piattini dolci (bisogna, Don Giuseppe, ch'ella venga ad assaggiarne uno il primo giorno che avrà
tempo. S'intenda con Amilcare), mettendoci, confesso, un poco d'ambizione. Del resto dicevano che
la mia salute era delicata. Ella, signor curato, mi guarda qualche volta in faccia con un cert'occhio
compassionevole, come se dicesse: poveraccia, è tanto magra, tanto pallida! Amilcare mi ha, come
dice lui, ascoltata più volte: non ha trovato, dice lui, neanche l'ombra del male. Fatto sta che io non
sono mai obbligata a rimanere a letto, e che posso dichiararmi sul serio una grande camminatrice,
una vera alpinista. Anzi, a questo proposito, vorrei ch'ella persuadesse Amilcare a farmi camminare
meno. Quand'egli va nelle montagne alla visita de' suoi malati, vuole, quasi ogni volta, ch'io lo
accompagni; ieri mi condusse con quel sole, verso le due, sino a Masine dalle scorciatoie dei
viottoli; un'ora e mezzo di salita, e che salita, e che sassi! Giunta nel paese, mi cacciai a sedere in un
angolo della chiesa, una chiesa umida e melanconica, dove mi toccò attendere due orette buone che
Amilcare avesse finito di dar ricette e di cavar sangue, e intanto mi sentiva tutta intirizzita da un'aria
fredda gelata. Non ho coraggio di dir di no. Amilcare osserva giustamente che il camminare desta
l'appetito, e che io, avendo bisogno di rinvigorirmi, devo mangiare, carne sopra tutto, e bere almeno
un bicchiere di vino; ma il vino proprio mi ripugna, non lo dico per affettazione, e la stanchezza mi
toglie anche quella poca voglia di mangiare che aveva dianzi.
Signor curato, ella non ignora come fu il caso delle mie nozze. Amilcare è il mio solo
cugino; era, si può dire, il solo giovinotto che, ne' mesi d'autunno, frequentasse la nostra casa; e poi
buono, bello, di bei modi cortesi, e con una vivacità di parlare tutta sua; studiava molto; a Vienna si
faceva onore; era diventato dottore, e poi medico condotto in questa valle. In somma, quanti sogni
io andava mulinando nel mio cervello! Stava desta la notte per poter continuare le belle fantasie,
parendomi che la intera giornata non bastasse a tante care e interminabili meditazioni. Mio padre si
mostrava poco contento; gli piaceva poco ch'io dovessi sposare un medico; diceva che i medici sono
tutti materialisti, parola ch'io non capiva bene, ma che non mi piaceva affatto; e mi dipingeva la vita
di questa valle come una specie di sepoltura: otto mesi d'inverno, la neve alta sei piedi, tredici gradi
di freddo, impossibile a una donna l'uscir di casa, le ansie per il marito, un mondo di guai. Ed io
pensavo all'opposto dentro di me; l'inverno sarà il mio paradiso; due stanzette ben calde, fiori
accanto alle stufe, i miei ricami, la mia cucinetta, qualche lettera alla mamma, e poi, anzi prima di
tutto, sopra tutto, il mio Amilcare sempre indulgente, sempre grazioso, sempre allegro, e che lunghi
discorsi, e come sarà contento di tornare nella sua casina, presso la sua Carluccia, che gli vorrà tanto
bene! Scusi, signor curato: sono una vera sciocca. Dunque ci siamo sposati; il viaggetto di nozze, un
incanto; il primo mese in questa valle una delizia. A dirgliela però Amilcare fumava un poco troppo
anche in principio, e mi appestava la camera.
Io non diceva niente; ma qualche volta mi mancava il respiro, mi sentiva un tantino di mal di
stomaco. Cose da nulla. Il mio sposo mi amava; discorreva sempre del futuro, quando ci pianteremo
in una città, e il suo nome diventerà celebre, e guadagnerà tanti quattrini, e gli pioveranno addosso
tanti onori, e darà delle grandi feste, nelle quali io dovrò essere acconciata da vera regina.
Quest'ultima parte non mi andava a' versi; ho sempre avuta poca inclinazione a figurar nella gente.
Certe piccolezze mi davano già ombra, m'offendevano un poco; aveva torto.
Il male è cominciato quasi ad un tratto, quando venne ad abitare nella villa accanto a lei,
signor curato, quella donna che dicono la baronessa, e quando, fino dal primo giorno del suo arrivo,
mandò in gran furia a chiamar mio marito. Da quel momento non è stato più lui. Ha cento fumi per
la testa; pare che si vergogni di me; e non ostante mi sforza a seguirlo nelle sue camminate sui
monti, ma non mi guarda, non mi parla, non m'aiuta nemmeno a salire un'erta o a passare un'acqua.
Anche in casa, se gli parlo, mi risponde sì o no, o non risponde affatto; ogni sua parola, quando
finalmente la dice, è un rimprovero o, che mi duole ancora più, un sarcasmo: non so più né vestirmi,
né pettinarmi, né quasi mettere alla bocca il cucchiaio, né adoperare la forchetta e il coltello. La casa
gli sembra piccola; non gli piace né il desinare né la cena, per quanto io mi lambicchi
nell'indovinare i suoi gusti e nel condire e cuocere le vivande. È andato quattro volte a cenare
all'osteria con i carrettieri, ed anche le altre sere, quando non è alla villa o non esce per i suoi malati,
va a bere la genziana, e ne beve (mi vergogno) più di un bicchierino di certo. Allora poi! Mio signor
curato, mio buon Don Giuseppe, mi aiuti: io ci perdo la testa e ci muoio. A mio padre, alla mamma
non posso dir nulla; ella, Don Giuseppe, è la sola persona sulla terra che mi sappia compatire e
soccorrere.