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TITOLO: Schiaccianoci ed altri racconti
AUTORE: Capuana, Luigi
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Schiaccianoci ed altri racconti",
di Luigi Capuana;
illustrazioni di Carlo Chiostri;
Biblioteca Marzocco per i ragazzi;
Marzocco Editore;
Firenze, 1940
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 29 novembre 2005
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Paolo Alberti, [email protected]
REVISIONE:
Elena Macciocu, elena_672002@yahoo.it
PUBBLICATO DA:
Claudio Paganelli, [email protected]
Alberto Barberi, [email protected]
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SCHIACCIANOCI
ED ALTRI RACCONTI
di
Luigi Capuana
INDICE:
Schiaccianoci
Una bugia
La nonna
Lo Spauracchio
Suonatori ambulanti
L'Istitutrice
Gattina e Canino
I sonetti di Elettra
Guglielmino
La zia Marta
Caratello
Povero nonno!
SCHIACCIANOCI
Benedetti ragazzi! Il teatro dei burattini ora non bastava più: volevano un teatrino per recitar
loro, in persona; e avevano già scelto il locale, quello stanzone a pian terreno, specie di magazzino
che il babbo affittava, in tempo di fiera, a negozianti di tessuti e che restava chiuso la maggior parte
dell'anno, ingombro soltanto di legname vecchio e di una botte inutile.
L'anno avanti la venuta d'un burattinaio aveva messo sossopra la casa dell'avvocato Marsili,
babbo compiacentissimo quanto altro mai. I suoi cinque ragazzi, il maggiore dei quali aveva
quindici anni ed era intanto più fanciullone degli altri, non gli avevano dato pace finchè non
avevano ottenuto il permesso di comprare, coi denari delle loro strenne, un bel teatrino per burattini.
Concedendo il permesso, l'avvocato si era immaginato di aver dato tutto. Ma i ragazzi, che
prima avevano pensato di comprare un teatrino bell'e fatto, non trovandone nessuno di loro piena
soddisfazione, si erano messi in testa di costruirsene uno più grande e assai meglio disposto di quelli
veduti nella bottega del cartolaio, che vendeva anche balocchi d'ogni sorta.
E allora cominciò l'ammattimento del babbo.
Nei giorni di vacanza, dopo colazione e dopo pranzo, era un continuo picchiare all'uscio
dello studio.
— Avanti.
— Senti, babbo.
— Che c'è?
— Dovresti segnarci....
— Non vi segnerò niente; dovete fare tutto da voi.
— Le proporzioni almeno! — diceva Rino.
— L' arco del proscenio! — pregava Nando.
— E il posto dei buchi da piantarvi le quinte! — aggiungeva Lelio.
— Ma dite pure che debbo costruirlo io tutto di mia mano!
— No, babbo: segnerai solamente....
— Ah! — sbuffava il babbo.
E intanto buttava là le carte della lite che s' era messo a studiare, si levava da sedere e,
seguìto dai figliuoli che gli saltavano attorno, battendo le mani dall'allegrezza, andava nella camera
dove erano già ammucchiati tavole, legni, stoffe, martelli, seghe, pialle, chiodi, tanaglie, insomma
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tutto l'arsenaletto degli arnesi occorrenti per rizzare il teatrino.
— Si capisce, la bambina non poteva mancare! — esclamò sorridendo l'avvocato, vista là la
sua signora.
La chiamava così perchè, quando si trattava di far divertire i bambini, di divagarli
occupandoli, la signora Marsili, bella e giovane ancora, si rifaceva bambina con loro.
La bambina, infatti, preparava la tela pel sipario, per l'addobbo dell'alto della cicloide, e
aveva già scelto, da un mucchio di stoffe vecchie, quelle che potevano servire per l'abbigliamento
dei burattini.
— Questa per una delle vesti di Colombina; questa pel costume di Pantalone; quella lì,
combinata con quest'altra, per la scacchiera di Arlecchino!
— Insomma — disse l'avvocato — che debbo fare?
— Ecco: questo è il piano del palcoscenico. Ti pare sufficiente, babbo?
— Sufficientissimo.
— Lo pianteremo su questo tavolinaccio, a cui la mamma metterà attorno una stoffa perchè
non si veggano le gambe dei burattinai.
— Ma volete proprio far tutto da voi?
— Tutto, babbo.
— E farete male. Per certe cose ci vuole il falegname; farà meglio e più presto.
— Vado a chiamarlo io! — esclamò Rino.
— Non occorre; lo chiamerà Schiaccianoci. —
Schiaccianoci era il copista dello studio, che faceva da usciere, da cameriere, da galoppino,
da aio quando non aveva niente da copiare. E faceva ogni cosa assai volentieri, perchè, oltre quel
che guadagnava con l'avvocato, ricavava sempre dalla signora regali di ogni specie: vestiti smessi,
scarpe vecchie, capi di biancheria che l'avvocato non adoprava più ma che per Schiaccianoci
diventavano oggetti di lusso: e lire e mezze lire, e soldi e fiaschi di vino, e salami e formaggio e
dolci nelle feste di Natale, della Befana, di Pasqua; talchè Schiaccianoci si sarebbe fatto squartare
per l'avvocato e la sua signora, e parlava di casa Marsili come di casa sua, e dello studio
dell'avvocato come di studio proprio, dove l'avvocato, a sentir lui, si sarebbe preso per copista e lui,
copista, per avvocato.
Non diciamo poi niente del bene che Schiaccianoci voleva ai bambini! Quando li conduceva
a spasso, prendeva l'aria di un babbo piuttosto serio; li ammoniva, li minacciava, ma, all'ultimo,
faceva quel che volevano essi, anche se l'avvocato avesse fatto qualche proibizione. Si pentiva
sùbito della trasgressione, ridiventava o tentava di ridiventare severo, tornava a minacciare e ad
ammonire; e, arrivato a casa, si raccomandava alla signora, caso mai l'avvocato fosse venuto a
sapere.... Poveri bambini! Era stato lui il colpevole, lui aveva trasgredito gli ordini del signor
avvocato.... I bambini però si erano divertiti, non avevano fatto niente di male.
La signora Marsili crollava la testa, lo minacciava col dito, sorridendo dell'aria pietosa di
Schiaccianoci, che pareva balenasse su quelle gambe lunghe e secche; e prometteva la sua
protezione, caso mai!... Però, però un'altra volta....
E un'altra volta Schiaccianoci tornava da capo.
Quel giorno arrivava da una lunga corsa, stanco e trafelato; ma appena i bambini gli corsero
incontro gridando: — Federico! Federico! — (Schiaccianoci aveva quel bel nome e un cognome più
bello, Fiorini; e l'avvocato non voleva che i suoi figliuoli lo chiamassero col nomignolo
appiccicatogli, non si sa da chi, per la sua testa grossa e le gambe lunghe e secche, che lo facevano
rassomigliare a uno schiaccianoci); appena dunque i bambini gli corsero incontro, gridando: —
Federico! Federico! — Schiaccianoci si asciugò il sudore in fretta in fretta, e sorridente e lieto di
divertirsi coi suoi cari bambini (anche i bambini, a sentir lui, si sarebbero creduti suoi) rispose:
— Eccomi qua! —
E neppure Schiaccianoci ebbe più pace, come l'avvocato, come la signora, finchè il teatrino
non fu inchiodato, rizzato, pronto a esser dipinto.
Allora Schiaccianoci si rivelò, come disse l'avvocato che dal quel giorno in poi, cioè dal
giorno in cui si offerse a dipingere e dipinse il teatrino e le scene, lo chiamò per un buon pezzo
Raffaello l'Orbino.
La pittura durò una buona settimana. I bambini volevano vederlo all'opera, aiutarlo se
occorreva; e per ciò Raffaello l'Orbino avea dovuto lavorare soltanto quando i bambini tornavano da
scuola, e nei giorni di vacanza. Nessuno aveva mai sospettato in Schiaccianoci tanta bravura tintòria
e decoratoria. Certi rosoni e certi fregi fecero andare in visibilio i minuscoli impresari; e la reggia e
il bosco furono giudicati capilavori addirittura.
— Bravo Federico! Viva Federico! —
E Rino, che era il maggiore, una mattina gli disse:
— Faremo una serata a tuo beneficio! —
L'entusiasmo dei bambini e l'ammirazione e la gratitudine della signora Marsili non ebbero
confini la sera che Schiaccianoci, date le ultime pennellate e fatto osservare, con l'illuminazione
dovuta, l'effetto scenografico dei suoi lavori, annunziò modestamente che sapeva fare e avrebbe
fatto lui le teste e le mani dei personaggi.
— Anche scultore ! — esclamò l'avvocato.
E allora non lo chiamò più Raffaello l'Orbino, ma Michelaccio, nome che imbrogliò un po'
Schiaccianoci e lo fece protestare, perchè il mestiere del Michelaccio lui non l'aveva fatto mai.
— Michelaccio e Michelangiolo son tutt'uno — disse l'avvocato. — Michelangiolo era
pittore, scultore, poeta, architetto, e di lui dissero che aveva quattro anime: tu che ne hai due
soltanto, una di pittore e una di scultore, sarai per ciò Michelaccio. —
L'avvocato gli voleva bene e scherzava spesso con lui.
Di mano in mano che le teste dei burattini venivano fuori da un pezzo di legno, scolpite a
furia di temperino, i bambini rimanevano a bocca aperta. Poi vennero fuori le mani, poi i piedi, tutti
dipinti bene; le teste, con certe sopracciglia nere, e certi occhi sgranati, e certe labbra rosse rosse che
parevano insanguinate; le mani, color carne; i piedi, cioè le scarpe, nere e lucide, con punte
acuminate e tacchi solidissimi.
E che festa la sera, in cui i burattini vestiti di tutto punto poterono essere appesi a un fil di
ferro dietro alla scena del teatrino, in attesa di esser presi e fatti parlare dai burattinai, che ora poi si
trovavano in grande imbarazzo, non sapendo farli muover bene, e molto meno farli parlare!
Farli muover bene, alla fine, non sarebbe stato poi tanto difficile.
— Ma farli parlare, babbo! — esclamò Rino.
— Il babbo vi scriverà una commediola — disse la signora Marsili.
— Ma se lo dico che tu sei più bambina di loro! Ti par cosa facile una commediola per
burattini?
— Che ne so io? Un avvocato come te!... Credevo....
— Ce la scriverà Federico — disse Nando.
I bambini applaudirono. Perchè no? Federico per loro era ormai un grand'uomo, capace di
fare tutti i miracoli possibili. Ah! ridevano il babbo e la mamma? Avrebbero visto.
E la mattina dopo, Schiaccianoci, accolto con alte grida di evviva, non riusciva a persuadere
quei cinque demonietti, che chiedere a lui di scrivere una commediola era proprio come chiedergli
di trar sangue da una rapa, o di mutar i sassi in pane.
— Via, non fare il modesto! — gli disse Rino.
— Chi sa quante ne hai scritte ! — soggiunse Nando.
— E contentali! — gli suggerì l'avvocato serio serio. — Hai fatto da pittore, da scultore: fa'
ora da poeta, e sarai Michelaccio quanto quell'altro.
— Una cosettina per ridere — insinuò la signora, con un sorriso che era preghiera e
incoraggiamento nello stesso punto.
E Schiaccianoci che, trattandosi del suo avvocato, della sua signora e dei suoi bambini non
poteva mai dir di no, promise che fra tre giorni avrebbe portato la commedia.
— Oh, fra tre giorni! Ci vuol tanto? Spicciati, Federico! —
E Schiaccianoci si spicciò. Lavorò un'intera nottata, e il domani a mezzogiorno — era
giovedì — si presentò in casa dell'avvocato col manoscritto della commedia in tasca.
Gli urli di gioia, i salti, gli abbracci e i baci non si dicono.
— Ma tu sei un portento, Schiaccianoci!
— Ma bravo, Schiaccianoci! —
E siccome il babbo e la mamma quella volta, inavvertitamente, avevano dato il cattivo
esempio, così i bambini lo acclamarono in coro:
— Viva Schiaccianoci! Viva!
— Chiamatemi sempre così — egli riprese ridendo di cuore. — Sembro davvero uno
Schiaccianoci con queste gambacce. —
E dopo colazione, Schiaccianoci lesse la commediola. L'avvocato, sdraiato su la poltrona a
dondolo, fumava un virginia; la signora aveva ripreso un lavorino d'uncinetto; e i bambini parte in
piedi, parte seduti, con tanto d'occhi e di orecchi, stettero a udire, ridendo clamorosamente di tratto
in tratto, quando Schiaccianoci, per indicare le busse che Pulcinella suonava ad Arlecchino,
dimenava il braccio, imitando con la voce il rumore del bastone su la testa di legno.
— E tiritoc! tiritac! tiritoc! —
Schiaccianoci aveva trascritto alla meglio, di memoria, una farsetta da burattini vista
rappresentare tempo fa, mettendovi di suo soltanto certi motti che gli erano parsi spiritosi.
Pantalone, per esempio, che aveva prestato dei quattrini a Pulcinella, non potendo più cavarglieli di
mano, diceva in un fantastico veneziano:
— Zito, ladro! Ti farò sitare da Schiaccianoci! Androgio dall'avocato Marsili! —
Però al povero Schiaccianoci era accaduto quel che accade a tanti autori drammatici più serii
di lui; il suo lavoro non era arrivato a vedere, come si dice, la luce della ribalta. Prima si era
ammalata la signora Marsili; poi era sopraggiunta la villeggiatura; e alla riapertura delle scuole, i
bambini avevano dimenticato teatrino, burattini, e commedia, ammonticchiati in un angolo, coperti
di un vecchio lenzuolo. Un giorno che Rino, per curiosità, volle vederli, trovò che i topi avevano
róso le vesti di Colombina, la palandrana di Pantalone, la gobba di Arlecchino, e il gatto aveva
stracciato e sporcato il manoscritto in modo da renderlo illeggibile!
Ora dunque non si trattava di burattini, ma d'un teatrino bello e buono, da darvi
rappresentazioni insieme coi compagni di scuola. La settimana avanti era stato inaugurato il nuovo
teatro comunale, con una compagnia di prosa che aveva fatto furore; ed ecco che i bambini
volevano avere il loro teatrino comunale, come diceva Rino.
Erano tutti cresciuti di due anni, e non reputavano più cosa seria divertirsi coi burattini:
occorreva loro un teatrino da rappresentarvi drammi e magari tragedie. E prima di esser certi di
ottenere dal babbo il locale e la costruzione del teatrino, già pensavano alla compagnia. Erano
impensieriti per la mancanza di donne. Se la mamma avesse avuto la buona idea di dar loro qualche
sorella!
Schiaccianoci, consultato intorno a questo, aveva detto
— I bambini possono fare da donna. —
E questa risposta era stata una scintilla che per poco non avea mandato in aria il progetto del
teatrino. Rino e Nando avevano cominciato a leticare, perchè tutt'e due si erano sùbito incaponiti di
voler essere la prima donna. Schiaccianoci era finalmente riuscito a persuadere Rino che il primo
posto della compagnia era quello del primo attore, e che questo gli stava bene per l'età, per la statura
e perchè lui era nella quinta elementare; dalle quali ragioni Rino aveva sentito solleticare talmente il
suo amor proprio, da cedere a Nando il posto di prima donna, se gli fosse piaciuto di tenerlo.
— È inutile intanto pensare a tutto questo — aveva egli soggiunto — se il babbo non ci
concederà il locale e non ci permetterà di rizzare il teatrino.... —
Anche intorno a questo punto venne consultato Schiaccianoci.
— Se la mamma ci aiuterà! —
Si metteva pure lui nel conto. Già prevedeva che gli sarebbe spettata una gran parte
nell'esecuzione del bel progetto. Da giovane, era stato per qualche anno un dilettante arrabbiato, sì,
ma disgraziatissimo. Ricordava tuttavia le risate destate dal suo apparire su la scena fin nelle parti
più serie, parti ch'egli prediligeva e che pareva gli venissero concesse facilmente per discreditarlo di
più. Ora capiva che la sua figura, con quella testa e quel busto su quelle gambacce lunghe un miglio,
doveva far ridere per forza. Ma allora sentiva tale entusiasmo per le rappresentazioni drammatiche,
da pensare sul serio di diventar attore...
— Con queste gambacce! — ripeteva ora, compiangendosi, tutte le volte che riparlava della
sua aberrazione di dilettante.
Qualcosa di essa però gli rimaneva tuttavia in fondo al cuore, se anche lui si era infiammato
del progetto dei ragazzi, e ne ragionava volentieri con loro, e li aizzava raccontando tutte le storielle
delle prove, delle pàpere, degli incidenti tra attori, di cui era stato testimone e parte in quei due anni
della sua giovinezza.
Per ciò insisteva coi bambini:
— Bisogna raccomandarsi alla mamma, perchè ne parli lei al babbo. —
Veramente con la mamma non occorreva punto raccomandarsi quando si trattava di
divertimenti leciti, onesti e ch'ella poteva benissimo sorvegliare.
— Tu sei più bambina di loro! — le rispose l'avvocato. — Un teatrino, non capisci? è una
spesa. Rizzare in muratura il palcoscenico è quasi niente. Ma le scene, gli arredi, i vestiari.... E poi,
non si può lasciare il magazzino qual è, col pavimento senza mattoni, con le pareti annerite, senza
intonaco.... E poi....
— E poi e poi!... Faremo un po' per volta. È facile che i bambini si stanchino e si annoino
prima di condurre a termine la muratura del palcoscenico. Non sono bambini per niente. Hai visto
quel che è accaduto col teatrino dei burattini?... Non hanno fatto neppure la prima rappresentazione.
E il povero Schiaccianoci è rimasto mortificatissimo, per non aver potuto vedere rappresentata la
sua famosa commedia.
— Intendo! — conchiuse l'avvocato. — È la bambina che vuole il teatrino.... assai più dei
bambini. Da' a bere al prete che il chierico ha sete! Intendo! Alla bambina bisogna conceder tutto!
— Grazie.... Ma io credo che si divertirà anche il bambinone — rispose la signora ridendo.
Infatti, nelle ore libere, l'avvocato scendeva giù nel magazzino a dirigere i lavori, lietissimo
di vedere i suoi figliolini così occupati, da sembrare tanti piccoli operai che dovessero guadagnarsi
il pane.
Schiaccianoci si moltiplicava. Copiava, portava manoscritti di memorie alla stamperia,
correva dalla pretura al tribunale, e viceversa, volava a far le cómpere per la signora, e pareva
avesse nelle mani e nelle gambe l'argento vivo. Le sue copie ne soffrivano un po'. Non vi si poteva
ammirare più la bella calligrafia rotonda e serrata che si sarebbe fatta leggere anche da un cieco; non
vi mancava però una parola, nè una virgola. Le lettere guizzavano irregolari, prendevano più spazio,
ma lo scritto non varcava i limiti. Schiaccianoci si sarebbe fatto scrupolo di fare spendere ai clienti
qualche lira di più in carta bollata. Insomma, nella calligrafia si vedeva la fretta, niente altro; ed era
un gran sintomo, perchè d'ordinario egli si metteva tranquillamente a tavolino e copiava copiava con
la regolarità di una macchina, capisse o non capisse (e questo gli accadeva qualche volta) lo scritto
che gli stava davanti. Ugualmente nelle sue corse alla stamperia, al tribunale, alla pretura,
Schiaccianoci non si scalmanava punto. Andava con calma dignitosa buttando una gamba avanti
l'altra, dondolando le braccia in senso inverso, cioè accompagnando col braccio destro il movimento
della gamba sinistra, col braccio sinistro il movimento delle gamba destra, sicuro di arrivare sempre
in tempo, perchè quelle sue gambacce, come egli soleva dire, mangiavano il doppio di strada che
non le gambe degli altri.
Ma ora non più. Voleva sbrigarsi sùbito delle copie, o delle corse; e non sarebbe neppure
andato a far colazione o a desinare, pur di poter mettere le mani nei lavori del teatrino.
Ammucchiava sassi a portata di mano del muratore, intrideva la calce, squadrava una grossa
pietra, regolava l'archipenzolo, per tirar su a piombo i lati della piattaforma del palcoscenico; segava
legni, tavole, prendeva misure; e quando non aveva proprio niente da far con le mani, sbalordiva,
abbagliava i bambini coi suoi progetti di decorazioni, giacchè anche questa volta, come pel teatrino
dei burattini, il pittore voleva esser lui.
— Vedrete, cari miei, che bellezza di colori, e che disegni! —
Egli s'inorgogliva anticipatamente dell'opera sua.
— E che cartelloni! —
Già pensava ai cartelloni.
— Tu farai il bigliettinaio! — gli disse un giorno Vittorino, che era il terzogenito.
— Anche questo! — rispose Schiaccianoci, che però mirava più alto, alla parte di direttore,
e, osava appena confessarlo a sè stesso, di autore drammatico della compagnia.
La sera, andando a letto, mulinava mulinava senza avere un'idea chiara di quel che voleva
fare: una commedia? un dramma? una tragedia? E finiva con ridere di sè stesso. Ma appena
chiudeva gli occhi, ecco un palcoscenico vasto quanto una piazza; e lui, in mutande, spinto fuori
delle quinte, tra i fischi e le risate del pubblico, correva di qua e di là per nascondersi e non trovava
modo di rientrare dietro le quinte. Che vergogna! che pena! che sudor diaccio! E che respirone di
sollievo destandosi, allorchè si trovava nel misero lettuccio della sua povera stanzetta, dove s'era
coricato poco prima, stanco ma con la coscenza tranquilla; nè sazio, nè affamato; contento di essersi
guadagnato onestamente quel po' di pane, quel piatto di minestra, e quel dito di vino che lo scaldava
sotto i lenzuoli. Tanto, neppure pensando a scrivere una commedia per divertire i suoi cari bambini,
non faceva male a nessuno. Avrebbe fatto soltanto una cosa sciocca. Che gliene importava, purchè i
bambini potessero ridere? Il guaio era, che non sapeva imbastire neppure una cosa sciocca. Come
facevano quegli altri a mettere assieme tutte quelle belle cose che strappavano le lagrime? E non
erano vere. Gli attori che si ammazzavano davanti il pubblico, calato il sipario, si rizzavano più vivi
di prima. Quella era una bella virtù! Lui però non doveva far ammazzare nessuno. Una bella burla,
per esempio! Oh, una bella burla!... Ma non la trovava. Una volta, anni addietro, gliene avevano
fatta una a lui, e ci aveva preso i cocci; ma non era cosa da bambini. Gliela avevano fatta grossa!
Ora ne rideva lui stesso, ma allora.... Che bestia! C'era cascato così bene!... E se infine avesse scritto
«La burla di Schiaccianoci»? Come sarebbero stati contenti i bambini! E appena si appisolava,
sùbito sognava di nuovo quel palcoscenicone, e i fischi, ah, che fischi! Non aveva fortuna neppure
in sogno sul palcoscenico!
Intanto il palcoscenichetto del teatrino era bell'e rizzato, con la cicloide di tavola e i pali
delle quinte al lor posto.
Ed ecco che all'avvocato viene la cattiva idea di far dipingere ogni cosa dal pittore che gli
aveva dipinto le vòlte di alcune stanze.
Schiaccianoci lo trovò lì, in atto di far uno schizzo col lapis, sotto gli occhi dell' avvocato
che approvava; quattro sgorbi. E l'avvocato diceva: — Bene! benissimo! È quel che ci vuole!
Quattro sgorbi! —
Gli parve un tradimento, e gli salirono le lagrime agli occhi. Si allontanò zitto zitto, corse su
dalla signora e non sapeva come dirle quel che aveva veduto.
— Si sente male? — gli domandò la signora Marsili.
— Niente, signora mia! Sono uno stupido! Sento l'affronto come se io facessi il mestiere di
pittore. Il signor avvocato ha ragione….. Però..... però, forse, certi sgorbi avrei saputi farli anch'io; e
il signor avvocato non avrebbe speso un centesimo, no, cioè..... quelli dei colori soltanto.....
— Ah, povero Schiaccianoci! Povero Michelaccio! —
La signora rideva; ma era assai commossa, e ne parlò al marito.
— Davvero? — esclamò l'avvocato. — Bambina mia, però, capisci, dovendo fare una cosa
come questa, è meglio, capisci? Non è Bazzani, lo so, ma non è neppure Schiaccianoci; è pittore di
camere, e un po' il suo mestiere lo sa. Capisci? Io la penso così: o fare una cosa come va fatta, o non
farla punto.
— Ma non capisci? (La signora canzonava il marito per quell'intercalare: «Capisci?» che egli
usava a ogni quattro parole). Ma non capisci, caro mio, che noi facciamo un teatro non pel pubblico,
ma pei nostri bambini? E quando essi sapranno che il pittore non è più Schiaccianoci, sentirai tu che
strilli! Quel povero Federico è così addolorato di questo affronto....
— Affronto! È buffo; capisci! —
L'avvocato quasi ci si stizziva. E, tutt'a un tratto, disse:
— Vi contentate delle sconciature di Schiaccianoci? E fategli fare quel che vi pare e piace!
Io me ne lavo le mani! —
Avutane la notizia, Schiaccianoci pianse; e baciò parecchie volte la mano della signora,
ripetendo:
— Grazie! grazie!... Non è per vanità, signora mia! Ma in una cosa dei vostri bambini..... che
fa tanto piacere ai vostri bambini..... che vuole!... mi pare che non ci debba mettere le mani nessuno
di fuori della famiglia..... Io sono il loro buon servitore..... Sono come della famiglia..... Dico bene,
signora?
E un'ora dopo, menava allegramente su e giù un pennellone per dar la prima mano di tinta; e
lo menava così coscienziosamente, che cavava fuori la lingua a ogni tirata in su e in giù, quasi
credesse, facendo a quel modo, di dar più consistenza al lavoro.
Schiaccianoci aveva avuto una splendida idea, quasi un colpo di genio; e questo colpo di
genio gli era venuto una notte che non poteva chiudere occhio per via di quella fissazione che nel
teatrino di casa Marsili non doveva metterci mano nessuno di fuori. Egli aveva esteso questa specie
di divieto anche alla commedia da rappresentarsi o per lo meno alla prima commedia che doveva
inaugurarlo. Ora che la parte materiale era allestita di tutto punto, e lui, povero copista, aveva avuto
il piacere, la soddisfazione di ricevere le congratulazioni dell'avvocato pel modo con cui se l'era
cavata nel decorare il teatrino e nel dipingere le scene, ora il suo tormento era la commedia che
avrebbe voluto scrivere, e per la quale intanto non sapeva da che parte rifarsi.
Con quella dei burattini, aveva fatto presto. Bella forza! si era messo a copiare, di memoria,
una vera farsa da burattini, non senza aggiungervi qualcosa di suo, raffazzonando qua,
raffazzonando là; ed era riuscito a fare un pasticcetto passabile. I bambini avevano riso tanto! E
anche la signora! E anche l'avvocato! Aveva riso anche lui, leggendola e vedendo ridere gli altri!
Ma una commedia con personaggi di carne e di ossa.... Corbezzoli! Era matto?
Qui gli venne in mente la riflessione:
— Infine, i personaggi di carne e di ossa che fanno di diverso dai burattini? Non sono,
spesso spesso, più burattini di quelli?
E fu il lampo di genio che lo fece saltare giù dal letto.
Accesa la candela, cavò fuori dalla cassetta del tavolino il manoscritto delle Nozze di
Pulcinella, e cominciò a leggere ad alta voce:
— Scena prima. PULCINELLA SOLO. Come diamine farò! Io voglio sposare a ogni costo
Colombina, che ha una bella dote. Ma il signor Pantalone è un vecchio volpone e un avaraccio che
non vorrà mai darla a uno spiantato come me!...
E si fermò.
— Ebbene, e se invece di Pulcinella solo fosse qui scritto per esempio, Carlo solo! O che
guasterebbe? Come diamine farò? Io voglio sposare a ogni costo..... la signorina Elisa che ha una
bella dote. Ma il signor Procacci è un vecchio volpone e un avaraccio che non vorrà mai darla a
uno spiantato come me!...
Si fermò di nuovo, diè una stropicciatina alle mani, ed esclamò:
— Non fa una grinza! —
E riprese a declamare; ma questa volta facendo a voce le mutazioni opportune. Tutto era
andato a vele gonfie fino alla scena capitale del tiritac! tiritoc! tiritac! cioè delle legnate che
Pulcinella dava ad Arlecchino e che poco dopo Arlecchino restituiva, con lo stesso strattagemma, a
Pulcinella.
II povero Schiaccianoci sentì cascarsi le braccia! La difficoltà, a prima vista, gli parve
proprio insormontabile. Va bene che le persone di carne e di ossa facciano, spesso spesso, anche
peggio dei burattini, non contentandosi di fare da burattini addirittura; ma le legnate, tiritac! tiritoc!
tiritac! non se le dànno più. Per questo i burattini hanno le teste di legno; le persone di carne e di
ossa.....
— Si sfidano a duello! C'è burattinata peggiore? —
E Schiaccianoci non potè contenersi, e diè tre salti che fecero ballare l'impiantito della
cameretta e tintinnire un bicchiere e una tazza sul cassettone.
— È trovata! è trovata! —
Senza por tempo in mezzo, si mise a ricopiare il manoscritto; e all'ora di andare allo studio,
aveva già la copia bell'e pulita in tasca. Povero Schiaccianoci!
Questa volta però l'affronto, com'egli diceva, non gli venne dall'avvocato, ma dai bambini.
Quelli stessi che avevano tanto riso al tiritac! tiritoc! tiritac! di Pulcinella e di Arlecchino, rimasero
freddi freddi alla scena del duello su cui Schiaccianoci contava tanto. Eppure l'aveva letta con
grand'enfasi:
CARLO. Signore! GIULIO. Signore! CARLO. Uno di noi due è di più in questo mondo. GIULIO.
Voi, signore! CARLO. No. Voi, signore! Eccovi la mia carta. GIULIO. Eccovi la mia! CARLO. Usciamo.
Giulio. Uscite, vi seguo. CARLO. Vado a prendere le spade. V'infilzerò come un salsicciotto! GIULIO.
Ed io come un merlotto! IL SIGNOR PROCACCI. Andeve a farvi mazzà fuori di chi!...
Questo tratto del fantasticissimo veneziano di Pantalone, Schiaccianoci non aveva avuto
cuore di sacrificarlo: gli pareva che i bambini avrebbero dovuto scoppiar dalle risa, e invece
avevano esclamato in coro:
— Ma che! Non ci piace! Il maestro ci ha dato una commediola del Coletti.... E non c'è
donne!
— Faremo tutti da primi uomini! — esclamò Nando ringalluzzito.
— E tu da suggeritore, — conchiuse Rino.
Schiaccianoci si rassegnò, poichè i bambini erano più contenti dell'altra commediola che non
della sua. Egli aveva sognato la gloria di autore comico unicamente per far piacere a loro. Avrebbe
fatto da suggeritore, ma anche da direttore scenico, pensava.
Invece una mattina, all'ora della prova, vide arrivare il maestro, un vecchio prete, che
cominciò a farla sùbito da direttore, quasi fosse stato il Salvini in persona. Il povero Schiaccianoci si
contorceva su la seggiola, in un canto del palcoscenico; e più che suggerire, masticava le parole,
osservando gli spropositi che quegli insegnava ai bambini. O che si figurava costui? che dovessero
predicare?
— Non si voltano le spalle al pubblico — disse a Rino il prete.
— Scusi! — non potè trattenersi dal rispondere Schiaccianoci per Rino.
Il prete lo guardò con cert'aria altera quasi intendesse domandargli: Chi è lei che ci mette
bocca?
— Scusi..... ripetè Schiaccianoci. — Anzi, quando occorre, ora si voltano le spalle al
pubblico. Rino, scusi, non parla mica con la platea, parla con suo cugino Carletto, che è lì in fondo
alla camera....
— Lei faccia il suggeritore! — interruppe il prete, tornando a ripetere sentenziosamente:
— Non si voltano le spalle al pubblico; è cattiva educazione. —
Schiaccianoci stette zitto per non compromettere l'autorità del maestro davanti ai bambini;
ma quando arrivò l'avvocato, dopo che il prete era andato via, si sfogò con lui:
— Signor avvocato mio, così si farà un pasticcio! Io sono una bestia, e colui è prete e
maestro, non c'è che dire; ma egli può insegnarmi la grammatica e la filosofia e la teologia, non
come si deve recitare. Ho fatto due anni il dilettante, e vedevo e osservavo come facevano gli altri
che ne sapevano più di me: e sono andato spessissimo a teatro — lassù, nel lubbione; e allora non
cenavo per pagare il biglietto — ed ho visto Salvini, Ernesto Rossi, Dominici, Cesare Rossi,
Sciosciammocca, Novelli, Vitaliani, i meglio attori.... e, altro se voltavano le spalle al pubblico!
Altro!... Non rida, signor avvocato mio! —
L' avvocato rideva per quell'insalata di attori che Schiaccianoci avea fatto.
— E poi, o che si fa un gesto a ogni parola? se dico: cuore, toccarsi il petto! Se nomino il
cielo, appuntare il dito lassù! Se la terra, appuntarlo giù! Dica, dica lei; sono una bestia, un povero
copista, sono Schiaccianoci suo servo umilissimo.... ma dica, dica se ho ragione! —
L'avvocato rideva rideva e gli dava ragione crollando la testa. I bambini, aggruppati attorno a
Schiaccianoci sul palcoscenico, guardavano ora il babbo, ora lui.
— Insomma, come dobbiamo fare? — domandò Rino.
— Fate come vi dice il vostro Salvini — rispose il babbo — e ricominciate da capo. Io sarò
il pubblico.
— A posto! Scena 1
a
— gridò Schiaccianoci che non istava nella pelle.
La commediola del Coletti aveva appunto cinque personaggi, e i bambini erano orgogliosi di
esser essi i soli attori.
Alla vigilia dell'inaugurazione Schiaccianoci mantenne la promessa: fece un cartellone co'
fiocchi, che fu appiccato al portone del magazzino. La gente si fermava a guardare; ed egli, che
sorvegliava il facchino da cui venivano portate giù le seggiole per gl'invitati, dava spiegazioni, e
permetteva che i curiosi affacciassero la testa dall'uscio socchiuso, per vedere che bellezza di
teatrino egli avea dipinto.
— Quanto si paga per entrare? — aveva domandato qualcuno.
— Niente, sciocco! È per divertimento dei nostri bambini! —
La sera della prima rappresentazione, quando Schiaccianoci andò a rannicchiarsi nella buca
del suggeritore, dove le sue gambe troppo lunghe lo facevano stare molto a disagio, era così
commosso e aveva gli occhi così appannati dalle lagrime, che guai se i bambini avessero dovuto
aspettare l'imbeccata da lui!
Per buona sorte, l'avvocato aveva preparato coi suoi più intimi amici una bella dimostrazione
a Schiaccianoci, pittore ornamentista e scenografo. All'alzarsi del sipario, scoppiarono gli applausi:
— Fuori lo scenografo! fuori Fiorini! —
E non mancò qualche grido di: — Fuori Schiaccianoci! —
Schiaccianoci dovette mostrarsi al pubblico, e non potendo comodamente uscir dalla buca,
con una mano tolse via la cuffia e scattò fuori, come un babau, asciugandosi i lucciconi, ridendo con
una specie di convulso, accennando con una mano ai due bambini che doveva recitare la prima
scena, ed erano rimasti là, quasi interdetti dall'inaspettato scoppio di applausi. Portava l'altra mano
al cuore e crollava la testa in maniera così buffa, che l'ilarità del pubblico si sarebbe prolungata, se
qualcuno non avesse zittito per imporre silenzio.
La rappresentazione andò a meraviglia. L'avvocato, senza parere, assistendo alle prove e
facendo ripetere i bambini in casa, dopo colazione e dopo desinare, aveva contribuito a rendere quei
suoi demonietti così padroni della loro parte, che quella sera non sembrava di sentirli recitare, ma di
assistere a una scena reale della vita fanciullesca. Voleva però lasciarne tutto il merito a
Schiaccianoci, poverino, che gli aveva dato una nuova prova di affezione; e perciò, senza farne
trapelar niente ai bambini, aveva fatto preparare una corona di alloro con un bel nastro, sul quale era
incollata a lettere d' oro l' iscrizione: Al loro scenografo e direttore i bambini Marsili.
All'ultima scena gli applausi tornarono a scoppiare fragorosissimi; parecchie signore, non
potendo applaudire perchè dovevano portare i fazzoletti agli occhi, gridavano:
— Bravi! bravi! —
Comparve in quel punto la corona portata da un altro copista, collega straordinario di
Schiaccianoci. Il quale dalla buca, non potendo intendere che cosa fosse accaduto da provocare tutt'a
un tratto quella violenta ripresa di urli e di applausi, nè resistendo alla curiosità, fece come aveva
fatto prima: rimosse la cuffia e rizzò la testa voltandosi per guardare in platea.
Rino, Nando e Lelio alla vista della corona parevano impazziti dalla gioia. E mentre Rino la
posava sulla testa di Schiaccianoci che si schermiva invano, Lelio, il più birichino dei bambini, gli
si aggrappò al collo e, aiutato da Nando, gli si mise a cavalcioni su le spalle.
Fu un delirio di applausi!
E questa volta Schiaccianoci, pur intendendo che il pubblico voleva un po' divertirsi alle sue
spalle, vedendosi sul palcoscenico fra i suoi cari bambini, quantunque avesse più che la metà della
persona sprofondata nella buca, si diè a baciarli e abbracciarli, ridendo e piangendo.
— Bravi! bravi! —
E faceva certe mosse esagerate, quasi smorfie, per farli ridere di più.
Mai, mai Schiaccianoci non era stato felice come in quel momento.
UNA BUGIA
Ernesto cominciava già a rassicurarsi; erano passate tre settimane, tre terribili settimane, e
nessuno s'era accorto della mancanza del cucchiaio d'argento da lui rotto.
Egli lo avea riposto in fondo a una cassetta dell'armadio di camera sua, involtato in mezzo
giornale; e durante quei giorni non aveva osato di aprirla neppure una volta, per paura di essere
sorpreso in quell'atto dalla mamma, a cui non piaceva che si frugasse nei mobili.
Era pentito di averlo nascosto; ma nel turbamento della disgrazia, dopo che s'era messo in
testa di piegare il cucchiaio quasi fosse stato di legno flessibile, la paura di essere sgridato e
castigato gli aveva sùbito suggerito quell'espediente. Ora rifletteva che sarebbe stato meglio
lasciarlo là, sul tavolino, dove l'aveva trovato quel giorno che gli era venuta la brutta tentazione di
mettersi a giocare con esso.
Chi gliel'avea visto rompere? Nessuno. Se avessero sospettato di lui — sospettavano sempre
di lui quando si trattava di qualche rottura! — egli avrebbe potuto francamente negare e fare, se
occorreva, un giuramento pur d'evitare una punizione. Da qualche tempo in qua, babbo, mamma, zia
ce l'avevano, tutti, con lui. Pareva destino ch'egli dovesse rompere qualunque oggetto gli capitasse
alle mani.
— O che poteva farci?
Si scusava così della sua sbadataggine, invece di pensare a stare attento e di sforzarsi a
maneggiare le cose con le debite precauzioni.
Quel cucchiaio rotto e nascosto gli aveva fatto passare cattive giornate e peggiori nottate. Lo
sognava. Gli pareva che si agitasse e tintinnisse di fondo alla cassetta per farsi sentire, e avvertire la
mamma: — Mi ha spezzato Ernesto e mi ha riposto qui! — E si svegliava di soprassalto, sbarrando
gli occhi, tendendo l'orecchio nel silenzio della notte, quasi il cucchiaio avesse potuto davvero
agitarsi e tintinnire in fondo alla cassetta.
Ma nessuno lo cercava, nessuno ne parlava; neppure Betta, la nuova servotta arrivata dalla
campagna un mese addietro, e che con l'argenteria era meticolosa assai, e la rassegnava e la contava
e la ricontava, dopo che l'aveva lavata e ripulita e asciugata, prima di riconsegnarla alla padrona.
Ed egli fantasticava, più e più rassicurandosi:
— Un giorno prenderò quel cucchiaio e confesserò la mia colpa; ma dirò anche: Vedete?
Nessuno si è accorto che mancava un cucchiaio. Siete sbadati anche voialtri!
Così forse non lo avrebbero castigato.
Ma una mattina sentì la mamma che diceva a Betta
— Cerca bene in cucina; manca un cucchiaio. —
Cacciò fuori la lingua per significare: Ci siamo! e corse in camera sua, a fine di sfuggire a
un'interrogazione. Il cuore gli batteva forte; non avrebbe saputo mentire, preso così alla sprovvista.
In camera, aperse un libro, finse di leggere e intanto preparava mentalmente le risposte da dare.
Infatti poco dopo capitò la mamma.
— Ernesto, hai preso tu un cucchiaio di argento?
— Io? Per che scopo?
— Dove l'hai riposto?
La mamma, sapendo con chi avesse da fare, aveva soggiunto quella domanda a bruciapelo.
Ernesto, con voce indignata, protestò:
— Ma io non so di cucchiaio, nè di forchetta! —
Sopraggiunse la zia.
— Ah! Lo ha preso lui?
— Dice di no, — rispose la signora. E soggiunse: — È strano; in casa nostra non è mai
mancato niente.
— Betta, piange in cucina — rispose la zia.
— Chi l'accusa? — disse la signora. — Questo mi fa sospettare. —
Ernesto, con gli occhi sul libro, vedeva ballare le lettere e non poteva leggere una sola
parola.
— Si troverà.... — borbottò, affettando indifferenza.
Ma quell'indifferenza non capacitava la zia.
— Cercalo tu! — gli disse con intonazione un po' ironica.
— O che si mangia un cucchiaio? Che ne avrei dovuto fare? Se lo avessi preso io, sarei
tornato a riporlo.
— Torna a riporlo, — insistette la zia con lo stesso tono di prima.
Ernesto si sentì montare le fiamme al viso, si vide scoperto e dette in uno scoppio di pianto.
—Ecco! Ce l'avete tutti con me! —
Mamma e zia lo lasciarono in pace.
Quella mattina la casa fu sossopra; con la signora non si scherzava, nè la zia canzonava,
trattandosi d'argenteria.
Il babbo se la prendeva con le donne che non volevano sentir parlare di posate di metallo
bianco o argentate, quasi in tutte le famiglie, anche ricchissime, non si usassero queste pei giorni
ordinari. Anche lui sospettava di Betta, che piangeva in cucina.
Ernesto, incaponito e indurito, aveva avuto la sfacciataggine di presentarsi in salotto, dove
babbo, mamma e zia deliberavano il licenziamento della servotta.
— Potrei farla arrestare, — diceva il babbo. — Ma, per non aver seccature con la questura
nè con la giustizia, preferisco mandarla via. Peccato ! Pareva una persona onesta. —
Betta, con gli occhi rossi e col viso ancora bagnato di lagrime, venne a dire:
— Non lo trovo.
— Basta, — disse il signor Bindi. — Io trovo, invece, che sarà meglio che tu ti cerchi un
altro padrone.
— Mi credono una ladra? — piagnucolò la poverina atterrita.
— No, figliuola cara; ma io, quando mi accadono questi casi, faccio così. —
Betta cominciò a strapparsi i capelli, a graffiarsi la faccia:
— Ah, mamma mia! Ah, mamma mia! —
Ernesto stava lì, con le mani in tasca, arcigno, col cuore più indurito che mai.
Se avesse parlato ora, il castigo sarebbe stato più forte, pensava.
Ma Betta non voleva andarsene; gridava, piangeva, pareva presa da furore contro sè stessa; e
i suoi padroni, si guardavano in viso, scossi, turbati.
— È inutile che tu urli, — disse il signor Bindi; — se non si trova il cucchiaio.... —
E guardò in faccia al figliuolo, quasi per distrarsi dalla vista di quella meschina, che non
sentiva e urlava e piangeva e si strappava i capelli. Vedendolo pallido pallido, si alzò dalla seggiola,
lo afferrò per un braccio, e scotendolo con violenza gli gridò:
— Va' a prendere il cucchiaio!
— Mah... — balbettò Ernesto.
— Sùbito! — gli ordinò il babbo, che ormai era certo di avere indovinato.
Ernesto non si muoveva.
— Sùbito! — ripetè il signor Bindi.
— L' ho rotto! — balbettò Ernesto che non ne poteva più.
E i singhiozzi gl'impedirono di proseguire.
La zia lo prese per mano, e con voce insinuante gli disse:
— Via, conducimi; non sarai castigato. —
La condusse davanti la cassetta dell'armadio.
— È lì!.... L'ho rotto.... per caso — singhiozzava.
— Bugiardo! — lo rimproverò la mamma, quando lui e la zia tornarono in salotto col
cucchiaio in due pezzi.
— Domanda perdono a quella poverina, in ginocchio! — gli disse il babbo severamente.
Betta, abbracciandolo e baciandolo, cercava di difenderlo, d'impedire l'atto umiliante, e
pregava il padrone
— Un'altra volta non lo farà più! —
Il signor Bindi fu inesorabile. Ed Ernesto, in ginocchio, davanti alla servotta, dovette dirle:
— Perdono! Perdono! —
Ma da quel giorno in poi, quando gli capitava — e, pareva proprio destino, gli capitava
spesso — di spezzare un oggetto, cercava sùbito del babbo, o della mamma o della zia e, senza che
glielo domandassero, confessava spontaneamente
— Ho spezzato questo! —
LA NONNA
I
— La nonna! —
La chiamavano tutti così, anche coloro che la conoscevano appena, e le volevano bene tutti,
anche coloro che la conoscevano soltanto di vista e di nome. Bastava vedere quella rubizza
vecchina, con gli abbondanti capelli bianchissimi che le facevano un'aureola di argento attorno a la
testa, vestita di nero con dignitosa eleganza, sempre circondata da un allegro nugolo di nipotini, per
sentirsi riempire sùbito il cuore di rispettosa tenerezza.
Magra, bruna, piena di rughe, con occhi ancora belli non ostante i suoi settantatrè anni, con
bocca anche più bella quando sorrideva o benevolmente ammoniva, con mani scarne sì ma piccole e
delicate, svelta e vivace tuttavia nei movimenti, nei gesti, nella parola, la signora Adelaide Tocci-
Memili, ogni volta che compariva nei salotti del figlio o del genero, strappava un grido di
ammirazione fino ai giovinotti che non sogliono avere molti riguardi per la vecchiezza.
Come doveva essere stata bella in gioventù!
— È più giovane di noi! — dicevano la figlia e la nuora.
Infatti i bambini, appena la vedevano arrivare, cessavano di fare il chiasso e le si radunavano
attorno, solleciti soltanto di averne i baci, le carezze e di sentirla parlare. I piccini le si
arrampicavano addosso, le cingevano il collo coi braccini; gli altri le facevano corona, sorridenti,
lieti di averla in mezzo a loro quasi fosse una bambina loro pari, e si aggrappavano alla veste, alle
mani di lei chiamandola: Nonnetta! Nonnina! Nonnettina! con accento più vezzeggiativo della
parola; e se la contendevano appena si moveva per la casa; e mettevano il broncio se la nonnetta, la
nonnina, la nonnettina, un po' stordita dalla festosa accoglienza, non aveva badato abbastanza alle
dimostrazioni di affetto di qualcuno di loro.
— Nonna, non mi vuoi più bene?
— Ma sì, carina!
— Nonnetta, perchè non mi hai fatto una carezza?
— Eccola; siete tanti, bambino mio; mi confondo.
— E a me non mi dici niente, nonnina?
— Ti dico che sei bella: sei contenta? —
E sorrideva, e accarezzava, e tornava a baciare, e aveva una parolina dolce per questo,
un'occhiata affettuosa per quella, un cenno per quell'altro, un gesto gentile per qualcuna che
rimaneva un po' indietro e non riusciva a farsi largo fra i più vivaci.
— Resti a desinare con noi?
— Se la vostra mamma mi vuole.
— Ti vogliamo noi, nonnina! — urlavano tutti in coro.
Allora ella soleva aggiungere:
— La mamma dice che non ce n'è a sufficienza anche per me.
— Ti cedo la mia parte.
— La mia!
— La mia! —
Era una gara chiassosa che divertiva sempre i bambini, quantunque sapessero che la nonna
dicesse così per ischerzo.
Viveva sola, in casa propria, per non destar gelosia tra il figlio e la figlia, tra il genero e la
nuora, i quali, un po' per affetto, un po' per interesse, avrebbero voluto indurla ad abitare insieme
con loro.
— Non posso dividermi, e perciò sto qui. E poi, voglio la mia libertà — ella rispondeva
sorridendo alle sollecitazioni del figlio e della figlia, che non lasciavano mai sfuggirsi la più piccola
occasione per tornare all'assalto.
— Sono sana, robusta, e non sono rimbambita; ho una serva che sta con me da quarant' anni,
un servitore che è invecchiato in casa mia, e non ho punta fretta di morire. Ci sto bene in questo
mondo, ci sono stata sempre bene, grazie a Dio. Ho anche dei difettucci, qualche innocente
debolezza di vecchia, e che non può garbare a tutti; ho abitudini di altri tempi che mi piace
conservare; e mi renderei incresciosa in casa vostra, dove vivete alla moderna. Io, per esempio,
voglio vedere i miei vecchi mobili attorno a me: non sono belli ma mi ricordano tante cose. Quando
vengo da voi, mi sento spostata. Che posso farci? Sono così, e sarebbe inutile tentar di mutarmi.
Parlava con voce dolce, persuasiva, non senza un lieve accento di tristezza, perchè in quella
gara di offerte e di preghiere che facevano figlio e nuora, figlia e genero, ella scorgeva che non si
trattava soltanto di affetto, ma anche d'interesse, e prevedeva il male che avrebbe fatto consentendo
di abitare insieme col figlio o con la figlia, poichè non poteva farsi in due parti uguali e contentare
tutti e due in una volta.
Quando si era accorta che anche tra i nipotini si faceva strada un senso di interessata gelosia,
forse perchè avevano udito certi discorsi in famiglia, proibì assolutamente al figlio, alla figlia, alla
nuora e al genero di riparlare più mai di quella loro sciocca proposta. E un giorno che Gabriele, il
primogenito del figlio, aveva mostrato di pretendere qualcosa di particolare dalla nonna, e che non
doveva essere concessa ai cuginetti, perchè quelli non si chiamavano con lo stesso cognome, ella
era stata molto severa con lui, tanto che il bambino si era messo a piangere ed era andato a dire al
babbo che la nonna non gli voleva più bene.
Occorse un'ultima spiegazione, e da allora in poi la nonna fu lasciata in pace.
Andava a giorni fissi, in casa del figlio e della figlia. Riuniva le due famiglie in casa sua
nelle grandi solennità del Natale, del capo d'anno, della Pasqua, dell'onomastico e del compleanno;
le invitava nel settembre, per una quindicina di giorni, in campagna in una bella villa portata in dote
da lei al marito e dove ella passava, tutti gli anni, l'estate; non faceva un regalo a una delle due
famiglie senza farne uno identico, e lo stesso giorno, all'altra; e sarebbe morta contenta di esser
riuscita nella difficile impresa di mantenere la pace e l'armonia tra quelle persone a lei care, se non
fosse avvenuto un caso che fece crollare improvvisamente il bel congegno da lei tessuto e tenuto su
con tanta cura.
La nonna aveva preso marito un po' tardi, a trentacinque anni, e i figli erano venuti un po'
tardi anch'essi. Il marito era morto pochi anni dopo il matrimonio della figlia e quando il figlio già
avvocato e con tante belle speranze di fortuna, pensava anche lui a crearsi una famiglia.
La nonna soleva dire
— Tutto vien tardi in casa nostra, ma per compenso tutto dura più a lungo; guardate me. —
Si compiaceva della sua vegeta vecchiezza; era felice dell'affetto e del rispetto dei figli, della
nuora e del genero, ed era matta a dirittura, lo ripeteva spesso, dei nipotini.
D'un avvenimento doloroso di casa sua ella non parlava mai, ma ci pensava sempre. Una
delle sue figliuole aveva voluto fare un matrimonio capriccioso, senza curarsi degli avvertimenti e
dei consigli dei genitori, e il babbo e la mamma l'avevano abbandonata alla triste sorte che ella
aveva scelto. Quella figliuola era stata considerata come morta. La nonna, quand'era sola, specie la
sera, a letto, e nelle notti che non poteva prender sonno, piangeva della disgrazia della sua infelice
creatura, si rimproverava la sua eccessiva rigidezza, ma voleva mantenere la promessa fatta al
marito al letto di morte, di non permettere che quella cattiva figliuola mettesse più piede in casa
loro. Eppure la povera signora si sarebbe lasciata indurre a venir meno a quella promessa, e a
perdonare, se la disgraziata non fosse stata orgogliosa e non si fosse ostinata a soffrire, a morire di
fame, piuttosto che umiliarsi. Veramente questo suo orgoglio non riguardava tanto la mamma,
quanto il fratello e la sorella che si erano mostrati quasi crudeli con lei.
— Mi tengono per morta? Voglio essere come morta davvero! —
Or un giorno la nonna ricevette una lettera, raccomandata con francobolli stranieri, e con la
soprascritta di una mano che non riconosceva.
La lettera diceva così:
« Mamma mia,
«Fra qualche giorno non sarò più. Morrò senza il tuo perdono. Le mie sventure, le mie
sofferenze mi hanno punita abbastanza; mi sento quasi perdonata. Lascio una creaturina di dodici
anni, che porta quasi il tuo nome e che è anche sangue tuo. Raccomando a te la povera orfanella. Io
sono stata disubbidiente; ma questa creaturina non ha fatto male a nessuno. Non punirla per colpa
della mamma! Gli ultimi miei aneliti di vita saranno un ringraziamento e una preghiera per te....»
La nonna dovette interrompere la lettura; le lagrime le impedivano di andare avanti. Si
inginocchiò dinanzi il quadro della Madonna, chiese perdono della durezza mostrata verso la figlia;
poi andò in salotto dov'era un bel ritratto del marito, gli parlò, quasi fosse stato vivo, e le parve di
sentirlo rispondere dentro il suo stesso cuore. Si asciugò le lagrime, non disse niente a nessuno:
chiamò il vecchio servitore, gli diede le istruzioni necessarie, il danaro occorrente e lo fece partire lo
stesso giorno per andare a prendere la bambina.
Solamente, un giorno essendo a pranzo dal figliuolo, e parlando del proprio onomastico che
sarebbe stato fra pochi giorni, si lasciò scappare di bocca, rivolta ai nipotini:
— Vedrete che bel regalo vi farò quel giorno!
— Che regalo, nonnina! Anche ai cugini?
— A tutti, a tutti; vedrete.
Non volle dir altro.
In quei quattro giorni i bambini smaniarono di curiosità, tentavano tutti i mezzi per
strapparle il segreto. E siccome Matilde, insistendo più degli altri, voleva almeno sapere se il regalo
per lei sarebbe stato una bella bambola, la nonna, le disse:
— Sì, una bambola che parla, che si muove, che mangia e che sa fare tante cosine meglio di
te.
— E a me? — domandò allora Gabriele.
— E a me?
— E a me? —
Tutti le erano d'attorno con baci, carezze, moine, preghiere.
— Sarà un unico regalo, per tutti!
— E come faremo a divertirci tutti con una sola bambola?
— Ve lo insegnerò poi.
— Dovrò baloccarmi con la bambola anche io? — disse Gabriele, che voleva fare l'omino.
— Certamente; e ne sarai più contento degli altri. —
E vedendola sorridere, e nello stesso tempo asciugarsi gli occhi riempiti improvvisamente di
lagrime, i nepotini erano rimasti dubbiosi se dovevano credere o no, e la loro curiosità era diventata
impazienza importuna; volevano, a ogni costo, dai loro babbi e dalle loro mamme, la spiegazione
dell'indovinello.
Matilde, che era la più smaniosa, si credeva burlata:
— Babbo, può mai essere? Una bambola che parla, che si move, che mangia e che sa fare
tante cosine meglio di me?
— La nonna non dice bugie — le rispose il babbo serio serio, non sospettando affatto di
affermare proprio la verità.
La notte precedente l'onomastico, i bambini non chiusero occhio. Da un lettino all'altro si
domandavano
— Che sarà? —
E nessuno di loro trovava una spiegazione soddisfacente.
II.
Nel salotto, tutto pieno di fiori, i fanciulli che avevano presentato cómpiti e recitato poesie di
occasione in onore della nonna, erano raccolti davanti la poltrona dov'ella sedeva, zitti zitti, ansiosi
di vederle mantenere la promessa. Si davano gomitatine, si facevano cenni, rivolgevano occhiate
interrogative ai loro genitori, che si divertivano di quegli atti e di quel mistero.
Tutt'a un tratto la nonna si alzò da sedere e con voce commossa disse:
— Aspettate qui; vado a prendere il mio regalo. —
E uscì dal salotto, tirandosi dietro l'uscio.
Nessuno fiatò in quei pochi minuti di aspettazione, nessuno si mosse. E quando ricomparve
su l'uscio la nonna con le lagrime che le rigavano la faccia, tenendo una lettera in una mano e
tirandosi dietro con l'altra una bambina vestita di nero, pallidina, magrina, con lunghi capelli biondi
spioventi su le spalle e i grandi occhi cilestri pieni di stupore, la maggior sorpresa e la maggior
meraviglia non furono quelle dei bambini.
La nonna si avanzò verso il figlio, e gli porse la lettera, balbettando:
— Leggi, Roberto; leggi ad alta voce. —
E mentre quegli leggeva, ella baciava la bambina e le inondava la faccia di lacrime.
Nè l'avvocato nè sua moglie, nè la figlia nè il genero dissero parola quando la lettura fu
finita. I bambini, naturalmente, non capivano niente, non avendo mai sentito parlare di colei che si
era firmata: la tua infelice figlia Lucia.
— Ho fatto bene? — domandò la nonna.
— Tutto quello che tu fai è ben fatto — confermarono gli altri.
C'era un che di glaciale in quelle risposte, ma poteva benissimo attribuirsi alla sorpresa. E
infatti la nonna non ci badò punto, e spingendo la bambina fra i nipotini, disse:
— È vostra cuginetta; abbracciatela, baciatela e vogliatele bene. —
I bambini, un po' delusi, non fecero sùbito gran festa alla nuova arrivata. Ma appena la
nonna disse loro: — Andate in giardino a fare il chiasso, — e Matilde prese pel braccio la cuginetta,
mentre Gabriele la prendeva per una mano, il ghiaccio fu presto rotto. Poco dopo, infatti, la nonna li
guardava dalla finestra e mandava loro dei baci, intenerita alla vista di quell'orfanella vestita di nero,
che si sforzava di mostrarsi lieta e di fare il chiasso come non aveva mai fatto in casa sua, dove non
aveva mai visto altro che miseria e tristezza, e dove era cresciuta, fino a pochi giorni addietro,
simile a una pianticina nata in un posto umido e freddo, non visitato mai da un raggio di sole.
Matilde, che aveva tredici anni ed era sveltissima d'intelligenza, aveva capito meglio di tutti
gli altri bambini la dolorosa storia della lettera udita leggere dallo zio; ma le rimanevano oscuri
molti particolari, e tornata a casa, la sera, volle interrogare la mamma.
— La zia Luisa era tua sorella?
— Sì.
— Perchè non ne ragionavi mai?
— Perchè la nonna non voleva che se ne ragionasse.
— Che cosa aveva fatto di male, da farsi scacciare di casa?
— Aveva preso marito.
— Anche tu hai preso marito.
— Ma io col consenso della mamma e del babbo, e lei con grave dispiacere di essi.
— Perchè?
— Perchè colui era povero in canna.
— L'esser povero è disgrazia non colpa. Era forse cattivo?
— Sì.
— Rubava?
— Oh, come sei sciocca! Troppe cose vuoi sapere.
— Ada mi ha detto che il suo babbo le voleva tanto bene.
— I figli non devono mai dir male dei propri genitori. E poi, che vuoi che ne sappia una
bambina? Va' a letto. —
Matilde però rimase poco persuasa e niente convinta delle ragioni della mamma. Cominciò a
fantasticare intorno ai gravi motivi che dovevano avere spinto i nonni a scacciar di casa una loro
figlia e non parlarne e non permetterne che se ne parlasse mai mai; e non sapendo immaginarne
neppur uno, e non riuscendo a spiegarsi perchè ora la nonna si era messa in casa la nipotina
orfanella e le voleva bene e voleva che i cugini le volessero bene, concluse che certe volte i grandi
forse non sanno nemmen loro quel che fanno, peggio dei piccini. Lei intanto avrebbe voluto bene
alla cuginetta non solamente perchè così voleva la nonna, ma anche perchè le piaceva, perchè le
pareva buona e perchè era tanto disgraziata, senza nè babbo nè mamma. Come era stato cattivo
Gabriele! Le aveva subito appiccicato il nomignolo alla poverina: La signorina Capelli-di-stoppa! E
gli altri avevano riso! Fortuna che la poverina non aveva udito. Lei, non l'avrebbe chiamata neppur
cuginetta, ma Ada, sempre Ada, per dimostrarle che le voleva bene.
E per tutta la notte si era arrabattata, in sogno, a difendere Ada dalle cattiverie di Gabriele e
degli altri, che le tiravano le trecce e la facevano arrabbiare e piangere chiamandola Capelli-di-
stoppa, che le toglievano di mano i giocattoli e non volevano che facesse il chiasso con loro.
Vedendo che, da sè sola, non riusciva a proteggere Ada, s'era messa a urlare chiamando: Nonna!
nonna! singhiozzando dal dispetto, e si era svegliata, contentissima di accorgersi che tutte quelle
brutte cose fossero state un sogno e niente altro.
La nonna, un po' stanca del tramenìo di quella giornata, prima di andare a letto, aveva preso
Ada per una mano e l'aveva condotta in salotto, dov'erano esposti i fiori e i regali ricevuti per
l'onomastico:
— Questa mattina — le disse — come avevo promesso, ti ho fatto il regalo di sette cuginetti;
ora, giacchè ti chiami Adelaide pure tu....
— Mi chiamo Ada — la interruppe la bambina.
— No, sei stata battezzata col mio stesso nome: ma io ti chiamerò Ada, non dubitare, come
ti chiamava la tua mamma.,..
— Mi piace pure il tuo nome, nonna, — si affrettò a dire la bambina, che non voleva farle
dispiacere.
— Adelaide è nome troppo lungo, da vecchia; e sta bene a me. Tu sei piccina e Ada è nome
piccino al pari di te.... Intanto, come ti dicevo, giacchè ti chiami Adelaide tu pure, regalo a te tutti
questi regali, che ti potranno servire quando sarai grande. Li conserverai in camera tua, in un
cassetto, anche per ricordo del primo onomastico della nonna a cui tu hai preso parte. Non saranno
molti, bambina mia, gli onomastici ai quali dovrai assistere. Sono vecchia e da un pezzo preparata e
pronta ad andarmene quando il Signore mi vorrà; ma ora che tu sei qui, vorrei andarmene quanto
più tardi si può, quando tu, poverina, non avrai più bisogno di me! Prendi tutto, sì, anche questo, e
anche quello; tutto!...
E aiutando la bambina esitante, tratteneva a stento le lacrime. Le pareva che ora ogni
pensiero, ogni atto di lei dovessero servire ad espiare e a riparare le durezza con cui ella aveva
trattato la figlia, madre di quella creaturina. E sorrideva, tra la commozione, con un che di malizia,
vedendo la bambina con le mani e le braccia impacciate da tante cose, scatolini, ventagli,
portamonete, porta-fazzoletti. Pensava che forse, anzi senza forse, la figlia e la nuora, il figlio e il
genero non le avrebbero regalato quegli oggetti d'oro chiusi negli scatolini, se non avessero saputo
che ella conserverebbe tutti i regali ricevuti da anni, e che nel suo testamento avrebbe stabilito che
ogni cosa fosse restituita a chi la aveva data, secondo le indicazioni scrittevi di sua mano. Per ciò
sorrideva, con un che di malizia; pensava che nè la figlia, nè il figlio nè il genero, nè la nuora
sarebbero stati contenti di vedere i regali di quel giorno in mano di Ada. Ma avevano da scontare
qualcosa anche loro per la sorella; erano stati crudeli anche loro contro di essa! E poichè non si
poteva più dare nessuna sodisfazione alla povera morta, doveva riparare il proprio e l'altrui torto
nella persona dell'orfanella.
— Sei contenta, Ada, di aver questi regali? sei contenta? — le domandava,
accompagnandola nella cameretta, quella stessa dove aveva dormito la sua mamma da bambina.
— Sì, nonna; grazie!
— E non dir niente a nessuno; neppure ai cuginetti — le avvertì. — Ripónili nell'ultimo
cassetto, in fondo, così. Hai sonno, carina? —
Non era sonno, ma sbalordimento che durava da parecchi giorni. Si era trovata, tutt'a un
tratto, sbalestrata da una situazione all'altra, da un paese all'altro, senza la mamma con cui era
vissuta fino allora, tra persone delle quali la mamma le aveva spesso parlato, ma che non aveva mai
viste: e la sua povera testina si era confusa, e il suo povero cuoricino turbato. Le pareva proprio di
sognare a occhi aperti. Dalla meschina cameretta, dove la sua cara mamma era morta, si trovava
trasportata, come per incanto, in quella cameretta pulita, ben arredata, di cui la mamma le aveva
parlato tante volte. Da quel villaggio svizzero, così triste, così freddo d'inverno, si vedeva
trasportata in Roma, sotto quel cielo così bello, e con quel sole così caldo, che le pareva la
vivificasse. Dalla miseria e dalla solitudine si vedeva nell'agiatezza, tra bambini suoi pari, ai quali
ella già voleva bene e che, pensava, le avrebbero voluto bene perchè avrebbe fatto ogni sforzo per
meritarselo.... Come non doveva sembrarle un sogno tutto questo? E ricordava spesso le fiabe
narratele dalla mamma durante le lunghe giornate, quando voleva tenerla tranquilla per terminare un
lavoro, che doveva darle da vivere o meglio da sfamarsi; ricordava le fate in sembianze di vecchine,
che poi si rivelavano giovani e belle, tutte raggianti; e in certi momenti si aspettava di veder la
nonna trasformarsi nello stesso modo. E la guardava, la guardava sbalordita, ansiosa, di assistere a
tal miracolo, battendo le palpebre con quel movimento che alla nonna era sembrato sintomo di
sonno.
III
— Ti ho regalato sette cuginetti — aveva detto la nonna. Infatti i suoi nipotini eran sette;
quattro, Gabriele, Andreotta, Gina e Rino, figli di Roberto; tre, Matilde, Riccardo e Lalla, figli del
signor Falconi che aveva sposato la bella Alessandrina; com'era chiamata quand'era ragazza, ed era
stata bella davvero.
Ora un po' ingrassata e impigrita, si mostrava trascurata alquanto della persona; ma era
orgogliosa che Matilde si avviasse già a riprodurre la mamma di mano in mano che cresceva con gli
anni, come le dicevano tutti. Per questo non invidiava al fratello quel bel ragazzo di Gabriele che
veniva su alto, asciutto, ben fatto, vivacissimo, impertinente. Quando faceva dei confronti, e li
faceva spesso, conchiudeva:
— Va'! Riccardo e Lalla valgono quanto Andreotta e Gina; non sono nè belli nè brutti: Rino
non conta, così piccino come ora è, e poi non promette di riuscire migliore degli altri. Ma Gabriele,
anche come maschio, non vale neppure metà della mia Matilde. —
E una volta che la cognata si lasciò scappar di bocca:
— Paiono fatti apposta l'uno per l'altra — ella rispose sùbito, quasi con stizza:
— Sono di caratteri così opposti! —
Infatti Matilde era la bontà in persona e Gabriele invece un soverchiatore arrogante. Matilde
però non cedeva mai quando il cugino voleva imporle i propri capricci nei giuochi che facevano
assieme. Se non poteva indurre gli altri a resistere, si tirava da parte, senza broncio, senza
ostentazione. Così qualche volta era riuscita a vincere l'ostinatezza di Gabriele, che perciò le aveva
dato il nomignolo di Gattamorta.
Quel ragazzo aveva addirittura la manìa dei nomignoli, tanto che se n'era appiccicato uno
anche per sè; si chiamava Sor Fatutto. E come ora aveva chiamato Ada La signorina Capelli-di-
stoppa, così Andreotta era Patata perchè corta e grassoccia; Gina, l'Ochetta perchè camminava un
po' dondolandosi; Riccardo, Giraffa perchè aveva il collo alquanto lungo; Lalla, Ficosecco perchè
magra e bruna di carnagione; anche Rino, che aveva appena quattro anni, non era stato risparmiato;
lo chiamava Porcellin-d'-oro perchè aveva capelli che parevano proprio d'oro, ed era spesso col viso
e con le mani molto sudici.
Andreotta era vanitosina e golosa: Gina, permalosa e bugiarda; Riccardo, interessato, quasi
avaro; Lalla, cocciuta e invidiosetta. Non sarebbero stati bene insieme un solo minuto, senza lo
spirito soverchiatore di Gabriele o la bontà conciliante di Matilde. Gabriele, pur di dominare, pur di
comandare sodisfaceva e l'avarizia di Riccardo e la golosità di Andreotta, e la permalosità di Gina, e
la cocciutaggine di Lalla.
— Ti dò un soldo nuovo, che par d'oro! —
E Riccardo cedeva.
— Avrai tre confetti e tre cioccolatini! —
E Andreotta stava zitta.
— Ebbene, sarai la prima tu a correre! —
E Gina si sentiva appagata.
— Vuoi così? E sia pure così! —
E Lalla non si ostinava più.
Leticava soltanto con Matilde, perchè Matilde capiva benissimo ch'egli faceva le viste di
cedere, ma quando il cedere gli tornava più comodo. E appena egli si accorgeva che era inutile di
spuntarla contro la cugina maggiore, le lanciava in viso un Gattamortaccia! sdegnoso, e si
rassegnava a fare il bravo e il soverchiatore con gli altri.
Il giorno dopo l'onomastico della nonna era giorno di vacanza, e perciò i bambini si
trovarono tutti in casa di lei, spinti dalla loro curiosità e secondati dai parenti che volevano, senza
parere, scoprir terreno intorno al contegno della nonna verso l'orfanella, da loro stimata un'intrusa.
La signora Memili dopo un lungo bisticciare col marito, che naturalmente difendeva sua
madre, aveva concluso:
— Vedrai come finirà! —
E i bambini, che erano stati ad ascoltare, avevano capito che Ada arrivava mal a proposito e
che nuoceva agli interessi della loro famiglia.
Il signor Bernardini poi, davanti alla moglie che stette zitta quantunque si trattasse di sua madre,
disse ai figliuoli in tono burbero, e calcando la voce su certe parole:
— E dalla nonna ora state più buoni di prima, altrimenti vorrà bene soltanto a quella là.
Avete capito? —
I bambini avevano capito più che il loro babbo non immaginasse, e Matilde n'era rimasta
così mortificata, che non si era potuta trattenere dal rispondere:
— La nonna ci vorrà sempre bene, egualmente!
— Zitta tu, sciocchina! — la sgridò il babbo.
Così ben preparati, la nonna aveva visti arrivare più presto del solito, primi i figliuoli della
figlia, poi quelli del figlio, e aveva sùbito notato che soltanto Matilde era corsa nella cameretta della
cugina e che gli altri stavano attorno a lei, chiamandola, al solito, nonnina! nonnetta! nonnettina!
affettuosamente, sì, ma con evidente intenzione di accaparrarsela, di volerla tutta per loro.
All'apparire di Matilde che conduceva Ada sottobraccio, i bambini si erano schierati attorno alla
nonna, quasi per impedire che la nuova cuginetta le si accostasse; ma la nonna li scostò con una
mano, spingendoli da parte e chiamò Ada e se la tirò tra i ginocchi per ravviarle i capelli e
domandarle:
— Vuoi fare il chiasso con loro?
— Se mi vogliono, sì, nonna. Ma io non so nessuno dei loro giuochi.
— Te l'insegnerò io — disse Matilde.
— Ah, già, lei è la maestra di tutto! — fece Gabriele torcendo le labbra con atto ironico.
— Se vuoi insegnarmi anche tu — disse Ada, sorridendogli.
— Andiamo — rispose Gabriele, senza degnarsi di farle capire se gli facesse piacere
insegnarle.
— Tu, Matilde, resta con me, un momentino.
— Sì, nonna. —
Si sentì per un istante il gran scalpiccìo e le allegre esclamazioni dei bambini che andavano,
quasi di corsa, nello stanzone in fondo, destinato a loro pei giuochi quando la cattiva stagione non
consentiva che andassero in giardino; e Matilde, vedendo Ada che non li seguiva, la spinse avanti:
— Va', ti raggiungo sùbito; giocherai con me, se ti annoierai con loro; va' va'!
— Com' è carina! E come è buona, è vero, nonna? Senti, nonna, tu devi volerle molto più
bene che non a noi; noi abbiamo i genitori, e lei è sola sola al mondo senza sorelline, senza
fratellini. Io non sarò invidiosa se le vorrai più bene di me; gliene voglio tanto io! Mi fa pietà!
— Tu sei un angelo! —
La nonna la baciò, l'abbracciò commossa, e soggiunse:
— Ora infilami tutti questi aghi, con refe diverso; io stento a infilarli anche con gli occhiali.
— Ada te li avrebbe saputi infilare, nonna. Ma son contenta d'infilarteli io questa volta. —
E si mise all' opera.
IV.
A un tratto s'udì un tonfo seguìto da grida e strilli, che venivano dallo stanzone in fondo.
— Qualche diavoleria di Gabriele! — esclamò la nonna.
— Vado a vedere! —
Su l'uscio, Matilde s'imbattè con Gina che tornava indietro di corsa, seguìta da Lalla.
— Che è stato?
— È stata l'Ada!...
— Ma che ha fatto?
— Ha rotto le ballerine!... —
Le ballerine erano una riproduzione in gesso delle tre Grazie del Canova, relegate sur un
vecchio piedistallo di mogano in un angolo dello stanzone.
Sopraggiungevano intanto Andreotta e Riccardo, e ultimi Gabriele e Ada.
— Come è avvenuto?
— Così. Io le volevo mostrare le ballerine come noi le chiamavamo; lei si è appoggiata al
piedistallo; io le dicevo: non ti appoggiare.... È vero che ti ho detto: non ti appoggiare? Ma lei si è
voltata per parlare con Lalla e le ballerine.... Ppùnfete!... In mille pezzi. Sentirai la nonna!... Le
erano tanto care! —
Gabriele aveva risposto lestamente, guardando spesso Ada per vedere se osasse smentirlo.
Ada, più pallida dell'ordinario, spalancava gli occhi pieni di lagrime e teneva le braccia e le mani un
po' alzate, quasi avesse voluto impedire, con quel modo, che Gabriele l'accusasse a torto. Era sicura
di non essersi appoggiata al piedistallo, di non essersi voltata per parlare con Lalla...; ma poichè tutti
affermavano ch'era stata lei, cominciava un po' a dubitare di sè, non aveva il coraggio di smentirli.
— Non so.... mi era parso! Non l'ho fatto a posta! — balbettava, cominciando a
singhiozzare.
— Sentirai, la nonna! — ripetè Gabriele. E scoteva il capo per isgomentarla di più.
— La nonna non dirà niente! — esclamò Matilde. — Vieni a raccontarle tu stessa come è
andata la cosa, carina! —
Gabriele era scappato avanti e già rifaceva alla nonna la narrazione: — Io le volevo mostrare
le ballerine..., le dicevo non ti appoggiare là.... Ppùnfete! In mille pezzi! — e dall'intonazione della
voce e dai gesti si capiva che volesse dire:
— Con noi questa disgrazia non era mai accaduta! È venuta costei, ed ecco!... —
Ada, davanti alla nonna, scoppiò in un pianto dirotto.
— No, carina, non piangere! — la consolava la nonna. — Vorrà dire che un'altra volta sarai
più guardinga.
— Non sono stata io! —
Lo disse alteramente, buttando indietro con le mani i capelli che le erano venuti su la faccia,
e dando un' occhiata di rimprovero a Gabriele e agli altri.
Gabriele le venne quasi coi pugni sul viso:
— Chi è stato dunque? Parla....
— Non lo so.
— Bugiarda!... Nonna, è stata lei!
— È stata lei! — ripeterono Gina, Andreotta, Riccardo e Lalla.
— No, non sono stata io!
— Sentite, bambini miei — disse la nonna dopo aver fatto cenno con le mani perchè stessero
zitti. — Il danno è poco. Quelle statuette erano durate anche troppo, per quel che valevano. Ma
certamente, bambini miei, non si sono rotte da sè. Ora quel che m'importa in questo momento è di
sapere che i miei nipotini non sono bugiardi, o che, e sarebbe peggio, non accusano a torto nessuno.
Si può urtare così sbadatamente un mobile, da non accorgersi di averlo urtato; si può essere là
presenti e non avvedersi di chi lo abbia urtato. E bisogna dire la verità; non accusare un altro per
evitare il pericolo di essere accusati. Sareste cattivi. Dunque....
— Nonna, ti giuro che non sono stata io!
— Ti credo, bambina mia! —
L'accento e il gesto di Ada erano così franchi, così schietti, che la nonna se la prese tra le
braccia e la baciò.
— Dunque siamo stati noi? — esclamò Gabriele, accigliandosi.
— Ada non ha detto questo — replicò la nonna severamente.
— Non capisci? — entrò a dire Matilde. — Qualcuno di voialtri ha urtato il piedistallo senza
accorgersene, e per ciò.... non capisci?
— Non capisci! Non capisci ! — replicò Gabriele rifacendole il verso; e soggiunse
sottovoce:
— Già tu sei sempre contro di noi!... Possiamo, nonna, — poi domandò — continuare a fare
il chiasso nello stanzone?
E ottenuta una risposta affermativa, si volse agli altri e con un imperioso gesto della mano li
invitò a seguirlo colà.
Allora la nonna prese Ada per le mani e le disse:
— Senti, piccina mia. Devi sapere che la tua nonna non può tollerare le bugie, neppure le più
leggiere. Chi ne dice una sola le diventa sospetta, e sarà creduta difficilmente. Non ne dovrai dire
mai mai, se vuoi ch'io ti voglia bene. Sai come si dice? Le bugie hanno le gambe corte, ed è vero;
prima o dopo, si scoprono.
— Non mi hai creduto, nonna? — domandò Ada, tornando a singhiozzare.
— Sì, ti ho creduto. Ma se, per caso, tu hai pensato che la rottura di quelle statuette di gesso
potesse farmi tanto dispiacere.....
— Nonna, no, no; io non dico bugie. La mamma mi ha detto sempre, come te: le bugie
hanno le gam.... be...! —
E il pianto le impedì di proseguire.
La nonna fu così convinta dell'innocenza di Ada, che quando gli altri nipotini le furono
dattorno per accomiatarsi e abbracciarla e baciarla, si levò in piedi dalla poltrona dove sedeva e
disse:
— Siete stati cattivi: non solamente avete detto una bugia, ma avete accusato con malizia la
cuginetta. Fino a che non mi avrete detto la verità, e non avrete chiesto perdono, io non vi bacerò e
non permetterò che veniate più qui; e ne avviserò ora stesso i vostri babbi e le vostre mamme:
andate. —
Gabriele si mosse il primo, mordendosi le labbra; gli altri lo seguirono a testa bassa: si
voltarono tutti, quando sentirono lo schiocco dei baci che la nonna dava a Matilde; ma Gabriele
cinse col braccio Lalla, fe' cenno con un'occhiata minacciosa a Gina, e zitti zitti, mogi mogi,
uscirono, seguìti da Matilde che borbottava dietro a loro
— Bravi! Bella figura avete fatto! Ci ho piacere!
— Gattamortaccia! Gattamortaccia! —
Gabriele e Riccardo glielo ripeterono fino al portone di casa.
V.
Si scatenò una tempesta.
La signora Giulia, il giorno dopo, vide arrivarsi in casa e in ora insolita la figlia.
— È vero? Non debbo più mandare qui i bambini?
— Sì, per castigarli, finchè non avranno detto.....
— Ah! Ora non c'è più qui posto per loro; è per la preferita!
— Non dire sciocchezze, figliuola mia!
— Mamma, tu sei libera di fare quel che ti pare e piace in casa tua.
— Oh! non venirmi fuori con queste scene tragiche..... Sei libera!... Quel che ti pare e piace!
Tu lo sai bene, io non ho preferenze per nessuno; i figli tuoi e quelli di tuo fratello sono tutt'uno per
me: nepotini, sangue mio; e così questa orfanella. Se essa sta in casa mia, ci sta perchè non ha casa
propria e non ha altri che me. Nè tu, nè tuo fratello l'avreste raccolta, se la disgraziata Luisa si fosse
rivolta a voialtri. Tuo padre ed io abbiamo avuto torto; siamo stati troppo severi, schiavi di
pregiudizi sociali. Il Signore ha già perdonato a tuo padre, ne sono sicura: io non voglio però
attendere la morte per farmi perdonare nell'altro mondo: riparerò il mio torto in questo, facendo per
l'orfanella quel che avrei dovuto fare con la sua mamma Dov'è la preferenza? Se Ada avesse detto
una bugia, l'avrei punita allo stesso modo. Ho fatto così altre volte, non te ne rammenti? Con Gina,
che ha il vizietto di dir bugie più degli altri.... Non è dunque una novità. Se poi voialtri volete
educare malamente i vostri figliuoli..... —
S'interruppe un istante vedendo entrare Roberto; e capito dal contegno, che egli veniva da lei
per lo stesso scopo della sorella, continuò:
— Vieni a lagnarti anche tu?
— Lagnarmi, no, mamma.... Tu sei libera....
— Di fare quel che ti pare e piace.... Vi siete accordati prima?
— Oh, mamma!
— Mi ripeti le stesse parole di tua sorella!...
— È un caso; vuol dire che la cosa ha fatto a tutte e due la stessa impressione. Quei poveri
bambini non sanno darsi pace. Gabriele giura e rigiura....
— Non parlare da avvocato anche davanti a me; io non mi lascio infinocchiare come i tuoi
giudici o i tuoi giurati. Fate male tutti e due a mostrar dispiacere, in presenza dei bambini, che io
abbia raccolto l'orfanella Ti pare che io non abbia capito che l'atto mio v'è dispiaciuto? Chi sa che
cosa vi è passato per la testa!
— Niente, mamma! solamente....
— Tu sei più abile di tua sorella.... Non sei avvocato per nulla. Ma io vi ripeto che fate male,
lasciando scorgere ai bambini che la presenza di Ada in casa mia vi dà ombra. Sono vecchia sì, ma
non rimbambita. E preferenze, come non ne ho fatte per il passato, così non ne farò per l'avvenire....
— Mamma, tu sei in collera con noi....
— Sì, Alessandrina, sono in collera; per voialtri, che dovreste essere più compassionevoli,
più buoni; e pei bambini, ai quali, voialtri, senz' accorgervene, date il cattivo esempio....
— Ma scusa, mamma; tu fai un casus belli.
— Non faccio casi nè belli nè brutti!
— Intendo dire che dài grande importanza....
— Infine — lo interruppe la sorella — non si sa se abbiano detto la bugia i nostri bambini o
colei; e io non vedo la ragione perchè tu, mamma, debba credere.... Te li mandiamo qui; interrogali,
méttili alle strette; sono bambini, non possono saper fingere a lungo. Se tu avessi visto con che aria
mortificata son tornati a casa....!
— Ti vogliono tanto bene, mamma!
— Giudicate voialtri! — esclamò la nonna.
E aperto un uscio chiamò:
—Ada! Ada!
La bambina accorse saltellante, scotendo su le spalle i capelli folti; ma si arrestò sùbito,
quasi impaurita della presenza della zia e dello zio.
— Vieni qua, bambina mia, — fece la nonna. — Prima bacia la zia e lo zio. Brava!... E ora
stammi a sentire. —
Ma avanti che la nonna potesse proseguire, la zia prese la bambina per una mano, l'attirò a
se, accarezzandola, con accento e con aria insinuante le disse:
— Vuoi tu bene ai cuginetti?
— Sì, zia.
— Tu sai che la nonna non li vuole più qui, poverini, perchè crede che essi abbiano detto
una bugia. I poverini piangono, non possono stare senza vedere la loro cara nonnina.... e anche
perchè vogliono bene a te e fare il chiasso con te.... Di' la verità; sei stata tu che, per caso, senza
volerlo, hai tatto cascare le statuette? Di' la verità; la nonna ti ha già perdonato; avrebbe perdonato
anche agli altri nepotini, se invece avessero rotto loro le statuette. Essi giurano di no: di', sei stata tu
o loro? Se non vuoi che i tuoi cuginetti stiano lontani per gastigo, dalla loro nonnetta, di' la verità!
Dilla, carina!
— Dilla, carina! — ripetè lo zio.
Ada, impallidita, ora guardava gli zii e la nonna, ora attorno, e in atto quasi chiedesse
consiglio a sè stessa o a qualcuno che soltanto gli occhi smarriti vedevano. Tutt'a un tratto si scosse,
si strizzò le mani, e risolutamente rispose:
— Sono stata io
— Vedi, mamma? — esclamò la signora Alessandrina, trionfante.
— Hai visto se Gabriele aveva ragione? — soggiunse sùbito il signor Roberto.
La nonna non rispondeva; fissava Ada intensamente.
— Sei stata tu?... Proprio tu?
— Sì, nonna! Perdonami! Permetti ai cuginetti che vengano qui. Se tu vuoi castigarmi, non
farò il chiasso con loro, finchè tu non vorrai.
— Sei stata tu?... Proprio tu?
— Guarda, mamma, se non è vero che.... m
Ma la signora Alessandrina non potè più proseguire a un'occhiata della mamma.
— Se stento a credere — ella le disse — non è perchè mi dispiaccia di trovar bugiarda
questa bambina, ma perchè ho il dubbio..... Basta; meglio così! Mandate i bambini; Ada farà il
chiasso con loro.
— Grazie, nonna! — esclamò Ada.
E le si rifugiò in seno, stringendole la vita con le braccia tremanti.
VI.
La nonna era meravigliata della precoce assennatezza di Ada. Dopo alcune settimane, non le
pareva più di avere con sè una bambina di otto anni, ma una donnina addirittura.
— Nonna, vuoi che ti faccia il caffè la mattina?
— Sai fare anche il caffè?
— Sì, nonna; la mamma m'insegnava tutto.
— Vediamo dunque.
— Ti piace debole o forte?
— Amo di bere un buon caffè, e per ciò me lo son preparato sempre con le mie proprie
mani.
— Ho capito, nonna! —
E la nonna dovè confessare che raramente aveva preso una tazza di caffè così buona come
quella preparatale da Ada quella mattina.
— Nonna, vuoi permettermi di rifare la tua camera?
— Sai spazzare?
— Spazzare, spolverare, riordinare gli oggetti; so fare ogni cosa. Soltanto.... che una; sono
piccina e, da me sola non riesco a rifare il letto. Mi aiuterà la Giovanna.
— E i cómpiti di scuola?
— Oh, io non aspetto la mattina per abborracciarli in fretta e furia. La mamma me li faceva
fare, sotto la sua direzione, la sera, prima di mettermi a letto. Ora ci ho preso l'abitudine. Se vado a
letto senza aver fatto i cómpiti, non posso addormentarmi.
— Brava! —
E la nonna le aveva permesso di farle rifare la camera. Non le aveva detto niente, per vedere
quel che la bambina sapesse fare da sè. Di tratto in tratto s'era affacciata all'uscio, rispondendo con
un cenno del capo e con un sorriso alla domanda di Ada:
— Nonna, va bene così? —
La bella creaturina, con un fazzoletto annodato attorno alla testa per salvare dalla polvere i
capelli, con le maniche del vestitino di casa rimboccate fino ai gomiti, spazzava, ripuliva,
spolverava, arrampicandosi su le seggiole quando non arrivava con le braccia all'altezza di certi
mobili. Pareva uno scoiattolino, tanto lesta si moveva, mentre stringendo le labbra e corrugando le
sopracciglia per l'attenzione, riordinava sul cassettone e sui tavolini i diversi oggetti, i ninnoli, i
vasetti da fiori, cambiando la disposizione di essi, se le pareva che non dovessero in quel modo
contentare la nonna.
— Nonna, va bene così? —
E la nonna accennava di sì, sorrideva e doveva fare un vivo sforzo per trattenere le lagrime
che le riempivano gli occhi. La vecchia Giovanna era rimasta incantata del bel modo con cui la
bambina tirava e rimboccava le lenzuola, e sprimacciava i guanciali.
— Ora la nonna non avrà più bisogno di me — le disse ridendo con la bocca sdentata. —
Vuoi farmi cacciar via?
— No; tu puoi fare tante cose che io non posso fare. —
E la vecchia, baciatala affettuosamente, le aveva parlato a lungo della mamma di lei,
buon'anima!
— Mi voleva bene più degli altri! L'ho pianta tanto quando seppi della disgrazia!
— Vorrei morire, per andare a trovarla! — esclamò la bambina.
— C'è ancora tempo, figliolina mia! Ora tu devi essere la consolazione della nonna.
— Cara nonna!
— Sai, Ada, non dire più bugie! La nonna è buona; perdona tutto; ma le bugie non le può
patire: per questo non vuol bene a Gina che ne dice sempre. —
Ada si sentì stringere il cuore e non rispose.
Quando giunsero i cuginetti, Ada lesse sùbito negli occhi di Matilde quel che ella pensava di
lei. In quegli sguardi dolcissimi c'era una tristezza mite, rimprovero e interrogazione nello stesso
punto: — Perchè hai mentito, Ada? Perchè? — e la povera bambina soffriva di non poter rispondere
anche a lei, come, avrebbe voluto rispondere alla Giovanna: — T'inganni, Matilde! —
Sentiva che, fra i cugini, ella sola le voleva bene e gliene era gratissima, e faceva di tutto per
dimostrarglielo; per ciò le saltò al collo, estremamente commossa, appena Matilde le disse:
— Ada, tu farai il chiasso soltanto con me. —
Si appostarono in un camerino accanto allo stanzone, dove gli altri si erano messi a ricrearsi,
a saltare, a urlare come tanti demonietti scatenati; e mandavano già le bambole a scambiarsi le
visite, allorchè entrò all' improvviso Gabriele:
— Venite; faremo un bel gioco.
— Abbiamo da fare — rispose Matilde.
— Che cosa? Cercar le pulci alle bambole?
— Sì: ma vattene.
— Allora vi porteremo la polvere contro gl'insetti. —
Vedendolo andar via con un ghigno e stropicciandosi le mani, Ada domandò a Matilde:
— Ci faranno qualche dispetto?
— Vado a chiamare la nonna. —
Matilde posò la bambola che aveva in mano e, con la stessa rapidità con cui s'era risoluta, si
mosse. Ada avrebbe voluto trattenerla o seguirla, ma la timidezza e il turbamento le impedirono di
fare un gesto, di dire una parola. Rimase con la sua bambola stesa sur un braccio quasi per cullarla e
con gli occhi fissi all'uscio da cui dovevano comparire la nonna e Matilde.
Comparvero invece i cugini in processione, uno dietro all'altro, borbottando fra sbuffi di risa,
con voce ingrossata: Meo-meo! Meo-meo! per imitare la salmodia dei frati. Riccardo reggeva un
vassoio di metallo bianco colmo di cenere; Gina portava in ispalla, a mo' di fucile, le molle del
caminetto, Lalla un asciugamani steso su le braccia sporte in avanti, e Gabriele il soffietto brandito
pei manichi e retto in alto a guisa di ostensorio.
Ada li guardava, senza poter ridere della buffa scena, e col presentimento che, vedendola
sola, quei cattivi stessero per farle qualcosa di brutto.
La processioncina l'aveva presa larga nello stanzino, girando attorno, rasente alle pareti,
lentamente, continuando a salmodiare: Meo-meo! Meo-meo! Arrivati davanti alla seggiola dove
Matilde aveva deposto la bambola, Riccardo si era fermato, Gina aveva fatto il gesto di presentare le
armi, Lalla si era inginocchiata tendendo l'asciugamani a Gabriele; presa la bambola, ve l'aveva
deposta su, intanto che Riccardo si accostava col vassoio ripieno di cenere.
— Meo-meo! Questa è la polvere contro le pulci! Meo-meo — intonò Gabriele.
E col soffietto soffiò nel vassoio, la povera bambola fu coperta di cenere.
— Cattivi ! Perchè non c'è Matilde? — disse Ada fremente.
— Meo-meo! Meo-meo! Questa è la polvere contro le pulci! Meo-meo! Meo-meo!
— Anche la tua bambola ha le pulci! — soggiunse Gabriele togliendogliela di braccio con
rapida mossa.
Ada gettò un grido e portò le mani agli occhi per non vedere.
Sentiva il rumore del soffietto, e le risate di tutti: avrebbe voluto chiamar soccorso: —
Nonna! Nonna! Matilde! Matilde! ma la commozione le stringeva la gola, le strozzava la voce.
Le risate dei cugini diventarono a un tratto più forti, il rumore del soffietto era cessato.... Che
facevano dunque! Ada non potè più frenarsi, ritirò le mani dagli occhi, e guardò — Brutti cattivi! —
urlò.
E si precipitò addosso a Gabriele per levargli di mano la bambola già ridotta irriconoscibile.
La resistenza di Gabriele e di Riccardo, irritandola di più, la resero furibonda. Pallida, coi capelli in
disordine, gli occhi sbarrati, il labbro inferiore stretto tra' denti, le mani convulse, urtava, picchiava,
graffiava senza capire quel che facesse; e capitàtagli tra mani la bambola, l'afferrò poi piedi e
cominciò a sbatterla in capo a Gabriele, che urlava Ahi! ahi! e tentava invano di difendersi. Alla
vista del sangue che colava dalla fronte di Gabriele, Gina e Lalla si misero a strillare, entrarono
nella zuffa anch'esse, ma bastò uno spintone di Ada perchè tutt'e due rotolassero per terra....
— Fermi! Che fate? ch'è stato....
— Ada! Ada! Gabriele!... —
Le voci della nonna e di Matilde arrestarono i rissanti, anche prima che le due sopravvenute
potessero inframmettersi e dividerli. Gabriele si teneva stretta la fronte da cui scendeva un filettino
di sangue; Ada sembrava di sasso, immobile con gli occhi sbarrati e le braccia che tenevano stretta
stretta al petto la povera bambola quasi per proteggerla da nuovi insulti; Riccardo si scoteva
d'addosso la cenere del vassoio rovesciato, e Gina e Lalla si alzavano da terra aiutate da Matilde,
piagnucolando:
— È stata lei! è stata lei!
La nonna si era fermata, incrociando le mani, e guardando, come interdetta, ora l'uno ora
l'altro dei nepotini, mentre Matilde ora scoteva Ada sempre fuori di sè, immobile e con gli occhi
sbarrati, ora confortava Gabriele asciugandogli il sangue che usciva dalla feritina ricevuta proprio in
mezzo alla fronte:
— Dio! Ada! Ada!... Non è niente, Gabriele! Va'a lavarti con l'acqua fresca.
— Porta via quella bambina! — le disse la nonna.
La povera nonna era stupita di così insolito fatto, e non trovava le parole per interrogarla.
Seguì con gli occhi Matilde che, presa Ada pel braccio, la spingeva, sorreggendola, fuori dello
stanzino; disse: — Zitte! zitte! — alle due bambine che non si chetavano, e finalmente, rivolta a
Gabriele, lo rimproverò severamente
— Sei stato tu!
— È stata lei! Guarda nonna! —
E mostrò le mani intrise di sangue.
— Noi si faceva per chiasso — tentò di scusarsi Riccardo.
— Bel chiasso!... Chiasso da sporcaccioni.
— Perchè non voleva divertirsi con noi? — disse Gabriele.
— Che v'importava?
— È superbiosa! Ma che si crede? La regina?
— Invece è buona e modesta; la fate diventar cattiva voialtri.
— Lo so, nonna, lo so! Il babbo ci ha detto: Ora la nonna non vi vorrà più bene come prima!
— replicò, imbroncito, Gabriele.
— Il tuo babbo è uno sciocco: diglielo in mio nome; e tu va' a lavarti il viso con l'acqua
fresca, sùbito.... E anche voialtri andate a ripulirvi o a farvi ripulire da Giovanna! —
La voce della nonna tremava dall'indignazione. Dietro i fanciulleschi dispetti dei nipotini
contro l'orfanella, vedeva il basso interesse dei loro parenti, che, pur di colpire quell'innocente e
sventurata creaturina, non rifuggivano dal servirsi di altre innocenti creaturine e pervertirle,
insinuando nei loro teneri cuori sentimenti cattivi! Ah, ma se si figuravano che, facendo a quel
modo, dovessero vincerla, s'ingannavano di gran lunga; facevano peggio; la mettevano in puntiglio.
Era vecchia sì, ma il cervello lo aveva tuttavia a posto, e il cuore pure. Dio mio! Dire ai bambini:
Ora la nonna non vi vorrà più bene come prima! Perchè non avrebbe dovuto volergli più bene come
prima? Perchè ora aveva una nipotina di più? Voleva bene a tutti egualmente. Non poteva darsi pace
di esser creduta parziale, quasi tutti non fossero sangue suo nello stesso grado! Loro erano parziali,
loro ingiusti, e poco rispettosi con lei. Ella gli dava l'esempio del perdono e dell'emenda, e loro le
rinfacciavano emenda e perdono.... Avevano ragione. Non gli aveva dato il cattivo esempio di
essere stata inesorabile verso la propria figliuola, loro sorella?... Ma ora ella voleva riparare il mal
fatto; dovevano aiutarla, imitarla, non rimproverarla, rammentandole: Sei stata ingiusta una volta!
Non dirle: Dovresti continuare ad essere ingiusta anche a costo di far soffrire un'orfanella che non
ha nessuna colpa!
E ripeteva:
— Dio mio! Dire ai bambini: Ora la nonna non ci vorrà più bene come prima! —
Le sembrava un'enormità che la faceva fremere di orrore.
E rimandando sùbito i bambini a casa, più che a loro, intendeva dare una lezione ai loro
parenti.
— Tu resta — disse a Matilde, che veniva a chiamarla in fretta.
— Nonna. Ada....
— Che è stato?
— È in convulsione, sul letto! —
La povera bambina tremava tutta, si agitava con forti scossoni. La nonna le spruzzò il viso
con acqua fresca, le diè ad odorare dei sali; e quando la bambina rinvenne e scoppiò in pianto
dirotto, la sollevò a sedere sul letto, la strinse tra le braccia, baciandola, ravviandole i capelli,
dicendole tante dolci parole, finchè non la vide acchetata.
— Tu resta — replicò poi a Matilde, che si preparava a seguire i suoi.
— È meglio che vada via anch'io, nonna, — rispose Matilde. — Racconterò tutto alla
mamma; altrimenti....
— Sì, è meglio, va'.... Finirò col non volervi bene davvero, — soggiunse — se continuerete
così!
— Nonnina mia, io che c'entro?...
— Hai ragione. Tu sei buona. —
Ada non piangeva più; teneva la faccia tra le mani. Non osava guardare la nonna; era
vergognosa dell'atto villano a cui era trascesa, percotendo il cugino con la bambola fino a fargli una
ferita, e pensava: Le avrebbe perdonato la Nonna?
E appena Matilde fu andata via, ricominciò a singhiozzare e a piangere, tenendo ancora la
faccia tra le mani:
— Nonna.... mi.... perdo.... nerai?
— Si, sì, carina mia!
— Non.... volevo.... fargli.... male!
— Sì, sì, carina mia!
— Un'altra.... volta.... non lo farò.... più!
— Certamente, carina mia!
— Nonna, se è vero.... che mi hai perdonato..
— Non piangere, cara; ti ho perdonato davvero....
— Dovrai.... te ne prego.... richiamare i cugini!....
— Li richiamerò, bambina mia!
— Voglio bene ai cugini io!
— Tu sei un angiolo, bambina mia. —
VII.
Aveva fatto male, lo capiva sentendosi punita dal grande strazio che provava per le cose
udite: aveva fatto male a origliare dietro l'uscio del salotto quella mattina che lo zio e la zia venuti
insieme, si erano rinchiusi con la nonna e avevano leticato per più di un'ora. La nonna alzava la
voce, diceva le cose dure; la zia rispondeva con vivissimo accento di stizza, lo zio con voce calma
ma concentrata, quasi roca. Ella non aveva afferrato tutto quel che dicevano, ma parole e frasi
staccate, le peggiori frasi, perchè erano appunto quelle che venivano dette con tono più vibrato, e ad
esse era intramezzato spessissimo il nome suo o quello della sua mamma; allora la nonna riprendeva
gli zii: — Non la nominate, non la nominate più quella infelice! — Ah, come avrebbe baciato la
nonna in quel momento!
Le era però rimasto nel cuore un senso di oppressione e di pena sapendosi odiata dallo zio e
dalla zia, ai quali ella non aveva fatto niente; e rifletteva, compiangendo la povera nonnina, che per
averla accolta in casa, aveva perduta la pace, la tranquillità, come aveva detto all'ultimo allo zio e
alla zia quella mattina.
Per ciò quando la nonna l'accarezzava, e le parlava affettuosamente, Ada da quel giorno in
poi, non sentiva più la piena dolcezza che prima le inondava il cuore. Le pareva che la nonna
facesse uno sforzo nell'accarezzarla, nel rivolgerle affettuosamente la parola; e appena ella notò che
la nonna aveva lasciato passare due settimane senza andare a pranzo in casa dello zio e della zia,
sentì accrescere la pena che la opprimeva, e non seppe trattenersi dal dirglielo:
— Nonna, dimmi una cosa.
— Parla, figliolina mia!
— Perchè non sei più andata a desinare dallo zio e dalla zia?
— Perchè.... quando fa cattivo tempo non esco di casa.
— Ma è stato bel tempo, nonna.
— Le vecchie come me, carina mia, hanno un cattivo tempo tutto particolare; tu non puoi
intenderlo.
— Nonna, se non ci vai perchè non vuoi condurci me....
— Chi ti dice queste sciocchezze?
— Nessuno; le penso io da me.
— E pensi male, bambina mia.
— Io resterei volentieri in casa, con Giovanna....
— E anch'io resto più volentieri in casa mia. Non si mangia bene noi due soli a tavola?
— Sì; ma prima tu invitavi qualcuno dei cugini o parecchi....
— Non vengono, e perciò non li invito.
— Perchè non vengono?
— Forse.... perchè si annoiano con una vecchia come me.
— Non vengono.... perchè ci sono io. Che gli ho fatto di male io, nonnina mia!
— Zitta, non piangere. Non voglio più sentirti dire queste brutte cose. I tuoi cugini verranno
domani e resteranno tutti a pranzo con noi. Sei contenta ora?
— Oh, tanto, nonna! —
Dal contegno dei cugini, Ada comprese che avevano loro insegnata una lezione e che la
recitavano fedelmente. Chi non recitava affatto era Matilde, e con lei Ada s'abbandonava tutta
intera. Con gli altri — e ne soffriva — sentiva di recitare anche lei, facendo il chiasso senza
entusiasmo, compiacendoli freddamente. La nonna intanto era lieta di quelle pace apparente. Stava a
sorvegliare i giuochi, raccontava qualche fiaba, mostrava le incisioni dei bei libri del nonno, uccelli,
insetti, mammiferi, vedute di città e di marine: faceva ammirare gingilli antichi, belle stoffe vecchie
e prometteva di regalare questo e quell'oggetto ora a uno ora a un altro quando sarebbero stati grandi
e se sarebbero stati sempre buoni.
Il giorno dopo, la nonna aveva condotto Ada a pranzo in casa dello zio, e Gabriele non si era
mostrato sgarbato con lei, anzi egli e Gina le avevano fatto vedere tutti i loro balocchi.
— Ne hai altrettanti anche tu?
— No.
— Noi ne abbiamo già rotti assai più di questi!
— Perchè?
— Per gusto! — rispose Gina.
E in casa della zia, Riccardo e Lalla fecero la stessa cosa.
— Tutti questi sono regali della nonna! —
Pareva che Lalla, così parlando volesse farle intendere che lei, Ada, non doveva attendersi di
esser trattata allo stesso modo.
Matilde, invece, non sapeva che fare per dimostrarle la gioia che sentiva vedendola nella sua
cameretta.
— Questi sono i libri degli anni scorsi; ora non li adopro più, ma li conservo per ricordo. E
conservo pure tutti i quaderni dei cómpiti. Vuoi questo santino? È bello; me l'ha regalato la maestra.
— Grazie; perchè privartene? — rispose Ada.
— Mi fa piacere vederlo in mano tua.
— Questo mobilino ti piace?
— Sì.
— È giapponese. Come sono carini i cassetti! L'ho comprato io, coi denari d'una strenna. Te
lo do.
— No, è troppo; grazie. —
Matildè l'aveva forzata ad accettarlo; ma poco dopo Ada si era pentita di averlo accettato,
perchè Lalla vedendoglielo in mano, aveva rimproverato la sorella:
— Gattamortaccia! A me non hai voluto mai darlo! —
Glielo avrebbe dato lei, se Matilde non si fosse opposta.
Così, durante un paio di mesi, la povera nonna credette di aver ripreso, e per sempre, il solito
tranquillo tenore di vita da lei menata da che il figlio e la figlia erano usciti di casa sua per formare
due famiglie a parte. Di tanto in tanto le balenava nella mente il sospetto che le ostilità degli zii e
dei cugini contro la sua orfanella covassero sotto la cenere, pronte a scoppiare in fiamma alla prima
occasione; ne coglieva gl'indizii in una parola, in un atto ora del figlio, ora della figlia, ora della
nuora o del genero, e stava all'erta. Poi, vedendo che non accadeva niente di quel che aveva
sospettato, si rimproverava di non aver fiducia nella bontà altrui, e colmava di carezze, di premure,
di attenzioni la sua creaturina, come ora la chiamava. Quella bambina le dava l'illusione d'una
specie di maternità tardiva, le metteva nel cuore una tenerezza soavissima, intensa, quasi la sua
sventurata figliola morta le fosse tornata in casa sotto quelle sembianze, quantunque, in verità, la
bambina somigliasse più al babbo che alla manna. Di questa aveva soltanto certe inflessioni di voce
e certi gesti caratteristici, ma essi bastavano perchè la nonna si sentisse inumidire gli occhi ogni
volta che la voce di Ada prendeva quelle inflessioni, ogni volta che con la testa e con la mano destra
faceva quei tali gesti, pei quali la figlia morta pareva le risuscitasse tutt'a un tratto, di nuovo
bambina, dinanzi.
Anche Ada cominciava a rassicurarsi. Cresceva a occhiate, riprendeva un po' di colorito
nelle guance; la calma interiore le si estendeva per tutta la persona graziosa e gentile.
Il vestitino nero di mesi addietro le diveniva corto di giorno in giorno; la nonna lo notava
con piacere. Notava anche con maggior piacere i progressi che la bambina faceva in iscuola, e
l'assennatezza e l'attenzione ognora crescente, con cui attendeva alle faccenduole di casa affidate a
lei.
— Ora la padroncina sei tu — le diceva la nonna. — Devi badare tu a ogni cosa; risparmiare
la povera nonna che invecchia ogni giorno più, e si stanca sùbito e si sente confondere la testa
quando ha troppo da fare.
— Sì, nonna; insegnami, io farò tutto. —
Aveva cura però di smettere la sua aria seria seria di padroncina di casa, appena arrivavano i
cugini: se ne stava un po' da parte, per non dar ombra. E Gabriele, Gina, Riecardo e Lalla ne
approfittavano, facevano da veri padroni loro, comandavano loro nei giorni di vacanza che venivano
a passare dalla nonna. A lei bastavano l'affetto e la compagnia di Matilde. Si ritiravano assieme
nella cameretta di Ada, guardavano i giornali di mode per osservare sopratutto i disegni da ricamo e
imitarli. Matilde era bravina in questo genere di lavorini, ed Ada li amava appassionatamente.
Qualche volta irrompevano nella cameretta tutti gli altri cugini per curiosità di vedere quel che esse
facevano e un po' pel gusto di disturbarle, e Gabriele frugava qua e là fra i libri e i quaderni di Ada,
nei cassetti, nei cestini.
— Non disordinare ogni cosa, sciattone! — lo rimproverava Matilde.
Ma Ada indulgente, soggiungeva sùbito:
— Lascialo fare; riordinerò io, dopo.
— Andiamo via! — diceva allora Gabriele. — Questo è il santuario, il tabernacolo; non ci
deve entrare altri che loro! —
E vedendolo andar via imbroncito, Ada proponeva sùbito a Matilde:
— Vieni; facciamo un po' di chiasso con loro. —
Un giorno, prima di andare a tavola, la nonna entrò nello stanzone dove i nipotini facevano il
diavolo a quattro, rincorrendosi da un angolo all'altro. Al suo apparire, tutti le corsero incontro, le si
affollarono attorno. La nonna li guardava ad uno ad uno in faccia, quasi cercasse d'indovinare
qualcosa dal solo aspetto.
— Chi è stato il ghiottone o la ghiottona? — poi domandò.
Silenzio. La nonna continuò a scrutarli con lo sguardo, tra seria e sorridente, e ripetè la
domanda:
— Chi è stato il ghiottone o la ghiottona?
Dalla credenza, in sala da pranzo, mancavano tre pasticcini. Poco prima la nonna li aveva
contati nel vassoio ed erano dieci; ora ve n'erano soli sette.
— Chi è stato il ghiotto o la ghiotta, si accusi — disse la nonna — Non lo domando per
castigare qualcuno, ma per sapere la verità. —
Tutti giurarono e rigiurarono.
Allora la nonna prese a interrogarli a uno a uno, fissandoli bene negli occhi, dicendo che
avrebbe scoperto la bugia su la punta del naso di chi si ostinava a dirla.
La nonna ebbe un bel mettersi gli occhiali per esaminare i nasini che dovevano rivelarle la
verità. Quella volta i nasini non dissero niente. Soltanto Ada le parve un istante un po' turbata; ma la
sua risposta fu così franca e così recisa, che la nonna non insistette, e non sospettò di lei.
Intanto, siccome i pasticcini non se li erano certamente mangiati gli angioli, così la nonna
per gastigare l'ingordo o l'ingorda che non aveva voluto confessare la sua colpa, gastigò tutti a
tavola, mandando i pasticcini in regalo ai bambini della portinaia.
E da quel giorno in poi accadde lo strano fenomeno, che a ogni visita dei nipotini qualcosa
mancasse; un gingillo, un pezzo di stoffa, un paio di forbicine molto care alla nonna. Chi li aveva
presi? Nessuno. Tutti giuravano e rigiuravano di essere innocenti di quelle sparizioni inesplicabili e
delle quali la nonna non riusciva a saper niente, per quanto osservasse i nasini dei sospettati
colpevoli, per quanto minacciasse di non voler più bene a colui o a colei che un giorno o l'altro fosse
stato scoperto autore o autrice di quella indegnità.
Appena i cuginetti andavano via, Ada si metteva a ricercare da per tutto l'oggetto smarrito.
— È incredibile! — esclamava la nonna. — Non è mai accaduto in casa mia che sparisca
qualcosa e non si fosse ritrovata sùbito. —
Matilde non sapeva che pensare della coincidenza d'ogni sparizione con la venuta di loro
nipotini in casa della nonna. E la domenica e il giovedì, appena arrivava assieme con gli altri,
domandava alla nonna:
— Nonna, hai trovato?
La nonna scrollava la testa in segno negativo.
Allora Matilde tirava in disparte Ada:
— Hai cercato bene? Dappertutto?
— Figùrati!...
— E non hai trovato niente?
— Niente. —
Quell'impertinentino di Gabriele, arrivando, esclamava:
— Nonna, vedremo che cosa sparisce oggi! —
E pareva la canzonasse.
La nonna che era sempre stata regolatissima, precisa, e che teneva molto alle sue abitudini,
soffriva veramente della sparizione delle forbicine, ricordo di quando era ragazza; per poco non lo
credette un mal augurio. Quelle forbicine le avevano servito per tanti anni; in tutti i lavorini fatti
prima pei propri figli, poi pei nipotini. Le pareva quasi che ora non avrebbe saputo lavorar più, quel
po' che poteva lavorare, senza vederle luccicare nel cestino e ammirarle con gli occhietti. Erano
sottili, acute, di fabbrica inglese; ne aveva raccontato vita e miracoli a Ada proprio il giorno avanti
della loro sparizione. E per ciò diceva spesso alla nipotina:
— Almeno vorrei ritrovare le forbicine! Delle altre cose non m'importa! —
Una mattina, appunto ripetendo questa parola, le era parso di scorgere su la faccia e nelle
mosse di Ada una lieve ombra di imbarazzo. Chi sa? Una tentazione di bambina! Era possibile. E le
domandò a bruciapelo: —
— Via, Ada, dimmelo pure, se le hai prese tu le forbicine.
— Oh, nonna!... Oh, nonna!
La bambina spalancava in viso gli occhi pieni di lagrime e si torceva le manine con tal gesto
di desolazione che la nonna non insistette, pentita del sospetto, addolorata di aver offeso quella sua
povera creatura, alla quale si sentiva legare ogni giorno più da un sentimento di pietà materna
affatto nuovo pel suo cuore.
VIII.
La nonna era andata a frugare per caso nella scatoletta di cartone rincantucciata in fondo al
cassetto dell'armadio in camera di Ada. Cercava un nastro di seta azzurro, che aveva regalato tempo
addietro, e che ora doveva servire per la guarnizione di un vestitino da casa che ella voleva
regalarle, cucito di sua mano durante l'assenza di lei nei giorni di scuola.
La buona nonnina si faceva anticipatamente una festa della sorpresa e della gioia
dell'orfanella quando avrebbe trovato sul lettino allestita e stirata quella semplice veste di color
marrone che doveva farle smettere il lutto. La sarta sarebbe poi venuta a prenderle la misura d'un
altro vestito per passeggio. Ormai la nonna non poteva più vederla abbrunata, in mezzo agli altri
nipotini tutti vestiti di chiaro.
Quel nastro se lo rammentava bene, ella glielo aveva visto riporre in quella scatoletta di
cartone, e per ciò era andata a cercarlo lì. Il nastro infatti c'era, ma c'erano pure i tre pasticcini già
andati a male, c'erano le forbicine, e tutti gli altri oggettini spariti!
— Oh, Dio!... Dunque Ada aveva mentito?
Si sentì dare un tuffo al sangue; le parve di veder ripetere nella nipotina le menzogne della
mamma di lei, di quella figliuola sciagurata, che le aveva giurato di non voler più bene all'uomo che
i genitori non le volevano dare per marito, e poi!... E poi aveva abbandonato di notte la casa per
forzarli, con lo scandalo, ad acconsentire a quell'unione.
Le mani le tremavano d'indignazione, gli occhi le rigurgitavano di lagrime che non potevano
sgorgar fuori, il cuore le vibrava violentemente nel petto, come quel giorno tristissimo ch'ella aveva
trovato vuota la cameretta della figlia, il letto intatto, perchè ella non era andata a dormire ma aveva
vegliato finchè tutti quelli di casa non si fossero addormentati....
— Oh, Dio! oh, Dio! —
Giusto in quel momento era sopravvenuta Matilde. La nonna non aveva potuto nasconderle
il profondo turbamento.
— Nonna, che hai? —
E la nonna le aveva risposto, col pianto nella voce:
— Guarda! guarda! Ada ha mentito! Guarda! guarda! —
Matilde non credeva ai propri occhi.
— Come mai, nonna? come mai? —
Non sapeva dirle altro. Poi soggiunse, quasi per calmarla:
— Vuoi che la interroghi io?
— No. Mentirà di nuovo, come sua madre! — rispose duramente la nonna.
E ripose ogni cosa nella scatola, e spinse la scatola in fondo alla cassetta, che ella chiuse con
gesto vigoroso quasi di ribrezzo.
— Mi pare impossibile, nonnina! — le diceva Matilde.
— Eppure!... Hai veduto! Tutta sua madre! Oh, Dio! sento che non le voglio più bene! È
peccato, forse, figliuola mia; ma io non sono una santa: non mi so vincere. La menzogna mi fa
orrore. Ho sofferto sempre per le menzogne altrui. No, non le voglio più bene! Tutta sua madre!
Tutta sua madre! La metterò in un collegio. Là sapranno educarla, meglio, correggerla. Gli estranei
saranno più severi, e riusciranno, spero; gliel'auguro....
— Nonna mia!... Mi pare impossibile. Parlagliene prima. Vuoi che gliene parli io?...
— No. Mentirà dì nuovo, come sua madre! — ripetè la nonna più aspra di prima.
Ada, al ritorno dalla scuola e nei giorni seguenti, si accòrse, con stupore e dolore, che nel
contegno della nonna verso di lei c'era qualcosa di mutato: ma non osò di domandarlo, perchè
temeva di essersi ingannata. Quando però s'avvide che anche il contegno di Matilde era alquanto
mutato con lei, non ebbe ritegno. E un giorno la condusse in camera e mise il segreto.
— Perchè chiudi l'uscio?
— Voglio parlarti, Matilde, da sola a sola.
— Che hai, Ada?
— Niente. Che hai tu invece contro di me?
— Io?
— Sì, credi che non capisca? E che ha la nonna? Lo sai? Dimmelo, Matilde! Lo sai?
Dimmelo, dimmelo!
— Ah, Ada! che hai fatto!
— Che ho fatto? —
Matilde, presala per le mani, la fissava negli occhi.
— Che ho fatto? — replicò Ada con voce tremante.
Allora Matilde corse alla cassetta dell'armadio, ne trasse fuori la scatola di cartone, la
scoperse e la mostrò a Ada, con un gran gesto di rimprovero, senza dir nulla, fissandola di nuovo
negli occhi.
Ada era rimasta impietrita, pallida pallida, con le braccia semiaperte, con gli occhi sbarrati
verso la scatola, quasi vi vedesse degli orrori.
— Perchè hai, fatto questo, Ada? perchè?
— Io?... Io?... Io?... —
E balbettando così, indietreggiava, indietreggiava portando le mani agli occhi per non
vedere.
— Non negarlo, Ada! Per carità, non mentire, Ada! — la supplicava Matilde. — Ada! Ada!
La bambina, barcollata un istante annaspando con le mani, era caduta rovescioni sul
pavimento.
Matilde non si perdette di coraggio; fece lo sforzo di sollevarla, di adagiarla su la poltroncina
accosto, e si diè a spruzzarle il viso con acqua fresca, chiamandola con voce repressa: — Ada! —
Ada! — finchè non la vide rinvenire. Il pallore, il terrore e lo svenimento di lei le parevano buon
segno di rimorso e di pentimento. Per ciò si mise ad accarezzarla, a baciarla, dicendole tante dolci
parole, pregandola di confidarsi con lei, di confessare a lei di aver ceduto a una tentazione cattiva.
— Io poi lo dirò alla nonna....
— E la nonna crede dunque?... —
Ada, così dicendo, aveva dato un balzo, rizzandosi su la persona.
— Ha visto.... sì, Ada! Ha scoperto per caso.
— Ma non sono stata io!... Io non so niente!... Te lo giuro, Matilde, non so niente! niente!
niente! —
Pestava i piedi, si dava dei pugni su la testa, gridando con voce inasprita, senza lagrime.
Matilde però, messa in maggior sospetto da quella specie di furore, insisteva, credendo che, con
insistere e pregarla e accarezzarla, sarebbe riuscita a vincere quel che a lei sembrava un accesso di
amor proprio mal inteso.
— Parla, Ada!... Non mentire, Ada! Senti: se ti ostini a mentire, sai?... sai?... la nonna ti
manderà in collegio.... —
Ada la guardò con tale stupore, che Matilde credette non avesse ben compreso.
— Ti manderà in collegio — replicò, E dopo breve pausa soggiunse: — capisci per
gastigarti.
— Non sono stata io!... No! no! Come non fui io che ruppi le statuette; non fui io: mi accusai
per.... far piacere a voialtri. Non fui io!
Ada si sciolse bruscamente dalle braccia di Matilde e andò a buttarsi su la poltroncina,
nascondendo il viso tra le mani e singhiozzando:
— Ah, mamma mia!... Ah, mamma mia! —
Matilde si era accostata alla finestra, angosciata e stizzita di quella che le pareva orgogliosa
ostinatezza della cugina, e guardando giù nella via, aveva veduto Gabriele e Gina che accompagnati
dalla servetta loro venivano dalla nonna.
Un' idea le balenò nella mente, e uscì di camera senza dir niente a Ada. Passando di corsa
pel salottino dove la nonna leggeva, si senti chiamare e domandare:
— Matilde, dove vai?
— Vengo sùbito, nonna, — rispose senza neppure voltarsi.
E aspettò nell'anticamera che i cugini fossero arrivati.
— Vieni qua, — disse a Gabriele — vieni qua prima di entrare dalla nonna. Tu Gina, va'
pure da lei. —
E trascinato Gabriele in sala da pranzo, e poi afferratolo per le spalle, Matilde gli avventò in
faccia:
— La nonna sa tutto!... I pasticcini, le forbici, i gingilli.... che hai nascosti in camera di Ada.
— Mah! mah! — balbettò Gabriele.
— Perchè hai commesso questa indegnità?
— Era.... uno scherzo!
— Uno scherzo per far vedere che Ada...? Che orrore! La nonna è su le furie: vieni,
confessale tutto sùbito sùbito. —
E prima che egli avesse tempo di riaversi dalla sorpresa e di riflettere, se lo tirò dietro pel
braccio ripetendogli:
— Confessa tutto, pel tuo meglio. Tu lo sai bene..., la nonna!... —
La nonna che guardava Gina a cui aveva tolta la mantellina e il cappellino e ordinato di
andarli a posare sul canapè, si accòrse di Matilde e di Gabriele proprio quando le furono davanti.
— Era uno scherzo, nonna! — disse Gabriele piagnucolando.
— Che scherzo?
— Vedi, nonna, — la pregò sùbito Matilde. — È stato lui; te lo confessa. Voleva fare uno
scherzo a Ada, scherzo stupido! perchè? per farla arrabbiare? Cattivo!... — continuava rivolta a
Gabriele. — Vedi, nonna? Mi pareva impossibile; avevo ragione io; aveva ragione Ada, che or ora
si è svenuta di là pel dolore di sapersi sospettata. — E tornava a rivolgersi a Gabriele, che non osava
alzare gli occhi in faccia alla nonna: — Bello scherzo! scherzo sciocco! scherzo cattivo!... Ma tu gli
perdonerai, nonna, è vero? Me l'ha confessato sùbito.... Non lo farà più! —
La nonna si rizzò da sedere, diè una lieve spinta al ragazzo dicendogli: — Va' via! va' via!
Quanto mi hai fatto soffrire!....
Vedendola avviare verso la camera d'Ada, Matilde si slanciò per precederla, per dar lei alla
cugina la lieta notizia.
Ma prima che la raggiungesse, la nonna udì un urlo:
— Nonna! nonna! —
Matilde avea trovato Ada stesa sul pavimento, con la faccia paonazza, gli occhi stralunati, la
bava alla bocca, e le mani increspate che stringevano le punte di un fazzoletto stretto attorno al
collo..... La povera creatura aveva tentato di strozzarsi.
Slegarle il fazzoletto, metterla sul letto, sganciarle il vestito e la fascetta, far di tutto per
richiamarla in vita fu l'affare d'un istante, quantunque pareva che Matilde e la nonna avessero
perduto la testa pel terribile caso.
Un dottore, chiamato in fretta, e accorso dalla vicina farmacia, arrivò quando la bambina g
riprendeva a respirare e potè rassicurare tutti. Non c'era pericolo di sorta alcuna.
Un'ora dopo, Ada sorrideva piangendo di consolazione tra le braccia della nonna che le
ripeteva per rassicurarla:
— No, starai con me, sempre con me; non andrai in collegio! —
Allora Matilde, piangendo di consolazione anche lei, rimproverò Ada:
— Come ti è potuto venire in mente, cattiva?
— La mamma — rispose Ada — quando mi metteva a letto e credeva che dormissi, pregava
spesso: Signore, prendetevi voi questa orfanella! Non la lasciate a soffrire quaggiù! E me ne sono
ricordata, e mi sono ricordata del calzolaio nostro vicino, che si strangolò così. —
La nonna intanto pensava che Gabriele non poteva aver agito in quel modo di testa sua; e
non se la prendeva col bambino, ma con coloro che, secondo lei, avevano dovuto per lo meno
insinuargli che metter Ada in mala vista presso la nonna avrebbe giovato a loro; insinuarglielo non
direttamente, ma con discorsi fatti davanti ai bambini, e così accecati dall'interesse, da non
accorgersi dei malvagi sentimenti che ispiravano a quei coricini innocenti !
Aveva ragione.
E l'avvocato e sua moglie e la signora Alessandrina e suo marito, si avvidero troppo tardi che
l'ingordigia della roba e il basso interesse sono malvagi consiglieri; se ne avvidero quando seppero
che la nonna, chiamato il notaio di famiglia, aveva assicurato con un bel testamento l'avvenire
dell'orfanella.
— Ora posso morire tranquilla! —disse la nonna, firmando lo scritto redatto dal notaio.
— Campi fino a cento anni! — rispose il notaio — sarebbe meglio per la bambina. —
E la nonna, ridendo e baciando Ada, conchiuse
— Sai? Me la sento, piccina mia, di campare cento anni! Vuoi tu che campi tanto?
— Quanto Noè, nonna! — aveva risposto Ada, battendo le mani.
LO SPAURACCHIO
Ah, quel Poldo! Ne faceva di tutti i colori.
Il suo più gran divertimento però era di metter paura alle sorelline e al fratellino minore.
Un giorno si era nascosto sotto un mobile ed era stato lì acquattato, un bel pezzo, finchè essi
non vennero in quella stanza dove solevano fare il chiasso, e che sembrava un arsenaletto di
giocattoli. I suoi, Poldo li teneva ammucchiati in un angolo e nessuno doveva toccarli.
Le bambine e il fratellino minore erano entrati senza diffidenza, lieti che Poldo non fosse lì a
disturbarli, a contrariarli, a farli arrabbiare.
Per cautela avevano messo il segreto all'uscio: poi, schierate le bambole su le seggiole, parte
ritte, parte a sedere, parte sdraiate su i lettucci, avevano dato principio al gioco delle visite, del
medico, delle passeggiate in carrozza, dei viaggi in ferrovia, per cui Renzo prendeva l'ufficio di
cocchiere o di capostazione.
Quando i viaggiatori e le viaggiatrici di cencio arrivavano a Napoli, a Firenze, a Milano, a
Parigi, cioè a una delle seggiole destinate a rappresentare queste città, le sorelline diventavano
albergatrici e Renzo si tramutava in trattore; giacchè le bambole e i pulcinella e gli arlecchini
sentivano sùbito, appena scesi di vettura, grandissimo appetito.
E le tavole erano imbandite, su altre seggiole o sul tavolinetto di centro, non importava se
troppo lontane dalla città; l'immaginazione che creava tutto, abbreviava anche le distanze; e i
viaggiatori che passavano da Napoli a Firenze, facendo il giro della stanza due o tre volte, non
stavano a badare che sarebbero potuti arrivare più presto, e che poi dalla seggiola Firenze,
mettiamo, alla trattoria c'era una distanza maggiore che non fra le due seggiole città.
Poldo li aveva lasciati fare, aspettando che Ninetta, Elsa e Renzo, incoraggiate dell'assenza
di lui, si servissero anche dei suoi giocattoli, come egli sospettava che avvenisse quando non era
presente.
Sì, qualche volta se n'erano giovati, quantunque Poldo li avesse minacciati di guastargli i
loro, se si fosse accorto della trasgressione del divieto; ma quel giorno non ci pensavano neppure;
erano troppo occupati con le bambole coi pulcinella e gli arlecchini propri e con mezzo esercito di
soldatini. Perciò Poldo, seccato del lungo attendere, visto che i bambini erano in grandi faccende pel
pranzo dei viaggiatori nell'angolo opposto della stanza, e che il rumore delle loro voci avrebbe
impedito di scoprir sùbito la sua burla, messe le mani attorno alla bocca, aveva mandato fuori un
urlaccio cupo cupo.
Il terrore dei bambini era stato grande, e più grandi gli strilli!
— Oh, Dio!
— Qualcuno ha urlato dalla via.
— Pareva che fosse proprio qui dentro! —
E si erano rasserenati, e avevano ripreso a giocare.
— Uh! uh! uh! —
Questa volta gli strilli erano stati tali, che la mamma aveva dovuto accorrere dal suo
salottino, spaventata:
— Aprite! —
Nessuno si voleva muovere dal vano della finestra, per andare a togliere il segreto che
impediva alla mamma di entrare.
Poldo, sotto il divano si contorceva dalle risa. E faceva di nuovo:
— Uh! uh! uh! —
Guardando verso la direzione d'onde quel grido veniva, Elsa aveva visto due piedi non bene
nascosti e li aveva riconosciuti.
— È Poldo! —
Ninetta corse ad aprire l'uscio.
Ma quantunque già sapessero che si trattava d'un cattivo scherzo del fratello e fosse con loro
la mamma a rassicurarli, i bambini non erano meno pallidi e meno tremanti di prima.
Udendo la voce della mamma, Poldo si era tirato indietro, facendosi piccino piccino. E la
mamma per gastigarlo come si meritava, aveva detto:
— Poldo? Non può essere. L'ho visto di là. Sarà il canino. —
E andata a prendere una catinella, aveva cominciato a buttar acqua con la mano sotto il
mobile. Poldo aveva resistito un pochino, coprendosi la faccia; ma gli spruzzi non cessavano, anzi
incalzavano più copiosi, più violenti.
Le bambine e Renzo, fatti arditi, si erano chinati a guardare!
— È Poldo! È Poldo! —
La paura era passata; e ridevano, battevano le mani, aiutando la mamma a spruzzare acqua
fino a che Poldo non si decise di gridare
— Basta! Sono io! —
E dovette venir fuori tutto grondante, coi capelli appiccicati sul viso, conciato dalla testa ai
piedi, e chieder scusa in quello stato e andar sùbito a spogliarsi e a mettersi a letto senza desinare e
senza andar la sera al teatro con le sorelline e col fratellino.
Pure egli non aveva perduto il cattivo vezzo; e parecchi mesi dopo aveva pensato e preparato
una bella burla dello stesso genere, che gli era costata molta fatica.
Era rimasto in città solo col babbo; la mamma, le sorelline e il fratellino erano andati per
otto giorni dalla nonna in campagna. Il babbo, troppo occupato dagli affari, non poteva badare a lui;
e lo lasciava in casa con la cameriera e il servitore. Poldo, nei primi giorni di solitudine, si era
strizzato il cervello per combinare una burla da far paura alle sorelline e al fratellino appena fossero
tornati dalla campagna.
Pensa e ripensa, finalmente aveva trovato; e con che salti e risa si era applaudito da sè,
godendo anticipatamente dell'effetto da produrre!
Perchè nessuno se ne accorgesse, aveva scelto il salotto che serviva nelle grandi occasioni, in
certe serate che radunavano lì molta gente, e dove ordinariamente si entrava di rado. Aveva
trasportato lì uno di quegli arnesi di vimini che servivano a reggere gli abiti della mamma.
Dall'armadio aveva tolto una vecchia veste da amazzone, e ve l'aveva adattata su un cinto di pelle
alla vita, poi aveva foggiata con cenci una testa, e vi aveva attaccato una maschera, e su la testa,
aveva messo un cappellino.
Quando il fantoccio era stato bell'e pronto, lo aveva tirato tra le cortine dell'uscio, aveva
riempito di cenci le braccia dell'abito e li aveva appuntati alle cortine, in guisa che il fantoccio
pareva proprio una persona che stesse per entrare. Con le finestre socchiuse, nella penombra,
l'illusione era perfetta; in certi momenti, stando ad ammirare l'opera propria, Poldo non si era potuto
difendere, lui stesso, da un lieve senso di paura.
Quando Ninetta, Elsa e Renzo sarebbero tornati dalla campagna, con un pretesto, egli li
avrebbe mandati là.... Ah, che spavento e che strilli dovevano essere! Ed egli poteva dir benissimo
che non lo aveva fatto a posta, ma che s'era soltanto divertito a foggiare quel fantoccio mentr'era
solo e che aveva dimenticato di guastarlo.
Per disgrazia, Elsa si era ammalata in campagna, e il babbo aveva condotto anche Poldo
laggiù, durante le vacanze di Pasqua. La villeggiatura s'era prolungata di qualche settimana finchè la
convalescenza non era stata tale da permettere il ritorno in città. E durante gli svaghi della
campagna, tra le caccie ai grilli, alle farfalle, alle rannocchie del pantano, e tra cento altri
divertimenti di passeggiate, di visite, Poldo aveva davvero dimenticato il pauroso tranello preparato
in città.
Tornando, tutti i suoi pensieri erano rivolti a una nidiata di cingallegre, scoperta e presa da
lui in un buco delle mura del pollaio e che egli si proponeva di addomesticare e ammaestrare così
bene, da sbalordire la gente.
Ma giunto quel giorno, poche ore dopo l'arrivo, la mamma gli ordina di andare a prenderle
un oggetto che si trovava appunto nel salotto in fondo.
Poldo, intento a imbeccare le cingallegre, obbedisce a malincuore e per far più presto, va di
corsa, con la mente alle cingallegre.
La signora Paoletti udì poco dopo uno strillo prolungato e grida e pianti.
Era Poldo, che alla vista del suo fantoccio, di cui non si ricordava più, aveva avuto tale
spavento, ch'era caduto per terra in convulsioni.
Accorrendo, avevano avuto un po' di paura tutti, la signora, la cameriera, i bambini. Chi
s'aspettava di trovare là quella figura, che pareva proprio viva, con le braccia appoggiate alle tende,
in amazzone e cappellino?
Così Poldo era stato più di otto giorni a letto, con febbri e delirio; e quando aveva potuto
rammentarsi, aveva sùbito confessato ogni cosa, chiedendo perdono alla mamma e a tutti.
Aveva appreso a proprie spese quanto sia pericoloso far certe burle, che poi non sono burle,
perchè possono produrre gravi conseguenze.
— Me la son meritata! — soleva dire ricordando.
SUONATORI AMBULANTI
Trovato un giuoco nuovo, i ragazzi Perotti ne avevano almeno per un mese; poi lo
abbandonavano e non ci pensavano più. Ma per quel mese, la povera signora Perotti e la signora
Eufemia, zia del marito di lei, dovevano chiudersi in camera o scappar di casa.
La mamma era indulgente, troppo indulgente con quei figliuoli. — Non hanno altri
divertimenti — pensava; e li lasciava fare.
La zia, vecchia zittellona, purchè non le toccassero il canino che ella portava quasi sempre in
braccio per casa e fuori, li lasciava fare anche lei; tanto più che Ubaldo, il maggiore dei ragazzi
Perotti, aveva scoperto il modo di fare star zitta la vecchia, come irriverentemente la chiamavano tra
loro. Se per caso la signora Eufemia li sgridava, infastidita dal gran chiasso di quei demonietti,
Ubaldo, pronto, le diceva
— Allora facci divertire col tuo canino. —
Aveva provato una volta e le era bastato! Se non glielo avevano strozzato, trascinandolo con
una cordicina al collo per la terrazza, era stato proprio un miracolo.
E siccome il babbo usciva di casa la mattina, e tornava tardi la sera, all'ora di pranzo,
occupato in una fabbrica di mattoni fuori Porta Salara, così essi rimanevano liberi di sfogarsi con
tutte le capestrerie possibili e impossibili.
Bisognava dire per loro scusa, che studiavano davvero; ma, appena fatti i cómpiti di scuola e
imparate le lezioni, nei giorni di vacanza specialmente, si davano a ogni sorta di chiasso.
In quel mese, per esempio, il loro divertimento preferito era quello dei suonatori ambulanti.
Avevano visto quattro poveri diavoli, due uomini e due donne, che tutti i giorni, alla stessa ora,
venivano da una settimana a strimpellare le chitarre e i mandolini davanti il caffè della loro via,
sotto la casa dirimpetto e si erano messi a fare i suonatori ambulanti. Ubaldo ed Ernesto
indossavano due vecchi soprabiti e si mettevano in testa due cappelloni del babbo; Ida ed Eugenia si
buttavano addosso due vecchi scialli della mamma, e trin trin, tran tran, dietro questo o quell'uscio
che figuravano da caffè. Ida e Ubaldo anche cantavano, come quei poveri diavoli; e all'ultimo
Eugenia andava attorno col piattino dalle seggiole e dai tavolini che figuravano da avventori.
Ogni giorno però cominciavano la suonata e la cantata dietro l'uscio del salotto della
mamma, o dalla zia Eufemia, che dovevano dare davvero qualche soldo, se no quei birichini non se
n'andavano. I soldi venivano riposti in un salvadanaio per comprare poi paste e cioccolatini, o per
darli in elemosina quando suonava al loro uscio qualche povero e la mamma non era in casa. Oltre
ad essere studiosi, avevano buon cuore quei ragazzi.
Ma ecco quel che accadde un giorno. Il signor Perotti doveva andare a Frascati per un affare
che interessava la fabbrica da lui diretta. Era partito, e dopo pochi minuti la signora Perotti lo aveva
visto tornare a casa.
— Che è stato?
— Niente. Vèstiti, mettiti il cappellino; ti conduco con me.
— E i bambini?
— Resteranno con la zia e con Marietta, la serva. —
La signora Perotti, dal sorriso del marito aveva capito sùbito. Egli s'era ricordato che quel
giorno era l'anniversario dal loro matrimonio; e poichè non potevano celebrarlo in famiglia — gli
affari imponevano così — avrebbero passato la giornata insieme a Frascati, come due sposini
novelli.
— Torneremo presto?
— Sì, questa sera per la cena. Non diciamo niente ai ragazzi, altrimenti faranno disperare la
zia. Marietta non ha nessuna autorità sopra di loro. —
Ed erano partiti.
Tornati dalla scuola, i ragazzi, al solito, avevano cominciato dall'uscio del salotto della
mamma il loro giro da suonatori ambulanti; ma la mamma non era in casa. La zia Eufemia,
prevedendo un raddoppiamento di chiasso per quel giorno, era uscita a passeggiare e a far visite,
portando via, in braccio, il suo canino.
Marietta quindi s'era trovata sola sola di fronte a quei diavolini scatenati. Contadinetta
ancora rozza, venuta di fresco dalla campagna, coi capelli spettinati e le vesti un po' sciatte, si
lasciava facilmente intimidire dai padroncini, che spesso la canzonavano perchè dava del tu a tutti,
anche alla zia Eufemia; la quale ci si arrabbiava e la riprendeva sempre:
— Io sono lei, non sono tu! —
Ubaldo, dopo insistenti domande, aveva strappato di bocca a Marietta il segreto della gita a
Frascati del babbo e della mamma; e tutti e quattro, visto che la zia era scappata di casa, si erano
messi a urlare:
— Libertà! libertà! —
E sùbito, indossati i soprabiti e i cappellacci smessi del babbo e gli scialli stinti della
mamma, i suonatori ambulanti cominciarono il loro giro per tutta la casa, principiando dalla cucina
dove Marietta se ne stava seduta per far la calza.
— Trin trin, tran tran! —
Eugenia aveva un ventaglio di foglia di palma, Ida un pezzo di legno, che figuravano da
mandolini; ma Ubaldo suonava proprio una chitarra sfasciata, con corde di spago, ed Ernesto un
mandolino di cartone costruito da sè.
— Trin trin, tran tran! —
Figuriamoci che musica e che canzonette!
Non la finivano più. Volevano, ad ogni costo, che Marietta désse loro qualcosa; e la rozza
contadina alzava le spalle, annoiata perchè non le lasciavano continuare la calza. Marietta non dava
niente, e quelli daccapo, finchè Marietta, stizzita, non rispose:
— O perchè non vanno pei caffè, giacché voglion fare questo bel mestiere? — Fu un lampo
di luce!
Ubaldo fece un cenno con le mani, spalancando gli occhi, e condusse via gli altri,
sussurrando:
— Oh, che bella idea! Venite, venite di là! —
E gongolante di gioia per la bella idea, disse:
— Vogliamo andare davvero nel caffè dirimpetto? Suoneremo, e tu, Eugenia, girerai pei
tavolini col piattino.
— Sei matto! — rispose Eugenia.
— Ma è per ischerzo; quei signori che saranno lì lo capiranno. Mentre Marietta è in cucina e
non sospetta di niente, mentre la vecchia è fuori di casa.....
— E se lo sapranno il babbo e la mamma?...
— Ma non lo sapranno, non potranno saperlo mai..... In due salti siamo giù..... Una
strimpellatina..... E se ci dànno davvero dei soldi..... —
O che ci pensarono forse due volte? Salti, smanacciate; e poi, zitti zitti, giù per le scale.
La signora Eufemia, fatto un giro per le vie vicine e non avendo trovato in casa le amiche
ch'era andata a visitare, aveva pensato di prendere una granita a quel caffè prima di rientrare; ed era
seduta fuori, sotto la tenda, godendosi il fresco del pomeriggio, intenta a dare cucchiaini di granita
al canino.
Quei quattro sfrontatelli, come se niente fosse stato, si erano piantati in fila sul marciapiede
davanti agli avventori che ridevano, capito facilmente che si trattava d'uno scherzo, e già avevano
cominciato il loro trin trin, tran tran! quando il canino della zia, forse riconoscendoli, s'era messo ad
abbaiare.
La signora Eufemia, con gli occhiali, aveva, alzato il capo, stupita.
Sentire gli abbai del cane, accorgersi degli occhiali della zia e scappare come tanti ladri
scoperti, fu tutt'uno!
Quella volta la zia non rise, mentre tutti ridevano e applaudivano, ma afferrato in braccio il
canino che abbaiava ancora, volle slanciarsi dietro quei birichini, minacciandoli con la mano
libera.....
Sarebbe stato meglio li avesse lasciati fare e avesse riso anche lei, perchè, dalla stizza, buttò
per terra il tavolino col vassoio e la tazza della granita, senza poter raggiungere i birichini
sfrontatelli che erano andati a barricarsi in camera, atterriti di essere stati scoperti, e trepidanti pel
castigo che sapevano di meritarsi.
E il loro giuoco dei suonatori ambulanti quel giorno finì.
L'ISTITUTRICE
La signorina Trotti, col gomito appoggiato al tavolino e reggendosi la fronte con la mano
guardava dalla terrazza i ragazzi, che facevano il chiasso in giardino.
Stava da una settimana in quella casa; doveva dar lezioni ai ragazzi e condurli a spasso;
umile occupazione per lei che aveva sognato di trovar un posto in qualche Scuola normale e vivere
col babbo e con la mamma, ed esser libera e padrona di sè. Ma quell'anno i posti scolastici erano
tutti occupati, e le sue condizioni di famiglia non le permettevano di attendere una collocazione
molto incerta in avvenire; perciò aveva accettato l'offerta dei signori Molaro. Si sarebbe trovata fra
gente perbene, e avrebbe anche potuto aiutare il babbo e la mamma che per tant'anni s'erano imposti
gravi sagrifizi per lei.
Non era lieta però: i bambini, contro ogni sua aspettativa, la trattavano con diffidenza, quasi
sgarbatamente. Educati male, viziati, bisognava domarli.
Evelina era superba; Ernesto impertinente e bugiardo; Camillo, di studiare non voleva
saperne; Lisa e Monaldo, capricciosi e testardi.
Peggio: la signora Molaro mostrava verso i figliuoli una debolezza eccessiva; il signor
Molaro, al contrario, un'eccessiva rigidità. Come contentarli? Giacchè, innanzi a tutti, doveva
contentar loro. E in quel momento, rifletteva appunto sulla sua difficile situazione, interrompendosi
di tratto in tratto per dar la voce ai ragazzi:
— Ernesto, non si accosti troppo alla vasca!
— Evelina, non gualcisca le rose!
— Camillo, lasci in pace i canarini
— Lisa, Monaldo, non calpestino l'erba delle aiuole! —
Ma questi facevano il comodo loro. Soltanto alzavano un po' la testa verso il terrazzino
dov'era la Signorina, come la chiamavano; ed Ernesto tuffava le mani nell'acqua della vasca per
chiappare i pesciolini rossi; Evelina spampanava addirittura qualche rosa; Camillo spaventava con
una canna i canarini, e Lisa e Monaldo calcavano coi piedi l'erba delle aiuole.
Apparve su l'uscio vetrato il signor Molaro, che rientrava in casa dal cancello del giardinetto;
e visto quel che i ragazzi facevano, si rivolse alla Signorina:
— No, non permetta...! Badi un'altra volta. Non li lasci soli quaggiù; venga qui; sono così
cattivi! —
I ragazzi, alla apparizione del babbo, si erano rannicchiati tutti in un angolo, come tante
pecorelle spaventate.
Il signor Molaro aspettò che la Signorina venisse giù, guardò con un'occhiata severissima i
figli, e ripetè in tono brusco la sua raccomandazione alla istitutrice: — Non permetta..., badi un'altra
volta! — Ed entrò in casa.
Dalla vetrata di faccia era comparsa, poco dopo, la signora Molaro:
— Che è stato? Non si divertono? Sono in gastigo? — La signorina Trotti disse quel ch'era
accaduto.
— Oh, Dio! Mio marito è un tiranno con questi bambini! Che pretende? Che non facciano il
chiasso? Che stiano lì come tante marmotte?
— Io appunto — rispose la Signorina — li ammonivo che fare il chiasso non significa fare
delle monellerie. Veda? Ernesto si è bagnato tutta la manica; Evelina ha rovinato la più bella rosa di
quella pianta. Guardi come ansano quei canarini! È opera di Camillo. E qui, osservi, l'erba di
quest'aiuola; Lisa e Monaldo si son divertiti a conciarla così.
— Be', non è nulla; sia tollerante, Signorina. Non faccia come la signora Mappi, che con la
sua severità mi ha costretto.... I ragazzi sono ragazzi. —
La signorina Trotti non sapeva che rispondere. E intanto quei monelli avevano sùbito ripreso
a far peggio di prima.
Ogni giorno così. La povera istitutrice si trovava tra due, anzi tre fuochi, mettendo nel conto
anche i ragazzi, che volevano sempre agire a modo loro.
Chi doveva contentare? Il signor Molaro era una brava persona, e con quella statura alta e
quella barba mezzo grigia precocemente, incuteva più che rispetto, quasi paura.
La signorina Trotti, udendone la voce cavernosa di basso profondo, si sentiva vibrare tutti i
nervi. E poi in casa comandava lui, almeno così le pareva nelle prime settimane. Dopo, si era
cominciata ad accorgere che tra marito e moglie doveva esserci qualcosa, non grave certamente, ma
tale da impedire la buona armonia in famiglia; qualcosa di chiuso, di nascosto, di sotterraneo — ella
non sapeva trovare una immagine precisa — insomma qualcosa che non si scorgeva a prima vista, e
che si manifestava, evidente, alle persone di casa.
Infatti la cameriera una volta le aveva detto:
— I padroni si bisticciano di là, pei ragazzi. Si bisticciano spesso per tante piccole cose; e
potrebbero esser felici! Che gli manca, Dio mio! —
La signorina Trotti non s'era voluta mostrare curiosa e indiscreta, e aveva tagliato corto alla
conversazione.
Che vita però, con quei benedetti ragazzi! Che tormento farli studiare, farli stare puliti, farsi
ubbidire, educarli, correggerli!
Quasi ogni giorno a tavola c'era qualcuno di loro che non doveva mangiare le frutta e il
dolce; spessissimo erano tutti a una volta in gastigo, privati di qualche piatto, perchè la Signorina si
era accorta che la punizione della gola riusciva la più efficace.
Ma che valeva punirlo a tavola, se poco dopo Ernesto le veniva dinanzi, sbocconcellando
una fetta di torta, piluccando un grappolo d'uva, mostrandoglielo sfacciatamente e quasi
rinfacciandola?
— Me l'ha dato la mamma! —
Ma che valeva punire Evelina, condannandola a rimanere chiusa a chiave nella stanza di
studio, se la mamma, poco dopo, di nascosto, le portava là giocattoli, dolci e il gattino, la sua
passione e il suo maggiore svago?
Ed Evelina impertinente e superbiosa, glielo mostrava dalla finestra, tenendolo per le
zampine:
— Guardi, Signorina!... —
Qualunque altra si sarebbe stretta nelle spalle, avrebbe lasciato fare; ma la signorina Trotti
aveva un'elevata idea dei suoi doveri d'istitutrice; non voleva, come diceva lei, mangiarsi il pane di
quella casa a tradimento.
Ne discorse con la sua mamma e col suo babbo, e confortata dalla loro approvazione, un bel
giorno si presentò al signor Molaro e parlò schiettamente e francamente:
— Vado via per questo; è inutile che io stia qui. —
Giusto quel giorno il signor Molaro aveva avuto un tremendo bisticcio con la moglie, e alla
dichiarazione della signorina Trotti, montò su le furie.
— Anche lei va via? Come la signora Rappi! No; così, su due piedi, no! no! —
E le voltò le spalle, e la lasciò sola nel salotto.
Alla povera Signorina erano venute le lagrime agli occhi.
— Perchè piange? — La signora Molaro, udita di là la voce grossa del marito, era sùbito
accorsa. — Ah, fa piangere pure lei!... Come sono infelice! No, Signorina, non vada via; lo faccia
per riguardo di me che le voglio bene. Mio marito è cattivo, ostinato; tiranno a dirittura! Si figuri....
si figuri!... —
E si metteva a piangere anche lei.
La signorina Trotti scoppiò però in un'irrefrenabile risata quando la signora, nello slancio
dell' effusione, le fece capire il gran motivo di dissenso tra marito e moglie.
— Suo marito non voleva tagliarsi quella barbaccia da brigante!... Se la lasciava crescere per
farle dispetto! Con quella barba, lei non.... gli poteva.... voler bene!
E singhiozzava, singhiozzava!
Pareva impossibile, ma tutto il guaio della loro casa proveniva dalla barba del signor
Molaro.
E parve fosse accaduto un miracolo quando, due ore dopo, il signor Molaro si presentò alla
Signorina con la barba tagliata. L'amore dei figliuoli, finalmente, ne aveva potuto più della sua
sciocca vanità d'uomo. E chi lo aveva spinto al sacrifizio era stata lei, minacciando d'andarsene via!
Egli aveva capito, tutt'a un tratto, che per educar bene i ragazzi, prima d'ogni cosa, bisogna che
babbo e mamma siano d'accordo. Se la sua signora si mostrava troppo indulgente verso i ragazzi, la
colpa era di quella barba; ella si vendicava di quel che le pareva un dispetto, contrariando lui in tutto
e per tutto! E si era risoluto al gran sacrifizio!
— Ma è ringiovanito! — gli disse ingenuamente la Signorina.
— È vero? è vero? Non sta meglio così? — ripeteva la signora Molaro, che non credeva ai
suoi occhi.
Erano accorsi anche i bambini.
— Come sei brutto, babbo mio! — esclamarono ridendo Ernesto ed Evelina, mentre Lisa e
Monaldo quasi non lo riconoscevano.
Quel taglio della barba — è proprio vero che le piccole cause possono produrre grandi
effetti! — portò una rivoluzione in famiglia. I ragazzi si accorsero presto che ora babbo e mamma
andavano d'accordo contro di loro, e che la Signorina era padrona di gastigarli come meglio le
piaceva. Da prima le tennero un po' di broncio, ma le buone maniere di lei, e anche un po' le cattive,
vinsero presto ogni resistenza. Ernesto non fu più ostinato e non disse più bugie; Evelina smise la
sua superbia e divenne affabile, modesta; Camillo cominciò a studiare con gusto; e Lisa e Monaldo
non ebbero più capricci di sorta alcuna.
— Il prodigio è tutta opera sua! — dicevano marito e moglie alla signorina Trotti.
E la signorina Trotti rispondeva ridendo:
— No, il prodigio l'ha fatto la barba miracolosa! Peccato che non ne abbiano conservati i
peli, come reliquie!
GATTINA E CANINO
I due bimbi, fratello e sorella, avevano due affezioni diverse: Gino voleva bene alla gattina,
Berta al canino.
Intanto questi due animaletti erano in continua questione fra loro e per cagion d'essi si
bisticciavano fratello e sorella.
Berta un giorno aveva detto allo zio Enrico:
— Mi fai un ritratto assieme col canino? —
E lo zio che aveva una stupenda macchina fotografica, l'aveva sùbito contentata.
Vedendo la bella immagine della sorella che teneva abbracciato il canino nero, Gino
desiderò anche lui che lo zio lo fotografasse nell'atto ch'egli scherzava con la sua vispa amichetta.
La gattina però quel giorno fu cattiva; non si volle prestare alla posa in nessuna maniera.
Vedendo la macchina, quasi capisse di che si trattasse, andava a nascondersi sotto le seggiole, sotto
i canapè, scappava dalla terrazza e dalla stanza, sfuggiva con insistenza la presa istantanea della
macchina.
Gino pensò di persuaderla il giorno appresso. Era così abituato a discorrere con la gattina
quando facevano il chiasso, ch'egli credeva fermamente che costei capisse il linguaggio umano.
Infatti sembrava proprio così.
— Lina, andiamo a divertirci. —
E Lina si levava dalla seggiola, dove ordinariamente stava raggomitolata a sonnecchiare, e
correva saltellando dietro a Gino.
— Lina, un bacetto a Pulcinella. —
E Lina, obbediente, leccava il viso, metà nero e metà bianco, del fantoccio, cioè lo baciava a
modo suo.
— Lina, una carezza al padroncino. —
E Lina gli s'arrampicava su le ginocchia, posava le zampine sul petto del bambino e poi ne
alzava una e gliela passava e ripassava morbidamente su la faccia, proprio come una carezza.
— Attenta, Lina! attenta ! —
Quello era il momento più allegro.
Gino le buttava per terra un gomitolo di refe e stava a guardare e ad applaudire i mille
scherzi di Lina che palleggiava il gomitolo, lo lanciava lontano, lo tirava a sè pel filo, lo mordeva,
tornava a sballottarselo da una zampina all'altra, lo riduceva quasi cosa viva.
— Se fosse un sorcetto, faresti lo stesso, eh? —
Lina levava la testa, lo fissava e pareva rispondesse:
— Magari!
— Lina, ti farai fare il ritratto? —
Cosa strana! Sentendo la parola ritratto, Lina scappava via. Come diamine aveva fatto a
capire? E perchè non voleva lasciarsi fotografare? Che paura le metteva la macchinetta così innocua
che lo zio teneva fra le mani?
Gino ne sentiva gran dispetto. Quando Berta gli mostrava la bella fotografia di lei col canino
in braccio, Gino s'arrabbiava
— Brutta Linaccia, perchè non vuoi?
E Lina miagolava, quasi rispondesse
— Perchè no! —
Un giorno la gattina fece peggio. Trovata sur un tavolino la fotografia del suo rivale, prima
con una zampata la fece cadere in terra, poi la graffiò, la stracciò, la ridusse in tale stato, che il
povero canino non era più riconoscibile nel ritratto.
Risa di Gino, strilli di Berta!
Berta, stizzita e piangente, corse dalla mamma:
— Vedi, mamma, che cosa ha fatto quella brutta bestia? Ora la picchio. —
E prese la mazza del babbo per dare addosso alla gattina.
Naturalmente, Gino corse in difesa della sua prediletta.
— Se tu picchi Lina, io picchio e ripicchio Flok!
— Ed io picchierò voialtri, tutti e due! — disse la mamma, tra seria e sorridente.
Lina era in un canto, presso una poltrona; accoccolata con la testa alta e le orecchie tese.
— Ah, tu capisci che si parla di te! — esclamò Berta.
La gattina fece un movimento.
— Non vi accorgete che siete voialtri che rendete cattivi i due animalini?
— Perchè, mamma?
— Perchè fate delle parzialità. Per te, Gino; non c'è altro che la gattina: per te, Berta, non c'è
altro che Flok. E i due animaletti sono diventati gelosi.
I bambini si guardarono in faccia, increduli.
— Provate! —
Berta tese la mano e fece con le labbra il richiamo solito farsi pei gattini. Lina si rizzò
esitando, ma non si mosse. Berta replicò il gesto e il richiamo; e allora si vide Lina accostarsi
lentamente alla bambina, guardandola fissa, dimenando la coda, miagolando sotto voce; pareva
domandasse:
— Ma è vero ? —
E si lasciò prendere in braccio e lisciare e accarezzare e baciare; socchiudeva gli occhi, e
faceva graziose moine.
Flok intanto saltava, abbaiava voleva che la sua padroncina buttasse giù quell'intrusa.
Allora Gino, che non gli aveva fatto mai festa, che lo aveva anzi trattato sempre male, gli
accennò con le mani e con le labbra:
— Psi! psi! —
Flok si arrestò, si piantò su le zampe e lo guardò anche lui fissamente, quasi domandasse:
— Ma è vero? —
E si lasciò prendere in braccio da Gino, e lisciare, accarezzare e baciare, guaiolando di
contentezza, facendo moine non meno vivaci di quelle della gattina a Berta.
Berta, maravigliata, ebbe l'idea di accostare i due animali e farli riconciliare con una specie
di bacio. Ordinariamente, quando Lina e Flok si trovavano di fronte, prorompevano in sbuffi, graffi,
miagolamenti, abbai, che finivano con una zuffa bella e buona.
Ma quella, volta non accadde così. Flok strisciò la testa pelosa sul dorso di Lina; Lina gli
rispose con una mossa uguale; e Flok, all'ultimo sguisciando dalle braccia di Gino, saltò addosso a
Berta e volle accoccolarsi accosto a Lina, in segno di perfetta riconciliazione.
I due bambini non sapevano ancora persuadersi che assistessero a una scena reale. Erano
dunque davvero gelosi quei poveri animaletti? Erano dunque loro, fratello e sorella, che li avevano
viziati, mostrando predilezione l'uno per la gattina, l'altra pel canino?
— Ora vedremo se Lina si lascerà fotografare! — esclamò Gino.
— Vedremo se straccerà più la fotografia di Flok! — esclamò Berta.
No, Lina doveva avere una strana idea della macchina fotografica: al solo vederla scappava,
e non c'era astuzia che non eludesse, quando lo zio veniva per tentare.
Ma l'altra prova riuscì benissimo. Non solo Lina non stracciò più la fotografia del suo rivale;
ma ogni volta che Gino o Berta gliela mostravano, specialmente se Flok non era lì, Lina stava un
momento a fissarla, e poi si metteva a farle salti e capriole attorno, quasi invitasse quel minuscolo
Flok a fare il chiasso con lei.
La mamma fu contenta di questo bel risultato che toglieva via un fomite di litigi e di bizze
tra i due bambini, per cui più volte li aveva minacciati di mandar via di casa gattina e canino.
Furono contenti anche i bambini; ma più di tutti parvero contenti i due animaletti, che ora
facevano il chiasso assieme anche quando non erano in casa i loro padroncini, mentre prima erano
tenuti divisi in stanze diverse, per impedire che si azzuffassero.
Questo prova che le bestie sono forse meno bestie di quel che noi supponiamo.
I SONETTI DI ELETTRA
Dopo colazione, prendendo il caffè, mentre i ragazzi facevano il chiasso nel giardinetto, il
signor La Spina disse alla moglie:
— Ti sei accorta di niente?
— Di che cosa?
— Ubaldo ed Elettra preparano una sorpresa pel mio onomastico.
— Chi te l'ha detto?
— L'ho capito. Vanno a chiudersi nello studio di Ubaldo, e non permettono neppure che
Lina e Memmo guardino dal buco della serratura: lo hanno tappato di dentro, con un pezzetto di
carta. Memmo ieri disse: — Babbo, quella stanza è soltanto di Ubaldo? —Perchè? — domandai. —
Non ci vogliono là, lui ed Elettra! — E quasi piangeva. — La casa non è di tutti? — soggiunse Lina.
— Risposi che Ubaldo era più grande di loro, e perciò aveva uno studio a parte. Ma Lina disse: — E
quando non studia, perchè c'impedisce di entrarvi? La casa è di tutti.
— Quell'impertinentina! — esclamò la signora sorridendo.
— Son curioso di sapere che diamine combini.
— Lasciali fare; non guastargli il piacere del segreto. —
Ma il signor La Spina, nel giorno del suo onomastico, voleva fare una sorpresa anche lui ai
suoi figliuoli, cioè comprare dei regali per loro, da corrispondere proprio a quelli che essi
preparavano per lui. Sospettava già che Ubaldo lavorasse a un acquerello, e il signor La Spina
intendeva regalargli una bella cornice di esatta misura per questo disegno. Bisognava cogliere il
momento che Ubaldo non fosse in casa, e avesse dimenticata la chiave nella serratura; giacchè, da
due settimane, il birichino aveva la precauzione di tenerla sempre in tasca e di portarla via con sè,
quando doveva andar fuori.
Elettra, però, che mai poteva preparare? Un ricamo. Ma di che genere? Pantofole?
— Non ha la stoffa — disse la signora.
— Procura di scoprir qualcosa.
— Io? no; lasciala fare. —
Dalla sala da pranzo si vedeva il giardinetto, e si vedeva che Lina e Memmo erano rimasti
soli a rincorrersi pei viali attorno alle aiuole.
— Ubaldo ed Elettra sono andati a chiudersi nello studio.... Eh, tu sei a parte del segreto! —
esclamò il signor La Spina, fissando negli occhi la moglie che sorrideva.
— Mi sembri più ragazzo di loro; per questo sorrido. —
Il signor La Spina aveva riflettuto che Ubaldo, per l'acquerello, doveva servirsi della solita
carta; era dunque facile, conoscendone la dimensione far preparare la cornice. Ma per sapere che
cosa facesse Elettra, bisognava usare uno strattagemma. Il caso lo aiutò, o almeno egli credette che
il caso lo avesse aiutato.
— Sai? — disse un giorno alla moglie — Elettra scrive dei sonetti. Figuriamoci che razza di
sonetti saranno!
— Come l'hai saputo?
— Ho trovato un suo bigliettino diretto ad Ubaldo, un pezzettino di carta dove è scritto:
«Sono in camera mia; faccio un sonetto; quando sei pronto, chiamami.» Eccolo.
— E chi le ha insegnato a fare i versi?
— Li farà sbagliati, ma non importa. Le compro un bell'album, e nella prima pagina le
faremo trascrivere uno dei sonetti, dopo averlo aggiustato alla meglio, se occorrerà. —
Il giorno dopo, il signor La Spina, passando pel corridoio dove aveva trovato quel biglietto,
vide sul tavolino un altro pezzetto di carta scritto di mano di Elettra, che diceva precisamente: Sono
in camera mia; faccio un sonetto; quando sei pronto, chiamami. E rise pensando:
— Un sonetto al giorno! —
Prese anche quel foglio, per avere dei documenti, se mai Ubaldo sconsigliasse la sorella di
presentare al babbo quei prodotti poetici infantili. Con tali documenti egli avrebbe costretta la
figliuola a confessarsi alunna delle Muse, anzi una musetta, o meglio un musetto; e rideva, allegro
della trovata di quest'epiteto, che avrebbe fatto arrabbiare Elettra, la quale aveva veramente certe
labbra da poter essere chiamate musetto.
Il giorno dopo, e così per una settimana, il signor La Spina trovò ancora altri biglietti dello
stesso tenore.
— Troppi sonetti ! — esclamò. — Fortuna che l'onomastico è vicino! —
E fece il calcolo che, andando di quel passo, Elettra ne avrebbe fatti venticinque! Che risate
alla lettura!
Eppure era commosso. Quella poetessina in erba, che pensava di celebrare così l'onomastico
del babbo, gli dava un senso di compiacenza affettuosa. — Poverina! Chi sa che cose carine saprà
dirmi! — andava ripetendo fra sè. E non finiva di ragionarne con la sua signora.
Il giorno dell'onomastico arrivò. Ubaldo aveva lavorato davvero a un acquerello. Sarebbe
dovuto essere il ritratto della sua mamma quando era giovane; ma la sbiadita fotografia, da cui
doveva cavarlo, non gli avrebbe servito a niente, se egli non avesse pensato di far posare Elettra che
tutti dicevano fosse quasi la fotografia della signora La Spina ragazza. Naturalmente la testa di
donna acquerellata da Ubaldo somigliava pochissimo all'una o all'altra; ma la buona intenzione
bastava. Ubaldo fu meravigliato di veder pronta la bella cornice che doveva contenere il suo
disegno.
— Come hai fatto, babbo, a indovinare?
— I babbi sanno tutto! E il tuo regalo, Elettra?
— Io ho posato da mamma, e m'è costata molta fatica.
— Il mio spiritello però mi ha portato quest'album per non so quali versi.... —
Ubaldo ed Elettra si guardarono in viso confusi.
— Che versi? — domandarono insieme.
— Certi sonetti.... — masticava il signor La Spina, sorridendo e scuotendo il capo. — Via
fuori il manoscritto.
— Ma che sonetti! — esclamò Elettra.
— Meno modestia, musetta, anzi musetto! —
E vedendo che la bambina esitava ancora, cavò di tasca uno dei famosi biglietti, e con voce
solenne, un po' canzonatoria, lesse:
— Sono in camera; faccio un sonetto; quando sei pronto, chiamami!...
— Un sonnetto volevo scrivere! Andavo a dormire.... — esclamò Elettra, guardando nel
foglio e arrossendo sùbito.
Allo scoppio di risa che seguì questa scoperta, Elettra portò le mani agli occhi e diè in un
pianto dirotto.
Memmo allora si fece innanzi serio serio, e con aria di saputello, disse:
— Babbo, è un orrore di ortografia!
— Un errore, stupido! — lo corresse Ubaldo.
Elettra piangeva, pestava i piedi, non voleva lasciarsi consolare! Alla fine il babbo la prese
per le braccia e disse ridendo:
— Zitta!... non è niente! Vedi quella bella signora lì, quella coi riccioli? —
E additava una stampa appesa al muro incorniciata.
— È madama De Sevigné, grande scrittrice di lettere; sapeva l'ortografia meno di te, e non
era bambina come te; era nonna.
— Ci voleva un'altra enne! — tornò a balbettare Elettra.
Quell'impertinentina di Lina intanto era corsa al tavolino, aveva scritto qualcosa e presentava
il foglio al babbo:
— Si scrive così, è vero, babbo? —
Per disgrazia, invece di sonnetto, aveva scritto sonneto.
E questo fece ridere anche l'Elettra, perchè noi ci consoliamo facilmente delle nostre
sciocchezze quando le vediamo ripetute dagli altri. Lina però non pianse; fece una spallucciata, un
giro in tondo, e cavò fuori la lingua.
GUGLIELMINO
Povero ragazzo! Era vittima della cattiveria della sorella minore. Tutti lo credevano maligno,
sornione, bugiardo, tutti, mamma, babbo, zie, amici di casa; ed era precisamente il contrario. Come
non se n'avvedevano? Come non leggevano su quel viso pallido e triste ch'egli soffriva in silenzio, e
che soltanto una immensa bontà, una tenerezza squisita, una sottomissione affettuosa gli facevano
assumere la responsabilità delle continue cattiverie di Adelina?
Era proprio pessima quella fanciulla, e aveva appena dieci anni!
Da prima lo aveva vinto con le preghiere; con le carezze, col pianto. Tutte le volte che per
sbadataggine e per sciatteria rompeva o guastava un oggetto, correva dal fratello:
— Oh Dio, oh Dio! Ho rotto uno dei vasetti giapponesi!
— Dove?
— In salotto; quello regalato dalla nonna alla mamma! —
E si disperava, piangeva soffocata dai, singhiozzi:
— Che dirà la mamma? Oh Dio !
— Non è niente; non lo hai fatto a posta! Chiederai scusa.
— No, no! E poi, ho buttato i cocci dalla finestra!
— Non dovevi buttarli; forse il vasetto si poteva riaccomodare. —
Ma Adelina continuava a disperarsi, a piangere e a strapparsi i capelli.
— Dirai che l'ho rotto io! — suggerì Guglielmino, quasi pregando.
— Davvero? Non mi tradirai? Oh, caro fratellino buono! —
E la prima volta si era contentata di stare zitta, di attendere che la sua sbadataggine e la sua
sciatteria fossero scoperte, impassibile e fredda al cospetto del fratellino messo in gastigo in
scambio di lei.
Ora invece, rassicurata, intorno alla discrezione del fratello, faceva peggio; correva dalla
mamma, denunciava sfrontatamente il brutto caso, soggiungendo sùbito:
— Non sono stata io!
— È stato Guglielmino; non occorre sospettar d'altri! —
E la cattiva non si commoveva dell'accento doloroso con cui la sua mamma faceva quella
esclamazione. E assisteva imperterrita all'interrogatorio del fratellino, che a testa bassa, più pallido
del solito, doveva sentirsi strapazzare e gastigare, qualche volta anche manescamente, perchè il
babbo, vedendo tanta insistenza nella cattiverìa s'indispettiva in modo che non sapeva frenarsi.
Un giorno Adelina ne fece una proprio grossa. L' istinto del mal operare la spingeva a
passare continuamente da una cattiveria all'altra, quasi con gusto, quasi con raffinatezza.
La modista aveva mandato un cappellino nuovo per la mamma. La signora non era in casa e
la scatola era stata posata sopra una consolle in anticamera, perchè fosse veduta sùbito dalla signora
al ritorno.
Scoprire quella scatola e portarla di nascosto in camera sua, per Adelina fu tutt'uno. Si
chiuse dentro, cavò fuori il cappellino, se lo provò e riprovò, e ammirando i fiori, i nastri, si sentiva
già prudere le mani per strappare quegli ornamenti e servirsene.... A che scopo? Non lo sapeva
neppur lei; servirsene per mostrarli, in iscuola, alle compagne, e farle morire d'invidia.
Esitava però: la cosa sarebbe stata scoperta sùbito; ma pure pensando che era meglio non far
niente, le mani brancicavano quei fiori, tentavano di strapparli. Com'erano attaccati saldamente! E
com'erano belli! Un po'più di forza, se voleva, e li avrebbe strappati.... — Vuoi scommettere? — Lo
diceva a sè stessa, per incitarsi.
E fece forza, e il ciuffo dei papaveri le fiammeggiò tra le mani, tremolando sul lungo stelo.
Era fatta!
Rimase atterrita dalla sua audacia, e nello stesso tempo si compiacque di aver osato e d'esser
riuscita. Andò a nascondere in una scatolina di giocattoli i bei papaveri, rimise in fretta il cappellino
così guastato dentro la custodia di cartone, e aperse l'uscio per osservare se poteva esser vista. Per il
corridoietto non c'era nessuno. Sgusciò lungo il muro, spinse l'uscio della cameretta di Guglielmino
e lanciò la scatola sotto il letto di lui come un oggettaccio.
Respirò: non era stata vista! Ma bisognava avvertire il fratellino.
Ed egli intanto non arrivava! Ormai avrebbe dovuto esser di ritorno dalla lezione di francese,
che andava a prendere tutti i giorni dalla signorina Alberta a pochi passi di casa loro.
Sonarono. — È lui! — pensò.
Invece era la mamma. Adelina cominciò a riflettere:
— E se la cosa non va questa volta come tant'altre? Negherò ferma — risolse. — Non
sospetteranno di me. —
Per tutta la giornata non si parlò del cappellino. La cameriera, troppo affaccendata, non
avendolo più visto su la consolle, non aveva badato ad avvertire la signora. La signora, che pure
aveva fatto tante sollecitazioni alla modista il giorno avanti, sapendo che le modiste spesso
promettono e non mantengono, non aveva pensato di domandare se il cappellino fosse arrivato.
Tardi tornò in casa Guglielmino. La signorina Alberta lo aveva trattenuto a desinare insieme
coi suoi nipotini; la signora era stata avvertita in tempo, ma Adelina lo ignorava.
E poi ella aveva deciso
— È inutile avvertirlo; capirà. La scatola sarà trovata sotto il lettino di lui. Ormai è abituato.
Non sentiva nessun rimorso, nessuna compassione di quel poverino, martire della sua
cattiveria. Per poco non le pareva naturale che dovesse essere così. Ideò anzi uno stratagemma.
Chiamò Guglielmino in disparte e gli disse:
— Vuoi due papaveri? belli!
— Chi te l'ha dati?
— Una compagna di scuola. Ma non farli vedere alla mamma; mettili in tasca. —
Guglielmino sgranò gli occhi dall'ammirazione.
— Mettili in tasca! — ella ripetè quasi stizzita.
E il ragazzo se li mise in tasca, obiettando:
— Ma si sciupano.
— Non vuol dire! — replicò Adelina.
Guglielmino la guardava negli occhi, già sospettando di qualche malestro della sorella. Ma
Adelina lo fissò imperterrita, per dominarlo, per imporglisi.
Di là la mamma sgridava la cameriera.— Insomma dove aveva messo questo cappello
mandato ieri dalla modista che voleva sapere se era piaciuto?
Adelina accorse. La scatola? Lei l'aveva veduta su la consolle in anticamera.
La signora cominciava a sospettare di un furto.
— Chi è venuto ieri, nella mia assenza?
— Nessuno, signora. —
Entrò in salotto Guglielmino. La mamma si rivolse a guardarlo, e i suoi occhi furono sùbito
attratti da qualcosa di rosso che gli si affacciava dalla taschina dei pantaloni. Non le passò per la
mente che quel rosso potesse avere qualche relazione col cappellino che non si trovava, ma però le
parve strano che il ragazzo avesse in tasca un ritaglio di stoffa rossa; aveva creduto che non si
trattasse di altro. Gli si avvicinò, e con le dita, senza dirgli una parola, cavò fuori uno dei papaveri.
— Che è questo? Chi te l'ha dato? Dove l'hai preso? —
E siccome il ragazzo non sapeva che rispondere a quelle vivaci interrogazioni, la signora
ebbe tempo di riflettere un istante.... e le vennero sùbito alla mente i papaveri ordinati pel suo
cappellino.
— Il cappellino? Dove l'hai nascosto? L'hai già guastato! Oh! oh! —
La signora si torceva le mani dalla disperazione per le perversità di quel ragazzo.
— Dove l'hai nascosto? Parla! parla! —
Lo scoteva per le braccia, quasi fuori di sè.
— Me l'ha dato Biggi — balbettò Guglielmino senza osar di guardare la sorella che stava
aggrappata alla veste della mamma.
Ma la mamma ficcava le mani in tasca e ne cavava fuori l'altro papavero.
— E questo, quest'altro te l'ha dato anche Biggi? Hai guastato il cappellino! Cattivo!
Malvagio! Bugiardo! —
Guglielmino aveva le lagrime agli occhi, tremava come una foglia. Aveva finalmente
guardato la sorella, e l'espressione del viso di lei gli aveva dato nuova forza per resistere, per non
parlare.
— Me l'ha dato Biggi! — balbettò di nuovo.
— Dove hai riposto la scatola?
Che, poteva rispondere il poverino? Non lo sapeva.
E quando, fruga qua, fruga là, la scatola fu trovata sotto il lettino di lui, per la mamma non ci
fu più dubbio. E il dolore di lei non era tanto pel cappellino sciupato, quanto per la convinzione che
quel ragazzo fosse proprio incorreggibile e le avrebbe dato, crescendo con gli anni, ben più gravi
dolori!
Ma la cameriera la fece riflettere: Quando poteva aver egli commesso quella cattiveria, se
era venuto a casa tardi, dopo il ritorno della signora? La scatola sarebbe dovuta essere sempre su la
consolle, e la signora avrebbe dovuto vederla sùbito, appena entrata. —
— Hai ragione. Ma dunque? E perchè non nega? Perchè si lascia accusare? —
Intrigata, la mamma riprese l' interrogatorio del ragazzo, interrotto per la ricerca della
scatola.
— L'hai guastato tu il cappellino?
— Sì, mamma; perdonami!
— Quando? Dove hai trovato la scatola?
— L'avevano riposta in camera mia.
— Non è vero! — protestava la cameriera.
Vedendo che non avrebbe saputo dire una bugia plausibile per salvare la sorella — oramai
aveva capito che il guasto era opera di lei! — Guglielmino si chiuse in un silenzio invincibile.
La brava cameriera, che, da qualche tempo in qua, aveva cominciato a dubitare della
cattiveria di quel bambino, lo prese in disparte, pregandolo, scongiurandolo di parlare, di dire la
verità. Perchè voleva farsi credere peggiore di quel che non era?
Ma Guglielmino resistè. La mamma lo scacciò dalla sua presenza.
— Quando verrà il babbo! — lo minacciò.
E non aggiunse altro. E quasi per consolarsi si voltò ad abbracciare e baciare Adelina che le
ara stata sempre attaccata alla gonnella durante quella trista scena, muta, impassibile, accigliata.
Impassibile in apparenza, giacchè quella volta l'eroismo del fratellino le dava un turbamento grande,
ch'ella, dominava a stento. Quell'abbraccio e quel bacio della mamma desolata le produssero
l'effetto d'un vuoto al cuore. Le pareva che qualcosa le si fosse rotto dentro quella tal cosa che la
rendeva cattiva, dura, insensibile; e non potè più frenarsi.
— Sono stata io! — balbettò e scoppiò in pianto dirotto.
— Ma perchè ti addossavi sempre le cattiverie di lei? — domandò al ragazzo il babbo che
non rinveniva dallo stupore.
— Le volevo bene! — rispose semplicemente Guglielmino.
— Sei un eroe! — esclamò il babbo.
E dopo che Guglielmino non fu più creduto maligno, sornione, bugiardo, anzi lodato e
ammirato, Adelina diventò buona anche lei; e ai signori Morteni parve d'aver visto rinascere i loro
figliuoli, tanto li vedevano trasformati.
LA ZIA MARTA
Da due mesi in qua, tre volte la settimana, la zia Marta arrivava in casa Lesca pochi minuti
prima di pranzo.
E, ogni volta, scoppio di gioia dalla parte dei bambini:
— Oh, buona zia Marta! Desinerai con noi! —
E risposta invariabile dalla parte di lei
— No, no, figliuoli; è impossibile. —
E mentre gli altri bambini le saltellavano attorno, ridendo, tentando di strapparle l'ombrellino
e il ventaglio, Lina, la maggiore di essi, si affrettava a sbottonarle la giacchetta di seta marrone un
po' stinta. La zia Marta, povera donnina! resisteva alquanto, o faceva le viste di resistere, ripetendo:
— No, no, figliuoli; questa volta è impossibile; — ma finiva sempre col lasciarsi vincere. E appena
la cameriera annunziava che la minestra era in tavola, i bambini, battendo le mani, trascinavano,
anzi quasi portavano in trionfo la zia Marta nella sala da pranzo.
Sorella della mamma della signora Lesca, la zia Marta, dopo la rovina di casa sua per le
sbagliate speculazioni del marito che n'era morto di pena, aveva accettato l'offerta fattale dalla
nipote, di venire a desinare almeno tre volte la settimana da lei. La signora Lesca glielo aveva detto
con maniera così gentile e così affettuosa, da darle l'illusione che lei non ricevesse una carità, ma
concedesse piuttosto un pregiato favore.
Per ciò in quei due mesi la zia Marta non era mancata una sola volta.
La signora Lesca, per non mortificarla neppure davanti ai proprii bambini, non faceva mai
preparare anticipatamente un posto per lei; e la zia Marta cooperava alla rappresentazione di questa
scenetta di sorpresa un poco per un resto di orgoglio di signora decaduta, un po' perchè, così
facendo, le pareva di far piacere alla nipote, a cui ella, che non aveva avuto prole, voleva bene come
a una figliuola.
Nella sala da pranzo, i bambini, al solito, s'erano stretti attorno alla zia Marta, urtandosi,
sospingendosi coi gomiti, pregando con insistenza, tutti assieme, per essere i preferiti nel sedersele
ai lati. Ressa non disinteressata; al dolce e alla frutta, la zia Marta cedeva volentieri anche lei alla
tentazione della gola, e quasi per celare quella debolezza soleva dare grosse porzioni ai due bambini
accanto, scusandosi presso la nipote con un sorriso e con un: — Lasciami fare, altrimenti non posso
mangiarne io! E poi, il dolce non fa male, e le frutte fanno anzi bene allo stomaco! — I bambini lo
avevano sùbito notato, e per ciò volevano che la zia Marta facesse lei, a turno, la scelta dei fortunati.
Quel giorno, intervenne la signora Lesca:
— Zia Marta, vedrà prima chi è stato buono o cattivo. —
I bambini se gli schierarono davanti, accennandole con gli sguardi, con le mani giunte, con
pestare leggermente i piedi, aspettando trepidanti, ansiosi.
Ella stese le mani scarne ad accarezzare quelle testine bionde — i Lesca erano tutti biondi,
— e poi, preso il minore pel mento, lo fissò un istante:
— Tu no, Roberto! Sei stato troppo cattivo con Maria!
Roberto allibito, chinata la testa, si mise silenziosamente da parte.
— Tu no, Maria, sei stata impertinente con la mamma. —
Maria fece il viso rosso e, stupita, andò a mettersi in disparte anche lei.
— Tu sì, Carluccio; questa settimana sei stato proprio buono. —
E Carluccio diè un salto, gridando come un ossesso
— Io sì! Io sì! Grazie, zia Marta! —
La zia Marta continuò la rivista: —
— Tu no, Ersilia! Hai detto una bugia!... Che vergogna! —
Ersilia non protestò; la guardò negli occhi stralunata di vedersi scoperta dalla zia Marta, che
pure da due giorni non era venuta in casa loro.
— Tu sì Lina,... sì, sì,... quantunque...!
— Hai detto sì! — esclamò Lina, mettendole graziosamente una mano su la bocca, e
saltandole al collo.
Dopo desinare, mentre la signora Lesca e gli altri commensali prendevano il caffè, i bambini,
radunatisi in fondo all'ampia terrazza, si erano messi a confabulare intorno a quel miracolo della zia
Marta, che aveva letto loro in viso le cattiverie dei giorni scorsi.
— Come ha fatto?
— La mamma dice che è una santa.
— Le bugie si rivelano su la punta del naso.
— Ma le altre cose?
— È una strega, perchè è vecchia — disse Roberto.
— Oh! esclamarono gli altri, indignati.
Roberto avrebbe dovuto prendersela con sè stesso, se da un mese non aveva ottenuto il
favore di sedere accanto alla zia Marta una sola volta. Invece egli insistè:
— È una strega! — E soggiunse: — Ma io gliene farò una!... Vedremo se indovinerà.
— Che le farai? Bada!
— Non voglio dirvelo. —
Due giorni appresso, la zia Marta era tra i bambini su la terrazza a distribuire sorsi di caffè
col cucchiaino, divertendosi della loro gioia per un regalo così piccolo. La zia Marta aveva il dono
di farsi voler bene sùbito dalle persone che l'avvicinavano; e i bambini Lesca, che la trovavano
sempre buona e condiscendente con loro e che non invocavano mai invano l'intercessione di lei
quando volevano ottenere qualcosa non voluta concedere dalla mamma, i bambini Lesca ne
andavano proprio matti.
La signora Lesca, sorbendo il caffè, sorrideva a quella scena affettuosa e non osava di
sgridare i figliuoli, che dimezzavano così la tazza della buona zia. Tutt'a un tratto, quasi colpita da
un'idea subitanea, fu vista posare in fretta la tazza sul tavolinetto e rientrare nelle stanze. Quando
tornò, poco dopo, la zia Marta che cercava di lei, la vide un po' turbata.
— Che è accaduto?
— Niente.
— Mi sembra però....
— Niente, te lo assicuro. —
E la zia Marta, accortasi allora della mancanza di Roberto tra i bambini che avevano
ricevuto le cucchiaiatine del caffè, gli disse:
— E tu, lo vuoi anche tu un cucchiaino di caffè? —
Roberto alzò una spalla, e andò a raggiungere il fratellino e le sorelline.
— Scappa! — esclamò la zia Marta. E chiamò: — Bambini! —
Al solito, tutti l'accompagnarono in salotto insieme con la mamma, e Lina aiutò la zia a
indossare la giacca di seta marrone e a mettersi in testa il cappellino.
Roberto, quasi nascosto tra Ersilia e Maria, sbarrava tanto di occhi. Come? Poco prima egli
aveva sgualcito quel cappellino in modo da renderlo irriconoscibile, e ora lo vedeva intatto come se
niente fosse stato? Era dunque davvero una strega, la zia Marta? O una santa, che faccia miracoli?...
O aveva egli scambiato il cappellino della signora Vitti, invitata quel giorno a pranzo anche lei, col
cappellino della zia Marta?
E fu atterrito, e si fece forza per non tradirsi. Infatti ebbe la sfrontatezza di accostarsi alla zia
Marta e lasciarsi baciare e baciarla.
Per due giorni, però, Roberto visse in grandissima ansietà; non sapeva spiegarsi il prodigio,
paventava un gastigo nascosto, com'era stata appunto la sua cattiva azione; ed era maggiormente
ansioso, perchè fra tre giorni si sarebbe festeggiato l'onomastico della mamma, e nessun gastigo gli
pareva più doloroso della probabilità di vedersi vietato di assistere alla festa.
Poi si rasserenò; nessuno fiatava del cappellino sgualcito e miracolosamente aggiustato; e la
mattina dell'onomastico, egli recitò tranquillamente, insieme con gli altri, la poesiucola di
occasione, che il maestro gli aveva fatto imparare a memoria. Non era proprio pentito della
cattiverìa fatta, ma godeva intanto d'averla scampata bella.
Entrò in salotto la zia Marta, con un grazioso mazzo di fiori freschi in mano:
— Non sono fiori rari, ma sono dei miei vasi e coltivati da me. —
E i bambini, tutti attorno a lei!
— Oh, belli, belli, zia Marta! —
La zia Marta si fece seria seria, si cavò di testa il cappellino, e mostrandolo ai nipotini,
domandò:
— Sentite che cosa dice il mio cappellino? Egli parla in questo momento.
Tutti la guardavano, ammutoliti. Roberto, diventato rosso come una ciliegia, aveva
abbassato gli occhi; avrebbe voluto trovarsi dieci metri sotterra. La zia Marta continuò:
— Il cappellino dice: « Che male avevo fatto al cattivo che è venuto a sgualcirmi?» giacchè
c'è stato chi ieri l'altro lo ha sgualcito, e il povero cappellino ha durato gran fatica per ridursi
com'era prima. Non lo sapete voialtri che le cose mie sono fatate? E ora vedrete una cosa
meravigliosa. —
I bambini, meno Roberto, guardavano la mamma e non osavano protestare per la loro
innocenza.
— E ora vedrete una cosa meravigliosa — replicò la zia Marta.
— Colui che ha fatto la cattiveria, se n'andrà di là zitto zitto e si gastigherà da sè e non
prenderà parte alla festa della mamma. —
E Roberto, quasi ci fosse stato qualcuno che lo avesse preso per le spalle, scoppiando in
pianto dirotto, scappava via, tra lo stupore del fratellino e delle sorelline.
— Mamma — domandò Carluccio più tardi — parla davvero il cappellino della zia Marta?
E la signora Lesca, trattenendo a tempo un sorriso, rispose:
— L'hai visto. Ha rivelato che il colpevole era Roberto. —
Allora i bambini si diedero una facile spiegazione sul come la zia Marta indovinasse le loro
cattiverie ogni volta che veniva a pranzo da loro; spiegazione simile a tante altre che di tante altre
cose si dànno spesso coloro che sono tutt'altro che bambini.
CARATELLO
Caratello s'era voltato, tenendosi il mento con la mano sinistra, e reggendo con l'altra il
bastone sotto l'ascella. Quel ragazzo che dalla cantonata gli urlava dietro: — Caratello! Caratello!
— egli lo aveva visto la sera innanzi.... Dove?
In quel momento una signora con l'ombrellino, e che teneva sollevata la parte posteriore
dell'abito, s'era fermata davanti a lui sorridendo.
— Che ci trova da ridere? — le disse brusco brusco.
— Ah! Lei è il signor Caratelli? — rispose la signora.
— Caratello, un corno!
— Non è lei ?...
— Caratello, un corno! — replicò più stizzito.
— Scusi, scusi, — riprese la signora imbarazzata. — Cercavo di lei; sono stata a casa sua....
— E lei chi è? Mi chiamo Sbrigli, non Caratello, per sua norma.
— Scusi allora — disse la signora. — Io cercavo proprio del signor Caratelli.
— Se è sorda, si faccia sturare gli orecchi! —
Aveva perduto il lume degli occhi, come ogni volta che i ragazzi gli urlavano dietro quel
nomignolo, per cui montava sùbito in bestia.
Glielo avevano appiccicato i ragazzi Barini in casa dei quali egli andava tutti i giovedì a
desinare. I Barini incontratolo una volta uscendo di scuola, gliel'avevano ripetuto, scherzando,
davanti ai compagni. E allora era accaduto un diavolìo. Tutti i fanciulli che ingombravano ancora la
via, si erano messi a gridare:
Caratello! Signor Caratello! Viva Caratello! — E poichè il signore Sbrigli aveva tirata
una bella bastonata al più vicino, che vociava più degli altri, il guaio era diventato irrimediabile. Per
una buona mezz'ora i ragazzi, a debita distanza, gli erano andati dietro, strillandogli: — Caratello!
Caratello!, — e avevano dovuto intervenire due guardie per liberarlo. Il signore Sbrigli, era tornato
a casa verde dalla rabbia, più verde d'un aglio.
Ora, fermato sull'orlo del marciapiede, guardava quel ragazzo che non smetteva di gridargli
l'abborrito nomignolo.... Dove lo aveva visto la sera innanzi? Voleva accusarlo ai genitori, fargli
fare una bella sgridata, e anche fargli dare una lezione manesca, come avrebbe voluto dargliela lui,
alla lesta, se il ragazzo non fosse stato già in atteggiamento di scappar via alla prima mossa di
Caratello.
Dove l'aveva visto? In casa Barini: sissignore, ora se ne ricordava benissimo. Era il nipote
della signora Corsi, stata invitata anche lei da quella brava famiglia.
Il signore Sbrigli fece un cenno colla mano al ragazzo per dirgli: — Aspetta, ti concerò io!...
E gli voltò le spalle, filosoficamente, dondolandosi proprio come un caratello, con quella
pancina su le gambine corte, e il bastone dal manico ricurvo sotto l'ascella.
Giusto, la signora Corsi abitava lì vicino, in via dei Serpenti.
Salì le scale, guardando a ogni pianerottolo le placche degli usci. Al terzo piano, già soffiava
come un mantice: e rimanevano altri due piani! Abitava proprio in paradiso quella signora! Sul
pianerottolo dell'ultimo piano c'erano tre usci e senza placche. Egli suonò a quello di destra, una
scampanellata lunga lunga, perchè non aveva saputo misurare l'impeto del braccio. Nessuno veniva
ad aprire.
Allora suonò all'uscio di mezzo, un'altra scampanellatona. Nessuno veniva ad aprire. Il
signore Sbrigli attese due minuti, e andò a suonare al terzo uscio, un'altra scampanellatona più
rabbiosa delle due prime. Nessuno venne ad aprire. Rimase là, sconcertato, confuso,
rimproverandosi la sbadataggine di non aver chiesto informazioni al portinaio. E prese a discendere,
rileggendo più attentamente le placche: Avv. Talli; Dott. Bracciolani; Squilla; signora Balestri;
Paolo Ciolli, dentista.... Ed era già al primo piano.
Aveva sbagliato uscio? Il numero della casa era esatto: 72. Se lo era scritto quella sera,
perchè la signora Corsi lo aveva invitato ad andar a vedere certi quadri di cui voleva disfarsi: quella
sera s'era parlato di quadri antichi, e il signore Sbrigli aveva detto di conoscere un antiquario molto
intendente.
Il portinaio? Ma che forse i portinai romani stanno al portone? Il signore Sbrigli cominciava
a perdere la pazienza, quando entrò un ometto in maniche di camicia, sudicio, con un barbone
ispido, brizzolato, e una folta capigliatura arruffata; l'ometto non lo guardò neppure; e si mise a
sedere su uno sgabello.
— La signora Corsi? — domandò lo Sbrigli.
— Al quarto piano — rispose l'ometto senza scomporsi.
— Come al quarto piano? Non c'è indicazione....
— Dalla signora Balestri.
— E il nipote sta con lei?
— Che nipote? Non ha nipoti.
Egli rimase lì, a bocca aperta. Aveva fatto inutilmente cinque branche di scale!
E uscendo, alla cantonata chi vide?
Il supposto nipote della signora Corsi e altri tre ragazzi che evidentemente lo attendevano.
Aveva sùbito presa una risoluzione ammansirli con un regalo!
Povero signore Sbrigli! Gli andò incontro, come ad amici, a vecchie conoscenze, col sorriso
su le labbra, dicendo:
— Sentite ragazzi; ridiamo insieme; venite qui! —
I ragazzi che stavano per gridare: Caratello! scombussolati da quell'insolita dolcezza, non si
mossero.
— Già, sono il signor Caratello, ma mi chiamo Sbrigli veramente. Perchè mi canzonate?
Non sta bene. Se siete buoni e gentili, come si conviene a ragazzi ben educati, dovete smettere, e
dirlo anche ai vostri compagni. Caratello poi che significa? Perchè sono un po' grasso? Venite qui,
dal pasticciere, voglio farvi un regalo. —
I ragazzi rinculavano, ma non osavano gridargli in faccia il nomignolo.
— Vi regalo una bella pasta per uno. Dico davvero; una bella pasta per uno. Venite, venite.
I ragazzi, sbalorditi, si guardavano negli occhi, consultandosi, tratti dalla gola.
— Sei tu il nipote della signora Corsi? — disse a colui che gli era parso di riconoscere. Il
ragazzo rispose di no.
— No? Non vuol dir niente. Vieni, venite. —
Parlava così alla buona, calmo, sorridente che, appena il primo si mosse, gli altri tre gli
tennero dietro, ed entrarono dal pasticciere preceduti dal signore Sbrigli.
— Quattro paste a questi ragazzi! — egli ordinò allegramente.
I ragazzi, sbuffando dal ridere, presero le paste, le mangiarono, e mentre il signore Sbrigli
pagava uscirono dalla pasticceria, dandosi spintoni e urlando a squarciagola:
— Grazie, signor Caratello! Viva il signor Caratello! —
Non se l'aspettava? Briganti! E diè due salti, col bastone brandito. Colti alla sprovveduta, i
ragazzi si erano lasciati facilmente raggiungere e non sapevano come ripararsi dai colpi di quel
furioso, che li investiva da tutti i lati, picchiando come un orbo dove capitava, su le spalle, su le
braccia, rincorrendo questo, colpendo quell'altro, spaccando teste....
Era diventato proprio furioso. Due carabinieri lo afferrarono a stento, se lo misero
sottobraccio, e lo condussero via, senza cappello, schiumante, urlante:
— Costoro dovreste arrestare, costoro!
— In questura, il delegato gli domandò — Come vi chiamate?
— Caratello!... —
A quest'uscita il signore Sbrigli, scoppiò a ridere, a ridere, tanto che il delegato credette
d'aver da fare con un matto.
Ora che se lo era detto da sè, nel colmo della collera, il signore Sbrigli aveva, a un tratto,
capito che il torto era suo. Perchè s'arrabbiava coi ragazzi? E si ricordò che anche lui da ragazzo
aveva fatto come loro.
— Ah! ah! ah! — rideva, rideva. — Caratello! Ah! ah! —
Poi spiegò la cosa al delegato, scusandosi, e andò a casa in carrozza, perchè aveva perduto il
cappello.
Da quel giorno in poi, ogni volta che i ragazzi gli urlavano dietro: — Caratello! — tirava
via, diritto, come se non dicessero a lui. Se avesse fatto così fin dal principio! Infatti, non vedendolo
più arrabbiare, i ragazzi smisero presto.
Questo però non vuol dire che essi non fossero maleducati e cattivi! Perciò i genitori di
quelli che avevano ricevute le legnate e avevano avuto la testa spaccata, vedendoli tornare a casa
conciati a quel modo, avevano risposto approvando
— Ben vi sta! —
POVERO NONNO!
A ogni regaluccio, a ogni condiscendenza ai capricci dei nipotini — erano ventidue, proprio
un esercito! — si udiva scoppiare da tutte quelle bocche di bambini, di fanciulli, di ragazzi
l'immancabile esclamazione
— Povero nonno! —
E mai esclamazione aveva avuto significati così vari e così ricchi di sfumature come questa.
Povero nonno! voleva significare ora ringraziamento, ora applauso, ora gentile e affettuosa
compassione, ora tant'altre cose carezzevoli, allegre, e talvolta fin un che di ironia birichina, quando
il povero nonno dimenticava i suoi settant'anni e si metteva a fare il bambino, il fanciullo, il
ragazzo, secondo l'età dei nipotini con cui si trovava.
Spesso quell'esercito si riuniva nel gran salone di lui, prima e dopo il pranzo, il giorno che il
vecchietto invitava le cinque famiglie dei suoi figliuoli per vederseli attorno e rallegrarsi di quelle
due generazioni che dovevano perpetuare il nome e il casato dei Morani; e allora era un chiasso, un
frastuono a cui soltanto il nonno reggeva; gli altri babbi, mamme, zie, andavano a rifugiarsi nelle
stanze più lontane o su la terrazza o in giardino esclamando: — Povero nonno! — quasi egli fosse il
nonno di tutti.
Come riuscisse a contentare tutte quelle testoline capricciose, come tenesse in buona
armonia tutti quei caratteri così diversi, come operasse il miracolo di far sparire in quei momenti le
sproporzioni degli anni riducendo i nipotini quasi di un'età sola, era un suo segreto, o forse
invidiabile istinto di cui neppure lui stesso avrebbe saputo dar ragione.
Quel buon vecchietto si faceva, naturalmente, senza nessuno sforzo, piccino coi piccini,
fanciullo coi più grandetti, ragazzo con coloro che già toccavano i quindici anni; ed anche
maschietto coi maschi, bambina con le bambine, quasi signorina con Elda, che si dava l'aria di
signorina perchè era alta e sviluppata tanto da sembrare di più età che non fosse, quantunque poi
fosse la maggiore di tutti.
Elda, infatti era, com'egli la chiamava, il suo aiutante di campo; faceva eseguire gli ordini
del nonno, regolava i giuochi, ed anche, occorrendo, dispensava qualche gastigo, un lieve
scapaccioncino, a chi se lo meritava. Il nonno, uomo all'antica, aveva molta fede nelle buone
maniere, ma moltissima pure nei gastighi corporali, dati opportunamente e senza risparmio perchè
fossero più efficaci.
Elda non abusava di questo incarico di giustiziera; e se i suoi scapaccioncini sfioravano
appena la pelle, erano però accompagnati da certe occhiatacce e dal caratteristico brontolio di un: —
Povero nonno! — che facevano sempre grandissimo effetto.
Del resto, tutti quei nipotini, che non potevano dirsi, in verità, tanti agnellini, erano talmente
liberi di fare quel che più loro pareva e piaceva, e la presenza del nonno li metteva in così grande
allegria, che l'occasione di un gastigo si presentava raramente. Saltare, urlare, correre, mettere ogni
cosa sossopra, ma senza nulla sciupare, tutto era permesso dal nonno compiacente, che saltava,
urlava, correva più di loro.
Una volta, di carnevale, Mario terzo, — il nonno si chiamava Mario, e perciò nelle cinque
famiglie c'erano quattro Marii e una Maria, e per distinguerli meglio chiamandoli, egli soleva
aggiungere al nome l'aggettivo numerale — una volta dunque, di carnevale, Mario terzo gli
domandò:
— Nonno, ti sei mai vestito in maschera?
— Certamente, quand'ero ragazzo.
— Non t'abbiamo mai visto mascherato!
— Màscherati, nonno, màscherati! —
E mentre tutti urlavano affollandoglisi attorno, pregandolo e accarezzandolo perchè
accondiscendesse, Elda era andata di là a prendere una veste della cuoca; e tornata in fretta, gliela
aveva infilata, fra le risate e gli applausi dei fratelli e dei cugini. E il povero nonno rideva, faceva
sgambetti e smorfie, e si lasciava trascinare, quasi in trionfo, nelle stanze dove i suoi figli, le
figliuole, i generi, le nuore s'erano rifugiate per evitare il chiasso.
— Povero nonno! —
Ed era stato un momento d'indimenticabile allegria.
Un'altra volta Elda gli aveva domandato:
— Nonno, sai ballare il minuetto? Ridiventa di moda.
— Il minuetto?... Mi pare di sì.
— Dovresti darmi qualche lezione.
— Condurrò qui Mencacci.
— Chi è Mencacci?
— Un famoso maestro di ballo. —
E l'aveva condotto.
Mencacci, corto, tondo, coi baffetti ritinti, con un pancione che il corpetto bianco faceva
risaltare di più, e con gambette magre che pareva stentassero a reggere il peso del pancione, s'era
messo a ballare canticchiando il motivo della danza.
Elda, rimasta da prima sbalordita dal grottesco di quella figura, scoppiava poi in una risata
così irrefrenabile che non era stato possibile star a guardarlo e prendere la lezione.
Quando il Mencacci, mortificatissimo, fu andato via, il nonno disse ad Elda:
— Vien qui, proverò io; ma non ridere. —
E il vecchietto diede la lezione così elegantemente, che Elda, per dimostrargli la sua
gratitudine e, più, la sua ammirazione, gli saltò al collo e lo baciò, ripetendo a ogni bacio:
— Povero nonno! —
Ma il più bel giorno del povero nonno — se lo diceva da sè, raccontando l'avventura — era
stato quello in cui gli era capitato di guadagnare cinque soldi.
Mario quarto aveva sfasciato un carrettino, e le sua mamma gli aveva permesso di andare,
accompagnato dal servitore, dal fabbro per farselo raccomodare; gli aveva dato anche cinque soldi
per pagare l'operaio.
Mario quarto, per via, aveva pensato che il nonno, sapendo fare tant'altre belle cose, dovesse
anche saper raccomodare i carrettini sfasciati; perciò s'era ostinato ad andare da lui, invece che dal
fabbro; il servitore aveva dovuto secondarlo.
— Nonno.... ecco! —
E mostrò il carrettino.
Il buon vecchietto aveva capito sùbito. Per amore del nipotino si era improvvisato fabbro
facendo alla meglio la raccomodatura.
E come rise di cuore allorchè Mario quarto serio serio, gli mise in mano i cinque soldi che
gli aveva dati la mamma!
— Povero nonno! — esclamò il bambino.
— Ma il nonno quella volta rispose allegramente:
— No, oggi non sono povero: ho guadagnato cinque soldi! —
E incartàtili e scrìttovi su un motto che ricordava l'avventura, li ripose in un cassetto.
Mario quarto però, tornando a casa col carrettino che il nonno gli aveva colmato di confetti,
diceva contento al servitore:
Oh, questi qui son più di cinque soldi!... Povero nonno! —
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