Cappellaio con voce tremante, e
ho appena cominciato a prendere il tè... non è ancora una settimana... e in quanto al pane col burro
che si assottiglia... e il tremolio del tè.
— Che tremolio? — esclamò il re.
Il tremolio cominciò col tè, — rispose il Cappellaio.
Sicuro che “tremolio” comincia con un T! disse vivamente il Re. M'hai preso per
un allocco? Continua.
Sono un povero disgraziato, continuò il Cappellaio, e dopo il tremavamo tutti...
solo la Lepre di Marzo disse...
— Non dissi niente! — interruppe in fretta la Lepre di Marzo.
— Sì che lo dicesti! — disse il Cappellaio.
— Lo nego! — replicò la Lepre di Marzo.
— Lo nega, — disse il Re: — ebbene, lascia andare.
— Bene, a ogni modo il Ghiro disse...
E il Cappellaio guardò il Ghiro per vedere se anche lui volesse dargli una smentita: ma
quegli, profondamente addormentato, non negava nulla.
— Dopo di ciò, — continuò il Cappellaio, — mi preparai un'altra fetta di pane col burro...
— Ma che cosa disse il Ghiro? — domandò un giurato.
— Non lo posso ricordare, — disse il Cappellaio.
— Lo devi ricordare, — disse il Re, — se no ti farò tagliare la testa.
L'infelice Cappellaio si lasciò cadere la tazza, il pane col burro e le ginocchia a terra, e
implorò: — Sono un povero mortale!
— Sei un povero oratore, — disse il Re.
Qui un Porcellino d'India diè un applauso, che venne subito represso dagli uscieri del
tribunale. (Ed ecco come: fu preso un sacco che si legava con due corde all'imboccatura; vi si fece
entrare a testa in giù il Porcellino, e gli uscieri vi si sedettero sopra.)
Sono contenta d'avervi assistito, pensò Alice. Ho letto tante volte nei giornali, alla
fine dei processi: “Vi fu un tentativo di applausi, subito represso dal presidente”; ma non avevo mai
compreso che cosa volesse dire.
— Se è questo tutto quello che sai, — disse il Re, — puoi ritirarti.
— Non posso ritirarmi, — disse il Cappellaio, — sono già sul pavimento.
— Allora siediti, — disse il Re.
Qui un altro Porcellino d'India diè un applauso, ma fu represso.
Addio Porcellini d'India! Non vi vedrò più! disse Alice. Ora si andrà innanzi
meglio.
Vorrei piuttosto finire il tè, disse il Cappellaio, guardando con ansietà la Regina, la
quale leggeva la lista dei cantanti.
Puoi andare, disse il Re, e il Cappellaio lasciò frettolosamente il tribunale, senza
nemmeno rimettersi le scarpe.
—...E tagliategli la testa,soggiunse la Regina, volgendosi a un ufficiale; ma il Cappellaio
era già sparito prima che l'ufficiale arrivasse alla porta.
Chiamate l'altro testimone! gridò il Re. L'altro testimone era la cuoca della Duchessa.
Aveva il vaso del pepe in mano, e Alice indovinò chi fosse anche prima di vederla, perchè tutti
quelli vicini all'ingresso cominciarono a starnutire.
— Che cosa sai? — disse il Re.
— Niente, — rispose la cuoca.
Il Re guardò con ansietà il Coniglio bianco che mormorò:— Maestà, fatele delle domande.
Bene, se debbo farle, le farò, disse il Re, e dopo aver incrociate le braccia sul petto, e
spalancati gli occhi sulla cuoca, disse con voce profonda: — Di che cosa sono composte le torte?
— Di pepe per la maggior parte, — rispose la cuoca.
— Di melassa, — soggiunse una voce sonnolenta dietro di lei.
Afferrate quel Ghiro! gridò la Regina. Tagliategli il capo! Fuori quel Ghiro!
Sopprimetelo! pizzicatelo! Strappategli i baffi!
Durante qualche istante il tribunale fu una Babele, mentre il Ghiro veniva afferrato; e
quando l'ordine fu ristabilito, la cuoca era scomparsa.
Non importa, disse il Re con aria di sollievo. Chiamate l'altro testimone. E
bisbigliò alla Regina: — Cara mia, l'altro testimone dovresti esaminarlo tu. A me duole il capo.
Alice stava osservando il Coniglio che esaminava la lista, curiosa di vedere chi fosse mai
l'altro testimone, perchè non hanno ancora una prova, disse fra sè. Figurarsi la sua sorpresa,
quando il Coniglio bianco chiamò con voce stridula: Alice!
XII
LA TESTIMONIANZA DI ALICE
— Presente! — rispose Alice.
Dimenticando, nella confusione di quell'istante di esser cresciuta enormemente, saltò con
tanta fretta che rovesciò col lembo della veste il banco de' giurati, i quali capitombolarono con la
testa in giù sulla folla, restando con le. gambe in aria. Questo le rammentò l'urtone dato la settimana
prima a un globo di cristallo con i pesciolini d'oro.
Oh, vi prego di scusarmi! ella esclamò con voce angosciata e cominciò a raccoglierli
con molta sollecitudine, perchè invasa dall'idea dei pesciolini pensava di doverli prontamente
raccogliere e rimettere sul loro banco se non li voleva far morire.
— Il processo, — disse il Re con voce grave, — non può andare innanzi se tutti i giurati non
saranno al loro posto... dico tutti, — soggiunse con energia, guardando fisso Alice.
Alice guardò il banco de' giurati, e vide che nella fretta avea rimessa la lucertola a testa in
giù. La poverina agitava melanconicamente la coda, non potendosi muovere. Subito la raddrizzò.
“Non già perchè significhi qualche cosa, — disse fra sè, — perchè ne la testala coda gioveranno
al processo.”
Appena i giurati si furono rimessi dalla caduta e riebbero in consegna le lavagne e le matite,
si misero a scarabocchiare con molta ansia la storia del loro ruzzolone, tranne la lucertola, che era
ancora stordita e sedeva a bocca spalancata, guardando il soffitto.
— Che cosa sai di quest'affare? — domandò il Re ad Alice.
— Niente, — rispose Alice.
— Proprio niente? — replicò il Re.
— Proprio niente, — soggiunse Alice.
— È molto significante, — disse il Re, volgendosi ai giurati.
Essi si accingevano a scrivere sulle lavagne, quando il Coniglio bianco li interruppe:
Insignificante, intende certamente vostra Maestà, disse con voce rispettosa, ma
aggrottando le ciglia e facendo una smorfia mentre parlava.
— Insignificante, già, è quello che intendevo — soggiunse in fretta il Re; e poi si mise a dire
a bassa voce: “significante, insignificante, significante...” come se volesse provare quale delle
due parole sonasse meglio.
Alcuni dei giurati scrissero “significante”, altri “insignificante.”
Alice potè vedere perchè era vicina, e poteva sbirciare sulle lavagne: “Ma non importa”,
pensò.
Allora il Re, che era stato occupatissimo a scrivere nel suo taccuino, gridò: — Silenzio!e
lesse dal suo libriccino: “Norma quarantaduesima: Ogni persona, la cui altezza supera il miglio
deve uscire dal tribunale.”
Tutti guardarono Alice.
— Io non sono alta un miglio, — disse Alice.
— Sì che lo sei, — rispose il Re.
— Quasi due miglia d'altezza, — aggiunse la Regina.
Ebbene non m'importa, ma non andrò via, disse Alice. Inoltre quella è una norma
nuova; l'avete inventata or ora.
— Che! è la più vecchia norma del libro! — rispose il Re.
— Allora dovrebbe essere la prima, — disse Alice.
Allora il Re diventò pallido e chiuse in fretta il libriccino.
Ponderate il vostro verdetto, disse volgendosi ai giurati, ma con voce sommessa e
tremante.
Maestà, vi sono altre testimonianze, disse il Coniglio bianco balzando in piedi.
Giusto adesso abbiamo trovato questo foglio.
— Che contiene? — domandò la Regina
Non l'ho aperto ancora, disse il Coniglio bianco; ma sembra una lettera scritta dal
prigioniero a... a qualcuno.
Dev'essere così disse il Re, salvo che non sia stata scritta a nessuno, il che
generalmente non avviene.
— A chi è indirizzata — domandò uno dei giurati.
— Non ha indirizzo, — disse il Coniglio bianco, — infatti non c'è scritto nulla al di fuori. —
E aprì il foglio mentre parlava, e soggiunse: Dopo tutto, non è una lettera; è una filastrocca in
versi.
— Sono di mano del prigioniero? — domandò un giurato.
No, no, —rispose Il Coniglio bianco, questo è ancora più strano. (I giurati si guardarono
confusi.)
— Forse ha imitato la scrittura di qualcun altro, — disse il Re.(I giurati si schiarirono.)
Maestà, disse il Fante, io non li ho scritti, e nessuno potrebbe provare il contrario.
E poi non c'è alcuna firma in fondo.
Il non aver firmato, rispose il Re, non fa che aggravare il tuo delitto. Tu miravi
certamente a un reato; se no, avresti lealmente firmato il foglio.
Vi fu un applauso generale, e a ragione, perchè quella era la prima frase di spirito detta dal
Re in quel giorno.
— Questo prova la sua colpa, — affermò la Regina.
— Non prova niente, — disse Alice.
— Ma se non sai neppure ciò che contiene il foglio!
— Leggilo! — disse il re.
Il Coniglio bianco si mise gli occhiali e domandò: Maestà, di grazia, di dove debbo
incominciare ?
Comincia dal principio, disse il Re solennemente... e continua fino alla fine, poi
fermati.
Or questi erano i versi che il Coniglio bianco lesse:
“Mi disse che da lei te n'eri andato,
ed a lui mi volesti rammentar;
lei poi mi diede il mio certificato
dicendomi: ma tu non sai nuotar.
Egli poi disse che non ero andato
(e non si può negar, chi non lo sa?)
e se il negozio sarà maturato,
oh dimmi allor di te che mai sarà?
Una a lei diedi, ed essi due le diero,
tu me ne desti tre, fors'anche più;
ma tutte si rinvennero, — o mistero!
ed eran tutte mie, non lo sai tu?
Se lei ed io per caso in questo affare
misterioso involti ci vedrem,
egli ha fiducia d'esser liberato
e con noi stare finalmente insiem.
Ho questa idea che prima dell'accesso,
(già tu sai che un accesso la colpì),
un ostacol per lui, per noi, per esso
fosti tu solo in quel fatale dì.
Ch'egli non sappia chi lei predilige
(il segreto bisogna mantener);
sia segreto per tutti, chè qui vige
la impenetrabile legge del mister.”
Questo è il più importante documento di accusa, disse il Re stropicciandosi le mani;
— ora i giurati si preparino.
— Se qualcuno potesse spiegarmelo, — disse Alice (la quale era talmente cresciuta in quegli
ultimi minuti che non aveva più paura d'interrompere il Re) gli darei mezza lira. Non credo che
ci sia in esso neppure un atomo di buon senso.
I giurati scrissero tutti sulla lavagna: “Ella non crede che vi sia in esso neppure un atomo di
buon senso”.Ma nessuno cercò di spiegare il significato del foglio.
Se non c'è un significato, disse il Re, noi usciamo da un monte di fastidi, perchè
non è necessario trovarvelo. E pure non so, continuò aprendo il foglio sulle ginocchia e
sbirciandolo, ma mi pare di scoprirvi un significato, dopo tutto... “Disse... non sai mica nuotar.”
Tu non sai nuotare, non è vero? — continuò volgendosi al Fante.
Il Fante scosse tristemente la testa e disse: Vi pare che io possa nuotare? (E certamente,
no, perchè era interamente di cartone).
Bene, fin qui,—, disse il Re, e continuò: “E questo è il vero, e ognun di noi io sa.”
Questo è senza dubbio per i giurati. “Una a lei diedi, ed essi due gli diero.” Questo spiega
l'uso fatto delle torte, capisci...
Ma, — disse Alice, — continua con le parole: “Ma tutte si rinvennero”.
Già, esse son la, —disse il Re con un'aria di trionfo, indicando le torte sul tavolo.
Nulla di più chiaro. Continua:“Già tu sai che un accesso la colpì”,— tu non hai mai avuto degli
attacchi nervosi, cara mia, non è vero?— soggiunse volgendosi alla Regina.
Mai! gridò furiosa la Regina, e scaraventò un calamaio sulla testa della lucertola. (Il
povero Guglielmo! aveva cessato di scrivere sulla lavagna col dito, perchè s'era accorto che non ne
rimaneva traccia; e in quell'istante si rimise sollecitamente all'opera, usando l'inchiostro che gli
scorreva sulla faccia, e l'usò finche ne ebbe.)
Dunque a te questo verso non si attacca, disse il Re, guardando con un sorriso il
tribunale. E vi fu gran silenzio.
È un bisticcio soggiunse il Re con voce irata, e tutti allora risero. Che i giurati
ponderino il loro verdetto — ripetè il Re, forse per la ventesima volta quel giorno.
— No, disse la Regina. — Prima la sentenza, poi il verdetto.
— È una stupidità — esclamò Alice. — Che idea d'aver prima la sentenza!
— Taci! — gridò la Regina, tutta di porpora in viso.
— Ma che tacere! — disse Alice.
— Tagliatele la testa! urlò la Regina con quanta voce aveva. Ma nessuno si mosse.
Chi si cura di te? disse Alice, (allora era cresciuta fino alla sua statura naturale.);
Tu non sei che la Regina d'un mazzo di carte.
A queste parole tutto il mazzo si sollevò in aria vorticosamente e poi si rovesciò sulla
fanciulla: essa diede uno strillo di paura e d'ira, e cercò di respingerlo da sè, ma si trovò sul poggio,
col capo sulle ginocchia di sua sorella, la quale le toglieva con molta delicatezza alcune foglie
secche che le erano cadute sul viso.
— Risvegliati, Alice cara,— le disse la sorella, — da quanto tempo dormi, cara!
Oh! ho avuto un sogno così curioso! disse Alice, e raccontò alla sorella come meglio
potè, tutte le strane avventure che avete lette; e quando finì, la sorella la baciò e le disse:
— È stato davvero un sogno curioso, cara ma ora, va subito a prendere il tè; è già tardi. — E
così Alice si levò; e andò via, pensando, mentre correva, al suo sogno meraviglioso.
Sua sorella rimase colà con la testa sulla palma, tutta intenta a guardare il sole al tramonto,
pensando alla piccola Alice, e alle sue avventure meravigliose finchè anche lei si mise a sognare, e
fece un sogno simile a questo:
Prima di tutto sognò la piccola, Alice, con le sue manine delicate congiunte sulle ginocchia
di lei e coi grandi occhioni lucenti fissi in lei. Le sembrava di sentire il vero suono della sua voce, e
di vedere quella caratteristica mossa della sua testolina quando rigettava indietro i capelli che
volevano velarle gli occhi. Mentre ella era tutta intenta ad ascoltare, o sembrava che ascoltasse, tutto
il. luogo d'intorno si popolò delle strane creature del sogno di sua sorella.
L'erba rigogliosa stormiva ai suoi piedi, mentre il Coniglio passava trotterellando e il Topo
impaurito s'apriva a nuoto una via attraverso lo stagno vicino. Ella poteva sentire il rumore delle
tazze mentre la Lepre di Marzo e gli amici suoi partecipavano al pasto perpetuo; udiva la stridula
voce della Regina che mandava i suoi invitati a morte. Ancora una volta il bimbo Porcellino
starnutiva sulle ginocchia della Duchessa, mentre i tondi e i piatti volavano e s'infrangevano
d'intorno e l'urlo del Grifone, lo stridore della matita della Lucertola sulla lavagna, la repressione dei
Porcellini d'India riempivano l'aria misti ai singhiozzi lontani della Falsa-testuggine. Si sedette, con
gli occhi a metà velati e quasi si credè davvero nel Paese delle Meraviglie; benchè sapesse che
aprendo gli occhi tutto si sarebbe mutato nella triste realtà. Avrebbe sentito l'erba stormire al soffiar
del vento, avrebbe veduto lo stagno incresparsi all'ondeggiare delle canne. L'acciottolio, delle tazze
si sarebbe mutato nel tintinnio della campana delle pecore, e la stridula voce della Regina nella voce
del pastorello, e gli starnuti del bimbo, l'urlo del Grifone e tutti gli altri curiosi rumori si sarebbero
mutati (lei lo sapeva) nel rumore confuso d'una fattoria, e il muggito lontano degli armenti avrebbe
sostituito i profondi singhiozzi della Falsa-testuggine.
Finalmente essa immaginò come sarebbe stata la sorellina già cresciuta e diventata donna:
Alice avrebbe conservato nei suoi anni maturi il cuore affettuoso e semplice dell'infanzia e avrebbe
raccolto intorno a altre fanciulle e avrebbe fatto loro risplendere gli occhi, beandole con molte
strane storielle e forse ancora col suo sogno di un tempo: le sue avventure nel Paese delle
Meraviglie. Con quanta tenerezza avrebbe ella stessa partecipato alle loro innocenti afflizioni, e con
quanta gioia alle loro gioie, riandando i beati giorni della infanzia e le felici giornate estive!
FINE
Livros Grátis
( http://www.livrosgratis.com.br )
Milhares de Livros para Download:
Baixar livros de Administração
Baixar livros de Agronomia
Baixar livros de Arquitetura
Baixar livros de Artes
Baixar livros de Astronomia
Baixar livros de Biologia Geral
Baixar livros de Ciência da Computação
Baixar livros de Ciência da Informação
Baixar livros de Ciência Política
Baixar livros de Ciências da Saúde
Baixar livros de Comunicação
Baixar livros do Conselho Nacional de Educação - CNE
Baixar livros de Defesa civil
Baixar livros de Direito
Baixar livros de Direitos humanos
Baixar livros de Economia
Baixar livros de Economia Doméstica
Baixar livros de Educação
Baixar livros de Educação - Trânsito
Baixar livros de Educação Física
Baixar livros de Engenharia Aeroespacial
Baixar livros de Farmácia
Baixar livros de Filosofia
Baixar livros de Física
Baixar livros de Geociências
Baixar livros de Geografia
Baixar livros de História
Baixar livros de Línguas
Baixar livros de Literatura
Baixar livros de Literatura de Cordel
Baixar livros de Literatura Infantil
Baixar livros de Matemática
Baixar livros de Medicina
Baixar livros de Medicina Veterinária
Baixar livros de Meio Ambiente
Baixar livros de Meteorologia
Baixar Monografias e TCC
Baixar livros Multidisciplinar
Baixar livros de Música
Baixar livros de Psicologia
Baixar livros de Química
Baixar livros de Saúde Coletiva
Baixar livros de Serviço Social
Baixar livros de Sociologia
Baixar livros de Teologia
Baixar livros de Trabalho
Baixar livros de Turismo