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TITOLO: SEMIRAMIDE
AUTORE: ANTON GIULIO BARRILI
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: NO
LICENZA: QUESTO TESTO È DISTRIBUITO CON LA LICENZA
SPECIFICATA AL SEGUENTE INDIRIZZO INTERNET:
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TRATTO DA: SEMIRAMIDE : RACCONTO BABILONESE,
DI ANTON GIULIO BARRILI,
FRATELLI TREVES EDITORI,
MILANO, 1895
CODICE ISBN: INFORMAZIONE NON DISPONIBILE
1A EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 3 LUGLIO 2000
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: AFFIDABILITÀ BASSA
1: AFFIDABILITÀ MEDIA
2: AFFIDABILITÀ BUONA
3: AFFIDABILITÀ OTTIMA
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
ALEF, HALEPH_H@TIN.IT
REVISIONE:
VALSECCHI EDDA, EDDA.VALSECCHI@LIBERO.IT
PUBBLICATO DA:
ALBERTO BARBERI
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SEMIRAMIDE
di
ANTON GIULIO BARRILI
A GEROLAMO BOCCARDO
Non perchè vai meritamente famoso tra i migliori ingegni d'Italia, non perchè si ha conforto
di vanità a mostrarsi in dimestichezza coi sommi, ma perchè nella tua grandezza sei buono, ma
perchè io t'amo come un fratello, intitolo a te questo frutto delle mie più liete fatiche.
Uomini giunti in alto, che sappiano e vogliano esser liberali d'aiuto ai minori, ce n'ha
pochi, pur troppo. Io, per me, non ne conosco che uno, il quale, già illustre per virtù sua e per
consenso universale, s'è pigliata un giorno spontaneamente la molestia di volgersi indietro, farsi
patrono, anzi guida amorevole, ad un suo giovane concittadino, e bandirne il nome fuor della
cerchia ristretta, quantunque cara, della sua terra natale.
A te son debitore di tanto. Quel po' di benevolenza che il mio nome ha raccolto, mi deriva
dal tuo patrocinio. Auguro, a più degni di me, valentuomini che seguano il tuo nobile esempio. E a
costoro, gratitudine pari a quella che nutre per te il tuo
DI GENOVA 1.° SETTEMBRE 1873.
ANTON GIULIO BARRILI.
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SEMIRAMIDE
CAPITOLO PRIMO.
ALLE PORTE DI BABILU.
Sulle rive dell'Eufrate si stende un'ampia, lieta e ubertosa contrada, il cui nome è Sennaar tra
i figli di Cus, pingue d'armenti, di biade e d'ogni maniera dovizie, versate a piene mani sovr'essa dal
possente Iddio delle acque, poich'ebbe mutate in doni di fecondità le sue ire devastatrici.
Quivi, a mezzo il corso del gran fiume, sorge una città, la più vasta che il mondo abbia
veduta mai, edificata da Nemrod, figlio di Cus, potente cacciatore nel cospetto di Nebo, insieme
colle genti scampate dall'acque, prima che, a guisa di rena travolta dal turbine, si sperdessero sulla
faccia della terra. Però il nome suo fu Babilu, che significa la porta di Ilu, il dio del diluvio, e la
sacra città si restrinse da principio sulla sponda destra del fiume, intorno a Barsipa, la gran torre
delle lingue, che gli edificatori suoi aveano lasciata a mezzo, confusamente favellando, sbigottiti dal
tremuoto e dalla folgore. Così Nebo, il Dio che genera sè stesso, il dominatore che comanda alle
legioni del cielo e della terra, aveva custodita l'azzurra sua sede contro le audaci imprese dei figli
dell'uomo.
1
Quindici età sono di poco trascorse sotto la grand'ala di Nisroc, e già l'ampliata Babilonia,
tempio e dimora de' sommi Dei, si estende sui due lati del fiume, cui sembra ella stringere tra le
braccia amorose, come giovine donna lo sposo che la ricolma d'ebbrezza. A lei non ardisce
paragonarsi Ninive, pur dianzi edificata da Assur, la quale attenderà lungamente ancora il suo Tiglat
Pileser, il fortunato monarca che la porrà a capo del grande impero d'Assiria. Sippara,
l'antidiluviana, Ur de' Caldei, Larsa, Calneh ed Erech, dense di popolo, felici di arti e di traffichi,
non risplendono intorno a lei che come i pianeti intorno al sommo datore di vita e di luce, il cui
tempio e il simulacro ella accoglie nel suo venerato recinto.
E qui, sotto lo scettro poderoso dei discendenti di Nemrod, si raccolgono quattro schiatte; i Sumir
aspro favellanti; gli Accad gelosi custodi della scienza arcana de' cieli; i Turani discesi al piano per mezzo
alle tribù fraterne dei Medi; gli avanzi della stirpe di Sem, cacciata più su, dal conquistatore cussita, a metter
dimora sulla terra di Nahraim. Nè solo la vasta pianura obbedisce al glorioso popolo di Kiprat Arbat, o delle
quattro favelle; anche sulle alture, e per le chine di là dai monti, il valore di Nino estese l'imperio di Babilu;
e pur dianzi, la fortuna di Semiramide spaziò dal lido di Tiro alle convalli della Bakdiana, dalla terra degli
aromi cui bagna l'Eritreo, fin oltre alle sorgenti dell'Eufrate e del Tigri. Curvarono il capo le vinte nazioni; i
principi lontani furono astretti a tributo.
I più tra costoro lo pagavano di buon grado. Scendevano essi riverenti e stupiti a Babilonia,
come alla città sacra dominatrice del mondo. Era così maestosa la dimora de' sommi Dei! Ed era
così splendida la reggia della gran vedova di Nino! Omaggio prestato a donna non umilia i nati di
donna, e Semiramide, per la sovrumana venustà delle forme, piuttosto accresciuta che scemata dal
corso degli anni, appariva cosa di cielo, anzi che frutto di mortale connubio. E invero, non tanto per
cingere d'una poetica nube un oscuro natale, quanto per aggiunger luce ad una bellezza che
facilmente si potea creder divina, i sacerdoti di Barsìpa avevano letto negli astri esser costei la
figliuola di Derceto, della gran dea d'Ascalona, fin da quel giorno che Nino, perdutamente invaghito
di lei, la tolse al primo marito, per farla regina del suo cuore, arbitra e donna del più gran trono della
terra.
Ed ella oramai, estinto il consorte, regnava sola, temuta e felice. A' suoi cenni la città s'era
ampliata, cinta di mura, ornata di sontuosi edifizi. Due milioni d'uomini avevano lavorato per lei; gli
uni a scavare il suolo, gli altri a foggiare in mattoni l'argilla smossa, altri ancora a trarre il bitume
1 Il caso della torre di Babele è fissato dalla iscrizione di Nabucodonosor a quarantadue età, o vite d'uomini (2940 anni) prima di quel re, il che
condurrebbe a 3540 anni avanti l'Era volgare.
L'iscrizione cuneiforme, trovata a Barsipa, e interpetrata dal dottissimo Oppert, ha il seguente paragrafo:
"Il tempio delle sette luci della terra, a cui si collega il più antico ricordo di Barsìpa, fu edificato da un re antico (si noverano già da quel tempo
quarantadue età); ma egli non ne innalzò il vertice. Gli uomini lo avevano abbandonato dopo i giorni del diluvio, confusamente favellando. Il
tremuoto e la folgore aveano dispersa la sua argilla disseccata al sole; i mattoni cotti che la rivestivano si erano screpolati; l'argilla dell'interno s'era
sfasciata in colline. Il gran dio Merodac ha inspirato il mio cuore a riedificarlo; io non ho mutato il sito, non ho intaccate le fondamenta
dalla vicina terra di Is. Anzitutto s'innalzan le mura, ampie, valide alla difesa e maravigliose alla
vista. Nivitti Bel, il recinto interno, è lungo trecento sessanta stadii, alto cinquanta cubiti, largo
diciotto; Imgur Bel, il baluardo esterno, gira quattrocento ottanta stadii, si leva novanta cubiti
sull'ampia fossa che lo circonda, e, sullo spalto di cinquanta che lo incorona, sorge una doppia fila
di torri, per mezzo alle quali è libera la via ad una quadriga scorrente. Queste mura, ne' cui fianchi si
aprono cento porte di bronzo, son di mattoni, una parte acconciamente disseccati, l'altra cotti in
fornace; e ad ogni trenta strati di mattoni s'alterna uno spesso graticciato di canne, intrise nel
bitume, sporgenti oltre la superficie del muro, di guisa che la rossiccia mole appare da lontano
vagamente listata di nero.
Il biondo Eufrate scorre nel mezzo; epperò le mura, giunte al confine dell'acque, si volgono
ad angolo, si rimpiccioliscono e s'assottigliano in forma di parapetti, lunghesso i margini bastionati
del fiume, su cui vengono a mettere, per altrettanti sbocchi, le vie della città, ampie e diritte, tutte a
riscontro delle cento porte di bronzo. Sui lati di queste vie, frequenti di popolo, si alzano le case a
tre o quattro piani, spaziose, non contigue tra loro, ma frammezzate da giardini e da piazze. Sulla
riva destra è la città sacerdotale, col suo tempio di Belo, alta piramide di sette piani, dipinti dei sacri
colori delle sette luci della terra, dalla cui cima Belo, il gran dio di Babilonia, contempla la sua
diletta città. Sulla riva sinistra è la reggia, chiusa da un muro ornato di stupende pitture, sormontata
da terrazzi e pensili giardini. Congiunge le due rive un ponte, lungo cinque stadii, sorretto da pile
profondamente piantate nell'alveo dell'Eufrate. Son esse di pietre strettamente congiunte da ramponi
di ferro, saldati col piombo, e le facce esposte alla correntìa del fiume appaiono stagliate ad angolo
acuto. Il ponte, venti cubiti largo, è un tavolato di cedri e cipressi, sostenuto da enormi tronchi di
palma.
Tanto ha potuto far Semiramide, ed altro ancora, chè braccia di manovali non potevano
mancare alla conquistatrice della Fenicia e della Bakdiana, donde eran venute dietro al suo cocchio
di guerra così lunghe file d'incatenati prigioni. In quella guisa che le mura della città, i templi, i
giardini, narrano la sua magnificenza ai venturi, l'Eufrate, rattenuto da argini poderosi pel corso di
molte giornate, a giuste distanze sviato in ampii canali navigabili, partito in migliaia di rivi a
benefizio dei campi, addimostra le cure sapienti della regina per la felicità del suo popolo. Epperò
ella potrà, senza menzogna, scrivere lungo le mura della sua reggia questi nobili vanti:
"La natura mi diè forme di donna; ma le mie geste m'hanno agguagliata al più forte tra gli
uomini. Io tenni sotto la mia legge l'impero di Nino, il quale non è conterminato ad oriente che dal
fiume Indo, a mezzogiorno dalle regioni dell'incenso e della mirra, a settentrione dai Sogdiani e dai
Saci. Prima che io fossi, niuno dei Babilonesi avea visto il mare; io quattro ne vidi, e così lontani,
che il giungervi non era dato ad alcuno. Costrinsi i fiumi a correre dov'io volli; nè il volli, se non
dove tornasse utile alle mie genti. Fecondai le sterili pianure; murai cittadelle inespugnabili; tra
roccie impraticabili apersi sentieri col ferro; ampie strade si schiusero ovunque io passai, e i miei
carri sonanti trascorsero dove pur dianzi duravan fatica le fiere. E tra queste opere, rinvenni ancora
il tempo da consacrare ai sollazzi, agli amici."
Così posava la regina dalle aspre fatiche di guerra, tra le splendidezze della sua città e le
dovizie che versavano ogni giorno a' suoi piedi la natura e l'industria delle soggette nazioni. Per lei
l'Arabia felice stillava gli aromi; per lei Tiro intesseva i candidi lini e li tingeva nei più vividi colori
della porpora; per lei la Media educava i cavalli veloci come il vento, e l'India i poderosi elefanti.
Era il secol d'oro per la stirpe degli Accad, innanzi che scendessero alle prime vendette i figli di
Javan, prodi in armi e numerosi nei troppo ristretti confini, che per poco ancora dovean mordere il
freno della servitù, mentre il loro Zerduste, il principe dalla mente profonda e dallo sguardo acuto,
ospite tributario della fortunata regina, invano tentava di piacere alla donna.
Ma la nube precorritrice delle tempeste non era anche apparsa sul limpido cielo di Babilonia;
vigilavano ancora a sua custodia i sommi Dei; Ilu, il gran nume, senza tempio, nè altari, poichè la
città stessa era l'altare, e tempio tutta la grande pianura fecondata da lui; Nebo, il signore della volta
azzurra; Belo, il dator della luce; Ao, il pesce dio, che recò la prima civiltà dai flutti del mare; Sin, il
rischiaratore delle notti; Militta, o Derceto, o Rea, secondo i luoghi, la Venere genitrice, la gran
madre dalle cento mammelle, il cui sacro bosco e i riti notturni chiamavano a Babilonia adoratori in
gran numero.
E la terra di Sennaar tutti liberalmente nutriva, non meno ferace di quella che il gran Nilo
inonda delle sue piene; imperocchè vi cresceano spontanei la palma, il melagrano, l'orzo ed il
sesamo; il grano rendeva duecento volte la semente, talfiata anche trecento, e la mèsse ogni anno era
doppia, come sulla terra di Mesraim. Lunghesso l'Eufrate vorticoso, i cui margini erano
continuamente solcati da carri pesanti, spaziava una pianura così vasta, che l'occhio non poteva
misurarne i confini, tutta biondeggiante di biade alla vampa del sole. Di tratto in tratto, come isole
sorgenti dall'aureo mare delle mobili spiche, s'innalzavano con agili tronchi le palme, si piegavano
ad ombrello su popolosi villaggi, composti di case tonde, dalle pareti di legno, dai tetti conici e dalle
porte alte, intonacate di bitume. Erano esse le dimore dei coloni e dei manovali. Quelle dei capi
loro, i pubblici edifizi, i templi degli Dei, si ravvisavano agevolmente alla forma quadrangolare, alla
costruzione in mattoni, ora soltanto disseccati, ora cotti al fuoco e smaglianti per una densa vernice
d'un verde carico. Le città, disseminate sul piano, si scorgevano in lontananza, coi loro alti terrazzi
biancheggianti e le loro torri massicce a vasti ripiani. Il verde vivo dei colti e dei pascoli appariva
rotto qua e là da innumerevoli linee biancastre, argini dei cento canali derivati dall'Eufrate e
condotti a metter foce nel Tigri; liquidi sentieri su cui viaggiavano, rapide siccome la corrente
voleva, portando carichi di grano e di frutte, quelle barche a foggia di scudo, intessute di vimini,
coperte di cuoio e spalmate di asfalto, che poi, giunte alla meta, erano disfatte, e, venduta l'armatura
di legno, il nocchiero se ne tornava pedestre, con le sue pelli sul capo, o sulla groppa d'un somiero,
portato seco nella barca, fino al villaggio lontano. I viandanti, ond'erano popolate le strade e i
villaggi lunghesso il fiume, indossavano una lunga tunica di tela, su cui una più corta di lana
colorata e un bianco mantello svolazzante dagli omeri. Una corta mitra, ravvolta di bianca fascia,
ratteneva le lunghe capigliature intrecciate; i piedi avean chiusi in sandali di cuoio, e tra mani
portavano lunghi bastoni ornati di graziose sculture, quali raffiguranti un giglio, o una rosa, quali un
leone, un'aquila, od altra foggia d'animali. Dappertutto l'abbondanza, la ricchezza e la vita;
dappertutto le liete sembianze della fortuna d'un popolo, le cui mura, i baluardi, le piramidi e le torri
grandeggiavano sull'orizzonte, tinte di porpora e d'oro dai raggi d'un sole maestoso, che avea
varcato di parecchie ore di meriggio.
Questa scena mirabile veniva contemplando, con occhio tra curioso e triste, un giovane
cavaliere, che scendeva lentamente, seguito da numerosa schiera e da salmerie ragguardevoli, lungo
la riva destra del fiume. Già il convoglio aveva oltrepassato Is, il villaggio posto alla foce della
fiumana d'asfalto; già aveva lasciato sulla sua sinistra le antiche torri di Sippara e la vasta apertura
del Nahr Malka, canal regio, da poco tempo scavato tra l'Eufrate ed il Tigri; e Babilonia,
mostrandosi in tutta la sua pompa colossale al forestiero (chè tale lo chiarivano i biondi capegli e le
azzurre pupille, più assai che la strana foggia del vestimento e dell'armi), gli chiamava sul volto
quell'aria di ammirazione ad un tempo e di tristezza, che abbiamo notata pur dianzi.
Fin dai primi albori del giorno, la gran città gli era apparsa alla vista, sull'estremo confine
dell'orizzonte. E da quell'ora una strana impazienza signoreggiava l'animo del giovane condottiero;
però la cavalcata volgeva più spedita, e più brevi erano state le soste, quantunque già gli ardori del
sole si facessero sentire più molesti, consigliando le carovane a batter le polverose strade di
nottetempo, pe' silenzi dell'amica luna, che giungeva allora al suo colmo. Egli era in sul finire del
mese di Sirvan, che è il terzo dell'anno dei Babilonesi, computandone essi il principio dal giunger di
primavera, allorquando lo sciogliersi delle nevi sui monti di Armenia fa crescere a dismisura
l'Eufrate. Ora, nel mese di Sirvan, s'è già scemata la piena, e la vampa del sole, che matura le spiche
sui gambi frondosi, consente di foggiare a mattoni l'argilla per la costruzione delle case; donde esso
è chiamato eziandio il mese del mattone dalle genti di Sennaar.
Era egli così desideroso di giungere in Babilonia, il giovane cavaliere? E gli sguardi, or curiosi, or
mesti, ch'egli volgeva d'intorno, che significavano essi? Una strana mistura di contrarie sensazioni gli
traspariva dal volto. Talfiata, sviando gli occhi dalla meta del suo viaggio, si faceva a contemplare l'Eufrate,
seguendo con fanciullesca curiosità le zattere galleggianti, coperte d'un bianco tendale, cariche di ànfore, in
cui si chiudeva l'inebriante liquor della palma, lentamente condotte da uomini armati di lunghe pertiche, le
quali scendevano con metro alterno a pigliare la spinta dal letto del fiume. Più oltre erano viaggiatori di
povero stato, i quali, per cansare la fatica pedestre e il polverìo delle strade battute, con la lor tunica e il
cappello foggiato a mo' di turbante sul capo, scendevano la corrente aggrappando le braccia intorno a un otre
gonfiato. Altrove erano donne, facilmente riconoscibili al bianco drappo che copriva loro la testa e il collo,
agili e destre nuotatrici, che con una mano si reggeano a fior d'acqua, e sull'altra, obliquamente protesa in
alto, e sulla eretta cervice, recavano canestri di frutte, o scodelle di latte, a refrigerio dei viandanti.
Lieto spettacolo, che pure non rallegrava a lungo l'aspetto del giovine. Ad ogni tanto gli si
offuscavano gli occhi, sotto l'arco delle sopracciglia aggrondate, come se un doloroso ricordo venisse
improvvisamente a trafiggerlo. E lo assaliva un brivido, come fosse il terrore delle cose ignote; le sue labbra
mormoravano un nome amico, e il cavallo nitriva, s'impennava, fremeva, sotto le repentine scosse del suo
mutevol signore.
Teneva a lui dietro il corteo, grave, misurato, e, a dimostrazione d'ossequio, non
ricambiando che sommesse parole. Perfino Bared, il suo fidato Bared, che di pochi passi precedeva
l'ordinanza, cavalcando quasi a paro con lui, da lunga pezza non aveva aperto bocca, per tema
d'interrompere il corso de' suoi tristi pensieri.
Alla svolta d'una macchia di lentischi, che copriva largo tratto di terreno sopra una delle
frequenti insenature del fiume, si parò dinanzi ai loro occhi un colmo di case, tutte di più
cittadinesca apparenza, con mura merlate e siepi fiorite di giardini, che fiancheggiavano la strada
maestra.
Era quello uno dei sobborghi di Babilu, braccia poderose che la città regina stendeva
all'intorno, rivi capaci in cui traboccava il soverchio della sua vita gagliarda. Sulla vasta piazza,
donde aveva principio il sobborgo, sostava una grossa mano di cavalieri babilonesi, belli a vedersi
per le loriche e gli schinieri di cuoio, su cui svolazzavano i lembi dei candidi mantelli; colle lancie
ritte sulla staffa, gli elmi a cono aguzzo rilucenti sul capo, le mazze ferrate pendenti all'arcione.
Intorno ad essi, uomini e donne della terra, con idrie e guastade tra mani, mescevano agli assetati i
succhi del melagrano stemperati nell'acqua, in ciotole di argilla.
Il giovine capo si fermò nel mezzo della via; a rispettosa distanza i seguaci; le salmerie del
pari, in lungo ordine dietro a costoro. I cavalli delle due schiere si salutarono con sbuffi e nitriti.
Alla vista dei sopravvegnenti, i babilonesi si erano tosto rimessi in ordinanza. Uno di
costoro, il comandante, notevole al balteo frangiato d'oro, si fece innanzi a galoppo. Bared, pigliati i
comandi del suo signore, s'inoltrò alla sua volta.
- Chi è lo straniero, - dimandò il babilonese a Bared, - che cavalca innanzi alla vostra
schiera, come principe a capo delle sue genti?
- Non conosci tu il re d'Armenia, - disse Bared a lui di rimando, - Ara, il figlio di Aràmo,
della stirpe d'Alco?
A queste parole il babilonese inchinò la fronte sulla criniera del suo cavallo, nell'atto che
volgeva a terra la punta della sua spada ricurva.
- Bene dovevo io argomentarlo, - rispose egli, - poichè il suo volto è pari a quello d'un Dio, e
nelle sue pupille Nebo ha diffuso, come a prediletto figliuolo, il sacro colore della vôlta celeste. -
E sceso prontamente d'arcione, si fece incontro al cavallo del re, per tenerne, in segno di
onoranza, le redini; indi soggiunse:
- Ben venga Ara il bello, il figliuolo di Aram, nel mese fortunato, nel giorno avventuroso,
alle porte di Babilu. La gran Semiramide, cui Belo ha concessa la vittoria della spada e l'impero
dello scettro sui potenti della terra, attendeva impaziente il grazioso principe ed il suo nobil tributo.
- Non tributo, ma dono; - rispose prontamente il re d'Armenia, aggrottando le ciglia. -
Babilonia è possente; ma la stirpe d'Alco, più che dalla amicizia di Nino, dalle opere sue ripete il
diritto di portar la benda di perle. Nemici da prima, e più e più volte alle prese, furono i padri nostri
coi re della vasta pianura; amici ossequenti noi, non vassalli.
- E sia; - soggiunse l'altro arrendevole; - meglio amici ossequenti, che sudditi impazienti di
freno. Ora ti piaccia, generoso signore, di venire alla stanza che la regina ti ha assegnata, a ristoro
dalle fatiche del viaggio, innanzi di accoglierti in Babilonia, colla pompa che ad amico re si
conviene. -
Il re d'Armenia non proferì verbo, in risposta all'ossequioso invito; ma con lieve cenno del
capo e con un gesto cortese, diè libertà al babilonese di risalire in arcione. Egli quindi già stava per
toccare di sprone e ripigliare il cammino; ma non glielo consentivano le dimostrazioni cortesi degli
abitanti del borgo, che s'erano accalcati sul suo passaggio, profferendo il vin della staffa ai nuovi
venuti.
Fatta audace dalle esortazioni dei più vicini, ma accesa di rossore e tremante, una fanciulla
s'era inoltrata al cospetto del giovane, per offrirgli la tazza ospitale. Ed egli volenteroso la raccolse
dalle sue mani, vi intinse il labbro, indi la restituì, accompagnando l'atto d'un leggiadro sorriso,
mentre ella era rimasta come estatica a contemplarlo, e la moltitudine intorno a lei andava
ripetendo: Ara il bello! invero, è simile a un Dio.
Per fermo, nessun nome era più meritato di quello che al giovane re d'Armenia avea dato il
suo popolo e che la fama viatrice aveva consacrato, per tutta la gran valle dell'Eufrate e del Tigri.
Giusto di membra, agile insieme e gagliardo appariva egli nel suo modesto arnese di viaggiatore,
sotto le pieghe del suo breve mantello svolazzante, chiuso il petto in una tunica grigia, listata di
rosso, cinto i lombi di una fascia di lana, sotto cui si annodavano i sostegni della spada, fedele
amica al suo fianco. Biondi e riccioluti capegli uscivano in ciocche abbondanti dagli orli di una
mitra di pelliccia nera, ornata al sommo d'una borchia di gemme e da un nobil ciuffo di penne,
bellamente incoronando un viso bianco di neve, specchio vero dell'anima, tanto, ad ogni interno
sussulto, rapidamente si tingea di vermiglio. Ampio e prominente l'arco delle sopracciglia, dava
risalto al limpido lume degli occhi azzurri; le guance ignude, il mento e il collo di contorni soavi,
delicati, quasi femminei, il naso profilato e diritto ad una con la scesa della fronte, il labbro
superiore adombrato di lunghi, sottili e morbidi baffi, formavano su quel nobile sembiante un misto
indicibile di dolcezza e di forza.
In lui si diceva che rivivessero le maravigliose sembianze d'Aìco, il fortissimo progenitore
della sua stirpe. E le ballate degli armeni rapsòdi lui già celebravano destro arciero, valoroso
domatore di cavalli, guerriero animoso ed invitto, siccome il suo grande antenato. Che più? Lui
seguivano gli sguardi del popolo obbediente, lui le acclamazioni delle pugnaci tribù, lui i sospiri
delle vezzose donne d'Armavir e delle sponde di Van. Ara il bello, Ara il prode, Ara il prediletto,
dicean le canzoni.
Dato il tempo necessario, non già all'ammirazione del popolo suburbano, bensì alle cortesie
del beveraggio, il re d'Armenia si mosse, e dopo lui la numerosa sua cavalcata, con alto strepito di
bardature, fragor di spade nelle terse guaine, tintinnìo di frecce nei capaci turcassi, pendenti
dall'òmero, insieme coi grand'archi aicani. I cavalieri babilonesi precedevano, in segno di onoranza,
il corteo.
Già il sole era da lunga pezza calato dietro i confini del deserto lontano, allorquando la
schiera giunse finalmente alla vista d'Imgur Bel, il vasto cerchio di mura, la cui cresta di torri
nereggiava nello spazio, poc'anzi rossastro ancora degli ultimi riflessi del giorno, ed ora tinto in
azzurro, al tacito lume degli astri. Era una veduta fantastica, maravigliosa, solenne. Là in fondo,
all'occaso, Barsìpa, la città sacerdotale, santuario dell'arcana scienza degli Accad, levava al cielo le
smisurate sue moli. La torre delle sette luci, i cui alti ripiani colorati avevano riflesso alla vampa del
sole il nero smagliante, il bianco, il ranciato, l'azzurro, lo scarlatto, l'argento e l'oro, sacri alle sette
sfere luminose, non offriva più allo sguardo che un bruno ammasso foggiato a scaglioni, vera scala
murata da un popolo di giganti per dare l'assalto al cielo.
Più verso il mezzo, torreggiava la piramide a tre piani, consacrata alle fondamenta della
terra; e a' suoi piedi si stendeva la immane città, partita in due dall'Eufrate, il cui vano trapelava da
un lungo strato di vapori diffusi. Più oltre, a manca del riguardante, una maggior distesa di
moltiformi edifizii, di terrazzi sovrapposti e di torri, su cui grandeggiava un'altra gran mole, la
reggia di Semiramide, cittadella ampiamente bastionata sulla riva sinistra del fiume, incoronata di
templi, loggiati e giardini, dal cui sommo una lieta famiglia di piante, tributo di stranie contrade,
protendevano in alto le larghe braccia frondose. La luna, apparsa in quel punto, vestiva d'una
vaporosa luce quella magica scena, che si venìa lentamente ascondendo alla vista dei cavalieri,
dietro la fosca merlatura di Imgur Bel, a mano a mano che questi s'avvicinavano al fosso.
Giunsero alla perfine in capo del ponte, e videro la porta di bronzo, spalancata per dar adito
ai nuovi ospiti di Babilonia. Squillarono le trombe di rame; scalpitarono le zampe ferrate dei cavalli
sull'ampio tavolato di cipresso; rimbombò il profondo androne, custodito da denso stuolo d'arcieri, e
il re d'Armenia entrò sotto la maestosa vôlta, al fumoso chiarore delle faci intrise di nafta, in mezzo
ai tori alati dal sembiante umano, colossali chimere, che pareano guardarlo sospettose e superbe,
attraverso le loro pupille di smalto.
Oltrepassato l'androne, e con esso la prima cinta di mura, si offerse alla vista dei cavalieri
una larga spianata, chiusa intorno da colti e da pascoli; indi una strada corrente tra due filari di
piante, qua e là tagliata da vie minori, fiancheggiata da rigagnoli, acconci ad innaffiarla nelle arsure
del giorno. Folta l'alberatura ne' dintorni; rade per contro le case; quasi tutti edifizii pubblici e
alloggiamenti di soldati, naturalmente posti tra la cinta esterna e Nivitti Bel, che è il secondo e più
ristretto baluardo della città. Di qui, per altro, s'incominciavano a udire i soffi della poderosa vita
babilonese, suoni e rumori confusi come il ronzio d'un immenso alveare.
Al giovine principe accadeva ciò che a tutti suole in mezzo al frastuono d'una città non mai
veduta, nel brulichìo d'una gente ignota, che va, viene, attende a tutte le cure, a tutti i sollazzi della
vita, senza badar punto a noi, granellini di sabbia travolti dal caso nel turbinoso suo giro. Ei si
sentiva come a disagio, sopraffatto, confuso, pieno di quella mestizia che non muove da vere
cagioni, ma che è piuttosto il frutto del turbamento e dell'incertezza. Così il giovane arbusto,
condotto a vivere in estranio terreno, rimane alcun tempo perplesso, ad occhi veggenti intristisce,
prima che le sue radici si facciano a bere con la usata vigorìa i succhi vitali della nuova dimora.
E s'inoltrava frattanto, mentre d'intorno a lui il frastuono cresceva, e liete torme di popolo
sbucavano dal fondo, biancheggiavano sulla vasta ombra de' platani, si lumeggiavano alla spera
dell'astro notturno, e, a mala pena guardando la tacita cavalcata, voltavano per certi sentieri a manca
dei sopravvegnenti, sparivano e riapparivano tra il folto d'una selva vicina, donde, insieme con le
fragranze dei cedri e dei gelsomini, venivano sprazzi di luce e di festose armonie.
Bared, che, dopo l'entrata d'Imgur Bel, aveva affrettato il passo del suo destriero e cavalcava
a paro col re, per esser più pronto a' suoi cenni, ruppe timidamente il silenzio.
- Non pare a te, mio signore, il grato suono del cembalo?
- Sì; - rispose il principe, crollando mestamente il capo; - Sandi era valente per cavarne i
suoni più dolci; e la sua voce più soave ancora, quando egli cantava le sue belle canzoni. -
Bared, fatto peritoso, non soggiunse più motto. Ma il principe, quasi volesse discacciare il
triste ricordo, si volse al condottiero babilonese, che gli venìa da diritta, e gli chiese nella lingua di
Sennaar:
- Amico, che suoni son questi?
- Siamo oggi al plenilunio, - rispose l'altro sollecito, - e si festeggia Milita Zarpanit, la dea
della gioventù, della bellezza e dell'amore, la consolatrice dei cuori, anima e vita della feconda
natura.
- Lieta è Babilonia! - esclamò Ara pensoso.
- Sì, lieta; - ripigliò l'uffìziale, - e tu giungi in buon punto, o possente signore. Il tuo volto,
splendido come quello di Nergal, l'astro della luce rossiccia, farà palpitare il cuore delle vezzose
figlie di Babilu. -
Un placido sorriso sfiorò le labbra del principe. La bellezza, virtù del corpo, come la virtù,
bellezza dell'anima, non è mai insensibile alla lode.
- Labbro incantatore! - diss'egli.
- Ed è pubblico il rito? - entrò a chiedere Bared.
- Il sacro bosco è aperto ad ogni classe di visitatori. Qui convengono le genti di Sennaar e gli
stranieri delle più lontane contrade. Se ti piace, - proseguiva il babilonese, volgendo il discorso al
principe, - appena smontato alla dimora che la possente regina per questa notte ti assegna, potrai
mescerti liberamente alla folla e non conosciuto vedere quanti più nobili giovani e più leggiadre
donne Babilonia racchiude. Ma eccoci; questo è l'alloggiamento per te, e pe' tuoi cavalieri, a cui
Nebo conservi il loro glorioso signore. -
La cavalcata difatti era giunta dinanzi ad un vasto edifizio di due piani, le cui mura salde e profonde
si vedevano rinfiancate da contrafforti di mattoni, fino a una dicevole altezza, dove incominciava un fregio
di lucide squamme, corrente per lungo sotto una fila di spaziose finestre. Il grand'arco della porta metteva ad
un ampio cortile, ne' cui fianchi si aprivano le stalle capaci, e gli alloggi de' soldati e dei servi. Al piano di
sopra erano gli appartamenti del re e de' suoi uffiziali.
Discesi d'arcione, i seguaci del re d'Armenia si diedero con alacrità ai loro apprestamenti di
riposo, ognuno secondo l'ufficio suo; i cavalieri a dissellare, stregghiare e rinfrescare gli affaticati
destrieri; i custodi de' cammelli, i bagaglioni e i serventi, a riporre gli arnesi, le provvigioni e i
preziosi fardelli; tutti, da ultimo, veduto come più nulla bisognasse ai fedeli compagni del loro
viaggio, pensarono a ristorarsi di cibo, di bevanda e di sonno.
Seguìto da Bared, il giovine Ara s'avviò alle sue stanze. Due eunuchi della reggia erano ad
aspettarlo colà, per additargli la camera adorna di sontuosi tappeti e morbide pelli di fiere, col suo
letto di soffici piume steso nel fondo, sotto un padiglione di porpora. Lo guidarono essi allo
spogliatoio, tutto fragrante di preziosi stillati, e al tiepido bagno, dove l'acqua spicciava dalle fauci
d'un leone di bronzo nell'ampia vasca di pietra.
Ed essi, mentre il giovane signore attendeva a quelle cure, così geniali dopo le fatiche d'un
lungo viaggio, apprestavano sulla mensa i cibi eletti, il vasellame lucente, l'acqua fresca come neve
e l'inebbriante liquor della palma.
Ara uscì poco stante dal suo spogliatoio, fiorente di bellezza e di gioventù, raggiante al pari
d'un dio. Lasciate le vesti polverose e le fogge natali, aveva indossata la doppia tunica babilonese,
bianca di sopra, con fregi d'oro sui lembi, e azzurra di sotto, siccome era azzurra la clamide, che
portava ravvolta con bel garbo sugli òmeri. Azzurri i calzari, che gli salivano allacciati alquanto più
su della noce del piede; bianca, con fregi d'oro, la mitra sul capo.
Quelle ed altre vesti in buon dato, l'ospitalità regale di Semiramide apprestava al pronipote
d'Alco. Egli aveva scelte le meno sontuose; ma come avrebbe potuto farle parere più umili?
Bellezza e gioventù dànno luce più viva ed allegra, che non gli ori e le gemme; aggiungono
leggiadria, freschezza e splendore ad ogni cosa che le circonda.
- Invero, - disse Bared a lui, come lo ebbe veduto, - il babilonese ha ragione; chi non ti
amerebbe, o signore?
- Ah! - rispose il principe con accento malinconico, rimirando le sue vesti mutate. - Così
Sandi vestiva! Povero Sandi! -
E così dicendo si lasciava cadere su di uno sgabello, di rincontro alla mensa. Ma Bared non
gli consentì questo ritorno alle tristi ricordanze. Erano soli, e le ragioni dell'amicizia ripigliavano il
sopravvento su quelle dell'ossequio.
- Suvvia, mio dolce signore, - gridò egli con voce affettuosa; - non lasciarti soverchiare dalla
mestizia dei lontani ricordi. La vita è tale per tutti: luce e tenebre, sorrisi e lagrime, pur troppo!
Schiavi al voler degli Dei, tutti ci attende la morte: mostriamoci dunque uomini forti davanti al
destino!
- Oh, Bared, mio ottimo Bared, lo so; tutti morremo, un giorno! Ma poss'io dimenticare
l'amico della mia giovinezza? Questa città è una tomba, dove Semiramide impera.
- Tu la vedrai domani; il babilonese te lo ha detto, nel prender commiato da te; a domani,
dunque, i molesti pensieri. Vieni, mio dolce signore! Fino a domani ignoto in Babilonia, qual
migliore occasione per veder la città? Vieni; ci aspetta il tempio di Militta Zarpanit; ci aspettano
questi riti notturni, così famosi nel mondo. -
CAPITOLO II.
MILITTA ZARPANIT.
Tra Nivitti Bei ed Imgur Bei, nel tratto settentrionale di quella lunghissima zona di lieta
verdura che corre tra i due baluardi, come diadema intorno alla fronte d'una regina, è il sacro bosco
e il tempio di Militta Zarpanit, la gran madre, la provvida fecondatrice del germe, colei che esalta la
potenza dei figli di Belo.
Folte macchie di lentischi e di mortelle, di cedri e di salici, fiancheggiano le vie tortuose e i
sentieri dove luce non giunge. Tutto intorno cespugli di gelsomini e di rose, liberali de' sottili effluvi
che ispirano l'amore, siccome all'amore dispongono i leni susurri dell'aura vespertina e i gemiti delle
colombe, libere abitatrici del luogo, venerate messaggiere della Dea. Il sacro amòmo dal ceppo
sarmentoso si leva coi tralci, si avvinghia alle piante maggiori, spandendo ombra di molteplici
foglie e fragranza di rosei grappoli sui misteriosi recessi. Da un lato la via maestra, o regale;
dall'altro l'Eufrate; in mezzo alla selva, murato su d'un poggio, è il tempio della Dea, con la sua
cupola gialla, lungi splendente dal colmo dei rami intrecciati.
Militta Zarpanit! Donde il tuo culto, che le tarde generazioni vedranno fiorente presso tutti i
popoli antichi, all'alba della lor vita affannosa? Gli Dei, che simboleggiano la forza degli elementi,
ma più assai la paura degli uomini, spariranno dagli altari; i possenti della terra, i fondatori di città e
di regni, santificati dall'ossequio del volgo, saranno dimenticati o confusi; ma il culto della bella
natura, il culto della gran madre feconda, il tuo culto, o Militta, non perirà. Beiti, Militta, Zarpanit,
Thaaut, Rea, Istar, comunque ti piaccia esser nomata dalle genti di Sennaar; Astarte a Tiro, Derceto
in Ascalona, Afrodite fra gli Elleni, Venere tra gli ultimi Esperii del mondo antico, i tuoi riti
saranno uguali dovunque, comechè sformati dall'indole varia dei popoli, dalla naturale
trasfigurazione del simbolo, dal riuscir del mito in leggenda. A te sacro dovunque il mirto, a te le
colombe; a te non mai sacrifizio di vittime fumanti, ma offerte di odorate ghirlande e incruento
olocausto di cuori.
In te si venera la diva natura, che rinacque sorridente e gloriosa dall'onde. Te, sorgente dalle
spume, vide la memore sapienza ellena; preceduta dalla colomba, lieta apportatrice del ramoscello
verdeggiante, ti celebrarono le prime istorie della figliuolanza di Sem. L'apparir tuo fu mostra di
possanza, non doma dal flutto devastatore; il ramoscello dell'alato messaggiero recò il tuo primo
saluto ai superstiti, ricondusse la speranza nei cuori. E rinata alla luce, investita dalle vampe maritali
del fuoco interno, vigilata dall'insaziabile sguardo dei corpi celesti, amata amante di avventurosi
mortali, fosti feconda di nuovi frutti alle genti; le quali ti riconobbero madre, dalle tue cento
mammelle succhiarono la vita, e il tuo culto leggiadro recarono divotamente con sè, allorquando,
rifatte dai primi terrori, si sparpagliarono allegre e fidenti sulla faccia del mondo.
Imperocchè (chi nol sa?) da mezzogiorno e da occidente vennero i primi apportatori di
civiltà alla terra di Sennaar, a mano a mano che su per l'erta delle convalli mediterranee li sospinse
la piena crescente dell'acque, dopo che cadde inabissata nei gorghi marini la prisca terra d'Atlante e
il tremuoto spezzò le immani serraglie di Abila e di Calpe. E dal mare ebbe Babilu i suoi fondatori, i
suoi demiurghi. Ilu, il suo primo Iddio, il suo primo terrore, è librato sulla distesa dell'acque, o posa
sulla vetta dei monti, negro come la nube che lo circonda, pregno di nembi e di folgori. Dal suo
grembo squarciato escono le tre forze arcane, quasi le tre forme della sua medesima essenza: Anu, il
caos primordiale, Bel, la potenza ordinatrice, Hoa, lo spirito intelligente dell'universo. L'ultimo tra
questi è lo spirito più sensibile, il più noto, il più dimestico ai volgari intelletti; egli è il pesce dio,
che reca i primi comandamenti all'umano consorzio. Daokina è la sua forma femminea, venuta
anch'essa dal mare, emersa dai flutti dell'Eritreo. Lasciate che il mito si svolga egli assumerà nuove
parvenze, altri significati, altri nomi.
Difatti, agli Dei cosmogonici succedono a breve andare gli Dei siderali. Abbia la divinità un
aspetto visibile; se il cielo è sua dimora, il cielo donde si sprigionano i nembi, il cielo donde ci
piove la luce, vediamola nello spazio azzurro, vediamola in quelle grandi pupille di fiamma che
assidue dardeggiano il mondo. Così i prischi ed oscuri elementi si rinnovano, ricompaiono in luce di
stelle, ed alla vecchia triade cosmica, ecco tener dietro la triade celeste, Sin, Samas, Iva, anch'essi
rinfiancati di lor forme femminine. Sin, l'astro della notte, risponde al dio delle tenebre, al caos;
Samas, l'astro del giorno, risponde alla potenza ordinatrice del creato; Iva, lo spirito dell'etere,
l'atmosfera trasparente, risponde allo spirito penetratore dell'universo, al pesce dio venuto dai gorghi
del mare.
E adorati questi fulgentissimi numi, perchè non si adoreranno gli astri minori? Ecco, la
triade si scempia ancora in tutti quei luminosi pianeti che scintillano la notte nel firmamento
azzurro. I nuovi regnatori delle are son questi Ninip, o Adar, il lontano astro che si circonda d'un
candido anello, e i cui satelliti, nascondendosi tratto tratto dietro al suo disco, lo faranno apparire
divorator de' suoi figli; Merodac, il più appariscente, il più splendido, epperò dal popolo babilonese
chiamato figlio di Bel, e adorato più tardi siccome il vero monarca del cielo; Nergal, il corrusco di
luce rossiccia, fatto signore dell'armi; Nebo, il sapiente, protettore della eloquenza e della autorità
regale, non ancora sformato dalle volgari leggende, che tra gli Elleni lo diranno rapitore di mandrie
Istar, finalmente, la stella dei soavi splendori, che la venerazione delle genti confonderà coll'antica
Beltis, o Bilit, forma femminea di Bel, e con Daokina, la compagna di Hoa. Astro in cielo, anima
della natura in terra, diviene la consolatrice dei cuori, la increata bellezza, la fonte dell'amore;
celeste è Taauth terrestre è Zarpanit. Eccola adunque, sempre una in tutte le sue svariate sembianze,
nata dalle onde, splendente nei cieli, vivente nel creato, cara ai mortali, madre, signora ed amante.
A lei sacro tutto ciò che risplende per grazia e leggiadria; a lei sacra la lieta fecondità; a lei
sacro l'amore che ingentilisce i costumi. A lei dedicate le prime pietre che il volgo agreste am-
mirerà, sporgenti, solitarie, scalzate dalle acque, lunghesso il dorso dei monti; a lei i primi simulacri
che il fantastico genio dell'India ornerà di cento mammelle, a significarne la materna abbondanza,
laddove il genio più corretto degli Elleni la ritrarrà nelle sembianze della donna amata, e vedrà il
sommo della sua divina bontà nel complesso di tutte le bellezze di Grecia. A lei consacrate le isole e
i boschi odorosi, dove gemono le colombe e sguardo profano non penetra i dolci segreti. Ogni
umana cosa si corrompe pur troppo, e la casta adorazione cederà il luogo a mostruosi misteri; dei
quali, al postutto, è agevole il sentenziare, col sangue e il giudizio assottigliati da migliaia d'anni
trascorsi.
E Militta Zarpanit chiamava ai suoi amabili riti la gente di Sennaar. Era essa la divinità più
grata al popolo babilonese. Belo, insieme con le sette sfere lucenti, aveva la sua torre dai sette piani
e dai sette colori nel borgo sacerdotale di Barsipa. La triade antica delle fondamenta della terra
aveva la piramide di tre piani, innalzata in quella parte occidentale della città che è più vicina
all'Eufrate. Ilu, il temuto iddio delle acque, aveva la città tutta quanta e la soggetta pianura; Nisroc,
o Salman, nume dalle ali e dal rostro aquilino, Assur, il protettore, nella cui faccia umana e nelle
membra di toro alato raffiguravasi la forza e l'intelligenza divina, custodivano, paurosi simulacri, le
cento porte di Babilu. Militta, più soave e più cara, aveva sulla riva destra del gran fiume il suo
tempio, i penetrali, la selva e i riti notturni. Non risplendeva essa, amica stella nei cieli, la prima ad
apparire dietro il sole cadente, l'ultima a dileguarsi ai primi chiarori dell'alba?
Il suo bell'astro scintillava nell'azzurro sereno, accanto alla colma luna, rallegrando il creato
di miti splendori, allorquando il giovane Ara, vestito delle nuove fogge babilonesi, s'inoltrò in
compagnia del suo Bared, sotto i platani che facevano confine alla selva. Quel lieto viavai di gente
sconosciuta, quei volti sfavillanti di gioia, quelle donne a mezzo velate che si appoggiavano fidenti
al braccio degli amanti, quel luccichio di fiaccole, quell'effluvio di fragranze, quell'onda di musicali
concenti tra i rami, rapivano il suo cuore, facendolo immemore d'ogni cosa, sussurrandogli arcane
parole, che avevano un'eco nel profondo dell'anima. Giovinezza beata! come le arride il futuro! e
come i suoi dolci incantesimi possono far tacere in lei le mestizie d'un passato, che ancora non ha
avuto agio di mutarsi in assenzio! A lui l'ignoto, con le sue lusinghe, le promesse, le speranze
dolcissime, sorrideva sotto quei rami, in quella moltitudine appariscente e festosa, immagine del
mondo in cui egli era entrato per la porta d'avorio. Ed ammirato, estatico, fuori di sè, saliva
lentamente, rasentando le belle coppie innamorate, pei meandri del bosco.
Com'egli fu giunto al sommo del poggio (che tale era la forma del sacro recinto), gli si parò
davanti agli occhi la maestosa mole del tempio, torreggiante su d'una piattaforma che gli faceva
terrazzo in giro, a cui si saliva dai quattro lati, la mercè di ampie gradinate. Le mura di sostegno si
vedevano fregiate di bassorilievi e dipinti in onore della Dea, e di iscrizioni scolpite nei venerati
caratteri della stirpe degli Accad, somiglianti a chiovi impressi per lungo ed in mille guise
intrecciati. A' piedi delle gradinate vigilavano leoni di granito; certamente posti colà, sotto gli occhi
della Dea, come emblemi della forza, cui la bellezza soggioga. E il tempio infatti innalzavasi poco
più in alto, cinto da doppio giro di colonne, coronato di capricciosi fregi e di eleganti merlature,
sormontato da una svelta cupola, rilucente nello spazio azzurro ai raggi della luna.
Il suono dell'arpe e dei cantici era da pochi istanti cessato innanzi all'ara della gran madre
Militta, e già la moltitudine devota scendeva a torme dal limitare, spandendosi lungo i terrazzi e per
le scalinate, a guisa di fiume che rompa fuori dagli argini. Il vano della gran porta appariva vestito
dell'aurea luce, ond'era sfolgoreggiante l'interno, e di là venivano profumi d'incenso, di gálbano, di
cinnamomo e di mirra.
Dopo essere stato un tratto immobile a contemplar da lontano quella scena incantevole, il re
d'Armenia si avviò verso la gradinata, in mezzo alla moltitudine, che scendeva dal tempio, o saliva.
I raggi della luna rischiarando il suo volto e la leggiadra persona, si fece a breve andare din-
torno a lui quella ressa curiosa, quel bisbiglio, quell'avvicendarsi di domande e di ammirazioni, che
furono mai sempre, e saranno, il più naturale omaggio reso alla bellezza dal volgo dei riguardanti.
Ora, presso i babilonesi, come presso tutti i popoli antichi, più schietti adoratori della forma,
quell'omaggio era più facile a rendersi; nè solamente riservato alla donna, come accade tra noi, non
so se più austeri o più invidi.
Turbato un tal poco da quegli atti curiosi e da quelle voci di meraviglia, il giovane affrettò il
passo fin sopra la spianata; s'inoltrò sotto il pronào del tempio, che era sorretto da enormi tronchi di
palma, foggiati a colonne, ed oltrepassò il sacro limitare, fiancheggiato dai simbolici leoni di pietra.
Colà, un più meraviglioso spettacolo si parò davanti agli occhi del giovine. Sulle prime, tra
per la luce riflessa dalle lamine d'oro e d'argento, che correvano alternate sull'alto delle pareti, e per
la nube d'incenso che si diffondeva nell'ampio recinto, parve a lui d'essere, anzi che tra' mortali,
nella regione dei sogni, in cui si pregustano le delizie celesti. Ma, a poco a poco, avvezzando lo
sguardo a quella vaporosa veduta, egli potè discernere partitamente ogni cosa.
La cella sacra, dov'egli aveva posto piede, era un'ampia sala quadrilunga; conterminata da un
abside, su cui si levava la cupola, già veduta di fuori. Le mura tutto intorno apparivano ornate di
stucchi, con iscrizioni e bassorilievi colorati, fino all'altezza degli stipiti di un gran numero di porte,
le quali mettevano alle camere dei sacerdoti. Ai lati di queste grandeggiavano leoni e tori alati, dal
volto umano o dalla testa d'aquila, che parevano vegliare riverenti, a custodia delle mezze figure
chiuse nel circolo eterno, con lunghe ali distese, emblemi della divinità suprema, i quali si vedeano
scolpiti più in alto. E dove finivano le sculture e i dipinti, incominciavano i fregi di lamine d'oro,
intelaiati a guisa d'arazzi nel vano di un finto colonnato d'argento, che saliva a sostenere un
sopraccielo di legno prezioso, partito a cassettoni, con entro rosoni ed altre fogge di fantastici fiori,
messi ad argento ed oro, siccome le colonne già dette. Nell'abside, sotto la cupola, sorgeva l'altare di
Militta, masso di diaspro riquadrato e lucente, su cui s'innalzava il bianco simulacro della Dea, che
poggia il piede sul domato leone, e reca tra mani il fiore della vita. Ai quattro angoli dell'altare,
fumavano, entro bracieri sostenuti da tripodi di bronzo, i quattro aromi più grati agli abitatori del
cielo; e d'ogni parte pendevano, in lungo ordine disposte, le lampade d'argento, donde i lucignoli di
bisso attingevano l'olio fragrante, per dar luce e profumi all'intorno.
E per mezzo a quella nube d'incenso che si diffondeva dall'abside, il principe vide uno stuolo
di sacerdoti, i quali posavano dalle cerimonie e dai cantici, seduti su sgabelli d'ebano, il cui nero
lucente faceva vieppiù risaltare la candidezza delle lunghe stole (il bianco era il color sacro a
Militta) e degli ampi mantelli in cui ravvolgevano la persona. Il gran sacerdote si discerneva, fra gli
altri, per la tunica sfoggiatamente trapunta e frangiata d'oro sui lembi, per l'aurea cintura tempestata
di gemme e per l'aurea mitra foggiata a testa di pesce, la cui infula scendeva ad accappatoio sulle
spalle, simulando le squamme dell'animale e la coda a due punte. Militta, non lo si dimentichi, era
altresì Daokina, e la mitra del pesce dio, portata dai sacerdoti di Babilu, doveva coprire il capo ai
ministri di ben altre divinità, posteriori nel tempo.
Una mensa di lucido argento, sorretta da figure simboliche, era collocata davanti all'altare; e
sovr'essa splendevano le liberali offerte dei più ricchi adoratori. Capaci coppe di bronzo si
scorgeano dai lati, nelle quali ogni donna che uscisse dal tempio gittava la sua moneta, d'argento o
di rame. E tratto tratto si vedeva alcuna di esse muoversi dal fondo, inoltrarsi fino all'altare, e de-
porre il suo tributo, levar le mani in atto di adorazione ed uscire.
Ciò ricondusse più indietro gli sguardi del giovine. Il sacro recinto non era anche spopolato
del tutto; imperocchè, sedute in lungo ordine su panche di legno, attorniate da curiosi che le veniano
squadrando degli occhi, stavano molte donne in attesa, con funicelle ravvolte intorno al capo, e,
ognuna di esse giusta la sua condizione, nobilmente vestite ed adorne. Quella era per fermo la
celebrazione d'un rito; nè il re d'Armenia lo ignorava, essendo allora i misteri di Militta Zarpanit
famosi per tutte le circonvicine regioni.
Così voleva il costume, che ogni donna babilonese dovesse, una volta in sua vita, rimanersi
nel tempio aspettando, fino a tanto non avesse pagato il suo tributo alla Dea. Ciò ch'ella riceveva
dall'ignoto, il quale accostavasi a lei, rivolgendole la frase "invoco per te la dea Militta", dovevasi
gittare in offerta nella coppa di bronzo. Nè ella, poichè s'era così seduta in attesa, con la funicella
intorno alle tempie, potea più respinger l'omaggio dello straniero, chiunque egli fosse. Mostruoso
rito; ma non è in balìa del narratore il mutarlo. Forse era naturale corrompimento d'un alto concetto;
forse reliquia di più rozzi costumi, non potuta cancellare del tutto, epperò saviamente dissimulata
dalla santità della cerimonia; fors'anco, nell'uso, era temperato da acconci convegni, da gentili
artifizi, che la storia non ha tramandati alle tarde generazioni, e che il senno di queste può
argomentar verisimili. Ma di ciò pensi ognuno a sua posta.
Ben ci raccontano gli antichi, ed è anche agevole il credere, che le più nobili e ricche
sdegnassero di mescolarsi cosiffattamente alla comune delle donne babilonesi, nella celebrazione
dei sacri misteri. Elleno per fermo non si ristavano dallo accorrere al tempio; ma in lettighe coperte
e accompagnate da uno stuolo di servi, che recavano i loro donativi e le debite offerte all'altare.
Una di queste felici era appunto allora nel tempio, prostrata dinanzi ai gradini dell'abside, su
d'un morbido cuscino che sotto i ginocchi le aveva posto un'ancella, mentre un'altra deponeva sulla
mensa il presente della signora, aromi e polvere d'oro in vasi d'alabastro.
Quella donna, veduta appena, trattenne lo sguardo del giovane. O fosse la singolar leggiadria
delle forme, non potuta nascondere dalle pieghe del velo che tutta le involgea la persona, o il suo ri-
manersi in disparte e la compagnia delle ancelle, che la dicevano donna di ragguardevole stato, od
altra più riposta cagione (che molte ve n'ha, sottili, inavvertite ed arcane, per disporre in varie guise
la trama degli eventi), fatto sta che quella donna velata, lontana, ignara di lui, gli occupò la mente,
lo disviò da tutta quella moltitudine di aperte e sorridenti bellezze, che in lui figgevano i grandi
occhi neri, pieni di schietta ammirazione e di dolci lusinghe.
Tanto può l'ignoto sull'animo nostro! Così tenui sono le fila in cui ci avvolge il destino!
Ella era inginocchiata dinanzi all'altare, in atto di preghiera, mentre alcuni adolescenti
ministri del tempio venìan raccogliendo di mano alle ancelle i preziosi donativi della sconosciuta
supplichevole.
- Militta ti vede e ti ascolta! - le avea detto il gran sacerdote; - ti conceda ella ciò che le tue
preghiere dimandano. -
Ara non poteva distogliere lo sguardo da lei. E più la rimirava, e più si riempiva il suo cuore
di dolcezza ineffabile; come se da quelle forme mal note emanasse un tiepido effluvio che, tutto
investendolo, gli s'infiltrasse per ogni meato nel sangue. E una speranza, un desiderio, uno strug-
gimento gli cresceva grado grado nell'anima, di vederla in volto, d'essere veduto, di non essere un
ignoto per lei.
Donde nascono essi, questi moti repentini del cuore, soventi volte datori d'un nuovo
indirizzo alla nostra esistenza, che ci fanno di punto in bianco, quasi per virtù d'incantesimo,
consapevoli di noi, cosicchè ci sembri, o di vivere per la prima volta, o di non aver vissuto mai di
vera vita da prima? Bagliori improvvisi nelle tenebre dell'intelletto, voci arcane all'orecchio, tumulti
nel cuore, inni prorompenti dai penetrali dell'anima, donde traggono essi l'origine? Dal nulla, chi
guardi all'apparenza, come dal nulla hanno vita i fantasmi del sogno; ma il savio, che scruta i segreti
della natura e argomenta le cause non viste, si raccoglie umilmente nella sua pochezza, e ciò che
ancora è sfuggito al suo spirito indagatore, non deride egli, per fermo, e non nega.
Così ammaliato, ignaro di sè, il giovane s'era fatto più innanzi e più presso alla sconosciuta,
quasi volesse inebbriarsi dell'arcano effluvio ond'era soggiogato, o raffigurarsi, sebbene imper-
fettamente, il profilo di quella testa, sotto le pieghe del velo che l'ascondeva, o cogliere a volo,
respirare un alito di quelle preghiere che ella rivolgeva all'altare.
- Che chiede ella a Militta? Forse il suo cuore arde, si strugge d'un amore disperato, e prega
la Dea che versi sovr'esso i balsami dell'oblio? O le voci dell'affetto non hanno ancora parlato
all'anima sua, e implora il conforto, fors'anche lo strazio, d'un amor vero e profondo? Ed io ti
chiedo, o Militta, che quella donna mi ami. -
Fu un impeto subitaneo, irresistibile, e decisivo del pari. Ascese incontanente il primo
gradino del santuario, e recò la mano alla sua cintura tutta adorna di gemme. L'aveva egli portata
seco d'Armenia, e per vezzo giovanile, rigirata al fianco, sulla tunica babilonese pur dianzi
indossata. Un grosso e trasparente smeraldo ne fregiava il nodo, ed egli fu pronto a strapparnelo.
- È questa la mia offerta, - diss'egli, avvicinandosi alla mensa, per deporvi la gemma, - se
Militta non isdegna il presente d'uno straniero.
- Bellezza e gioventù spirano dal tuo volto, come una dolce fragranza, - gli rispose il gran
sacerdote, accompagnando le parole con un paterno sorriso. - II tuo aspetto è d'uom caro a Nebo, al
veggente Iddio, che dà lo scettro ai reggitori dei popoli. Qual cosa dimandi tu, che Nisroc, il signor
delle sorti, non t'abbia concesso il dì che nascevi? Pure, è bello il non fidarsi nei doni della natura, e
tutto in quella vece aspettar dagli Dei. Essi non deludono la speranza di chi li invoca con animo
riverente. E Militta, invocata, conceda a te, o giovine straniero, il compimento de' tuoi voti, conservi
a te il regno de' cuori.
- D'un solo, e sarò il più avventuroso tra gli uomini! - esclamò il re d'Armenia, nel ritirarsi
dal santuario.
Agli atti improvvisi, alle parole del giovane, la donna velata aveva rivolto il capo da quella
banda; di certo essa lo aveva veduto per mezzo alla trama sottile del bisso che le copriva il
sembiante. A lui parve che più d'una volta, e lungamente, gli occhi della sconosciuta si fossero
soffermati a guardarlo; invero, ei non li aveva veduti, ma sentiti, e il benefico raggio gli era
penetrato al cuore, che aveva dato un sobbalzo.
Bared, in quel mentre, gli si era accostato da tergo.
- Va; - disse egli concitato al suo fedele servitore; - va a riposarti, mio povero Bared!
- E tu, mio signore?
- Io? Non dormirò più questa notte.... nè poi; la mia pace è perduta. -
Bared, senz'altro aggiungere, si allontanò. E il re d'Armenia, tiratesi alquanto in disparte, per
non dar più oltre nell'occhio ai curiosi, stette immobile, estatico, a contemplare la donna velata.
Poco stante, ella si alzò, e, seguita dalle ancelle, si mosse per uscire dal tempio.
Al giovane parve allora di veder cosa non mortale, una dea, la stessa Militta Zarpanit,
discesa dal suo altare di diaspro, per farglisi incontro; tanta era la maestà del portamento, tanta la
leggiadria delle forme. Ed egli credette di non potersi reggere in piedi, e istintivamente si appoggiò
ad uno di quei colossali leoni di pietra, che sporgevano dalla parete, allorquando la vide avvicinarsi,
e argomentò che gli occhi della nobil donna fossero volti su lui.
Ma si riebbe ad un tratto, volle esser forte, per cogliere al varco la fuggente occasione.
Infine, che dirà ella, se parlo? E che penserà ella, se taccio?
Commosso, palpitante, combattuto da desiderio e da tema, fu per accostarsi a lei; e fatto il
primo passo, si rattenne ancora. Ella si accorse dell'atto, in quella che stava per passargli dinanzi, e
balenò irresoluta a sua volta.
Non era più da rimanersi perplesso. Ara si mosse verso di lei, e con accento soave le disse:
- Perdonami!
- Che cosa? - dimandò ella, arrestandosi.
Il principe non rispose parola, tanto era turbato. Nè forse ella pose mente a cotesto, o, se vi
pose mente, non le parve irriverenza. Il rossore del giovane non era egli la più eloquente risposta e
la più schietta confessione dall'animo suo?
Ella stessa, o compassionevole, o grata, ruppe l'uggioso silenzio.
- Tu sei straniero? - gli chiese.
- Sì, sono, - rispose il giovane, pigliando animo dalle cortesi parole e più ancora dal soa-
vissimo accento; - e se non t'incresce.... se nulla ti chiama così presto lontano da me.... amerei dirti,
o signora, una preghiera insensata, che io feci poc'anzi alla Dea.
- Ti ascolto; - disse a lui di rimando l'incognita.
- Di vederti, - proseguì Ara sommesso, - di poter dirti che t'amo, di essere amato da te. -
Ella rimase un tratto in silenzio, forse turbata dalle inattese parole. Il giovane, temendo di averle
recato offesa, già era per chieder venia del soverchio ardimento, quand'ella si fece, senz'ombra di sdegno, a
domandargli:
- Mi conosci tu forse?
- No; e tu ben lo vedi, - rispose Ara, con voce carezzevole, - questa è follia. Ma son io forse
più signore di me? La Dea mi ha condotto a forza quassù, perchè io smarrissi la pace dell'anima. E
là, presso l'altare, ho detto a me stesso che tu eri la più leggiadra donna di Babilu. Per Militta, che tu
invocavi poc'anzi, io ti chiedo in cortesia di sollevare un lembo di quel tuo velo geloso. -
CAPITOLO III.
LA ROSA DI SENNAAR.
Le dolci parole, e più l'accento d'onesta preghiera, toccarono il cuore della donna velata.
- E se tu ti fossi ingannato? - diss'ella, dopo esser rimasta alcuni istanti raccolta in sè mede-
sima, quasi volesse aspirare gl'incensi di quel lusinghiero discorso. - Se a me non arridessero i pregi
che fanno cara la donna al tuo sesso?
- Oh, gli è impossibile! - sclamò il re d'Armenia, stringendosi al suo fianco, mentr'ella len-
tamente, ma senz'aria di voler dargli commiato, volgeva il passo al limitare del tempio. - Me lo ha
detto il cuore, che non inganna mai. Nè basta; la tua presenza, ciò ch'io vedo e sento di te, non ti
palesano forse? Tu ben lo sai, mia dolce signora; leggiadri son sempre i fiori odorosi, e il
gelsomino, celato nel verde cupo del bosco, non tramanda più soavi fragranze di quelle che spirano
dal tuo velo, o bellissimo tra i fiori di Babilu.
- Nebo t'ha ornata la mente di grate fantasie, - soggiunse l'incognita, - e il miele della poesia
scorre dalle tue labbra. Così tu dicessi il vero, come parli cortese!
- Or dunque, - ripigliò Ara umilmente; - non darai tu l'aspettato guiderdone al poeta?
- Non qui; la luce del tempio non dee rischiararmi la tua confusione. Son donna, - aggiunse
ella con un fil d'ironia, - e il vero mi potrebbe apparir troppo grave dal tuo aspetto mutato. Non mi
dir nulla; so già la risposta. - Così la sconosciuta, per troncar le parole al giovane, che già stava per
richiamarsi a lei dell'ingiusto sospetto. Indi, come parlando a sè stessa, mormorò, per modo che egli
potesse udirla:
- Infine, mi veda egli; è la Dea che lo vuole. -
E dato un cenno alle ancelle, che tosto riverenti si allontanarono, uscì con passo rapido e
lieve sulla gradinata, quasi sfiorando il suolo, mentre Ara le venia tutto sollecito al fianco.
Discesi sulla spianata, e usciti fuor della calca, ma non così prontamente come il re
d'Armenia avrebbe voluto, piegarono a destra, dove per tortuosi sentieri si scendeva all'Eufrate. Egli
ebbro di gioia; ella taciturna, lievemente reggendosi sul braccio che il principe le aveva profferto, e
tratto tratto volgendosi a guardarlo in viso, per mezzo alla trama sottile del velo che ancora la
diniegava agli occhi innamorati del giovine.
- Ah! - sclamò ella, premendogli il braccio, al primo svoltar della strada, che le consentiva di
dare una fuggevole occhiata dietro di sè.
- Che è ciò, mia divina? - le chiese Ara turbato.
- Alcuno ci segue.
- Chi lo ardirebbe, dov'io sono?
E così dicendo, il re d'Armenia si volse e si piantò fieramente in mezzo al sentiero.
Un uomo, ravvolto nel suo mantello, scendeva per quella medesima via. Ma egli non parve
darsi pensiero dell'atto, e, giunto all'incontro d'una viottola poco lontano da essi, vi s'inoltrò con
passo sicuro, come chi non avesse a fare altro cammino fuor quello.
- Tu lo vedi; egli non teneva dietro a noi; - disse il principe alla sua compagna, ripigliando la
via verso il fiume.
Indi a poco, giungevano in vista dell'Eufrate, ampia zona d'argento, scintillante sotto i loro
occhi, ai raggi del grand'astro notturno. Una barca era legata alla riva, e due donne, in cui Ara fu
pronto a raffigurare le ancelle della sua sconosciuta, andavano a quella volta.
- Tu dunque mi lasci? - gridò egli sgomentito; - ed io non avrò ottenuta la grazia tua!
- Perchè dubiti? - chiese ella, arrestandosi.
E mandando gli atti compagni alle parole, sollevò il velo importuno, lo arrovesciò sulla testa,
lasciando così il viso scoperto al chiaror della luna.
Il re d'Armenia mise un grido d'ammirazione. Giammai egli aveva veduto cosa più bella.
Aperto e sereno il volto, delicatissimi e in un severi apparivano i lineamenti, a cui cresceva
incantesimo il morbido tondeggiar delle carni, splendenti dell'aureo colore di frutto maturo. Ampia
la fronte e nitida come l'avorio, incoronata di chiome nere, ondate e lucenti, tra le cui copiose anella
si nascondevano i capi d'una trecciera di perle, che ne facevano vieppiù risaltare la lucentezza
corvina. Neri gli occhi del pari sfavillanti, a guisa di granati siriani, profondi come il mare, e
com'esso trasparenti, facili ad esprimere le interne commozioni, o languidamente si celassero a
mezzo, sotto il velo delle lunghe ciglia, o aperti scintillassero d'amore, o raccolti lampeggiassero di
corruccio. Tra due grandi e sottili archi d'ebano si veniva leggiadramente incurvando la radice del
naso, snello e ben profilato infino alle nari, rosee ne' delicati contorni, come il grembo delle
conchiglie eritree. Le labbra di corallo acceso, tumidette e madide di voluttà, pareano invitare ai
baci, siccome le dischiuse corolle dei fiori, imperlate di notturna rugiada, cercano desiose i primi
raggi del sole; ma il taglio austero di quelle labbra dinotava un'alterezza acconcia a temperar gli
ardori del sangue, a dissimulare, se non a padroneggiare, la impetuosità degli affetti. Il superiore, un
tal po' rilevato, così che breve spazio intercedesse dalla bocca alle nari, giusta il tipo della gente
semitica, lasciava scorgere, ad ogni moto di quella vaghissima bocca, due file di candidi denti, che
facevano più grato il sorriso; il sorriso, che è il suggello della bellezza, come lo sguardo è il raggio
dell'anima. Tre cose belle al mondo: il sorriso sul volto d'una donna; il sole nel cielo; l'amor nella
vita.
Nè era men bella la persona, che già di per sè sola aveva potuto cotanto sull'animo del re
d'Armenia. Invano il candido pallio di bisso le si ravvolgeva dintorno, sopra la lunga stola violacea,
frangiata d'argento. Da que' veli trasparivano le elette forme d'una Dea, che solo tra' Greci aveva a
rinvenire uno scalpello degno d'effigiarla nel marmo; e que' veli, lasciando indovinare i maestosi
contorni di quella sfolgorata bellezza, le conferivano quel non so che d'arcano, donde lo spirito
nostro attinge le sue voluttà più profonde. Il collo, che si mostrava ignudo, dintornato da una filza
d'amuleti, le braccia del pari scoverte, intorno a cui si allacciavano i simbolici serpenti, disviatori
dello influsso maligno, erano miracoli di grazia, che avrebbero ingelosito Militta ne' cieli, e
trattenuto sulla terra, immemore dei gaudii superni, uno spirito immortale.
Così splendida di vezzi, cinta del suo candido pallio, di cui la lieve brezza notturna agitava
mollemente le pieghe e i lembi disciolti, lumeggiata da quel mite chiaror di luna, che la faceva
parere quasi una vaporosa visione del sogno, eretta della persona, atteggiata ad un placido riso che
diceva tutto l'intimo compiacimento della conscia bellezza, ella si stava immobile nel cospetto di
Ara.
Commosso da quella vista, che di tanto superava la sua medesima aspettazione, il re
d'Armenia rimase alcuni istanti muto, estatico, a contemplarla. E bevve in quegli istanti per gli
occhi, fino all'ultima goccia, l'amoroso veleno, che aveva a conquiderlo, a farlo altro uomo da
quello di prima.
Si sentì perduto, allora, tratto fuori di sè, in balla di quella donna, per lei forse felice come
un dio, o disperato come l'ultimo dei viventi; nè gli dolse di ciò. L'amore è un abisso, di cui non si
misura la profondità, se non quando s'è affacciati sull'orlo periglioso. L'ignoto tira a sè; voci
lusinghiere chiamano dal profondo, e in così alto mare è dolce il naufragio.
- Lascia che io t'adori! - le disse, cadendo a' suoi piedi.
Ella gli porse con grazioso atto la mano, per rialzarlo da quella umil postura.
- No!- soggiunse egli. - Adorarti! adorarti! Concedimi di rimanere a' tuoi piedi, siccome nel
cospetto d'un nume. Non sei tu stessa una dea? Militta ha assunte le tue forme, io lo vedo, io lo
sento, per farmi il più lieto, o il più triste degli uomini. -
Arcana virtù delle parole che sgorgano dal cuore! Colpita da quell'accento di preghiera,
soggiogata da quell'aura misteriosa che sempre accompagna un amor vero e profondo, ella si lasciò
cadere, senza far motto, su d'un sedile di sasso; nè ritrasse altrimenti la morbida mano, che egli
aveva stretta fra le sue, in quell'impeto di amorosa follia.
Ella seduta, in atteggiamento pensoso, turbata nell'intimo del cuore da un misto di nuove
sensazioni; egli inginocchiato a' suoi piedi, palpitante, cogli occhi fissi ne' suoi; rimasero a lungo
muti. Ma quante cose non disse quel loro silenzio!
Gli astri del firmamento piovevano una tacita luce su quelle fronti leggiadre; la brezza
notturna recava loro le inebrianti fragranze del bosco, insieme col dolce mormorio dall'Eufrate
vicino; da un'agile barca, che veniva rasentando la sponda, giungevano al loro orecchio i grati
accordi di un'arpa e i suoni indistinti d'una cantilena, lenta e malinconica come tutte le melodie della
vecchia stirpe cussita. Il cielo, la terra e l'onda, tutto era, intorno ad essi, un soave inno d'amore.
Ad ambedue grato il silenzio; e la novità del caso loro lo faceva necessario del pari. L'uno
all'altro stranieri fino a quel giorno e a quell'ora, senza pure avvedersene, o presentirlo, senza esservi
tratti da quella ordinata progressione di piccoli eventi che dissimula spesso, o fa parer meno
singolare la prepotenza del destino, s'erano essi incontrati a mala pena, e già sostavano l'uno a
fianco dell'altro. Occorreva loro anzitutto riaversi da quel subitaneo tumulto, misurare la via in così
breve spazio di tempo percorsa, raccapezzarsi infine, leggersi scambievolmente nell'anima.
L'amore è cosa di tutti i tempi, naturale portato di tutti i cuori; cionondimeno, chi ben guardi,
è sempre maraviglioso il suo nascere, siccome è miracolo la cosa più comune del mondo, il nascere
del fiore sul ramo, il suo svolgersi rapidamente in tenere foglioline, il colorarsi dei petali, il
vaporare ai primi raggi del sole in soavi fragranze. Così il maraviglioso fior dell'amore era nato ad
un tempo in quei due cuori, improvviso, spontaneo, alla prima veduta; ed essi, respirandone i primi
effluvii, a vicenda confusi e rapiti, dimenticarono l'universo in quell'ora.
Il re d'Armenia (meglio sarebbe dire lo schiavo di quella ignota bellezza) fu il primo a
rompere l'amoroso silenzio.
- Parlami, te ne prego! - esclamò; - fammi udire il dolcissimo suono della tua voce.
- Che dirti! - chiese la sconosciuta. - So io forse ciò che tu pensi ora di me?
- Ah sì! - ripigliò Ara sollecito. - Perdonami! Io me ne stavo qui muto, ad assaporar la
dolcezza della tua vista, non d'altro curante che della mia felicità senza pari. Ma potrei io operare
diverso? Che dire, quando si contempla e si adora? Ho io mai provato ciò che oggi provo? Ho io
mai veduto figlia di donna, la cui beltà reggesse al paragone della tua? Mai, lo giuro pei sacri platani
di Van, donde a noi si rivela il consiglio dei Numi, mai ho sentito così fiero, e in un così dolce
tormento; nè tra miei monti natali, o nella istessa Annavir, famosa per le sue donne bellissime, ve
n'ha una che ti somigli da lungi.
- Sei tu d'Armenia? - chiese ella con piglio curioso. - E il tuo nome....
- Ara; - rispose brevemente il giovane; - e il tuo, mia divina? Non mi sarà egli dato di udirlo,
soave al certo come il suono della tua voce? -
Ma la sconosciuta non pose mente alla dimanda, o non la udì; tutta la sua attenzione essendo
rivolta a quel nome.
- Ara! hai detto? Ara, figlio d'Aràmo? Esso è nome di re; - soggiunse ella, veduto il cenno
affermativo di lui.
- Son io quel desso; - rispose egli umilmente; - re del popolo aicàno, e tuo schiavo. Ma
dimmi, o bellissima; come ti è egli noto l'oscuro nome del figlio d'Aramo?
- E a chi, lungo le rive dell'Eufrate e del Tigri, non è noto il nome del giovine re d'Armenia,
del vincitore di Masciag, dov'egli ottenne ad un punto la palma della vittoria e la benda di perle?
Non è ella forse una benda di perle che voi cingete in capo, o figli di Aìco, quasi a testimonianza del
vostro corso vittorioso dalle cime dell'Ararat fino ai lidi eritrei?
- Tempi di gloria! - esclamò il principe, con malinconico accento. - Ora i leoni di Cus
regnano sulla vasta pianura; le aquile aicàne si raccolsero crucciose sui greppi.
- Donde volarono spesso a settentrione, per piombare sui mobili campi dei predatori Turani,
o ad occidente, per annientare la potenza dei figli di Canaan. -
Così parlava la sconosciuta, e le sue parole eran balsamo al cuore del pronipote d'Aico.
- Grande è Babilonia, - proseguì ella nobilmente, - e non invidia la gloria ai suoi amici della
montagna. Aìco e Nemrod si guerreggiarono aspramente; ma vivono in pace ed amistà i loro
discendenti. E tu, glorioso tra tutti i forti della tua stirpe, da quando giungesti alle nostre mura
ospitali? Ancora non hai veduta la regina? -
La fronte del giovane si rannuvolò a quelle parole.
- Son giunto poc'anzi, - rispose, - e la mia gente è qui presso, negli alloggiamenti a noi as-
segnati dalla possente regina. Soltanto domani oltrepasserò il baluardo di Nivitti Bei, con la pompa
che s'addice ad un re.... ad un re tributario! - aggiunse egli, mal reprimendo un sospiro. - Tu sei
cortese, o mia divina; ma che giova il nasconderlo? la gloria dei figli d'Alce s'è grandemente
offuscata, ed io, l'ultimo tra essi, reco a Babilonia il tributo dell'amicizia, come il minore al
maggiore. Felice, invero, dacchè t'ho veduta e t'amo; più felice, se mi saprò riamato da te; ma
domani, pur troppo, io vedrò Semiramide.
- Pur troppo! e perchè?
- Perchè.... debbo dirtelo? Infine, sì; non sei tu la signora del cuor mio, e non debbo io aprir-
telo intiero? Perchè il mio pensiero rifugge da costei; perchè, al solo profferire il suo nome, sento
nell'anima come un misto di terrore e di odio.
- Tu la conosci già?
- Non lei, la sua fama. Ella è possente, ma crudele; grande il regno, ma feroci gli amori. -
Si riscosse a quelle parole la sconosciuta, e un lampo di sdegno le balenò dagli occhi,
promettitore di più fiera risposta. Senonchè, nell'atto di guardare il compagno così bello, così
candido nel sembiante, le venne meno il proposto; l'ira si spense e il pietoso affetto prevalse. E
allora, non senza un tal po' d'amarezza, ella prese in tal guisa a rispondergli:
- La fama? E tu credi a questa vile menzogna? Anzitutto, sai tu donde nasca? Non già dalla lode,
così scarsa pei vivi e restia; bensì dalla invidia, dal maltalento, a cui giova il perfidiare, e dalla stoltezza, cui
torna agevole il credere. Semiramide ha i suoi nemici e non li cura; ma per fermo le dorrà di vederti fra
costoro. In che t'ha ella offeso, perchè tu creda così ciecamente il peggio di lei?
- Tu l'ami, lo vedo; - le disse il re d'Armenia, con malinconico accento; - ma io pure ho
amato, e l'amico del mio cuore non è più tra i viventi. Povero Sandi! Era egli il compagno della mia
fanciullezza, egli il mio fratello d'armi, di cacce e di giuochi, egli il gentile poeta che mi allegrava lo
spirito con le sue grate canzoni. Vaghezza di gloria lo trasse pellegrino alle mura di Babilu. Chi non
lo avrebbe amato, vedendolo? E lo vide costei, il biondo garzone d'Armenia, che aveva cantata nei
suoi versi innamorati la bellissima rosa di Sennaar; lo vide e lo amò, per ucciderlo. Così fu narrato
in Armavir; una sera egli saliva chetamente ai pensili orti della regina; all'alba vegnente, l'Eufrate
accoglieva nei suoi gorghi un cadavere.
- Ah, menzogna! - gridò ella, balzando in piedi, con piglio iracondo. - E chi ha osato ca-
lunniarla in tal guisa? Ella non vide il tuo Sandi, io te lo giuro pe' sommi Dei, che ci stanno sul
capo. Non dar vanto di regali amori, siano essi pure feroci, come tu pensi, o re d'Armenia, a chi
forse lasciò la vita in un laccio volgare.
- Perchè ti sdegni? - le chiese Ara turbato. - Amica della regina, sei troppo poco amica a chi
t'ama. E sia pure! L'oracolo di Peznuni me lo aveva pur detto, innanzi ch'io lasciassi Armavir! "La
terra di Sennaar ti sarà fatale!" Accusami alla regina; domani non andrò al suo palazzo, sibbene alla
morte. Non mi dorrà il morire, se dalle tue labbra mi verrà la sentenza. -
L'accento appassionato commosse la sconosciuta.
- T'inganni; - soggiunse ella, ad un tratto mutata. - Troppo facile trascorsi allo sdegno; ma
non temere! Chi t'ha veduto una volta non può tradirti, per fermo. A te l'amicizia offuscò la ragione;
a me l'amicizia dettò le irose parole. Se tu conoscessi Semiramide, - e qui la voce di lei assunse un
tono d'infinita mestizia, - sventurata la diresti, non rea. Nessuno amò la povera regina, nessuno! Ella
è sola, si sente sola nel suo vasto impero, come un'isola deserta sul mare. Chiede affetto (e chi, tra i
nati all'amore non lo chiede?) ma invano, gagliardo e sincero come il suo. Ognuno in lei vede e
desidera la regina; nessuno ha amata la donna. Tu la vedrai, re d'Armenia; e se non somigli a quanti
le stanno tementi dintorno, se hai virtù di penetrare con lo sguardo oltre il fasto regale che la
circonda, vedrai dolore che non ha uguale in terra, e che mal si tenta di nascondere nel profondo
dell'anima; vedrai fastidio d'ogni grandezza, d'ogni vanità, d'ogni ossequio bugiardo; vedrai
desiderio infinito di verità, di schiettezza e di fede. E allora... allora non crederai alla fama; allora,
forse, tu amerai quella donna. -
II giovane crollò mestamente il capo, come chi, non potendo assentire, non ardisce far
contro.
- Perchè, - entrò egli a dire, - ci diam noi pensiero di ciò? Tristi ricordi hanno fatto forza
all'animo mio; lasciamo ora in disparte ogni cosa che non sia l'amor nostro; te ne prego. Parliamo di
noi; parliamo di te, - aggiunse con voce carezzevole, - di te, che sei tanto bella, anco negl'impeti
dello sdegno. Celebrata è Semiramide nel mondo per maravigliosa bellezza; ma ella, mentre tu l'ami
e la difendi, certamente invidia la tua. -
E rimase ad attendere una sua parola, curvo in atto amoroso di fianco a lei, che s'era di bel
nuovo seduta, modesto e ardente ad un tempo, lo sguardo fisso in quei grand'occhi neri, che lo gua-
tavano tra curiosi ed incerti.
- M'ami tu molto? - gli chiese ella cedendo ad un moto repentino dell'anima.
- Lo chiedi? - gridò egli, nell'atto di afferrarle la destra e di stringerla al petto, come se
volesse farla consapevole degli ardori ond'era tutto compreso. - Odimi, o figlia di Babilu, odimi,
ignoto astro di luce! Nei miei monti natali, sono i costumi più semplici e rozzi, ma forti. Si ama una
volta sola, ma per tutta la vita. Veloce, prepotente a guisa di fulmine, scende l'amore nel cuor nostro
e lo strugge; però sono una cosa sola il vedere e l'amare. Io ti ho veduta e ti amo; non ti amavo io
già, prima di vederti in viso, di udire il suono della tua voce? E tu, dimmi, nel nostro incontro non
vedi, non senti, alcun che di fatale?
- Fatale, sì, tu l'hai detto, fatale! - ripetè con vibrato accento la sconosciuta. - Così è bello,
non altramente, l'amore; così s'avrebbe mai sempre a volerlo: o incendio o nulla. Amare è darsi
intieramente, è confondersi, vivere in una due vite, se felici o sventurate, non monta, ma gloriose,
ma ardenti, fino al punto di consumarsi a vicenda e morire, a guisa degli astri, in uno sprazzo di
fuoco.
- Così t'amerò, - disse Ara; - fosse pure la morte nei tuoi baci. Chi ama, ha vissuto.
- E dimmi.... - soggiunse ella peritosa, fissando i suoi grandi occhi neri in quelli del giovane,
- per questo tuo medesimo affetto, non potrai tu farti più umano nel giudicar la regina?
- Che chiedi tu ora? - esclamò egli turbato.
- Gli è un mio capriccio, - rispose ella prontamente. - Donna amante non si reputi amata, se
prima non abbia messo il cuore dell'uomo alla prova.
- Ah! - proruppe Ara. - Dubiteresti ancora di me?
- Non dubiti tu ancora delle mie parole? - diss'ella di rimando. - Non dai tu orecchio, anzi
che alla mia voce, alle perfidie del volgo?
- No, t'inganni; io non dubito, ma il mio cuore sanguina tuttavia; concedi al tempo di
rimarginare la piaga. Tu taci? O mia diletta, non t'offenda il diniego! Più tiepido amico, ti parrei
forse più fervido amante?
- Amore, dolore! -mormorò ella tra sè, quasi rispondesse ad una voce segreta dell'anima. - E
sia così, come vuole la Dea!
- Rispondimi, te ne supplico; - incalzò il re d'Armenia, cadendo in ginocchio e tendendo le
palme verso di lei. - Non mi lasciare in questa tormentosa incertezza, peggior d'ogni morte! Vedi,
non sempre si è padroni di sè: v'hanno cose da cui l'animo rifugge. Comanda che io m'allontani;
comanda che io ti dimentichi; potrà forse il mio cuore obbedirti?
- Giuralo, dunque; - diss'ella con piglio risoluto! - giura che mi ami, e che, qualunque cosa
avvenga.... Bada bene; qualunque cosa avvenga, - ripetè solennemente, - tu sarai mio, sempre mio!
- Che vuoi nascondermi? - chiese il giovane attonito. - Che vedi tu nel futuro?
- Tremi già? - soggiunse la sconosciuta.
- Oh, se tu credi che io m'arresti per tema....- rispose egli sollecito; - ecco, io lo giuro; qua-
lunque cosa avvenga, sarò tuo, sempre tuo! -
Un divino sorriso irradiò il volto della bellissima donna, che si fece allora a chiarirgli il suo
pensiero con più dolci parole.
- Tu domani, vedrai la regina, e chi sa? forse in vederla, ti fuggirebbe dal cuore ogni affetto
per me.
- Di ciò temevi! - gridò Ara, con accento di amoroso rimprovero.
- Di ciò, d'altro ancora, di tutto! - rispose ella trepidante.
- Oh, crudele! - ripigliò il garzone innamorato. - Io giuro nel santo nome di Militta, che ti ha
fatta pietosa alle mie preghiere, giuro per la mia fede di re, che non s'è macchiata di tradimento mai,
giuro per la sacra memoria di Sandi, che fu sino ad oggi l'unico affetto vero della mia vita, giuro di
non amar che te sola, te sola e sempre, checchè mi serbi il dio delle sorti! Ti basta? Non accoglierai
tu il mio giuramento? -
E stette anelante, lo sguardo fiso, in atto supplichevole, ad aspettar la sentenza dalle labbra
di lei, che rimase un tratto immobile e muta a contemplarlo.
- Acerba pena ti preparo forse, o mio cuore! - mormorò ella, raccogliendosi sgomentita in sè
stessa. - Ma sia! non l'ho io chiesto poc'anzi a Zarpanit, d'essere amata per me, per me sola, checchè
potesse accadermi? -
Il giovane era tuttavia ai suoi piedi, spiando ogni suo moto, chiedendole mercè con la muta
eloquenza degli occhi. La luna, librata a mezzo il suo corso, accarezzava coi candidi raggi quel-
l'amoroso sembiante. Ed ella, impietosita, chinò il viso sul viso di lui, lo trasse a sè, lo guardò
ancora; un ricambio d'ansiose interrogazioni, di fervide promesse, di soavi languori, parlò in quegli
sguardi confusi; indi, un'arcana virtù ravvicinò le labbra alle labbra, le strinse in un bacio, lungo,
intenso, come il desiderio che ardeva nei cuori.
- Ti credo; - ella disse quindi, gettandogli al collo le braccia e nascondendo il bellissimo
volto sul seno palpitante del re; - ti credo e son tua. -
Così l'uno all'altro ristretti, a guisa di due giovani fidanzati, ebbri d'amore, dimentichi d'ogni
cosa creata, ripigliarono leggieri la via del tempio, guardandosi in volto, bisbigliandosi all'orecchio
cento di quelle parole, soavemente vane, che l'aura stessa non può udire, nè l'eco ripetere, senza
toglierne il pregio.
Si erano essi a mala pena partiti di là, che una testa curiosa sbucò fuori da un vicino
cespuglio. Indi, raffidato dalla solitudine, un uomo ne uscì con tutta la persona, ravvolto in un bruno
mantello; strisciando a guisa di serpente, attraversò il sentiero, e si cacciò da capo nell'ombra, in una
macchia di lentischi, che risaliva lunghesso l'erta del colle.
CAPITOLO IV.
L'ONNIVEGGENTE.
Già impallidiva Istar, la lucida stella del mattino, e il cielo biancheggiava all'orizzonte, allor-
quando, sul più remoto terrazzo della reggia di Semiramide, apparve un uomo, o troppo nemico del
sonno ristoratore, o desideroso di respirare le prime e le più pure aure del giorno.
Egli era alto della persona e di valide membra; indossava una gran tunica nera, frangiata
d'oro sui lembi e lunghesso il giro delle ampie maniche ricadenti sui fianchi; portava a mo' di
diadema, intorno alla fronte, un cerchio d'oro, donde la folta capigliatura gli ricadeva inanellata sul
collo; la barba, folta del pari, nerissima e riccioluta, gli scendeva sul petto, dando risalto al viso,
notevole per le maestose fattezze e pel colore bianco smorto della carnagione, a contrasto colle
labbra porporine e colle sopracciglia d'ebano, sotto cui scintillava il mobile smalto delle profonde
pupille. Era una bellezza di granito, la sua; bellezza nobile, contegnosa e fredda, che comandava
l'ammirazione e non ispirava l'affetto. Così apparivano terribilmente belli i colossi di pietra sul
limitare dei templi; così, mirabilmente severe, lungo le pareti babilonesi, le immagini dipinte dei
sacerdoti e dei re.
Immobile come un nume di pietra, egli stette a lungo lassù, colle braccia conserte, ritto
sull'altana, in atto di guardare agli estremi confini del cielo, dove veniva a mano a mano crescendo
un'ampia lista di luce, zona ranciata da prima, indi accesa di porpora, che circondava la nereggiante
pianura.
Egli non era lieto per fermo; ben lo dicevano le ciglia aggrottate e lo sguardo fiso, che
pareva cercare le invisibili regioni, dove ha la sua culla il sole, mentre forse lo spirito irrequieto si
addentrava negli abissi inesplorati, donde scaturisce il pensiero. E così rimaneva, guatando e pen-
sando, raccolto in sè medesimo, come un colosso circondato da tenebre, il quale aspetti la luce, o
come un'anima smarrita, sopraffatta dai casi, la quale aspetti da lontano evento un consiglio.
Poco stante fu giorno; lo splendido sole asiatico, improvvisamente apparso all'orizzonte, levandosi
maestoso in un cielo di madreperla azzurrina, investì de' suoi raggi la dormente città e sfolgorò in più punti,
riflesso dal dorso lucente delle sue cupole, dalle facce delle sue piramidi, dai fianchi delle sue torri.
Quella vista lo riscosse dalla sua immobilità pensosa. Egli si volse allora ad un altare di pie-
tra che sorgeva nel mezzo della piattaforma; frugò tra le ceneri che ingombravano il focolare e ne
scoverse i carboni ardenti tuttavia; vi accatastò la stipa in bell'ordine; poscia si fece, in atto
religioso, a soffiarvi su, per destarne la fiamma. Indi a poco la vampa si accese e crepitò, cercandosi
la via per mezzo agli aridi tronchi, mentre egli, inginocchiatosi, e sollevando le palme alla crescente
fiammata, veniva mormorando le sue preghiere al dator della vita.
-"Io invoco te in questa purissima fiamma, io celebro te, creatore Ahuramazda, luminoso, ri-
splendente, massimo ed ottimo, perfetto nelle opere tue, mente e bellezza suprema, possessore della
vera scienza, fonte di gioia, tu che ci hai creati, formati e nudriti, tu il santo, tu l'intelligente tra gli
esseri.
"Tu sei vero, tu lucido e splendente, tu causa prima di tutte le ottime cose, dello spirito che è
nella natura, di ciò che nasce dal suo fianco generoso, dei corpi luminosi e di quelli che splendono
di luce propria; tu il verbo creatore, esistente avanti il cielo, avanti l'acqua, avanti la terra, l'albero, il
toro ed il fuoco tuo figlio, avanti l'uomo veridico, avanti i Devas e gli animali carnivori, avanti tutto
l'universo, avanti tutto il bene da te creato, e avente il suo germe nella verità.
"Come il verbo dalla volontà suprema, così l'effetto non sussiste se non perchè procede dalla
verità. La creazione di ciò che è buono nel pensiero e nell'azione, appartiene nel mondo a Mazda e il
regno appartiene ad Ahura, che il proprio suo Verbo costituì distruttore dei tristi."
Dette in ginocchio queste preghiere, l'ultima delle quali ogni sacerdote di Ahuramazda dee
ripetere cento volte al giorno, egli trasse di sotto all'altare una coppa di argento e vi spremè il succo
dell'amòmo, dell'arbusto nodoso, che porta, per insigne privilegio celeste, il nome più antico di Dio,
nella sacra lingua dell'Iran. L'hom (tale è il suo prisco nome) si riputava per ciò il primo degli alberi,
come il toro era detto il primo tra gli animali. Consacrato davanti all'altare, esso era la medesima
sostanza di Dio; bevuto dal sacerdote, esso era Dio che si trasfondeva nel petto dell'uomo.
- "Io ti volgo la mia prece, o Hom, elettissimo Hom, che dài la giustizia, la purità e la
salvezza, ottimo di forma, splendido di luce, vittorioso, che hai nome di aureo!"
Spremuto il succo nella coppa, alzò questa con ambe le palme verso la fiamma, e ne sparse
alcune gocce sugli ardenti carboni.
- "Per questa sola coppa che io ti presento, o dator d'ogni bene, rendimi tu quattro, sei, sette,
nove, dieci per uno; ricompensami tu in questa guisa; dà la purezza al mio corpo. Veglia su me,
purissimo Hom, ottima tra le sostanze, scendi tu stesso in me, sorgente di vita. Aprimi, o santissimo
allontanator della morte, aprimi le dimore celesti, sfolgoranti di luce, piene di felicità, superbe di
gloria." -
Ciò detto accostò la coppa alle labbra e bevve il consacrato liquore dolcissimo, a mala pena
spremuto, ma che tornerebbe fatale a chi lo bevesse dopo fermentato. Tale era il sacrifizio del fuoco,
tale l'offerta dell'amòmo, presso le antichissime genti dell'Iran.
Il sacrificatore proseguì, levando le palme all'altare:
- "Come tu ardi in questa fiamma, come tu regni nei cieli, così regna in terra, o possente
Ahuramazda; così stendi il tuo divino impero dai culmini dell'Iran fino alla pianura del Sennaar e
più oltre ancora, fin dove stridono i flutti del mare allo inabissarsi del sole. Possa Babilonia, possa il
popolo delle quattro favelle, inchinarsi alla tua legge, o spirito di verità! I suoi astri venerati, che
sono essi al cospetto della tua luce? Le sfere celesti, le forze arcane della natura, dovranno sempre
usurpare il tuo luogo, o creatore di tutto ciò che è, nell'ordine degli spiriti eterni e delle cose
mortali?" -
Così disse, con fervido accento nella sacra lingua di Javan; così diè fine alla preghiera e si
alzò per chiudere il rito. Un lieve moto del capo gli consentì di vedere dietro di sè, pochi passi
discosto, ov'era un altr'uomo genuflesso, e un sorriso di superba contentezza sfiorò le sue labbra.
Fingendo tuttavia di non avvedersi della presenza di quell'altro, egli attese con minuta cura a
rasciugare la coppa e a gittar sul fuoco gli avanzi del sacrificio; quindi finalmente si volse, e andò
con piglio affettuoso incontro al nuovo venuto.
Era questi un giovinetto, le cui strane sembianze comandavano l'attenzione. La grazia in-
genua degli atti e del sorriso, la eleganza un tal po' impacciata delle forme e una certa inconsapevol
ferocia dello sguardo, pareano contendersi l'impero su quell'aspetto di adolescente e lo facevano
rassomigliare ad un lioncello, dai cui moti eleganti, ma già di soverchio baliosi, trasparisce la forza
e la crudeltà degli anni maturi. Sorridevano le labbra coralline, ma tumide di voluttà e d'orgoglio,
lievemente ombreggiate dai peli vani della pubertà nascente; si rappicciolivano gli occhi sotto le
ciglia, in atto tra ossequioso ed amorevole, ma lucidi e fissi, promettitori di lampi; soavi erano i
contorni del viso, ma sotto quella bruna carnagione si vedeva correre vivace, impetuoso, il sangue
della stirpe cussita. Egli appariva un misto di fierezza più che virile e di dolcezza femminea; cose
del resto assai facili ad accoppiarsi nella umana natura. Per altro, la sua tenera età lo ravvicinava più
ancora al femmineo; aiutando a questa apparenza la sua bianca tunica frangiata d'oro, con
sopravveste violacea, la mitra aggraziata, dai capi pendenti sugli òmeri, e la collana di gemme, che
dintornava un collo soavemente tondeggiante, siccome è delle donne, o dei giovani.
Alzatosi in piedi sollecito, l'adolescente si mosse anch'egli, per farsi incontro al maggiore.
- Padre mio, - diss'egli, inchinandosi nell'atto di ricever l'abbraccio di quell'altro, - sia
Ahuramazda con te, e i sommi Dei di Babilonia del pari! -
Aggrottò l'altro le ciglia a quelle parole del giovane.
- E' sono inferiori suoi; t'è già noto, o Ninia; - rispose egli con aria di paterno rimprovero; -
eglino, quanti sono, adorati dalla stirpe degli Accad, obbediscono a lui, come i sei Santi immortali e
la innumerevole schiera degli spiriti da lui creati nel tempo. Da lui viene la luce che dà splendore
agli astri del cielo e infonde virtù agli elementi; in lui solo è la verità suprema, la bellezza e la forza,
l'origine e il fine di ogni cosa creata.
- È vero! - disse l'adolescente, reclinando la testa sul petto.
Piacque all'altro l'arrendevolezza giovanile, a cui del resto s'aspettava, e il suo accento si
fece ad un tratto più dolce.
- Or dunque, mio Ninia, consacriamo queste ore agli utili studi. Purificato dalle mattutine
abluzioni e dalla preghiera, tu leggerai le prime tavole del Vidaè Vadàta, che è la legge di
Ahuramazda contro gli spiriti malvagi. Tu vedrai come egli abbia create le schiere celesti per
combattere la potenza del male, i sei genii Amsciaspandi, i benefici Izèd, e da ultimo i Ferver,
custodi dell'uomo nelle pugne della vita.
- Savio Zerduste.... - entrò a dire peritoso il giovinetto.
- Orbene?
- Questa mattina non puoi tu concedermi libertà? I miei giovani compagni mi attendono per
una cavalcata fuori Imgur Bel. Si va fino al villaggio di Lahiru, donde si cominciano a scorgere le
alte torri di Sippara.
- E dove è così dolce il riposo sotto le palme di Gomer; - aggiunse Zerduste, con accento da
cui trapelava il sarcasmo. - Non è egli vero?
- Che vuoi tu dire? - esclamò Ninia, arrossendo. - Si rimane per breve ora colà, a ristorarci
dalla fatica e far posare i cavalli all'ombra dei tamarischi.
- Bada a te, Ninia, bada a te! - proseguì Zerduste senza por mente alle scuse. - Ahriman ti
vuol suo. Il negro spirito ti fa velo agli occhi di gioie terrestri, per disviarti dal retto sentiero. -
Il volto dell'adolescente si rannuvolò.
- Ma dimmi, sapiente maestro, - disse egli, non senza un tal po' d'amarezza, - questa diritta
via sarà ella dunque e sempre, la via del dolore?
- Non già; - rispose Zerduste; - fine della vita è la gioia; ma il savio impara a vivere, innanzi
di prender cammino. Due sentieri guidano alla meta; aspro e malagevole il primo, irto di rovi e
povero d'ombre consolatrici; facile l'altro e piano, smaltato di fiori, liberale di liete fragranze, ricco
d'amabili incanti. S'attenga al primo, ne patisca animoso le angustie, chi vuol giungere speditamente
al fine desiderato; guai a chi sceglie il secondo, imperocchè Ahriman s'appiatta insidioso tra i rami,
persuade all'animo i fallaci consigli, e ad ogni fior che si coglie, ad ogni ora di soave riposo che si
gusta, fugge la vita veloce e l'intento s'oblìa. Odimi, o dolce figliuolo, che tale ben posso chiamarti
per l'affetto del cuor mio; non cedere alle blandizie dello spirito malefico, tu che hai potuto
intravvedere gli arcani splendori del vero; non ti adagiare nelle mollezze anzi tempo, tu che sei nato
alle nobili cure del regno. Strana fiacchezza è la tua, o sangue di Nemrod! Dov'è la tenacità di
propositi, dove l'ardire e l'ambizione, che ti facciano degno de' tuoi possenti maggiori?
- Faticose virtù! - rispose Ninia, sospirando. - Pur troppo dovrò conoscerle un giorno e saper
come pesano! Babilonia ha un gran re, mia madre, e vogliano i sommi Dei.... voglia Ahuramazda, -
soggiunse prontamente il garzone, - serbarla lunghi anni all'amore, alla gloria del suo popolo.
- Ti ascolti Bahman, lo spirito protettore della regia autorità; - disse asciuttamente Zerduste;
- ma egli è debito tuo di prepararti ai supremi voleri; è colpa grave in te il non far degna stima dei
doni celesti. Oh Ninia! - incalzò egli con accento inspirato; - che vuoi nascondermi? Il tuo Ferver, il
tuo genio tutelare, ti vede; egli ti accompagna dovunque; egli ti legge nel cuore; egli non m'ha nulla
celato.
- Che dici tu mai? - chiese Ninia, con aria da cui trapelava più incredulità che sgomento.
- Che tutto mi è noto; - incalzò Zerduste; - che i tuoi giovani amici ti traggono su d'una via
perigliosa, e che io non ho abbastanza vegliato su te.
- Ma, infine.... - balbettò l'adolescente; - di che mi riprendi? Io non so di avere in cosa alcuna
fallito. Se ignoti nemici ti hanno dato a credere....
- Non ischermirti così! - interruppe quell'altro. - Zerduste non ha bisogno di gente che venga
spiando i tuoi passi; egli sa tutto, tutto vede, e perfino i più riposti pensamenti dell'animo. Ne
dubiti? Orbene, alla prova, ed ascoltami; narrerò a Ninia il segreto di Ninia. -
Il giovinetto, tremante, confuso, si lasciò cadere sopra un sedile, di contro al parapetto del
terrazzo. Zerduste, in piedi davanti a lui, tranquillo e severo a guisa di un giudice, così prese a par-
largli:
- Era il mattino del terzo giorno di Bagayadisc, che è detto a Babilonia il mese di Sivan; giorno
sacro, pei seguaci della vera luce, al divino Ardibehest, pei vostri sacerdoti al sanguigno Nergal. Non sono
adunque trascorsi da quel giorno molti altri, - notò Zerduste, - poichè Bagayadisc non è giunto ancora a
mezzo il suo corso. Un regio adolescente, diletto ad Ahuramazda, sebbene e' non sia nato sotto la sua legge,
nè ancora egli creda alla sua onnipotenza, galoppava, seguito da, uno stuolo di cavalieri, tutti coetanei suoi,
scelti tra i primi di Babilonia, fuori di Imgur Bel, sulla via che risale lunghesso l'Eufrate, fino al villaggio di
Lahiru. Colà giunti, fecero sosta nella macchia di tamarischi che scende con dolce pendìo fino alla riva del
fiume. Il sole, alto nel firmamento, dardeggiava sulla pianura gli ardenti suoi raggi, consigliando i baldi
garzoncelli a chiedere un'ora di riposo al meriggio degli alberi. Uno di essi, tratto da giovanile vaghezza, era
andato più oltre a ristorar le membra nelle acque scorrenti. E là, mentr'egli, già tornato alla riva, stava
contemplando quell'ampia striscia di liquido argento che volgeva con poderoso corso agli amplessi della sua
città prediletta, gli venne veduta, nuotante a fior d'acqua, una graziosa figura di donna....
- Padre mio! - esclamò Ninia, turbato.
- Sì, - proseguì Zerduste, senza por mente alla interruzione, - era una vezzosa fanciulla, che
veniva nuotando verso di lui, là dai palmeti di Gomer, di cui si vedevano sorgere i tronchi sottili e
incurvarsi i lunghi rami verdeggianti dalla riva sinistra dell'Eufrate. Un candido lino le custodiva il
capo e gli òmeri dalla vampa del sole; una ciotola di terra le posava sulla manca, alzata fuor d'acqua,
mentre con la destra ella veniva fendendo il flutto per avvicinarsi alla sponda, dov'era il garzone,
immobile, estatico, a contemplarla.
"Vieni a me, vezzosa fanciulla!” le gridò egli, come fu certo che ella potesse udirlo. E la fan-
ciulla poggiando a destra sul braccio disteso, si fece più presso alla riva. Certo ella conosceva per
lungo uso quel tratto dell'Eufrate; imperocchè, come fu giunta a forse cinquanta passi distante da
lui, si lasciò cader ritta, per toccare il fondo col sommo dei piedi, e leggiera, saltellante, a guisa di
danzatrice, si affrettò al lido, con la sua ciotola eretta sulla palma all'altezza del viso. Così a mano a
mano egli vide sorger dall'acqua il suo corpo snello e flessuoso come un tronco di salice, coperto di
una bianca tunica che le si aggiustava, così molle com'era, alla persona, seguendone fedelmente i
graziosi contorni.
"Neri, lucenti i capegli, vivide le pupille per profondi riflessi di zaffiro, ma velate a mezzo
da lunghe e morbide ciglia, colorate le guance come il frutto del melagrano, pareva la voluttà
discesa sulla terra in forma di donna, per volere di Mazda, innanzi che lo spirito tentatore la
volgesse a danno degli uomini. Il collo nitido a guisa di avorio, svelto ed agile come quello del
cigno, sorgeva con soavissima curva dai mal celati tesori del seno palpitante. Sorridevano
timidamente le labbra di corallo, lasciando scorgere due file di perle che non han le più candide i
maravigliosi recessi del mare.
"Timido, palpitante del pari, il giovinetto si accostò a lei, che balzava sul lido, profferendogli
la sua ciotola ricolma di latte. E bevve a lenti sorsi, più lenti che gli venisse fatto, il fresco umore
che gli era ministrato da quelle mani leggiadre, mentre i suoi occhi, più sitibondi a gran pezza,
bevevano da tutta la persona di lei i primi effluvi d'un'arcana dolcezza.
"- Come ti chiami? - le disse egli amorevole.
"- Anaiti, - rispose la giovinetta.
"- II nome di una dea! - soggiunse il garzone. - Invero, al primo vederti, io t'avevo tolta per
Daokina, la moglie di Ao, emersa dai flutti del mare; che certo la vezzosa regnatrice delle onde non
è più bella di te.
"II volto della fanciulla si tinse del color della fiamma, e il cuore di lui ne fu colmo di
ebbrezza. È così amabile sulle guance d'una donna il rossore che le nostre parole fan nascere!
Ambedue rimasero un tratto in silenzio, commossi, anelanti, ella con gli occhi a terra, egli col
guardo fisso in quel raggio di giovanile bellezza. Indi, facendosi anche più rossa, e con accento che
diceva tutta la commozione dell'animo, la fanciulla chiese a lui di rimando:
"- E tu, mio signore, come ti chiami?"
"- II mio nome è assai meno bello del tuo; - le rispose egli; - son Ninia.
"- Ninia! - esclamò ella alzando i suoi grand'occhi verso di lui ed abbassandoli tosto; - il
principe di Babilu!
"E fu per cadere al suolo, tanta era la sua confusione. Ma Ninia si affrettò a sorreggerla, e in
cosiffatta guisa, Ahriman, che vigila ai danni della creatura, li ebbe gittati, senza loro saputa, l'una
nelle braccia dell'altro.
"Fu questo il primo incontro, e non fu il solo. Due volte ancora la vezzosa nuotatrice varcò
la corrente del fiume, recando la sua ciotola di fresco latte all'assetato garzone. Il terzo dì, fatto più
ardito, egli non volse già ai tamarischi di Lahiru: bensì, uscendo da Babilonia sulla riva sinistra del
fiume, e lasciatisi indietro i giovani amici, cavalcò ansioso fino ai palmeti di Gomer. Vuoi tu udire
ciò che si bisbigliasse ieri, sulla quinta ora del giorno, in quel nido di verdura, celato agli sguardi
profani? Poni mente, e vedi se alcuna cosa è sfuggita al vigile orecchio del tuo genio tutelare.
"- Ti son io così cara? - diceva la fanciulla. - Non mi dimenticherai tu un giorno, o mio
principe?
"- Principe! - ripetè con accento di amarezza il regio garzone. - Tutti mi chiamano così, e il
nome mi suona sgradito. Tu chiamami Ninia, il tuo Ninia, il fratello, il giovine amico del tuo cuore.
Dimentichiamo la reggia; nessuno mi ama laggiù!
"- E tua madre? - gli chiese Anaiti?
"- Mia madre, tu dici? Io l'amo, e credo che ella mi ami; ma le gravi cure del regno la distol-
gono sempre da me. Mi ama Zerduste, il savio principe dei Medi, che la regina mi ha dato a maestro
e custode. Mi ama! - aggiunse sospirando il garzone. - Lo dice; soventi volte lo dice; ma io non ho
mai visto il sorriso di quell'uomo, il sorriso, in cui si manifestano i dolci sensi dell'anima, il sorriso,
che mi fa parer più bello il tuo volto e m'innonda il cuore di così nuova dolcezza! Sempre grave,
cupo, accigliato, è Zerduste, pauroso come il suo dio, circondato di spiriti invisibili, che riempiono
le mie notti di arcani terrori. Con te son lieto, Anaiti; bella e pietosa come l'aurora, tu sperdi le
tenebre addensate su me, tu mi rinfranchi lo spirito abbattuto, mi rechi la fede, la speranza e l'amore.
Non son queste le tre consolazioni della vita? E non è bello che mi vengano tutte da te?
"Così ragionando egli, e la fanciulla rispondendogli con la muta eloquenza degli occhi
radianti, errarono a lungo sotto i palmeti di Gomer. Colà Ninia vide per la prima volta la casa di lei,
umile tugurio di pescatori, dove si nasconde quel miracolo di leggiadria, come entro vil gleba il dia-
mante. Ma essa non vi rimarrà a lungo, se a Ninia sarà dato di colorire i suoi amorosi disegni. Nel
cuore della rusticana fanciulla si agitano confusi i desiderii e le ambizioni della donna. È soltanto
dell'uomo il restarsi ignaro e contento nell'umile stato a cui lo condannò la natura; la donna in quella
vece, sol che le arridano gioventù e bellezza, può levarsi in alto, fors'anco apparir degna di un trono.
Non è egli vero, o Ninia? Non è ciò che tu pensi?" -
Così Zerduste, con progressione implacabile, era venuto scoprendo i più riposti segreti di
quell'anima giovanile. Ninia, attonito da prima, indi sgomentito, esterrefatto, lo aveva ascoltato
tacendo.
- Padre mio, - gridò egli finalmente, con voce lagrimosa, nell'atto di buttarsi ai piè di
Zerduste, - se tu la vedessi! Ella è così bella, ed io l'amo tanto! Strappami il cuore, se così ti piace,
ma non strappar Ninia da lei! -
Zerduste lo rialzò, senza profferir verbo.
- Non mi dirai tu nulla? Non mi perdonerai tu? - chiese il garzone con supplichevole
accento. - Se io ti ho mal conosciuto finora, non vorrai tu condonarlo alla mia giovinezza inesperta?
Sì, io lo vedo, lo sento; tu sei il ministro d'un Dio, tu che sai ogni cosa, tu che leggi nel profondo dei
cuori, onniveggente maestro!
- Non io, - soggiunse umilmente Zerduste, - ma i santi Amsciaspandi, gli Ized, i Ferver, invi-
sibili spiriti che t'incutono spavento. Eglino, per altro, non fan paura ai saggi; chi segue la legge di
Mazda non ha nulla a temere da essi. O Ninia, ed è il tuo labbro che ha potuto giudicarmi così
malamente? Non t'amo! Non hai veduto mai Zerduste sorriderti! E che? Dovrei io allegrarti di vane
lusinghe, come una vil femminetta, io che ho promessa la mia vita agli arcani della divinità, io che
consumo le notti sulle tavole sacre, io che nutro il tuo spirito dei reconditi veri?
- Padre mio! - gridò Ninia, piangente. - Sono colpevole; qual pena m'infliggi?
- La preghiera, mio figlio, la preghiera che innalzerai al trono di Mazda, nel fervore
dell'anima tua. Ancor lungo cammino ti è mestieri di correre, innanzi di giungere alla vera sapienza;
ma la fede e la preghiera possono farlo più breve. Tu allora accosterai sicuro il labbro al calice delle
umane delizie, che non avrà più veleno per te.
- Maestro, - disse il garzone, riaprendo il cuore alla speranza, - e se io avessi questa fede....
se io ti giurassi....
- Va; - interruppe Zerduste, sorridendo la prima volta al discepolo; - Ahuramazda non è un
tiranno dei cuori. Va coi tuoi giovani amici; ma pensa....
- Che egli regna in cielo, - prosegui il giovinetto esultante, - e che tu sei il suo ministro sulla
terra. Io lo adoro, e ti amo. -
Così dicendo, Ninia era per inginocchiarsi ai suoi piedi. Zerduste lo trattenne con piglio
amorevole e lo strinse al suo seno.
L'adolescente col cuore in festa, il volto sfavillante di gioia e il piè leggero, si dipartì poco
stante da lui. Lieto al pari di Ninia, ma di più profonda allegrezza, Zerduste rimase solo lassù.
- Grazie, - esclamò egli, levando gli occhi e le mani al cielo, - grazie a te, Ahuramazda, lume
delle anime, signore della gente di Javan! Sei tu che vinci quest'oggi, e l'abbattimento di questo
lioncello del sangue di Nemrod mi è presagio felice. -
Indi misurando la piattaforma a passi concitati e sicuri, come d'uomo che ha piena balìa di sè
medesimo e degli eventi, si volse a guardar la città sottoposta e le alte moli scintillanti da lontano
nel cospetto del sole.
- Bitzida, Niprùti, - soggiunse, fissando lo sguardo sulla torre delle sette sfere e sulla pira-
mide sacra alle fondamenta della terra, - i vostri Dei cadranno; la fiamma purissima di Mazda arderà
sulle vostre cime. E tu, superba regina, disprezzami! Il mio giorno verrà; nè te salveranno i
favoleggiati natali dal grembo di Derceto, o venturiera d'Ascalona! -
In quel mezzo un uomo apparve sul terrazzo.
- Mio signore... - diss'egli.
- Che vuoi, Thuravara?
- Il re d'Armenia si è mosso, con la sua cavalcata dal baluardo di Nivitti Bei. Tra un'ora egli
sarà in vista del ponte, per venire alla reggia.
- Ben venga! - esclamò Zerduste. - Tu vanne e sii pronto al comando. Io sarò tra breve nella
gran sala di Nebo, ad aspettar la regina. -
Thuravara s'inchinò, e disparve giù dalle scale onde era venuto.
- Ben venga, sì! - proseguiva Zerduste. - È pena acerba la mia, ma sarà acerba la vendetta del
pari! Ah, tu l'hai voluta, Semiram? E sia! Militta Zarpanit, che ti ha ministrato il dolce veleno, non
potrà profferirti altrimenti il rimedio. -
CAPITOLO V.
LA REGGIA DI SEMIRAMIDE.
Siccome il vigile Thuravara aveva riferito a Zarduste, la cavalcata degli Armeni, entrando
dal baluardo di Nivitti Bel, aveva già fornito buon tratto di strada per mezzo ai quartieri occidentali
della città, avviandosi al ponte, che ne congiungeva le membra vastissime, attraversate dal fiume.
Ristorati da una notte di riposo, astersi dal sudore e dalla polvere del lungo viaggio, coperti
dei loro arnesi più sfoggiati, i cavalieri del re d'Armenia, facevano vistosa mostra di sè ai cittadini
accalcati lunghesso le vie. Si notavano le sciolte criniere dei cavalli sbuffanti, le lunghe spade
pendenti dal fianco, le luccicanti faretre, i lunghi archi ad armacollo e le mitre folte di negri peli che
davano ai montanari di Peznuni e di Armavir un così marziale aspetto, facendo così spiccato
contrasto con le gentili e quasi muliebri fogge del popolo babilonese.
Ma gli sguardi della moltitudine erano in particolar modo attratti dalla nobil figura del re.
Era costume dei monarchi lo andare in cocchio, con l'auriga dai piedi e il portatore d'ombrello da
tergo. Il giovine Ara veniva in quella vece più modestamente a cavallo, ma con assai più vantaggio
per la sua grande bellezza. Calze di porpora si aggiustavano alle gambe nervose ed eleganti; una
tunica di bianca lana, ricamata d'oro sui lembi, gli si stringeva ai fianchi; la clamide regia, anch'essa
di porpora, gli scendeva in molli pieghe dagli òmeri; la benda di perle portata da' suoi maggiori, gli
girava intorno ai biondi capegli. Il piede, chiuso in un sandalo di morbido cuoio, posava su staffa
d'oro; la candida mano stringeva i capi delle redini gemmate, splendenti sul poderoso collo del suo
bianco palafreno, a cui una pelle di leopardo serviva di gualdrappa.
"Ara il bello! Ara il bello! - gridavano i cittadini di Babilonia, come già, vedendolo passare, avevano
il giorno addietro gridato i volghi suburbani. - Invero, egli non si è mai veduto un più leggiadro garzone
sulla terra di Sennaar. Come la regina nostra risplende per sovrumana bellezza tra tutte le donne, così questo
nobile straniero tra gli uomini. Ara il bello, sii tu il benvenuto in mezzo al popolo delle quattro favelle!"
Così, per tutta la lunghezza del cammino che il re di Armenia aveva a percorrere, il mormorio d'am-
mirazione destato dalla sua vista, veniva a mano a mano rompendo in esclamazioni, in grida di esultanza, in
affettuosi saluti, come di popolo ossequente e devoto al suo re, anzichè di nazione avventurosa e superba al
suo tributario. E tutti, come potevano, a spingersi innanzi, e far ressa intorno al suo palafreno, che durava
fatica ad inoltrarsi, sebbene una fitta schiera di soldati babilonesi lo precedesse, per isgomberare il passo al
regale cortèo.
Nel cuore di Ara il bello tornava a regnar la mestizia. Egli già sentiva la vicinanza di Semiramide;
pochi istanti ancora e si sarebbe trovato al cospetto della grande regina d'Assiria, di colei che signoreggiava
il più vasto impero del mondo. E l'immagine di Sandi, del suo povero amico galleggiante sull'acque
dell'Eufrate, gli stava sempre nell'anima. Per discacciare quella crescente tristezza, egli pensava allora alla
notte vegliata nel sacro bosco di Militta; pensava alla sua bellissima sconosciuta; pensava ai dolci colloquii,
alle ineffabili ebbrezze che ancora gli scaldavano il sangue. E quella donna adorata non aveva forse giurato
esser la regina innocente della morte di Sandi? Poteva egli mentire, quel dolcissimo labbro? No certo, ed
egli credeva alle parole di lei; ma, per contro, poteva amar Semiramide chi l'avea tanto odiata fino a
quell'ora? Poteva andarne con allegrezza alla regina, chi ricordava d'esser sangue d'Aìco e non sapeva
dissimulare a sè stesso di venire in atto di tributario alla gente di Accad? Poteva avvicinarsi desideroso alla
donna, celebrata per insigne bellezza nel mondo, chi aveva pur dianzi veduta ed amata la bellissima tra
tutte?
Atossa, era il suo nome, il soavissimo nome che la sconosciuta gli aveva susurrato all'orec-
chio. Altro non aveva egli saputo dell'esser suo; ma bene aveva argomentato com'ella fosse una tra
le più riguardevoli donne di Babilonia. E non avrebbe egli dovuto vederla tra breve, in mezzo alle
nobili compagne della regina? A volte lo sperava, o almeno gli pareva che ciò fosse probabile: ma
un dubbio acerbo gli stringeva il cuore e vi soffocava per entro quella lieta speranza. Una così
maravigliosa bellezza! Mai più Semiramide avrebbe patito la vicinanza e il paragone di così
splendida amica! Eppure, non gli aveva ella detto, a lui dolente di abbandonarla sui primi albòri del
giorno, non dubitasse, non temesse di nulla, che presto ei l'avrebbe di bel nuovo veduta, ed ella
medesima sarebbe stata la prima a farglisi incontro? Così procedeva, tra speranza e timore; frattanto
veniva rispondendo con atti cortesi alle grida e ai saluti del popolo.
Indi a non molto, la cavalcata giunse alla svolta del ponte, miracolo dell'arte babilonese, che
collegava le due sponde dell'Eufrate e i due palazzi regali, l'uno a riscontro dell'altro, ambedue
maravigliosi a vedersi. Il primo, che era posto sulla riva destra, girava trenta stadii, rinfiancato di
alte mura merlate, su cui si vedevano impresse figure di combattenti, città assediate, e lunghe file di
prigionieri supplicanti. Di là dal ponte torreggiava la gran mole dell'altro, sopra un terrapieno di
sessanta stadii, a cui si giungeva per ampie salite laterali, vigilate ad ogni ripiano da colossi di
pietra. Aveva un giro di quaranta stadii il secondo recinto, ornato di ogni specie d'animali, così
diligentemente condotti e coloriti, che pareano spiranti di vita. Nel terzo recinto, che era la cit-
tadella, si ammiravano rilievi e dipinti di più egregio lavoro; tra essi una caccia, in cui le figure
apparivano alte di quattro cubiti e più. Quivi era effigiata Semiramide su d'un focoso destriero,
nell'atto di scagliare il giavellotto contro una pantera. Poco discosto da lei era Nino, il suo sposo,
che d'un colpo di lancia traffiggeva un leone.
Tutto ciò era stupendo a vedersi da lontano; vera montagna di edifizi sovrapposti, selva
intricata di strane forme e di svariati colori; immani architravi e fregi e merlature correnti per
lunghissimo ordine su colonnati di palme; tori e leoni alati con faccia umana, qua e là fieramente
piantati a custodia degl'ingressi; lunghe aste variopinte, dalle cui cime sventolavano stendardi e
orifiamme di porpora; scale e balaustrate di marmo; mura lucenti di smalto; varietà infinita di cose,
che confondevano lo sguardo, senza nuocere alla grandiosa unità del complesso! E sui terrazzi più
alti, l'occhio discerneva padiglioni e velarii, tesi a riparo del sole, fra mezzo ad alberi verdeggianti,
òasi sospese tra cielo e terra da un capriccio di donna, da una fantasia di regina.
Come fu giunto il corteo sull'altra riva del fiume, la scorta dei babilonesi si fermò e si aperse
in due ale, per cedere il passo agli Armeni. Il giovane re attraversò la spianata e andò difilato verso
l'ingresso della reggia, che gli era addimostrato da due leoni colossali, l'uno a riscontro dell'altro, in
atteggiamento di riposo.
Colà stavano ad attenderlo, per fargli le prime accoglienze, i grandi della corte, il gran mag-
giordomo, il gran coppiere, il capo degli eunuchi, il comandante delle guardie reali, con numeroso
seguito di ufficiali minori e di servi. Tranne questi ultimi, tutti indossavano il candi, lunga tunica di
lana scarlatta, con frangia d'oro sui lembi, la quale risaliva sul dinanzi infino alla cintura, parimente
d'oro, donde pendeva la spada, con le insegne dell'ufficio di ciascheduno. Gli appartenenti alla
milizia, in cambio di mitra, portavano in capo una tiara foggiata ad elmo chiuso, che copriva loro le
guance ed il mento.
Il gran maggiordomo, facendosi incontro al re d'Armenia, così parlò, levando in alto le mani:
- Ben giungi, o discendente d'Aìco, alla reggia di Semiramide, nostra gloriosa signora, cui
Belo ha concesso la vittoria della spada e l'impero dello scettro sui potenti della terra. In quella
guisa che Sani regna nel cielo e diffonde per ogni dove i benefizi della sua luce, così ella regna in
Babilonia e sparge i tesori della sua amicizia sui regnatori dei popoli che la circondano. -
Il re d'Armenia chinò leggermente il capo, ma senza risponder nulla. Gli eunuchi, fattisi
innanzi a lor volta, pigliarono ossequiosamente le redini del suo cavallo, per condurlo entro il primo
recinto e su per l'ascesa che metteva al piano superiore. Così salendo in compagnia degli ufficiali
babilonesi, il giovine Ara potè, alla prima svolta dell'ampio viale, scorgere dietro a sè la lunga fila
de' suoi, e il popolo di Babilonia accalcato sul ponte e sulle rive del fiume.
A quel grandioso spettacolo, un altro ne seguì, quando egli fu giunto all'altezza del secondo
ripiano, vasto piazzale dintornato da nobili edifizi, ov'erano gli alloggiamenti di tutti i grandi della
corte. Colà stavano in bell'ordinanza schierati i guerrieri della regina, splendidi a vedersi nelle loro
corazze di lino, coi loro tondi scudi imbracciati e gli elmetti di rame luccicanti al sole. Alla vista del
re d'Armenia squillarono le trombe, rimbombarono i timballi percossi, e il canto guerresco degli
Accad si levò fino al cielo.
La cavalcata proseguì fino al secondo ingresso, vigilato da due enormi tori dall'aspetto
umano. Cessarono i canti ed i suoni ad un tratto, e sul limitare comparvero i sacerdoti de' sommi
iddii protettori di Babilonia. Alle vesti d'oro si conoscevano i sacerdoti di Sam, il dio sole, a quelle
d'argento i ministri di Sin, che è il dio luna. Vestivano di nero i sacerdoti di Ninip, di aranciato i
sacerdoti di Merodac, di scarlatto i seguaci di Nergal, di bianco quei di Militta, d'azzurro i dedicati
al culto di Nebo. Di pietre preziose apparivano tempestate le tuniche e le tiare dei venerandi; frangie
d'oro ne ornavano gli orli, e ghiande di smeraldo pendevano dai lembi.
- Gli Dei ti proteggano o re d'Armenia; - gli disse il gran sacerdote, levando le mani in atto di
benedirlo. - Insegni a te la prosperità di questa reggia come soltanto dal patrocinio degli Dei gli
uomini derivino ogni loro fortuna. Soltanto mercè l'aiuto celeste i re salgono in fama per le loro
virtù, camminano nelle vie della giustizia e si raffermano nella santità, che li fa degni, dopo morte,
degli onori divini. -
Ara chinò gravemente il capo e rispose:
- Tu parli il vero, o santissimo. Un re a cui venga meno il soccorso celeste, vaga nelle tene-
bre a guisa di cieco. Gli abitatori del firmamento azzurro, comunque nomati tra le genti vostre e le
mie, assistano sempre il popolo delle quattro favelle! -
Ciò detto, spinse il cavallo sul limitare e, seguito dal venerando stuolo, penetrò nel terzo re-
cinto, donde si ascendeva all'ultima spianata della regia piramide, innanzi al palazzo della grande
signora di Babilonia.
Lassù lo aspettava una scena più maravigliosa a gran pezza. Davanti a lui si stendeva una
piattaforma, lunga cinque stadii e larga per modo che dieci cavalli vi si potevano muover di fronte,
senza occuparne i margini di pietra, l'uno dei quali correva lunghesso il parapetto, ornato a giuste
distanze di figure simboliche, e l'altro circondava, come una fascia di candido lino, il magnifico
peristilio del palazzo, formato da colonne di palma, che sorreggeano capitelli di granito,
stranamente foggiati a chimere, sirene, ed altre creazioni fantastiche. La piattaforma era vuota, in
attesa degli ospiti, che dovevano schierarvisi in bella ordinanza; per contro, l'intercolonnio appariva
folto di gente, tra cui erano primi i trecento portatori di scettro, ministri dei regali voleri, splendidi a
vedersi per le lunghe vesti di porpora e d'oro e per le ricche tiare che stringevano loro le chiome
inanellate e lucenti. Infine, sul peristilio, per quanto era lungo, si scorgeva un terrazzo, chiuso da
una balaustrata di mattoni dipinti a smalto, e sormontato nel mezzo da un padiglione, o velario,
partito a liste di varii colori; sotto il quale, circondata dalle sue ancelle, stavasi la regina ad attender
l'arrivo del suo tributario d'Armenia.
Il gran maggiordomo, che veniva innanzi, tenendo per mano le redini del palafreno di Ara,
annunziò al cavaliere la presenza della regina. E il principe allora si fermò in mezzo alla piat-
taforma; alzò gli occhi al terrazzo, mettendosi una mano sul petto; indi si tolse la benda di perle dal
capo, trasse la spada dal fodero, e depose queste insegne del suo potere tra le mani del gran
maggiordomo, il quale fu sollecito a raccoglierle e sollevarle con palme tese verso la regina, che
dall'alto sorrise e con lo scettro accennò cortesemente di gradire l'omaggio.
A quel cenno squillarono da capo le trombe e risuonarono i timballi percossi. Il re d'Armenia
scese d'arcione, per avviarsi all'ingresso; intanto i suoi cavalieri e le salmerie sfilavano sulla piat-
taforma, sotto gli occhi della regina.
Portavano queste salmerie i donativi del re alla grande signora di Babilonia; massi di rame naturale
cavati nelle montagne di Armenia; pezzi di lapislazzoli tratti di Atropatene, a levante del lago di Van;
tappeti di finissima lana intessuti a varii colori nelle lunghe veglie invernali dalle donne di Peznuni; cavalli
piccoli e forti, velocissimi al corso, cresciuti nelle mandrie regali di Armavir. E in quella che il gran
tesoriere disaminava i ricchi presenti, e gli eunuchi aritmetici venivano con canne temperate annotando ogni
capo su rotoli di papiro, i servi della reggia conducevano i seguaci del re d'Armenia alle stanze loro
assegnate per alcune ore di riposo, innanzi che facessero ritorno ai loro alloggiamenti fuori il baluardo della
città.
Guidato dal gran maggiordomo, seguito dai sacerdoti e dai portatori di scettro, il giovine Ara
entrò nel vestibolo, dove gli fu data l'acqua ospitale alle mani, insieme con soavi profumi e ristoro
di grate bevande, che adolescenti biancovestiti versavano dalle idrie capaci. Quindi ad un cenno
recato dagli eunuchi, il re d'Armenia fu introdotto nella sala di Nemrod, a cui si ascendeva per
un'ampia gradinata, in mezzo a due file di tori giganteschi, emblemi della possanza divina, le cui
vaste ali erano dipinte di azzurro, la tiara di rosso, le corna e l'ugne dorate, laddove il volto, che
figurava l'umano, aveva il color delle carni e gli occhi apparivano di persona viva, attraverso la
vitrea scorza di smalto.
La sala, detta di Nemrod dalle imprese di quel re, che vi erano narrate in caratteri cuneiformi
ed espresse in bassorilievi lunghesso le pareti, era di sterminata grandezza. Le mura, qua e là
rinfiancate da enormi pilastri foggiati a colonne, misuravano ottanta cubiti e più, dallo zoccolo di
marmo colorato insino al fregio dell'architrave, donde si partivano i correnti del sopracielo, condotto
in legno di odoroso cipresso, sfarzosamente dorato e aperto nel mezzo alla luce del giorno, che
scendeva temperata da un velario di porpora.
Tra le colonne messe ad oro, con scanalature dipinte di rosso, erano vaste quadrature,
ognuna delle quali divisa orizzontalmente in due parti; la superiore rivestita di mattoni lucenti, i cui
rotti disegni concorrevano a formare in ogni intercolonnio l'imagine della divinità suprema, ch'era
un cerchio con entro una figura d'uomo alato, il quale stringeva nella manca lo scettro e teneva la
destra alzata nell'atto dello insegnamento; l'inferiore, poi, coperta di tavole d'alabastro, raffermate al
muro da ramponi di rame, sulle quali erano scolpite scene di guerra e di caccia.
Vedevasi in una di queste il fortissimo Nemrod, potente cacciatore nel cospetto di Ilu, correr
sull'orma di un leone, piagato dalle sue frecce. Su d'un'altra era incisa la torre delle sette sfere
celesti, lasciata a mezzo per la confusione delle lingue. Altrove il gran re presiedeva alla fondazione
di Erech; più oltre si vedeva nel suo cocchio di guerra, con l'arco teso in pugno, nell'atto di scacciare
Assur, figlio di Sem, dalla terra di Sennaar.
Seguivano le imprese di altri re della stirpe cussita, da Bel, figliuolo di Nemrod, infine allo
sposo di Semiramide, il felicissimo Nino, che si vedeva raffigurato in più tavole, giusta il numero
delle sue vittorie. In una di quelle sculture, il gran monarca era effigiato sul suo trono d'argento, con
la tiara ricinta dal regio diadema, la veste bianca frangiata d'oro e due servi da tergo, l'uno de'quali
in atto di agitare il flagello, emblema del suo assoluto potere, l'altro con le armi del re tra le mani,
mentre davanti al trono passavano lunghe file di vinti, coi polsi legati dietro le spalle. Più oltre si
vedeva l'assedio d'una città fluviatile. Gli assedianti spingevano torri di legno, cariche d'armati,
contro le mura, dall'alto delle quali il popolo assediato si difendeva gagliardamente scagliando
frecce e bitume infuocato. Da un altro lato della città, le donne fuggivano su carri tirati da buoi, ed
uomini paurosi si gittavano a nuoto, aggrappandosi ad otri gonfiati, giusta il costume dei luoghi.
Di contro ad uno di questi scompartimenti della sala, ergevasi il trono di Semiramide, alta e
splendida mole d'argento e d'oro, sormontata da un padiglione di bisso e sorretta da figure di popoli
vinti, alla quale si ascendeva per parecchi gradini, coperti da un sontuoso tappeto. Il cerchio e la
immagine alata, simbolo della divinità, splendevano per aurei riflessi e per vivezza di smalto sopra
lo scanno della regina; e intorno a questo, distribuiti sui gradini del trono, stavano immobili ed
ossequiosi i flabelliferi, con alti ventagli di penne di pavone, i melofori, con le armi in pugno,
significanti la virtù guerriera di Semiramide, e i portatori di scettro, interpetri e ministri de' suoi
cenni regali. Seguivano le nobili compagne della regina, sfoggiatamente vestite: indi tutti gli altri
uffiziali di corte digradanti via via, tanto erano essi numerosi, lungo le pareti della sala. Tutt'intorno,
poi, guerrieri sfavillanti nell'armi, suonatrici d'arpa e di cetra, musicisti in buon numero, ancelle e
schiavi, diversi di nazione e di fogge.
Semiramide, bella come il sole nascente, sfolgorava dall'alto. La copriva dalla radice del
collo insino alle piante una tunica di bisso, tinta in violetto di porpora marina e partita in mezzo da
una larga striscia bianca, intessuta di ricami d'oro e di gemme. Una sopravveste, simile al peplo
argivo, scendeva in molli pieghe dal colmo seno, rattenuta da un'aurea cintura e coperta a mezzo da
una gorgiera a sette filze di pietre preziose, agate, onici, crisoliti, lapislazzoli, perle d'ambra, ligurini
e giacinti. Le bellissime braccia apparivano ignude infino al sommo degli òmeri, e anelli gemmati
ne facevano risaltare vieppiù la marmorea bianchezza. Nella destra teneva lo scettro, insegna del
comando; nella sinistra il fiore del loto, emblema delle sue conquiste fin sulle rive dell'Indo.
Una gioia profonda e calma traspariva dal volto della regina, il cui riposato atteggiarsi,
lasciando i soavi contorni in tutta la loro serena maestà, diceva l'onesto compiacimento della
bellezza, che è sicura di vincere dovunque ella si mostri. I suoi grandi occhi neri, accortamente
allungati, giusta il costume orientale, la mercè di sottilissime linee, impresse con polvere stemperata
d'antimonio, tramandavano una luce intensa e penetrante, come di zaffiro incontro ai raggi del sole.
Per mezzo alla gran moltitudine regnava un alto silenzio, che ben dimostrava la regia
potenza di Semiramide, più che non la raffigurassero agli occhi del re d'Armenia tutte le
splendidezze di quella sala, in cui mettea piede, guidato dal gran maggiordomo.
Poco prima di introdurlo alla presenza del trono, questi aveva detto al giovine re:
- Sai tu, mio signore, qual sia il nostro costume, nell'accostarci, umili o grandi, alla maestà
regale?
- Io no; - aveva risposto Ara; - e qual è il vostro costume?
- Prostrarci a terra e adorare. Sì, - ripigliava il gran maggiordomo, notando un gesto di ripu-
gnanza del principe, - la più bella delle nostre leggi è questa, che ci comanda di onorare i re e di
onorare in essi l'immagine degli Dei conservatori d'ogni cosa creata. A te, mio signore, omaggio in
Armavir, come a Semiramide nella sua reggia di Bàbilu. -
Il re d'Armenia, bene intendendo il senso riposto di quella distinzione del suo introduttore,
non aveva più fatto parola; e, lasciandolo inconsapevole de' suoi propositi, era entrato nella sala di
Nemrod, avviandosi con passo modesto, ma sicuro, in mezzo a quelle due ale di cortigiani, che si
prolungavano, lasciando vuoto un grandissimo spazio, dai lati del trono all'ingresso.
Lungo era il cammino, sterminatamente più lungo tra quella doppia fila di sguardi, che egli
ben sapeva tutti rivolti sul nuovo venuto. Ma Ara non sentiva turbamento di ciò; bensì gli cuoceva
di aversi a por ginocchioni, come ogni altr'uomo, davanti alla signora di Babilonia; e veniva ap-
punto maturando in cuor suo il proposito di ristringere l'ossequio ad un cortese inchino, che egli del
resto avrebbe fatto di gran cuore alla donna. Foss'ella stata la sua divina amica! Come sarebbe
caduto volentieri ai piedi di lei! Altra maestà sopra la sua non conosceva il re d'Armenia fuor quella.
Andando così verso il trono, avea intravveduto, come in barlume, uno stuolo di donne, e il
cuore gli aveva dato un sobbalzo. Ah, foss'ella nel numero! E ciò pensando, s'era fatto in volto del
color della porpora. Intanto, un mormorìo di ammirazione, correndo sommessamente tra la folla,
salutava l'apparire di quel baldo garzone, la cui bellezza accresceva decoro al grado, più assai che il
grado non facesse risaltar la bellezza.
Giunto egli finalmente a' piedi del trono, si fermò, e, recatasi la destra al petto, chinò il capo
davanti alla regina, di cui non aveva pur contemplato il sembiante.
- Gran Semiramide, vivi in perpetuo! - egli disse.
- E tu pure, nobil sangue d'Aìco; - rispose una voce melodiosa dall'alto.
Tremò egli in udirla, e il sangue, acceso ai memori suoni, gli scorse con impeto al cuore.
Alzò gli occhi a guardare e li abbassò prontamente, come abbacinato da una gran luce; indi gli parve
di aver male veduto e risollevò le pupille, ma per chinarle da capo. Fu un batter d'occhio, fu un
lampo; e in quel lampo si stemprò la nerezza del giovine, che cadde allora sulle ginocchia, contro i
gradini del trono.
Semiramide gli era venuta incontro amorevole, e lo aveva preso per mano. Egli, a stento
rimettendosi in piedi, ma non riavutosi dal colpo, la guardava inebriato e confuso.
- Regina.... - balbettò egli, nel rialzarsi da terra
- Atossa! - gli susurrò la regina all'orecchio, con carezzevole accento.
E presa la benda di perle, che un donzello recava insieme con lo scettro, sopra un ricco
cuscino, la rimetteva con le sue mani sul biondo capo di Ara.
- Sorgi, re d'Armenia! - diss'ella con piglio maestoso. - Ecco il tuo scettro; impugnalo per la
felicità del tuo popolo, come hai impugnata la spada, per terrore de' tuoi nemici. Figlio d'Aràmo, tu
non sei tributario di Semiramide, ma alleato ed amico. -
Indi, volgendosi ai grandi della sua corte e alla moltitudine congregata, proseguì con voce
sonora:
- Il re d'Armenia è l'ospite nostro. Amicizia eterna regna tra l'aquile della montagna e i leoni
della pianura. -
CAPITOLO VI.
IL CONVITO.
Il sole era già presso al tramonto, allorquando la regina, in compagnia di Ara e dei grandi
della sua corte, si mosse dalla sala di Nemrod, per recarsi al convito, preparato in onore del suo
ospite d'Armenia.
Portava la costumanza babilonese che i re siedessero a mensa in disparte, e i loro convitati
più ragguardevoli o ben voluti, a un'altra di rincontro, ma divisa della mensa regale la mercè d'una
fitta cortina, per modo che il monarca vedesse a sua posta i convitati, ed eglino in quella vece non
potessero bearsi nelle regie sembianze. Per altro, ne' giorni di corte bandita, la mensa era una sola e
vastissima, alla quale il re famigliarmente sedeva e faceva mostra di sè, non distinto dagli altri
commensali, fuorchè per lo scanno d'oro, pel suo vino e per la sua acqua, di cui a nessuno era
concesso bere, senza suo comando, che era grazia profumata e segno d'alta onoranza. Inoltre, nelle
grandi solennità, che ricorrevano di rado, si facevano pubbliche feste; e allora le mense regali si
tenevano all'aperto, sedendo il re alla più elevata di tutte, insieme coi grandi del suo regno.
Un pasto solo si faceva, e lunghissimo, protratto fino a tarda ora, dopo finite le molteplici cure del
giorno. Gran copia di vivande si consumava per l'uso della corte, squartandosi fino a mille capi per dì, tra
buoi, cavalli, onagri, camelli, montoni e capretti. La selvaggina e il pesce erano pure in buon dato; e tutto ciò
s'imbandiva da prima alle tavole dei grandi; indi passava a quelle dei minori ufficiali, tornando i copiosi
rilievi alle cucine, dove si satollavano i servi e i soldati di palazzo.
Davasi nelle mense il vino spremuto dalla palma e dal melagrano, non essendo a quei tempi nella
terra di Sennaar coltivata a tal uso la vite, che prosperava più presso al mare nella regione di Janaan. Il pane
facevasi allora comunemente con la farina di dura, che è il sorgo; quella di frumento traendosi, con grave
dispendio e a mostra di regio fasto, dalle lontane pianure di Mesraim, fecondate dal Nilo. I pubblici
banchetti erano rischiarati con luce di nafta ardente in acconci vasi, collocati a giuste distanze su tripodi e
candelabri di bronzo. A più ristrette brigate dava luce gratissima l'olio di sesamo, di cui erano imbevuti
lucignoli di bisso, sporgenti da lampade di rame, o d'argilla rossa, leggiadramente fregiate di nero, a
meandri, ghirlande, disegni capricciosi e figure fantastiche.
Quel giorno, essendo il convito in onore del re d'Armenia, le mense erano poste nel cortile
degli orti pensili, vastissima sala, aperta su tre lati e sorretta da colonne addoppiate di marmo. Veli
bianchi e violetti, appesi con anelli d'argento a funi di bisso e di scarlatto, si stendevano tra le co-
lonne, dolcemente gonfiandosi alla brezza leggiera e profumata, che veniva attraverso una siepe di
gelsomini e di cedri.
Tutto intorno erano disposte le tavole di legno odoroso, coperte di candide tovaglie listate di
porpora. In fondo alla sala vedevasi la mensa più elevata e più adorna, con l'aureo scanno della
regina a capo, e letti d'argento in giro, sopra un pavimento foggiato a disegno con tesselli di porfido
e di marmo bianco, di granito e di mischio. Splendeva sul bianco drappo il vasellame d'oro, gloria
del paese d'Ofir, donde allora traevasi il prezioso metallo; e da alti vasi di porcellana, smaltata a vivi
colori, si levavano a mazzo, s'inchinavano ad ombrello, i fiori più svariati e più rari: la ninfea dai
bianchi petali schiusi; il nepento, da cui si stilla il farmaco per cacciar la tristezza; il giglio, onore
delle convalli; la rosa, il gelsomino e la madrangola, che spandono le più soavi fragranze.
Coppe d'argento, egregio lavoro dell'arte babilonese, guastade di vetro, che mandava ai
regnatori di Sennaar la pur mo' nata industria di Tiro, stavano davanti ai convitati, insieme con
piattellini d'argilla colorata e lucente, con spatole d'avorio, dal manico di metallo, che servivano per
accostare i cibi alla bocca, e coltelli di selce, finamente arrotati, per tagliar le vivande. E mentre i
coppieri dalle idrie capaci mescevano il vino dolcissimo della palma, e l'acqua fresca dalle anfore di
creta, internamente strofinate con mandorle amare a fine di renderne più grato il sapore, gli eunuchi
venivano in lunga fila dalle cucine, recando su piatti di bronzo grossi quarti di bue, di onagro e di
capretto, che poscia gli scalchi facevano destramente a spicchi, per imbandirli alla nobile comitiva.
Erano inoltre portati sul desco, fagiani piumati, pernici, ova di struzzo, pesci enormi
dell'Eufrate e del Tigri, olive, porri e cipolle di Mestraim. Andavano da ultimo in giro i bossoli di
cedro, leggiadramente intagliati, che serbavano i condimenti e le salse; grani d'amòmo, che danno
odor così vivo; di aneto, che stimola le forze inerti o languenti; di comino etiopico, che rende più fa-
cile il bere; di silfio cirenaico, il cui succo spremuto è la più gradevole, ma altresì la più dispendiosa
lautezza del mondo.
Ad ogni nuova imbandigione si udivano concerti di arpe, di cetre, e di flauti, che accarezza-
vano mollemente l'orecchio. I musicisti non erano già nella sala del convito, bensì tra le piante
dell'attiguo giardino; donde avveniva che i suoni, più rimessi e più blandi, come di musica lontana,
non soverchiassero i lieti ragionari, che fanno più grato il piacer della mensa. Luce, abbondanza di
cibi eletti, splendori dell'arte, fragranze ed armonie, formavano un misto di gaudii ineffabili, una
vera festa, un tripudio dei sensi.
Il re d'Armenia, attonito, quasi smemorato per maraviglia di tante grandezze che lo attornia-
vano, confuso da tanta novità di casi che lo avean sopraffatto in un giorno, più ancora inebbriato
dalle acri sensazioni d'un amore che così apertamente dimostrava la irresistibile potenza dei fati,
sedeva alla destra di Semiramide. Di rincontro a lui il saccanàco, o gran sacerdote, vicario degli Dei
di Babilonia; più in là il principe dei Medi, l'onniveggente Zerduste; indi, seduti in ordine, secondo
l'altezza del grado, i primarii uffiziali del regno.
Lontano era Ninia; ma il regio adolescente non era uso assidersi alla mensa materna, nè
partecipare alle solennità della corte. La maestà del dispotismo orientale non consentiva divisioni
d'impero, o di gloria: soltanto il re, il malca divino, doveva stare al cospetto de' suoi grandi, servitori
tutti, ossequenti e paurosi, nè altrimenti sceverati dal volgo, se non pel regio favore, mutevole a
guisa di vento; nè altri del suo sangue poteva, lui vivo e regnante, emergere dall'ombra discreta del
ginecèo per offrirsi alla vista e all'adorazione de' sudditi.
Oltre di che, il giovinetto non era egli felice in quell'ora, fuori le porte di Babilonia, al fianco
della sua diletta Analti? I due colombi gemevano sommessamente il loro cantico de' cantici in riva
all'Eufrate, sotto i palmeti di Gomer. Così aveva consentito Zerduste, l'affettuoso maestro.
Il principe dalla mente profonda e dallo sguardo acuto, sedeva calmo, tranquillo, impassibile,
alla mensa di Semiramide. Aveva egli amata mai la regina? Ciò, pel volgo dei riguardanti, era
chiuso nel più alto segreto. L'amava egli ancora? Non ne traspariva nulla da quell'aspetto marmoreo.
Semiramide istessa, così avvezza a scernere l'amore negli ossequii ond'era attorniata, Semiramide
istessa, se avesse potuto in quell'ora rammentarsi d'alcuna cosa che non fosse il suo ospite, e
volgersi a scrutare quel muto sembiante, a interrogare il lume di quegli occhi raccolti, non avrebbe
potuto per fermo ravvisarvi i segni dell'antica fiamma. Amore che non si gradisce, poco si vede e
facilmente s'obblia; inoltre, il sentir di Zerduste era d'uomo altero, misurato negli atti, geloso
custode di sè; non altro poteva egli vedersi del cuor suo, se non quel tanto ch'egli volesse mostrarne.
Covava egli vendetta? O rodeva, impaziente e cruccioso, il freno della servitù del suo
popolo? Mare profondo cela nel grembo oscuro il segreto delle sue collere e limpido azzurreggia il
suo dorso, poco prima di sollevarsi in legioni di flutti e di scagliarsi impetuoso alla riva. Tale era
Zerduste, riverito abitatore della reggia di Babilonia, maestro di saviezza al futuro erede dello
scettro di Nemrod, e ammesso ai consigli della gran vedova di Nino. E Ilu, e Nebo, e tutta la schiera
dei sommi Dei, comportavano ciò? Ahimè, forse neppure vi ponevano mente; quelle vivide luci
fiammeggianti dalla vòlta celeste, vigili in apparenza, non si prendevano cura delle cose mortali. E i
Casdim, sapienti indagatori del corso degli astri, niente leggevano per entro agli arcani dell'anime.
Eglino, o forse non ancora ordinati a sospettoso collegio d'ambizione sacerdotale, o forse più intenti
a temperare l'onnipotenza del re, che non a sgominarne i nemici, non pigliavano ombra di quel
taciturno, entrato così innanzi nella confidenza della reggia.
E sedeva egli a mensa, sorridendo e favellando dimesticamente coi vicini, a cui il bere
snodava la lingua e annebbiava l'intelletto. Ma così ascoso in quella confusione di allegrezze, in
quel deliziarsi dei sensi, lo spirito suo aleggiava non visto, invigilava le parole, gli atti e gli sguardi.
E certo in cuor suo non doveva esser lieto; imperocchè l'amore è possente come la morte e la gelosia
aspra più dello inferno.
Frattanto, il re d'Armenia era parco di parole oltre l'usato, che l'interno tumulto degli affetti
non gli consentiva d'esser loquace. Molto, per contro, dicevano gli occhi, donde traluceva la pro-
fonda voluttà, bevuta a lunghi sorsi dal viso dell'amata. E gli occhi di Semiramide erano spesso
rivolti su lui, in ciò accordandosi la prepotenza del desiderio, al debito delle cortesie ospitali. In
quegli sguardi erano lampi, raggi di vivissima luce, che lui felice investivano e gl'infiammavano il
sangue. Dov'eri tu, in quell'ora, o Sandi, o rimpianto amico della sua giovinezza? Dove eravate voi,
severi ammonimenti dell'oracolo, parlante dai sacri platani di Peznuni?
Così è l'amore; inebbriante più del vino generoso, datore d'obblio più che non fossero le fa-
voleggiate acque di Lete. E infine, non è egli ragionevole che ciò sia? Non viviamo noi forse per
l'amore, per questo dolcissimo tra tutti i sentimenti, per questa parte veramente divina di noi? Ciò
che siamo e ciò che vorremmo essere, non si riferiscono forse a questo argomento della nostra
operosità, a questa cagione dei nostri errori, a questa meta fatale del nostro viaggio? Come l'ape
lavora istintivamente a riempire il suo favo di miele, non ci affatichiamo noi con assidua cura a
comporre questo splendido inno, unica glorificazione che ci sia consentita, alla virtù ignota e
possente che compenetra il mondo? È un sorriso di donna (adorabile sorriso, sebben misto di
lagrime) quello che ci saluta in sul nascere, ed è un sorriso di donna quello che può farci men triste
il morire. Guai a chi è solo! ha detto il savio; ma che significa ciò? gli arridano pure amici e
ricchezze, l'uomo è nulla, senza l'amore; son tenebre ed ombra di morte, ove raggio d'amore non
splende. L'inferno, spaventosa visione dell'uomo che primo tremò, al prolungarsi soverchio d'una
notte jemale, non avesse a ricomparir più il sole nel firmamento, l'inferno è luogo muto d'ogni luce e
d'ogni calore ai viventi; ora, calore è affetto, e luce è bellezza. Date all'uomo la sua dolce compagna,
ed egli n'avrà lume d'ispirazione, ardore di grate fatiche. L'antichissimo fondatore dei civili con-
sorzii non fu del tutto infelice, potè consolarsi del suo gramo destino, se donna innamorata lo seguì,
portando volenterosa con lui il peso della maledizione celeste.
Ed essa, la dolce compagna, senza di lui, che sarebbe? In lui si compie il suo destino; in lui è
il sostegno e la guida; egli il fiore ed ella il profumo; l'uno all'altro necessarii a vicenda. Date l'uno
nelle braccia dell'altro, e il mondo è in essi; rinascerebbe, se più non fosse, in quelle due vite
confuse. E il passato, e il presente, e il futuro, memorie, gioie, speranze, tutto eglino sono a sè
stessi; donde appar manifesto che possano viver da soli, senz'altra compagnia di viventi. E che
questa sia lieta esistenza, un grande amore alcuna volta il dimostra. Un grande amore; ecco il divino
tra tutti i misteri, altare e tempio a sè stesso! L'universo è contorno necessario e fatale, soventi volte
giudice iroso, sempre testimonio increscevole. Che farci? Si vive, obliandolo; si comporta qual è;
gli si perdonano le molestie che arreca, ma a patto di non mescolarsi a lui, di non seguirlo ne' suoi
indirizzi volgari, di non vivere della sua vita. L'aura, pregna di soavi fragranze, rapite ai boschi
natali, passa rasente alle case degli uomini e segue noncurante il suo corso. I tristi vapori dell'abitato
ne turbano la delicata essenza, pur troppo; ma lontano di là, sotto la luce purissima del sole, per
mezzo ai rami della selva vicina, la gentil vagabonda si rinfranca, si rinnovella e dimentica.
La natura offre talvolta di simiglianti magnificenze, a far prova del suo sterminato potere.
L'aquila nei cieli, il leone nel deserto, il baobab nella selva, sono le sue maraviglie. Ella ha innalzato
rupi, che cacciano la vetta infin tra le nuvole, argomento di pauroso stupore ai riguardanti; ella ha
prodotto fiori di così acute fragranze, che l'uomo non può respirarle senza pericolo. Ella di tanto in
tanto dà vita a que' forti intelletti, che grandeggiano per mezzo alla universale pochezza e governano
e mutano a lor posta gli eventi; ella accende quelle gagliarde passioni che splendono, fari solitarii ed
eccelsi, nella penombra degli affetti volgari. Bellezza e gioventù, forza e intelligenza, si vanno
incontro desiose, si abbracciano, si confondono; e son prodigiose le nozze, come di giganti innanzi
ad un popolo di pigmei. Invero, che sono quelle migliaia di amori fuggevoli, esangui, mal vivi, al
paragone di queste gagliarde, intense e luminose passioni? Gran mercè se alla picciolezza infinita
delle umane cose è dato di essere pavimento umilissimo all'ara, su cui si sposano queste superbe
inconsapevoli fiamme. Così il genio di Omero vide il monte Ida, recinto di nubi gelose, esser talamo
agli amori di Giunone e di Giove, mentre laggiù, sulle rive dello Scamandro, si azzuffavano due
popoli, sperando testimoni alle lor collere i Numi. Quest'alta dimenticanza è la misura di cosiffatti
amori possenti, superiori di tanto alle meschine consuetudini umane.
Così, in mezzo all'esultanza del convito, la regina e il suo ospite, l'uno nell'altro felici,
avevano dimenticato ogni cosa. Ara pensava che ella era innocente e calunniata, quella bellissima
tra le donne, quella potentissima tra le regine. La vicinanza di lei cancellava dalla sua mente gli in-
fausti presagi dell'oracolo. Unico dolore il pensiero di dover tornare, indi a non molto, in Armenia,
alla sua reggia d'Armavir, ora più triste e desolata di prima. Ed anche questo pensiero egli lo aveva
cacciato lontano da sè. Il destino, che lo aveva gettato inconsapevole nelle braccia di Semiramide,
non avrebb'egli operato un altro dei suoi alti prodigi?
Ed ella, frattanto, pensava che il suo trono era così grande, da potervi accogliere l'eletto del
suo cuore; così splendido, da non dovervi accogliere che lui, il più leggiadro degli uomini. Non
erano essi fatti l'uno per l'altro? E la natura, creandoli, non aveva per l'appunto mirato a tal fine?
Così nella mente di quella donna innamorata, il mondo, Babilonia, la reggia, altro non erano che
un'immensa piramide, innalzata da Nisroc, dal signore delle sorti, per collocarvi il loro amore,
intenso, sfolgorante, glorioso sul vertice.
E gli occhi suoi dicevano tutto ciò all'inebbriato garzone.
Intanto erano levate le mense, e, pel cader delle ombre notturne, tolti dal colonnato i velarii,
che facevano impedimento alla brezza ristoratrice. Misteriose luci splendevano in mezzo alle piante
del giardino; in alto, disseminate per la vòlta di zaffiro, scintillavano le stelle.
- Sien grazie agli Dei! - disse il saccanàco, levando al cielo le mani. - Da essi ci viene ogni
cosa. Il mondo s'inchina obbediente a Babilu, che li onora e li venera.
- Ed ora, - parlò la regina, - mentre Sin, co' suoi miti chiarori illumina il mondo e così dolce
è il riposo allo spirar della brezza notturna, si rechino a noi gli annali di Babilu. Il nostro gentile
ospite d'Armenia conoscerà da essi la nobiltà dell'amica gente degli Accad. -
A quelle parole di Semiramide, il gran maggiordomo si alzò per andare all'ingresso, dove, ad
un suo cenno, comparve sollecito lo scriba, della setta dei Casdim, al quale era dato in custodia
l'archivio delle memorie babilonesi.
Venuto innanzi alla regina, lo scriba si prostrò fino a toccar colla fronte il suolo.
- Gran Semiramide, - diss'egli poscia, levando le mani verso di lei, - possa tu vivere in
perpetuo!
- Sorgi, - disse a lui di rimando la regina, - e mostraci la successione dei sari e dei sosi, al
giorno che Bel, il gran dio creatore, balzò fuori dal tempo senza limiti, infino a questo dì fortunato.
- Ciò che tu chiedi sarà fatto; - rispose alzandosi da terra lo scriba. - Gli Accad hanno
diligentemente notato ciò che ad essi tramandarono i padri loro. I moti degli astri, le apparizioni
degli Dei e le glorie dei re, tutto è vergato nelle foglie di papiro, la mercè dei sacri caratteri, che
Oanne ha insegnati agli abitatori di Sennaar. -
Un alto silenzio si fece allora nella sala del convito. Lo scriba si assise su d'uno scanno,
davanti alla regia comitiva, e, recatesi tra mani un volume di papiro, ne ruppe il suggello di creta;
indi, svolgendo le pagine, così prese a leggere, in mezzo all'attenzione universale, gli antichi ricordi
della stirpe di Accad.
CAPITOLO VII.
LE PRISCHE ISTORIE.
"Nel principio, tutto era tenebre ed acqua, per entro a cui si movevano confusi gli elementi
di ogni cosa che è. Forme strane di viventi erano allora; mostri con due facce e quattro ali, o con due
teste e corna e pie' di caprone, o di cervo, centauri, sirene, tori dall'aspetto umano e cani che
finivano in coda di pesce, insieme con molte altre specie di rettili e serpenti di smisurata lunghezza.
In questa confusione di tutte cose, regnava silenziosa la gran madre Omoròca, detta anche Talatta,
nel sacro idioma dei Gasdim.
"E allora comparve Bel, il dio della luce e dell'aria. Venne egli con le sue innumerevoli
schiere di Baalim, e d'un colpo della sua spada fiammeggiante, divise Omoròca in due parti. Così
furono il cielo e la terra.
"Ora avvenne che quell'immondo brulicame di mostri non potè sostenere la gran luce del
Dio, e giacquero spenti. E Bel ferì il suo collo, e ne piovvero rivi di sangue. I Baalim, seguendo l'e-
sempio, vi mescolarono il loro e ne nacquero gli uomini, per tal guisa ragionevoli e partecipi del-
l'intelletto divino.
"Allora fu il tempo. E, avendo Bel creato le stelle, il sole, la luna e i cinque pianeti, incomin-
ciò l'età prima, per la terra di Sennaar. Dieci re vi regnarono, da Ailuro infino a Chisutro, e fu
questo tempo di centoventi sari, ognuno dei quali novera tremila e seicento rivoluzioni del sole.
"Ad Ailuro, che fu il primo re, succedettero Alapùr ed Amelon; a questi, Amènnone, il pre-
diletto dei cieli. Imperocchè, essendo egli sulla riva del mare, vide emergere dai flutti Oanne, il dio
marino, il gran pesce, che ha voce ed aspetto umano. Questi non prendeva cibo, siccome è costume
degli uomini; appariva ogni mattina alla spiaggia, e ogni sera s'inabissava nei gorghi. Fu egli che
insegnò ad Amènnone l'uso delle lettere sacre e l'arti che fanno felici gli uomini, il seminare, il
raccogliere, il radunarsi a civile consorzio, murare città, edificar templi e far sacrifizi agli Dei.
"Prima di quel tempo, gli uomini non avevano leggi, nè riti. Viveano essi sotto le tende, o vagavano
per la pianura a guisa di fiere; ammiravano le pietre e temevano il fulmine, che si sprigiona dalle nubi. Ma
dopo gl'insegnamenti di Oanne, conobbero gli Dei ed offersero loro i frutti della terra. Così nacque il culto
di Oa, il nume emerso dai flutti, il re del mondo inferiore; di Bel, il risplendente, il demiurgo, l'ordinatore di
Omoròca; di Ilu, il signore delle acque, e così di tutte le altre personificazioni della potenza suprema, infìno
a dodici, aventi in sè doppia forma, virile e femminea.
"Morto il savio Amènnone, gli succedette Magalur, e a questi poscia Davon, durante il cui
regno apparvero gli altri quattro legislatori uomini pesci, e seguitarono la santa opera di Oanne,
insegnando alle genti. Al re Davon tenne dietro Eduruc, nel cui tempo apparve il pesce Dagone; indi
regnarono Amenfìno, Ossiarte e Chisutro.
"Costoro erano giganti e vivevano oltre la misura assegnata poscia ai mortali. L'ultimo di
essi, Chisutro, regnò diciotto sari innanzi al giorno del diluvio, ossia sessantaquattro mila ottocento
rivoluzioni del sole. Fu egli uomo pio, dotto delle antiche memorie, a lui lasciate da' suoi maggiori,
le quali fe' incidere su tavole di pietra, insieme con la legge sacra dei cinque comandamenti.
"Ma, come egli era pio e temente della giustizia celeste, così non erano gli altri uomini, la
cui malvagità si stendeva sulla terra, spregiandosi comunemente la legge e corrompendosi ogni pen-
siero. Da lunga pezza i savii, raccolti nella contemplazione degli astri, profetavano la fine del
mondo; ma gli uomini, induriti nelle perverse consuetudini, avevano in dispregio i certi segni del
cielo.
"Allora il pesce dio apparve dall'onde a Chisutro; imperocchè questi aveva trovato grazia
appo i celesti, e gli annunziò l'imminente diluvio, che avrebbe travolto e distrutto ogni creatura
vivente. Intendesse egli a costrurre una nave ed entrasse in quella, co' figli del suo sangue e i
familiari suoi, preparandosi a navigare, dappoichè l'ultima ora pei malvagi era giunta.
"- E dove volgerò io il corso? - aveva chiesto Chisutro.
"- Verso gli Dei! - rispose Oanne. - In essi soltanto è il porto di salvezza. Sta di buon animo,
o Chisutro! Le tavole della legge sacra e le antiche memorie de' padri tuoi seppellisci sotto la pietra
angolare di Sippara; sia la tua nave così vasta da poter contenere ogni sorta di cibi, semi della terra
ed animali utili al servizio dell'uomo; spalmala di bitume entro e fuori, così che essa resista
all'imperversare delle acque, e, tosto che avrai finito l'opera tua, chiuditi in quell'arca sicura, insieme
co' tuoi, perocchè in quel punto si squarcieranno gli abissi e comincierà la rovina dei flutti.
"Obbedì ai comandamenti Chisutro; e tosto, con l'aiuto d'un sapiente architetto, che il pesce
dio gli aveva indicato, attese alla costruzione della nave. E questa fu la misura della gran mole:
cinque stadii pel lungo e due di larghezza. Ivi entrò Chisutro, insieme con la moglie, i figli suoi, le
mogli e i figli di ciascheduno, che moltissimi furono. E dentro la nave erano cibi in abbondanza,
sementi d'ogni pianta e una coppia d'ogni specie animali, lasciando fuori tutti quelli che nascono dal
putridume e dai vapori della terra, imperocchè lo spirito di questi non è emanato dal sangue degli
Dei.
"Intanto gli abitatori del mondo perduravano nella empietà e spregiavano Chisutro, che in sì
gran mole erasi messo a riparo. Ma posciachè egli fu nella nave, con tutti i nati e familiari suoi, il
cielo incontanente oscurò, cadde la pioggia e il mare staripò con furia; Ilu, il signore dell'acque,
sconvolgeva gli abissi. La nave allora fu sollevata sui flutti, e un pesce di smisurata grandezza
venne a collocarsi davanti la prora, guidando il legno per mezzo a quella rovina di elementi sca-
tenati. Era egli Oanne medesimo; e Chisutro ben vide che la mano d'un dio li proteggeva, impe-
rocchè il furore della tempesta e la violenza dei flutti niente potevano contro di loro.
"Lunghi giorni durò la collera d'Ilu, per modo che tutti i monti più alti ne furono coperti, ed
ogni carne che si muove sulla terra, perì. E come furono le eccelse cime così soverchiate,
incominciò il gran mare a chetarsi, il cielo si rattenne dal piovere, e le acque andarono a grado a
grado scemando. Raffidato da quell'alto silenzio, Chisutro mandò fuori dal tetto della nave una
coppia di uccelli, per sincerarsi se la terra fosse in alcun luogo scoverta; ma gli uccelli, non avendo
trovato cibo, nè luogo ove posarsi, tornarono a lui. Ed egli, dopo alquanti giorni, mandonne altri, i
quali tornarono con le zampe imbrattate di fango. Altri finalmente ne mise fuori, i quali non tor-
narono più; sola, tra questi, una colomba venne alla nave, recando nel becco un ramoscello d'olivo.
Donde egli conobbe che la terra rinasceva dall'acque; e allora, scoperchiata la nave, vide esser
questa posata su d'una vetta dell'Ararat.
"Il gran pesce era sparito; ma il sole splendeva nel firmamento, e di rincontro al sole si
dipingeva nell'aria la luminosa striscia dell'arcobaleno. Smontò egli tosto, insieme con la moglie,
una figliuola sua e il sapiente architetto. E scesi che furono dalla nave, s'inginocchiarono, per ba-
ciare la terra; indi, alzato un altare di pietra, adorarono gli Dei. Che avvenne egli poscia di loro? I
rimasti nella nave, non vedendoli più ritornare, scesero alla lor volta; nè altrimenti li ritrovarono,
sebbene con alte grida andassero chiamandoli in giro. Bensì videro la nuvola con l'arcobaleno
impressovi su, e dalla nuvola udirono la voce di Chisutro, che sè, la moglie, la figliuola e
l'architetto, come primi discesi sulla terra, annunziava rapiti in grato olocausto agli Dei; andassero i
figli in pace e ripopolassero il mondo: scendessero nel paese di Sennaar, scavassero nelle
fondamenta di Sippara, per ritrarne le tavole della legge sacra e i ricordi delle antichissime genti;
indi vivessero felici, camminando nelle vie della giustizia e onorando i celesti che li avevano
scampati dall'acque.
"Così fecero i figliuoli e nipoti di Chisutro, dopo avere offerto il sacrifizio su quella
medesima ara, che egli aveva pur dianzi rizzata. Trassero fuori le sementi, e le sparsero nel grembo
della terra; gli animali, e li mandarono liberi per mezzo alle selve. La gran nave fu lasciata lassù,
dove gli avanzi rimangono tuttavia, e del bitume, già fatto come pietra salda e lucente, si cavano gli
amuleti, che preservano dallo sguardo maligno, dai sogni nefasti e dalle male sorti gettate.
"Queste le memorie dei primi abitatori della regione di Sennaar. Ridiscesi i superstiti del
diluvio alla pianura, e moltiplicatisi in tre figliuolanze, secondo il nome dei padri loro, che furono
Zeruano, Titano e Jafeto, si posero a edificare, non lungi da Sippara, una novella città, alla quale,
per esser eglino usciti salvi dall'acque invaditrici, imposero il nome di Babilu, ossia la porta di Ilu. E
foggiata a mattoni la molle creta, e adoperato a guisa di malta il bitume tratto dalla prossima
fiumana di Is, presero a murar la città. In pari tempo cominciarono a innalzare una torre altissima, la
quale, giungendo con la cima alle nubi, fosse testimonio di loro possanza sulla terra.
"Ma erano eglino appena a mezzo il lavoro, che la discordia entrò nelle loro favelle, e il
tremuoto e la folgore dispersero quei monti d'argilla. E Sem Zeruano, il maggiore tra i principi loro,
avendo preso a tiranneggiare le genti, fu da Titano, detto altresì Cam nelle prische memorie, e da
Jafet, cacciato a settentrione del paese di Sennaar. E dalla sua gente fu Cus, padre di Nemrod, il
possente cacciatore al cospetto di llu. Questi incominciò a comandare su tutte le genti dei quattro
idiomi, e furono principio del suo regno, Babilonia, Accad, Calne ed Erech.
"Nel tempo suo, Assur, nato dal sangue di Sem Zeruano, dalle rive dell'Eufrate passò a
quelle del Tigri, ove pose le fondamenta di Ninive, di Reobot, di Cala o di Resen. E, d'altra parte,
Aìco, del sangue di Jafet, ricusando assoggettarsi alla possanza del figlio di Cus, andò co' suoi,
rimontando l'Eufrate, fino alle terre di Ararat, ove pose sua sede. E Nemrod. da poi ch'ebbe stabilito
saldamente l'impero della sua stirpe, fu tratto al cielo sull'ali poderose di Nisroc."
- Se ciò sia vero, - pensò Ara in cuor suo, a quel passo della lettura, - lo dica il campo di
Aiotzor, dove il Titano ebbe morte dallo strale del mio forte antenato. -
E reprimendo un sarcastico riso, che gli era venuto alle labbra, si dispose ad udire la continuazione
delle memorie di Babilu.
Ma la regina, il cui sguardo innamorato ad ogni tratto si posava sul volto dell'ospite, notò
quel moto delle sue labbra, e con pensiero cortese si fece a interromper lo scriba.
- Il grande progenitore dei re di Babilonia, - diss'ella nobilmente, - è morto da prode in bat-
taglia. Correggi i tuoi annali, o savio alunno della schiera di Casdim. Bene io credo che lo spirito di
Bel Nemrod sia stato rapito in cielo dal signor delle sorti; ma il suo corpo, diligentemente plasmato
di balsami e coperto di ricche vesti, riposa sulla collina di Keresman, nella tomba che la pietà del
forte Aìco gli diede. È dei prodi non serbar l'odio, oltre la morte del nemico, e onorare con ogni lor
possa la memoria dei prodi. -
A quelle parole di Semiramide si alzò Ara commosso, e nobilmente rispose.
- Tu fai più dolce al mio cuore il debito della gratitudine, o possente regina. Non è vile la
stirpe di Aìco; ma quind'innanzi ella avrà per massimo de' suoi vanti l'essere stata esaltata dalle tue
labbra, donde scorre il miele della cortesia, insieme con gli aromi della sapienza regale. Aìco,
Armenàgo, Aramais, Amasia, Kegan, Arma ed Aràmo, progenitori miei, esulteranno nelle lor tombe
di Peznuni al soffio consolatore della tua lode. Grande è Babilonia, e degna tu sei di regnare sul più
forte popolo della terra, o bellezza sovrumana e altezza d'animo veramente divina. -
Le guancie della donna leggiadra si tinsero in colore di fiamma. Zerduste, il taciturno, a cui
nulla sfuggiva, lampeggiò uno sguardo feroce.
- Possente signora, debbo io proseguire? - chiese umilmente lo scriba.
- A qual pro? Quindici età sono trascorse sotto la grand'ala di Nisroc, dacchè Babilonia è
sorta sulle ubertose rive dell'Eufrate. Chi non ricorda le opere dei discendenti di Nemrod? Bab,
Anuv, Arbel, Cael, il secondo Arbel e finalmente il gran Nino, che i sommi Dei hanno fatto
partecipe agli onori celesti, scrissero la loro istoria su queste pareti, ne' sacri caratteri della gente
degli Accad, e più chiaramente ancora nelle provincie conquistate di mano in mano all'impero. I
Saci e gli Assùra a settentrione, i Medi ad oriente, gli Arabi e i Saba a mezzogiorno, i Nabatei, i
Cusi, i Carbaniti e quanti son popoli sul mare del sole occidente, narrano abbastanza la gloria del
popolo che ha nome dalle quattro favelle.
- Tu dimentichi, - soggiunse il re di Armenia, - le opere tue, le tue vittorie, o regina. Balki,
nel paese di là dai Medi, e l'Indo lontano, donde il sole si leva, tremarono allo scalpito del tuo
cavallo di guerra. Al gran Nino piacesti, così per l'alto valore e per l'animo eccelso, come per la
splendida bellezza del volto. Figlia prediletta della Dea che ha il suo tempio in Ascalona, non
diranno le storie i tuoi celesti natali?
- Non parliamo di ciò! - interruppe la regina. - In molte guise si spande e si tramuta l'adu-
lazione del volgo. Io amo assai più apparire qual sono veramente, e chi mi conosce da presso
m’avrà, spero, per migliore della mia fama a gran pezza. Più che nelle vane pompe della nascita
arcana e nella gloria dei superbi trionfi, amo vivere onorata nella felicità del mio popolo.
- Gloria a Semiram! Possa ella vivere in perpetuo! - gridarono tutti gli astanti, in un impeto
di devoto entusiasmo.
Ed Ara fu lieto di unir la sua voce a quella degli altri commensali. Ma una felicità, una eb-
brezza pari alla sua, non era nel cuor di nessuno.
Tarda era l'ora, allorquando egli si alzò per toglier commiato.
- A domani! - gli aveva detto sommessamente la regina. - Debbo conferire di gravi cose con
te.
- È la regina che mi parlerà domani? - aveva chiesto il garzone.
- Sì, e te ne duole?
- Oh no, - aveva egli aggiunto, sospirando; - ma le parole di Atossa tornarono più soavi al
mio cuore.
- Ingrato! - esclamò la regina. - Non hai tu ritrovato Atossa sotto le spoglie regali di
Semiramide? Così il re d'Armenia tenga fede alle promesse di Ara, come la regina di Babilonia
ricorda di aver perduto il suo cuore nel recinto sacro a Militta. -
CAPITOLO VIII.
LA VOCE DI SOTTERRA.
Partita Semiramide dalla sala del convito, il re d'Armenia fu condotto nelle sue stanze dal
cerimoniere di corte e da un drappello di giovani, che recavano faci per rischiarargli il cammino.
Erano quelle stanze in un'ala lontana del palazzo, nei quartieri assegnati ai regali ospiti di Babilonia.
Colà giunto, Ara dimandò d'esser lasciato solo, ricusando gli uffizi dei servi, che erano posti
a' suoi cenni. Egli aveva mestieri di raccogliersi, di ordinare i suoi pensieri confusi. E cotesto era
pur necessario, dopo tanta varietà di strane venture, che gli facevano creder quasi d'essere stato in
balìa d'un sogno bizzarro. L'arrivo suo in Babilonia, il tempio di Militta Zarpanit, la bella sco-
nosciuta, i felici amori suggellati da un sacro giuramento, la donna diletta poco stante ravvisata
sotto spoglie regali, il fasto della corte, le grandi accoglienze, quel misto di fragranze e di voluttà, di
splendori e di ebbrezze, ond'era stato ricinto, abbagliato e compreso, siccome un dio da una nuvola
d'incensi, lo avevano tratto fuori di sè, gli avevano annebbiato l'intelletto, lo facevano dubitare,
fremere, esultare, venir manco, quasi sentisse fallir sotto i piedi il terreno.
E invero, non aveva egli argomento di smarrir la ragione? Egli, il giovine re di poca terra tra i monti,
sceso in Babilonia a tributo, egli conquistatore inconsapevole del più prezioso tesoro che al mondo fosse!
Egli, venuto così a malincuore, con l'amarezza d'un triste ricordo nell'anima, egli in un giorno, in un'ora,
amante riamato di quella regina, che pur dianzi aborriva! Così era; così aveva voluto il destino; ed egli, non
pure lo ringraziava in cuor suo, ma temeva non fosse che un sogno, quella felicità di rapidi eventi; e implo-
rava dagli Dei di non aversi a ridestare mai più. Donna celeste, e veramente nata di Dea, com'era ella mal
giudicata da tutti! Ah, la gioventù è cieca, non sa di quanto lievi apparenze si vesta la menzogna, e porge
troppo facile orecchio alle stolte voci del volgo. S'invidia, si odia e si calunnia così facilmente tutto ciò che
sta in alto! In quella guisa che il fango calpestato schizza sulle vesti del viandante, la moltitudine, che
striscia a terra, largisce ai grandi le colpe, i vizi, ond'è contaminata ella stessa.
Povera donna! Perchè ella era bellissima, in eccelso stato, buona e cortese, come tutte le
anime grandi, sazia forse d'obbedienza e desiderosa di affetto, i vanagloriosi, gl'impronti, i profani
sognatori di stragrandi fortune, avevano aguzzate fino a lei le cupide brame; e, respinti da lei, perchè
una donna d'alto sentire conosce l'amor mentito e fuggevole così facilmente come il vero e
profondo, s'erano riscattati delle altere ripulse, gittandole il loro fango sulle candide vesti. Egli è
così facile infamare una donna! Non è ella tutta quanta nella vita del cuore? Nel cuore si può
meglio, si dee soltanto ferirla. È donna; dunque impudica. È regina; dunque sanguinaria e crudele.
Povera Semiram! Lo aveva detto ella stessa, ed Ara ben ricordava le sue parole: "Nessuno
amò la povera regina, nessuno! Ella è sola, si sente sola nel suo vasto impero, come un'isola deserta
sul mare. Ognuno in lei vede e desidera la regina; nessuno ha amata la donna."
Ed ora questa donna, che finalmente aveva trovato chi meritasse l'amor suo, di quali cose
aveva ella a conferire con lui? Gravi cose, aveva detto; ma ve n'erano forse di tali, che non fossero
quelle dell'amor loro? No certo, e pensandoci meglio, e meditando le ultime parole di lei, parve ad
Ara di aver colto nel segno. E così in nube egli vedeva la sua diletta Armavir rappicciolirsi a mano a
mano, allontanarsi nel fondo e sparire. La sua Armenia, il reame con tanta cura e con tanto sangue
difeso dalla cupidigia degli Accad e dalle correrie dei cavalieri Turani, doveva cadere per tal guisa
in balla da' suoi vecchi nemici? Egli, il pronipote di Aìco, avrebbe lasciata la sua piccola, ma nobile
reggia tra i monti dell'Ararat, per salire sul trono di Nemrod? A cotesto intendevano le parole di
Semiramide; cotesto traspariva dagli occhi, era voluto dalla potenza medesima dell'amor suo.
Ma, per contro, non c'era egli altra via? In cambio d'innalzarlo a sè, non poteva la regina
discendere a lui? Ninia era un adolescente: ma a qual principe ha mai fatto ostacolo l'età giovanile,
per cinger corona di re? E Semiramide, fatta grande dalle nobili arti del regno, non sarebb'ella
diventata grandissima, celebrata in tutte le età future, per alto esempio di amore, al cui cospetto
impallidiscono e sfumano i gaudii del potere, i sogni dell'ambizione? Piccolo era il popolo aicano,
ma forte; ed egli, confortato dall'amore di quella donna, fatta compagna delle sue sorti, non dubitava
di poterlo condurre animoso sul cammino della vittoria e di dare all'amata un nuovo regno, che nulla
invidiasse all'antico.
In queste dubbiezze, in questi sogni dell'anima amante, si stava il giovane Ara; nè sempre
pensando, imperocchè tal fiata il pensiero ama posarsi e dormire, mentre gli occhi son desti, e va-
gano intorno, vedendo senza guardare, o guardando senza vedere.
Un mite chiarore si diffondeva per la camera dai lucignoli d'una gran lampada di rame, che
pendeva dal soffitto, illuminando le storiate pareti. Tenui fragranze di eletti aromi vaporavano da
bracieri d'argento, collocati negli angoli. Poco lontano era il letto, sormontato da un sopraccielo di
porpora e coperto d'una coltre, la cui lana era di cammello non nato. Ma rifuggendo ancora dal
sonno, il re d'Armenia se ne rimaneva seduto sopra un tettuccio di morbidi guanciali, di contro al
monopodio di cedro, il cui piede era bizzarramente intagliato, e il rotondo piano si nascondeva sotto
uno di que' tappeti, vagamente intessuti, che mandava a Babilonia l'arte famosa di Tiro e di Sidone.
Su quel tappeto era posata una lucernuzza da mano, e poco discosto da quella un rotolo di papiro,
collocato per modo da attirare lo sguardo.
E tuttavia, il giovine Ara, così sovra pensieri com'era, non ci aveva anche badato. Più e più
volte i suoi occhi s'erano volti a quel rotolo, ma senza che l'animo lo avvertisse del pari. Senonchè,
in uno di quegli intervalli che l'innamorato garzone metteva nelle sue fantasticherie, gli occhi
posarono tanto sul misterioso involucro, da destare la sua attenzione, e finalmente la sua curiosità.
Rimase un tratto dubbioso a guatarlo; indi stese la mano e lo afferrò, in quella che si
accostava alla fiamma della lucerna, per considerarlo più da vicino. Un suggello di argilla rossa
chiudeva il margine del foglio, e in quel suggello si vedeva l'impronta d'un cigno. Un brivido gli
corse, a quella vista, per l'ossa. Il cigno era l'emblema consueto di Sandi, del soave cantore, amico
dell'anima, compagno fedele della sua giovinezza.
Che voleva dir ciò? Un senso d'angoscia ineffabile penetrò il cuore del giovane, e una voce
arcana gli bisbigliò nel profondo che in quel rotolo suggellato si chiudevano le sorti della sua vita.
Sandi! Che voleva in quell'ora l'estinto da lui? Veniva forse a rimproverarlo di qualche suo
mancamento verso la memoria dell'amico? Egli per fermo non lo aveva dimenticato; ma doveva egli
altresì chiudere ad ogni affetto il suo cuore? E perchè il triste fantasma veniva egli a turbargli il suo
primo giorno di gioia?
Ma forse la presenza di quel ricordevole emblema altro non era che un giuoco del caso. Ara
lo sperò, e ruppe avidamente il suggello.
Pochi versi di scritto, ne' caratteri accadii, allora comuni alle genti della pianura e della mon-
tagna, si leggevano sulla interna faccia del papiro; i primi nereggianti e visibili, gli altri man mano
più incerti e sbiaditi.
Ed ecco ciò che Ara vi lesse:
"Tu ami e credi di essere amato. Ora, vuoi tu conoscere il vero? Sandi, il tuo Sandi, te lo dirà
egli stesso, pur che tu il voglia. La gran luce ti aspetta. Ma bada, per giungere ad essa, v'hanno
terribili prove a sormontare, fatte soltanto per animi forti.
"Hai tu ardire? Hai tu sete di verità? Ricordi tu l'antica amicizia? Davanti a te, a' piedi della
parete che reca scolpita l'immagine del leone alato, si apre un vuoto, che ti guiderà fino a me. Pensa
e risolvi."
Null'altro si leggeva nel foglio. Soltanto seguivano alcuni segni scoloriti, che ad Ara non
venne dato d'intendere. Da que' segni, gli occhi del re d'Armenia corsero alla parete. Il leone alato vi
si vedeva scolpito sopra una tavola di alabastro dipinto, e pareva guardarlo, co' suoi occhi di smalto.
Un sudor freddo gli corse a quella vista per l'ossa, e le chiome gli si rizzarono sulla fronte.
Senonchè, a' piedi della parete si vedeva il pavimento liscio e lucente, senza alcun segno che
indicasse una apertura sotterranea. Il re d'Armenia balzò in piedi, corse laggiù e guatò lungamente il
suolo, ma invano. Tornò allora al lume della lucerna e si fece a legger da capo il papiro. Un altro
verso di scritto era apparso nel foglio.
"La botola è aperta; mettivi il piede, animoso...."
Ara tornò a guardare. E appunto allora gli venne udito un rumor sordo, un cigolio come di
serrami smossi. E tosto una cateratta si aperse, discese, e una buca spalancata si mostrò nel pa-
vimento.
Il re d'Armenia era prode tra i prodi; ma quello spettacolo, e dopo quella lettura, non era tale
da lasciarlo tranquillo. Tuttavia, non apparve inferiore al suo nome. Vi hanno uomini che il pericolo
imminente, non che abbattere, rinvigorisce un nemico ignoto e invisibile? Un agguato? Suvvia! egli
è dei valorosi il farsi innanzi, checchè avvenga, e solamente a conforto della propria dignità.
Mancano gli spettatori; che importa? La coscienza del prode non è ella presente a sè stessa?
Ritto, immobile, cogli occhi sbarrati, rimase un tratto, guardando la buca; indi, come
trascinato da una arcana virtù, mosse a quella volta, si affacciò in sull'orlo e cacciò lo sguardo avido
nel profondo.
Un pozzo di scale gli venne veduto là dentro. Si scorgevano i larghi gradini di mattoni scender giù
ad un pianerottolo, donde un altro braccio si partiva, voltando ad angolo retto; ed altri a mano a mano
andavano in giù digradanti, la cui sequela si perdeva nel buio. Nessun rumore di passi, od altro di
somigliante, giunse all'orecchio del giovane; tutto era silenzio in quel baratro; solo un alito, un senso
lievissimo, quasi un odor di frescura, venne di là dentro a sfiorargli la guancia, come per dirgli che quello
non era un sepolcro, e che l'aria respirabile non vi faceva difetto.
Senonchè, era opera di uomini o di spiriti ignoti, quella via che gli si parava dinanzi?
D'uomini forse, pensò Ara in cuor suo. E tornato prestamente alla tavola di bronzo, afferrò il suo
coltello dalla fulgida lama, che già aveva deposto, e lo rimise alla cintola.
Frattanto, gli occhi suoi correvano da capo al misterioso papiro. Altri versi di scritto
nereggiavano, dal mezzo insino al piè della pagina. Il re d'Armenia non lesse, divorò i nuovi
caratteri, che gli offriva lo scrittore invisibile.
".... scendi; quanto più scenderai, tanto più sarai innalzato alla conoscenza del vero.
"Odi una triste istoria. È già gran tempo che due purissimi spiriti, inviati da Dio a spargere la
sua luce sulla terra di Sennaar, dimenticarono qui, per l'amore di una figlia di Babilu, il loro celeste
mandato. L'ingannatrice strappò dal labbro di quegli illusi il motto d'entrata alle eterne dimore,
dov'ella fu pronta a sollevarsi in lor vece.
"Però il santo Iddio li punì, confinandoli in una chiostra profonda, sotto la torre delle sette
sfere. Colà vivono in tenebre fitte; colà rimarranno, sospesi per le ciglia, fino al dì del perdono.
"Pari a costoro è il tuo Sandi. Qui sta dolorando il suo spirito, sotto la medesima terra ov'egli
ha amato e pianto, sotto le medesime acque in cui ha trovato la morte. Respingerai tu l'invocazione
di un'anima, la quale non attende che te? Vorrai tu essere maledetto in eterno?"
- Ah no! - proruppe Ara, gittando il foglio e correndo alla botola. - Chiunque tu sia, spirito
immortale o astuto ingannatore, eccomi a te! Dovess'io lottare col negro fantasma di Nemrod, son
pronto. Aìco, fortissimo Aìco, proteggi invocato il tuo sangue! -
E si cacciò entro la botola, giù per la segreta scalèa, da prima con passo veloce, soccorrendo-
gli il lume che pioveva dalla sovrastante apertura, quindi a mano a mano più tardo, poichè la luce
veniva scemando sempre più ad ogni svolta di scale.
Del resto, anche quel fioco raggio gli venne meno ben tosto. Un cigolio si fe' udire alle sue
spalle, indi un fragore, un urto, quasi di pietra con pietra. La cateratta si richiudeva su lui. Il re
d'Armenia era come sepolto in quel baratro.
Nè di codesto gli dolse, quantunque il richiudersi della cateratta, togliendogli ogni speranza
di ritorno, gli dicesse tutta la gravità del pericolo. Il dado oramai era tratto. Non lo aveva egli forse
voluto?
Brancolando con le palme distese lunghesso le mura, proseguì allora il cammino e potè
sincerarsi che le scale giravano a pozzo, coi loro ripiani tutti ad uguali distanze. Però, abbastanza
spedito, siccome gli veniva fatto, procedendo tentoni, andava egli allo ingiù, null'altro udendo che il
rumor dei suoi passi, sordamente ripercosso nel vuoto. E nello scendere, gli ricorrevano al pensiero i
lieti splendori del convito, gli sguardi amorosi della regina, tutte le allegrezze di poche ore addietro,
finite così malamente per lui, in quel buio, in quel silenzio di tomba.
Per altro, seguitando egli a calare nel cieco abisso, incominciò ad udire un suono lontano,
come un susurro, un mormorio dal profondo. Da principio, gli parve inganno dei sensi; ma il suono
si faceva più distinto; nè egli poteva intendere che fosse, poichè di voci umane non gli pareva
certamente. In quel mezzo, anche un po' d'aria manco soffocata era venuta a soffiargli sul viso.
Certo ella spirava da fori aperti nello spessore dei muri. Intanto il suono cresceva, cresceva, sordo,
fragoroso, flottante; indi, da sotto che egli l'udiva, incominciò a farglisi sentire di fianco, e poscia
sul capo, a grado a grado men forte, mutato in brontolìo sommesso, fino a tanto si tacque del tutto,
lasciando il giovine Ara nel sepolcrale silenzio di prima.
Egli argomentò che quel fragor d'acque scorrenti venisse dall'Eufrate vicino, e che, mettendo
la scala sotto il gran fiume, la incognita meta del suo tenebroso viaggio non dovesse ormai esser
lontana. Nè male erasi apposto nel suo giudizio. Difatti, pochi istanti dopo, il pozzo delle scale
finiva, ed egli, sempre attenendosi alla parete, conobbe di inoltrarsi sul piano, sopra un androne
sterminato, in fondo al quale gli parve di scorgere un lieve barlume, simile a quello che precede,
nelle fredde regioni, il sorgere di un nebbioso mattino.
Guidato da quel tenue filo di luce, il giovane studiò il passo per afferrare la meta. Ma, giunto
colà, si avvide che il suo viaggio non era anche finito. L'androne riusciva ad una svolta, d'onde un
più vasto sotterraneo gli si parò improvvisamente dinanzi.
Il chiarore là dentro appariva men fioco, ma incerto sempre, confuso, torbido di vapori, che
davano sembianza di un denso fumo. Per altro, nessun senso di oppressura al petto, o di irritamento
alle palpebre, accennava a cotesto; senonchè, per mezzo a quella nube immobile e fissa, tornava
malagevole discerner la via a pochi passi più oltre.
Il re d'Armenia, abbacinato, ristette sotto il grand'arco dell'ingresso, che era sorretto da smi-
surati piloni. Doveva egli commettersi là dentro? Doveva egli dar volta? Prima di appigliarsi ad un
partito, volle esser certo del fatto suo, e con voce sonora, con accento deliberato, gridò:
- Ho io fallita la strada? -
CAPITOLO IX.
LA PORTA DI BRONZO.
La voce del re d'Armenia si ripercosse, più e più volte ripetuta sotto le invisibili arcate. Egli
per alcuni istanti aspettò inutilmente una risposta. Alla perfine, una voce si udì, o, a dire più
veramente, un'eco di voce lontana, che gli diceva:
- No; fatti innanzi per mezzo ai vapori, se brami giungere a noi. -
Quella voce, sebbene aspettata, turbò profondamente il giovane, gli fe' batter forte il cuore e
correre il sangue precipitoso alle tempie. Ma egli si riebbe tosto da quell'assalto di terrore istintivo, e
con atto risoluto si cacciò dentro a quel vortice bianco. Ai primi passi che egli ebbe fatti là entro,
meravigliò grandemente di non riceverne alcun senso spiacevole, o altrimenti molesto. Quel vapor
bianco, anzichè fumo, poteva dirsi una nebbia, un nembo di polvere diffusa nell'aria, e così fitta, che
non gli concedeva di vedere la strada due passi più avanti. Ed egli vi navigava per entro, senza
fatica o disagio; la fendeva facilmente, siccome un raggio di sole si apre la via nel grembo d'una
candida nuvola, che, librata sull'orizzonte, vorrebbe contendergli l'estremo saluto alla terra.
Dopo alcuni istanti di quel viaggio nel vaporoso strato, la nube bianchiccia ed opaca comin-
ciò a diradarglisi intorno, ed egli a mano a mano potè scorgere una sequela di arcate e di smisurati
piloni di pietra, in mezzo ai quali s'inoltrava, andando verso un punto luminoso, che ancora non
poteva distinguer che fosse. E allora gli venne alla mente il valico segreto sotto l'Eufrate, opera di
Semiramide, ne' suoi primi anni di regno, e per tutto il mondo celebrata audacissima tra le
maraviglie di Bàbilu.
Per costruire questo valico sotterraneo, la regina aveva fatto deviare il corso dell'Eufrate,
mandandolo a scaricarsi in uno sterminato serbatoio, già scavato a tal uopo, che era largo trecento stadii per
ogni suo lato e trentacinque piedi profondo. Così, mentre il fiume veniva colmando il serbatoio e allagava da
ultimo la pianura a mezzogiorno della città, si era posto mano alle fondamenta del sotterraneo, facendo
girare su enormi piloni di granito gli archi delle vôlte, le quali erano di mattoni cotti, cementati d'asfalto. La
vôlta aveva quattro cubiti di spessore; le pareti erano rafforzate da una profondità di venti mattoni, e il
sotterraneo misurava dodici piedi d'altezza, quindici di larghezza. La fama, che tutto ingrandisce, aveva a far
credere più tardi che all'opera maravigliosa fossero bastati sette giorni di assidue fatiche; e certo, ad esaltare
degnamente l'impresa, non era bisogno di cosiffatte invenzioni. Comunque fosse dei giorni spesi in
quell'opera, a mala pena essa era stata condotta a termine e ricoperta da parecchi strati di bitume e d'argilla,
il fiume tornava nell'alveo e la regina aveva il suo varco sotterraneo, che congiungeva celatamente i palazzi
delle due rive, siccome il ponte congiungeva le due parti della città, alla luce del sole.
Ed egli stava per l'appunto in quel sotterraneo. L'immagine dell'amata regina era per tal guisa
sempre davanti agli occhi dell'ospite. Mirabil donna, che, così giovane ancora e risplendente di tutte
le grazie del suo sesso, aveva potuto metter l'animo in tutte le cure più svariate e più gravi,
contender tutte le palme ai più forti, ai più illustri, ai più fortunati re della terra! Per lei cresciuto a
dismisura il regno degli Accad; per lei Babilonia innalzata a tale di possanza e di fasto, che
nessun'altra città doveva emulare mai più; per lei sorte a gara le opere stupende, la cui memoria
aveva a durare quanto il mondo lontana.
I piloni di granito succedevano ai piloni, le arcate alle arcate, in tre ordini disposte pel lungo,
siccome nelle tre navate d'un tempio. E gli smisurati piloni uscivano via via dagli ultimi vapori,
siccome escono a poco a poco più spiccate le larve notturne dal sogno, o le linee dei monti dal
crepuscolo del mattino. Intanto, una luce peritosa si diffondeva dai lati, che egli, indi a poco, notò
esser tramandata da piccole lucerne collocate entro le sporgenze dei cornicioni e dietro le
capricciose spire dei capitelli. A quell'incerto chiarore si illuminavano sinistramente mille forme
fantastiche, condotte a rilievo lunghesso i muri, uomini pesci, leoni alati e somiglianti a chimere,
che assumevano vita e moto dintorno a lui, e ad ogni suo passo parevano fremere, agitarsi irrequiete,
pronte a scagliarsi sull'audace turbatore dei loro eterni riposi.
Calmo e sereno, compreso di quella onesta baldanza che conferisce agli animi forti il peri-
colo, procedeva il re d'Armenia in mezzo a quelle ostili parvenze. Strani rumori si levavano a' suoi
fianchi, gemiti, grida, sordi ululati, fischi di serpi, e baturli di tuono; ma egli animoso a nulla badava
e proseguiva sicuro la via. Così giunse in capo al sotterraneo, dove le pareti si ristringevano intorno
ad una porta di bronzo, su cui erano impressi caratteri arcani. Era quella la meta; là dietro lo
aspettava l'ignoto.
Pochi passi lo dividevano da quell'uscio misterioso; ed egli muoveva risoluto alla soglia,
allorquando un cupo rombo s'intese, che lo fece ristare ad un tratto.
- Sciagurato, dove t'inoltri? - tuonò una voce minacciosa alle sue spalle.
Ara si volse indietro, turbato; ma nulla vide, nè intese donde venisse la voce. Incrociò allora le
braccia sul petto, e, sorridendo amaramente, esclamò:
- Non mi avete chiamato? son qua!
- E non temi di farti più oltre? - gli chiese un'altra voce da fianco.
- Temere? io? - gridò il giovane con piglio superbo. - Chiunque voi siate, sappiatelo; ignoro
che sia la paura.
- Non fidar troppo nelle tue forze! - soggiunse la voce. - Esse non valgono contro le arcane
potenze. Sai tu forse ciò che ti aspetta?
- La morte? - ripigliò il re d'Armenia. - Fosse pur questo il mio fato, nol temo. -
E così dicendo, il pronipote d'Ateo volgeva intorno la fronte, quasi volesse sfidare i suoi in-
terlocutori non visti.
- Ah! - rispose la voce con accento sarcastico. - Ben altro ti si può fare.... Ben altro.... Tal
colpo si può ferire su te, che ti faccia docile e pauroso siccome un fanciullo. Sacri misteri ti
circondano, non uomini pari tuoi, contro i quali basti snudare il ferro, di cui la tua mano ha già
accarezzata l'impugnatura più volte. Tu sei nel grembo della terra, ricordalo, nel grembo della terra,
in cui si celano le idee madri, le virtù arcane della natura.
- Sta bene, ed io le venero, queste arcane virtù; - rispose Ara tranquillo. - Sono avido di
sapere, chiedo di leggere nel passato e nel futuro, se pure è in poter vostro di farmelo palese. Vengo
a voi fiducioso; e che mi date voi, dopo avermi chiamato? Come rispondete voi alla mia fede, dopo
aver turbato il sereno dell'anima mia, dissipati i dolci miei sogni, avvelenato il nappo delle mie
contentezze? M'involgete nelle tenebre, mi niegate accoglienza, mi fate minaccia di tormenti
inauditi.
- Uomo cieco! - disse a lui di rimando la voce. - Le tenebre dell'errore ti circondavano; le
vane voci del mondo ti suonavano all'orecchio. Ora ti avvicini alla luce del vero, alla quiete
santissima del giusto. Se ti soccorre l'ardimento, batti dunque a quell'uscio. Ma bada; non si torna
più indietro, se non educati alla scienza del bene e del male; e l'albero della scienza dà frutti
amarissimi. -
II re d'Armenia crollò alteramente le spalle e s'inoltrò verso l'uscio di bronzo. Aveva appena
posato il piede sulla soglia, che questa diè un suono metallico, uno schianto rumoroso, a cui rispose
un sobbalzo del giovane, un tremito di tutta la persona, siccome avviene ai più animosi e ai più
calmi, per ogni inaspettato fragore, o traballìo, che accenni non esser più sicura sotto i lor piedi la
terra.
- Ah! - suonò beffardamente la voce. - Già ti sgomenti, pronipote di Aìco? -
Ara non rispose parola. Tornato in sulla soglia, spinse l'uscio con urto poderoso che ne fe'
andare i cedevoli battenti fin contro agli stipiti, e si cacciò dentro sollecito.
Ma appunto allora un orrendo frastuono si udì, come di cento dischi di rame l'un contro
l'altro percossi, e con essi un rombo di tuono, una confusione di grida e di urli feroci. Intronato,
strinse egli ambe le palme alle tempie per turarsi gli orecchi, che gli pareva dovessero andarne in
frantumi. E così avesse chiuso gli occhi del pari! Un bagliore improvviso venne a ferirgli lo
sguardo, e gli si parò dinanzi come una fornace, anzi un lago di fuoco, per entro a cui si agitavano
confusamente mille figure strane, bocche sgangherate, lunghe braccia e mani armate di unghioni
minacciosi, mostri alati che arrotavano gli occhi uscenti fuori dell'orbite, guerrieri di smisurata
statura, che brandivano spade roventi, e si raccoglievano sulle gambe tese, in atto di avventarsegli
contro. Egli rimase un istante attonito, guatando l'orrida scena; indi, si dispose ad attendere i colpi
della molteplice schiera.
Aspettava tranquillo la morte, ma la morte non venne; l'alito di fuoco sul volto, ma esso non
giunse fino a lui. Per contro, quel torrente di luce ad un tratto si spense, cessò il frastuono, e fu
d'improvviso un buio, un silenzio di tomba.
- Ah! - sclamò egli allora, sorridendo amaramente. - Vi prendevate voi giuoco di me? -
E allora la voce rispose:
- Son queste le false parvenze della vita, i pericoli che circondano l'uomo, nel suo viaggio
sulla terra. Guai a chi si smarrisce d'animo, imperocchè egli è dannato a perire. Il savio non teme la
morte; essa non è che la liberazione dalle catene dei sensi. Da valoroso hai superata la prova. Gli
spiriti arcani non t'impediscono il cammino. Va innanzi. -
Ara obbedì al comando e si mosse.
Intanto, al suo cospetto si diradavano le tenebre, e un mite chiarore si diffondeva all'intorno,
rendendo le sembianze smarrite alle cose. Per altro, ciò ch'egli vide non era più il sotterraneo, bensì
un vasto loggiato, sorretto e chiuso da alte colonne, per mezzo alle quali vedevasi il cielo sereno e
l'onda tranquilla d'un lago, che spirava fino a lui un alito di soave frescura.
Non era quello per fermo un inganno dei sensi. Una coppia di cigni correva speditamente
sull'acque, incalzando alla riva uno stuolo di giovani donne, le quali si sollazzavano su quella super-
ficie di liquido argento. Ed egli ammirato le vide emergere dall'onda, rasciugarsi le candide mem-
bra, e poscia, mal chiuse in sottilissimi veli, entrare sotto il loggiato. Colà, anch'esse si avvidero
della presenza del forestiero; e timorose da prima, indi fatte dal suo stupore più audaci, si condus-
sero con agili passi alla volta di lui.
Bellissime eran costoro e niente que'sottilissimi lini negavano delle graziose membra allo
sguardo. Una tra esse, la più leggiadra di certo, splendida a vedersi per sovrumana eccellenza di
forme, pe' sciolti crini, neri come bitume, che facevano risaltare viemmeglio la perlata bianchezza
delle carni, venne a rigirarsegli intorno con atti cortesi, e movenze, donde traspariva il desiderio di
piacergli e di vincerlo. Si schermiva egli, e già aveva ricusato di bere alla coppa che la vaghissima
ignota gli profferiva, allorquando ella, avvicinatesi in atto supplichevole, mentre le compagne
intrecciavano a tondo le danze, gli gittava le traccia attorno al collo, s'avvinghiava amorosa a lui e
gli susurrava all'orecchio:
- Tu sei bello; io ti amo! -
Ara si divincolò tosto da quella stretta, sebbene in quel modo che più gli venne fatto cortese.
I baci di Atossa gli tornavano in mente. Ora l'amplesso dell'ignota non era egli una profanazione
dell'amor suo?
- Lasciami! - esclamò, nell'atto di allontanarsi da lei.
E si spiccò da quel luogo, rompendo con le sue mani la cerchia che le mute danzatrici gli
avevano fatta dintorno.
La lusinghiera lo saettò d'uno sguardo corrucciato.
- Ah! tu mi disprezzi? - diss'ella. - Bada, o re d'Armenia! Tu fuggi dalle mie braccia, per
correre incontro alla morte.
- Che il mio destino si compia! - mormorò il giovane, ripigliando il cammino.
E intorno a lui svanirono a mano a mano quelle femminili parvenze; infoscò la scena, fu
notte da capo. Il re d'Armenia tornò a brancolar nelle tenebre.
- Ed ora? - chiese egli, fermandosi. - Che è egli, questo vostro raggirarmi tra vane lusinghe e
più vane paure? -
Un ghigno beffardo rispose all'inchiesta del giovine.
- Non ti dolere, o figlio di Aràmo! I dolci misteri di Militta Zarpanit non ti lusingarono
forse? Non ti trattennero essi più del bisogno? Perdona a queste leggiadre abitatrici dell'Eufrate, se,
memori dell'amorosa vigilia, ti credettero più arrendevole alle loro carezze. Invero, esse non
avevano pensato che dalle braccia della gran maliarda l'amico di Sandi doveva ritrarsi sfinito. -
Al crudele motteggio Ara non ebbe virtù di rispondere. Tutto era noto colà, e il ricordo di
Sandi veniva pensatamente a inchiodargli la lingua.
- Suvvia! - proseguì rabbonita la voce. - Ormai gli è tempo per te di avvicinarti alla luce.
Fatti innanzi, e dammi sicuro la mano. -
A queste parole, e mentre egli si disponeva a muovere il passo, sentì una mano che afferrava
la sua.
Era quella una mano poderosa, e la sua stretta diceva assai più l'odio d'un giurato nemico,
che non la benevolenza d'un patrono, o la sollecitudine d'una guida. Ed egli, il prode Ara, non potè
rattenere un senso di ribrezzo, un brivido di arcano terrore, che gli corse per l'ossa. V'hanno tocchi
lievissimi, che avvertono di danni, imminenti o lontani, assai meglio dei più aperti presagi.
Il re d'Armenia procedette, così trascinato, una ventina di passi. L'urtare che fece il
compagno contro una parete gli fe' intendere che erano giunti alla meta.
- Ci siamo, -disse infatti la voce; -ascendi la soglia. -
Ara obbedì, dopo aver tastato del piede l'ostacolo. E allora tre colpi furono battuti dal com-
pagno sopra un disco di rame.
- Apriti, porta della verità! - gridò questi con pienezza di accento.
- Chi ardisce accostarsi? - dimandò dall'altra parte una voce cupa che parea venir di sotterra.
- Un profano; - rispose il primo interlocutore.
- E che vuole?
- La luce.
- Ha egli superate tutte le prove?
- Sì; ha varcata la tenebrosa via dell'errore; ha sfidato il pericolo della fiamma e della spada,
morte del corpo, e quello dei sensi, morte dell'anima.
- E sa egli che cosa l'attende? Sa egli che la gran luce potrebbe acciecarlo e l'amara scienza mutarsi
in veleno per lui?
- Lo sa ed è pronto a patire ogni cosa pel conquisto della luce e della scienza.
- Orbene, s'inoltri! Ben venga egli alla scienza, alla luce.-
E la porta, come per incanto, girò tacitamente sui cardini.
Entrarono in un vestibolo partito a grosse colonne di pietra, illuminato da lampade di nafta.
Un guerriero vi stava a custodia, col volto coperto di un negro velo, e con una larga spada
scintillante nel pugno.
- Deponi il tuo ferro! - diss'egli con piglio severo al giovine Ara. - A nulla potrebbe esso
giovarti qua dentro. -
Ara si tolse dalla cintola il coltello dalla impugnatura gemmata, che aveva preso con sè,
innanzi di perigliarsi nella scala misteriosa. Frattanto, si volse a guardare il suo introduttore, di cui
fino a quel punto egli non conosceva che la voce.
Era questi un uomo di alta statura, di membra robuste; ma la sua faccia non era dato vederla.
Anch'egli portava un velo nero ravvolto intorno al capo, siccome il guerriero che vigilava l'ingresso.
Deluso nella sua onesta curiosità, il re d'Armenia si inoltrò dal vestibolo fino al limitare
d'una gran sala, le cui pareti si vedevano impresse di simboli svariati e di segni arcani, che
accennavano a scritture di popoli stranieri. Se egli avesse potuto por mente a tali cose, gli sarebbero
apparse in que' simboli le deità antiche di Mesraim, poste colà a riscontro di quelle del Gange, e
delle più vicine di Bakdi; nelle arcane leggende egli avrebbe poi ravvisati i caratteri sacerdotali dei
tre popoli, a cui si riferivano quelle sacre figure.
Ma il giovane non si trattenne a guardar le pareti, i suoi occhi essendo corsi ad un palco che
sorgeva nel fondo, dietro a cui, siccome a tribunale di giustizia, stavano seduti tre uomini, o, per
dire più veramente ciò che gli apparvero, tre simulacri d'uomini immoti, vestiti di candide stole,
cinte le tempia di bende dorate, le quali scintillavano per mezzo a' veli, ond'erano coperti i ve-
nerabili aspetti. Aveva uno di loro tra mani il fiore del loto, emblema della vita; l'altro una foglia di
papiro, sacro ai dettami della sapienza; il terzo un ramoscello di amòmo, dell'ottima tra le piante.
Una negra cortina scendeva dall'alto, dietro alle loro spalle, celando l'adito sacro, il penetrale
del tempio. Sui lati, e sotto il lume di parecchie lampade pendenti da bracciuoli di bronzo, il re d'Ar-
menia vide altre figure, ma coperte di nero dal capo alle piante, siccome il suo introduttore, im-
mobili, con le mani appoggiate sul pomo di lunghe spade, dalle cui larghe lame a due tagli balenava
una luce sinistra.
Il giovane era rimasto tra ammirato e confuso, a guardare quei tre, che bene non sapeva
discernere se uomini o spiriti, o muti simulacri di Dei. Ma poco stante, uno di loro si fece a trarlo di
dubbio, rivolgendogli la parola in tal guisa:
- "Fatti innanzi, profano! Dalle vie dell'errore, tu giungi alla luce del vero. Alla nuova aurora
tornerai tra i viventi, ma rigenerato, più savio e più forte di loro. Nulla di ciò che hai veduto ed
udito, nulla di ciò che vedrai ed udrai, ha da uscirti dal labbro. Non giurare; ciò non t'è chiesto; ciò
non è necessario. Quelle spade che vigilano il nostro tribunale, ti seguiranno invisibili ovunque.
Oltre di che, il varco per cui se' giunto fino a noi, fu aperto dalle possanze arcane, e già non ne resta
più traccia. Nessuno aggiusterebbe fede a' tuoi racconti; ognuno li avrebbe per sogni di mente
inferma, frutto dei vapori perniciosi dei liquor della palma. Gli uomini hanno occhi e non vedono,
orecchi e non odono; soltanto a pochi eletti è dato di conoscere il vero, che si nasconde sotto
l'aspetto ingannatore, o manchevole, delle cose create.
"Invero, l'uom savio ha due viste; quella infida dei sensi, e l'altra, più pura e più certa, dell'a-
nima. Egli ha altresì due scienze: quella che insegna al volgo, e quella che custodisce gelosamente
per sè. La prima è involucro, la seconda è sostanza; quella adombra, questa disvela; nell'una è il
simbolo, nell'altra la ignuda ragion delle cose. Tre diverse dottrine, ad esempio, ti stanno dinanzi:
Memfi, Battro, Ayodìa. Il Nilo, l'Arasse ed il Gange, sono i tre fiumi per cui primamente è discesa
la sacra verità. L'Eufrate, nelle sue torbide acque non travolge che errore; però sia maledetto fino a
tanto egli scorra ossequente ai superbi regnatori della stirpe di Nemrod.
"Costoro, violenti, oltracotanti e feroci, radunarono sotto il loro scettro le genti sparse sulla
pianura, non popolo vero, ma avanzi di un popolo, che la collera dell'Eterno aveva sepolto tra
l'acque. Naufraghi campati a fatica, non videro che sè medesimi al mondo, e dissero: ecco, i forti
siam noi! Tirannica mistura di favelle, di credenze e di costumi, pretendono di dettar leggi alle più
antiche nazioni della terra del sole. Già le loro armi hanno invase le regioni sacre dell'Iran, dove
regna il purissimo culto della parola di Dio. A mezzogiorno, di là dai vinti Nabatei, già volgono il
cupido sguardo agli avventurosi figli di Mesraim, dov'è prosperità d'arti e scienze, dove l'ascosa
verità si adora in effigie e templi degni di lei. Nè basta. Per mezzo ai popoli vinti, non domi, della
stirpe di Iavan, ai Medi, ai Battriani, ai Sogdiani, s'inoltrano audaci ad insidiare i remoti confini
dell'India. Dove non corre, in quali imprese non si periglia, lo sterminato orgoglio degli Accad? Non
hanno essi, nel loro folle ardimento, tentato di giungere al cielo? Rispetteranno essi alcuna parte di
terra, che faccia ostacolo ai mostruosi disegni della loro ambizione? E l'Armenia, alle cui balze
ospitali si erano essi aggrappati nel grande naufragio, non tentarono forse di assoggettarla del pari?
Il grande Aìco rintuzzò l'orgoglio dei superbi; ma essi non hanno già dimenticato lo sbaraglio del
loro esercito, e fremono vendetta della uccisione di Belo. Fatti possenti su noi, si scaglieranno su te.
Aquila delle montagne, vuoi tu collegarti con noi, per fiaccare questa minacciosa potenza, per
distruggere il covo dei serpenti, che tutti ne stringerebbero un giorno nelle molteplici spire."
- Io sono, - rispose Ara, - l'alleato della regina.
- Il tributario della regina eri tu, ed oggi sei lo schiavo della donna. Sì, schiavo, ed imbelle;
non ti sdegnare; qui tutto è noto. Chi ti ha chiamato quaggiù nulla ignora dei tuoi facili amori. Lui
forse pretenderesti ingannare? -
II giovane, che già, nell'impeto dell'ira, aveva dato un sobbalzo, chinò raumiliato la fronte.
Un turbine di confusi pensieri lo assalse. Che era egli tutto ciò che udiva? E tra qual gente era egli
disceso? Lo avevano chiamato alla luce del vero, nel regno delle ombre, in mezzo a spiriti arcani; ed
ecco, si vedeva in balìa di uomini congiurati. Per altro la chiamata di sotterra non eragli apparsa nel
misterioso papiro come cosa sovrannaturale? E se l'estinto amico doveva mostrarsi ai suoi occhi,
non erano quei tre uomini velati gli arbitri del passato e del futuro, credibili e venerandi maestri di
alto sapere alla sua mente in angustie?
Il dubbio del giovane non isfuggì per fermo allo sguardo acuto del suo interlocutore; il quale
fu pronto a soggiungere:
- La verità dee risplenderti intiera. Per gli increduli, ella si cela dietro a questa negra cortina,
che ci basterà sollevare. Pei credenti, ella si svolge dai penetrali del pensiero, raccolto saviamente in
sè stesso. Tu sceglierai. Preparati ora al grande arcano, ascoltando la voce del vero, che si sprigiona
dai veli discreti delle sante dottrine. Le storie dell'errore ti furono narrate poc'anzi, tra i fumi del
regio convito; odi ora le nostre. Ma anzitutto, bevi alla coppa ospitale, purifica il tuo cuore coi tre
sorsi della sacra bevanda. -
Uno dei muti servi del misterioso tribunale si mosse allora, e profferse al re di Armenia una
coppa d'argento, in cui tremolava un liquore biancastro. Egli vi intinse tre volte le labbra, e il liquore
gli seppe di dolce, misto con alcun che di aromatico e di frizzante al palato. Indi si assise su di uno
scanno, che gli era pôrto in quel mezzo, e stette in attesa, guardando i tre uomini velati.
Allora uno di essi, quegli che aveva tra le mani il fiore del loto, cominciò in questa guisa a
parlare.
CAPITOLO X.
LA DOTTRINA DEI SAVI.
"Uno è il Dio vero, uno per tutti i popoli della terra; ma la sua semplice e profonda
grandezza non risplende che allo intelletto dei savi, mentre il volgo lo intravvede a mala pena da
lungi, siccome lampo tra nubi, e lo adora moltiplicato nelle sue manifestazioni terrestri, ascoso nel
fitto involucro dei simboli, trasformato in mille guise e parvenze, come porta l'indole varia e il
costume mutevole delle genti. Uno per tutti, egli è trino in sè stesso; alto mistero disvelato a
pochissimi, contemplatori, custodi ed interpetri della sublime verità, che tu sei per grande ventura
chiamato ad intendere.
"Odi colui che siede alla mia manca, il savio di Mèsraim; egli ti dirà ciò che è scritto nel sa-
cro papiro, chiuso agli sguardi profani. Prima di tutte le cose ora esistenti, era un Dio, immobile
nella sua unità. Chi sei? gli domandò il savio, prostrandosi nella polvere davanti a lui. E allora per
mezzo alla gran notte scintillarono le tre sacre parole Nuk pu Nuk (Io son chi sono). Egli il solo
generatore in cielo e sulla terra; nè egli è generato; egli il solo Dio, generator di sè stesso, che è fin
dal principio, increato creatore d'ogni cosa. Da lui, che ha tra gli uomini il nome di Knef, emana Fta,
lo spirito onnipossente; da ambi procede Oro, o Frè, il demiurgo celeste.
"Odi colui che siede alla mia destra, il savio di Bakdi, nella terra di Javan; egli ti dirà ciò che
è scritto nel libro della legge a lui dettato nella caverna del monte Elburz, dagli spiriti immortali. Da
principio era Zervane Acherene, l'essere assurto nella propria eccellenza, il tempo senza misura,
l'eterno senza estremità e senza radice. Con lui ed in lui esisteva Honnover, il verbo, procedente da
lui, fonte ed esempio d'ogni perfezione, produttore degli esseri. Da lui è nato Ahuramazda, il
principio del bene; da lui Ahriinane, il principio del male; ambedue in lotta continua tra loro, fino
alla consumazione dei secoli.
"Seguimi ora con la mente, seguimi alle fortunate sedi degli Aria, alla sacra vetta del monte
Merù, culla del vero, che illuminò l'universo. Dal grembo di Jarvam Akiaram, il tempo senza mi-
sura, esce Brama, il dio che esiste per sè medesimo. Egli è in ogni cosa, ed ogni cosa è in lui. Il
Gange che scorre, il mare che rugge, il vento che freme, la nube che tuona, la folgore che splende,
tutto è sostanza, forma, immagine sua. Il creato era nella sua mente fin dall'eternità; tutto ciò che
esiste reca l'impronta della sua mano. Egli è la vita e il moto; egli Naraiana, lo spirito che va sulle
acque; egli il creatore del mondo e degli spiriti inferiori, che attestano la sua gloria. In lui sono tre
essenze e l'una procede dall'altra. Brama è il creatore, Visnù il protettore, Siva il trasformatore
d'ogni cosa.
"La luce, l'aria, le acque e la terra, sono opera di Brama. Egli dall'anima sua alitò la vita
comune alle piante e ad ogni sorta d'animali: dall'anima sua la coscienza, l'intelletto e la parola
nell'uomo. Fu questa l'ultima creazione del Dio; e l'uomo, per volere di Brama, fu da più di tutti gli
animali della terra, inferiore soltanto agli spiriti celesti.
2
"Ora, siccome le piante e gli animali furono creati per modo che potessero riprodursi, così
avvenne dell'uomo, che fosse creato in due corpi, maschio e femmina; al primo dei quali Iddio diede
la maestà e la forza, al secondo la bellezza e la soavità. E al maschio impose il nome di Adìma, che
significa il primo uomo: alla femmina il nome di Eva, cioè a dire compimento di vita.
"Andate, diss'egli poscia, amatevi e procreate esseri che siano a somiglianza vostra sulla
terra, fino a' tempi più lontani da voi. Io, signore di ogni cosa che esiste, vi ho creati perchè m'ado-
riate tutta la vita, e tutti coloro che crederanno in me parteciperanno alla mia beatitudine, dopo la
consumazione dei secoli. Insegnate ciò ai figli vostri, affinchè eglino si ricordino di me; imperocchè
io sarò con esso loro, fino a tanto pronunzieranno il mio nome.
"E avendoli collocati in un'isola, di cui non è la più bella, nè la più ricca, sui mari, il sommo
Iddio proseguì:
"Sia vostro ufficio di popolare questo lembo felice di terra, e di spargere il mio culto tra co-
loro che di voi nasceranno. Tutto l'altro del mondo è inabitabile ancora; ma se in progresso di tempo
il novero dei figli vostri crescesse in tal guisa che l'isola non bastasse a nutrirli, lasciate lor detto
d'interrogarmi in mezzo ai sacrifizi, ed io farò loro conoscere la mia volontà.
"Ciò detto, disparve. E in quel punto Adìma si volse alla sua giovine compagna; la guardò, e
il sangue gli riarse nelle vene, alla vista di così splendida bellezza. Ella stavasi ritta dinanzi a lui,
sorridente nel suo virgineo candore, palpitante d'arcani desiderii. Il morbido volume dei neri capegli
le ricadeva disciolto sui bianchi òmeri e intorno al colmo seno, che l'interno tumulto degli affetti
incominciava a commuovere.
"Adìma le si avvicinò trepidante. Lontan lontano, il sole stava per inabissarsi nell'oceano, e i
calici dei fiori si alzavano desiosi per suggere le vespertine rugiade; migliaia d'uccelli variopinti
cantavano tra i rami il loro inno all'amore: le lucciole fosforescenti cominciavano ad aliare per
l'azzurro dell'aria, e tutti i mille rumori dell'operosa natura salivano a Brama, che si rallegrava in
cuor suo, dall'alto delle celesti dimore.
"Ed in quel punto, Adìma stese la mano a carezzare le morbide chiome fragranti della sua
vezzosa compagna. Egli sentì come un tremito scorrere per le membra di lei, e quel tremito invase
eziandio le sue vene. La strinse allora tra le sue braccia e impresse il primo bacio sul viso della
donna diletta, sommessamente chiamandola per nome. Adìma! mormorò ella con soavissimo
accento, e tremante, confusa, si abbandonò nelle braccia di lui.
"La notte era giunta: gli augelli tacevano nel bosco, e Iddio era lieto nel profondo del cuor
suo, imperocchè l'amore era nato. Ciò egli voleva, il sapientissimo Iddio, dirittamente vedendo esser
cosa brutale, indegna di puri spiriti, l'amplesso, la confusione di due vite, a cui non presiedesse
amore.
"Così felici vissero a lungo i due primi mortali; nè mai nube di tristezza era venuta a turbare
il sereno di quella beata esistenza. Ma un giorno, una vaga inquietudine cominciò a serpeggiare nei
candidi cuori. Invidioso della loro felicità senza pari e dell'opera perfetta di Brama, lo spirito del
male bisbigliò al loro orecchio arcane parole, spirò in quell'anime desiderii ignoti. Andiamo a
diporto per l'isola, disse Adìma alla sua leggiadra compagna, e vediamo se non ci è dato trovare un
luogo più dilettoso di questo.
"Eva seguì obbediente il marito, ed entrambi andarono oltre; viaggiarono per giorni e per
mesi, soffermandosi al margine delle chiare sorgenti e al meriggio degli alberi giganteschi, che
celavano ad essi la spera del sole. Ma più s'innoltravano, e più la donna si sentiva sopraffatta da un
arcano sgomento. - Adìma, diceva ella al marito, non andiamo più innanzi, che per fermo noi
facciam contro al comandamento di Dio. Non ci siamo noi già dipartiti dal luogo che egli ci aveva
assegnato a dimora?
"Non temere, rispose Adìma alla donna diletta. Vedi? Non è già questa la terra inabitabile
che egli ci disse. Avanti sempre, avanti; l'uomo non è nato per poltrire nell'angolo in cui egli ha ve-
duto la luce.
"E andarono innanzi; ella obbediente ed amorosa, egli sempre più ansioso, tormentato dal
desiderio di vedere e sapere. Così giunsero alla punta estrema dell'isola, donde poterono scorgere ai
2 Per questi cenni intorno alle prime teogonie indiane e pel racconto che segue, si leggano i Veda e la traduzione che lo
Jacolliot ha fatto di un notevole passo del Bagaved Gità
loro piedi un breve tratto di mare, e di là da questo una lista di terra, che pareva dilungarsi
all'infinito sui margini del lontano orizzonte. Uno stretto e malagevole passo, formato di scogli a
fior d'acqua, collegava l'isola al continente ignoto.
"I due viandanti si fermarono ammirati. La terra che si stendeva dinanzi ai loro occhi, appa-
riva vestita di alberi svariati e largamente frondosi; augelli dai mille colori correvano cinguettando
di frasca in frasca, o s'inseguivano a volo. - Splendida vista! - esclamò Adìma. E come hanno ad
essere gustosi i frutti di quegli alberi! Vieni, o diletta; andiamo ad assaggiarne, e se quella terra è
migliore della nostra, noi laggiù metteremo dimora.
"La donna tremante supplicò Adìma, che non volesse tentare più oltre la collera celeste. -
Non viviamo noi bene in questa isola? Non abbiamo noi chiare, fresche e dolci acque per dissetarci,
e frutti soavi, che nulla più, dopo i tuoi baci? Perchè cercheremmo noi altro?
"E sia; torneremo; disse Adìma a lei di rimando. Che facciam noi di male, a visitare questa
terra ignota, che si profferisce ai nostri occhi?
"Così dicendo, s'innoltrò verso la scogliera. Eva lo seguì tutta tremante in cuor suo. Egli
allora, sollevata la donna da terra, si recò il dolce peso sull'òmero e, mutando i saldi passi tra pietra
e pietra, si fece a valicare, quanto più speditamente potè, quel tratto di umida via, che lo
disgiungeva dall'argomento dei suoi desiderii.
"Avevano essi a mala pena raggiunto il lido vietato, che un terribile schianto si udì. Lido
verdeggiante, alberi, fiori, famiglia di pennuti, ogni cosa che prima aveano veduta di là dal mare, in
un baleno disparve. La scogliera per cui erano venuti si sprofondò nei gorghi frementi e solo alcune
creste qua e là rimasero ritte fuor d'acqua, come indizi d'una via per sempre distrutta.
"La lieta verzura, che i due infelici aveano veduta colà, non era che una mostra ingannevole,
suscitata dal principe degli spiriti malvagi, per tirarli alla disobbedienza. Adìma conobbe allora il
suo fallo, e così perduto dell'animo, com'era stato baldanzoso da prima, cadde piangendo
sull'inospite arena. Ma in quel punto Eva gli si accostò, pose le braccia intorno al suo collo e gli
disse: - Non ti affliggere, amor mio; preghiamo in quella vece il Signore, che voglia condonarci il
nostro peccato!
"E una voce si fece udir dalla nube, che parlò ad essi in tal guisa: - Donna, tu hai peccato
soltanto per affetto all'uomo, che io ti ho comandato di amare, ed hai posta in me la tua fede. Io ti
perdono, ed anche a lui, mercè tua. Ma udite, voi non riporrete più il piede in quel luogo di delizie,
che io avevo creato per la vostra felicità. A cagione della disobbedienza vostra, ecco, il malvagio ha
invaso la terra. I figli vostri, condannati a patire e a romper le glebe in penitenza del vostro fallo,
intristiranno nel corso dei secoli e dimenticheranno il mio nome. Non piangere, o donna; il dì della
clemenza verrà. In quel giorno Visnù prenderà umana veste nel grembo d'una figlia tua, recando a
tutti la mia parola, e con essa la speranza di un premio futuro e il modo di alleviare i lor mali nella
ardente preghiera.
"Raffidati dalla voce di Brama, si alzarono i due piangenti da terra e ripigliarono la via
dell'esilio. Ma da quel giorno, furono costretti a duro travaglio, per ottenere il nutrimento dal suolo.
"E giusta il comando di Dio, si venne popolando la terra. I figli di Adìma e di Eva si
moltiplicarono ed intristirono per guisa, che più non poterono durarla in pace tra loro.
Dimenticarono essi il nome e le promesse di Dio, ed egli si stancò finalmente del rumore di loro
aspre contese. La sua folgore tuonava tra le nubi, salutare ammonimento ai perversi; ma gli uomini
non conobbero la voce di Brama, e il re Dayta non si peritò di scagliare le sue maledizioni alla fol-
gore, minacciandola, se non tacesse, di salire co' suoi guerrieri alla conquista del cielo.
"Allora il Dio deliberò d'infliggere alle sue creature un tremendo castigo, che fosse
d'insegnamento ai superstiti e alla discendenza loro. E avendo rivolto lo sguardo sulla terra, per
conoscere tra tutti l'uomo non indegno della celeste clemenza, vide il giusto Vaiwastata e si rallegrò
delle opere sue.
"II virtuoso uomo, l'unico che ancora temesse ed onorasse il Signore, faceva le sue mattutine
abluzioni nelle sacre acque della Viriny. E in quel mezzo, un pesciolino, dalle squame lucenti di
vivi colori, venne a lui con le ultime spume del flutto.
"Salvami, disse il pesciolino a Vaiwasvata, imperocchè i più grossi di me, che vivono nel
fiume, minacciano d'ingoiarmi.
"Impietosito, il sant'uomo lo colse, lo ripose nel vaso di rame, che gli serviva ad attinger ac-
qua dal fiume, e lo portò sotto il suo povero tetto. Ma il pesciolino incominciò a crescere ad occhi
veggenti, per modo che, non bastando un più capace vaso a contenerlo più oltre, Vaiwasvata fu
costretto a recarlo in uno stagno vicino.
"Uomo virtuoso e benefico, disse il pesce, che andava crescendo a dismisura, portami nel
Gange.
"Come lo potrei io? chiese Vaiwasvata. Io non ho forza da tanto.
"Fanne la prova! rispose il natante. E Vaiwasvata, poi che l'ebbe preso tra le palme, lo
sollevò agevolmente e lo portò nel gran fiume. Ora il mostruoso pesce, non pure era leggero come
un fuscellino di paglia, ma spandeva intorno le più soavi fragranze. Donde il sant'uomo pensò che
quello era messaggio di Dio, e stette in attesa di mirabili eventi.
"Difatti, non andò molto che il pesce gli chiese di essere trasportato all'Oceano. E contentato
nel suo desiderio, disse allora a Vaiwasvata: Odimi, o santo. Il mondo sta per esser sommerso nei
flutti e i suoi abitatori moriranno. Affrettati a costruire una nave e chiuditi in essa coi tuoi. Togli
teco i semi di tutte le piante e una coppia di tutte le specie d'animali, tranne di quelli che nascono
dai vapori e dalla putredine, imperocchè il loro principio vitale non emana dalla grand'anima
dell'universo; poscia attendi fiducioso le sorti.
"L'uomo giusto fece ogni cosa secondo i comandamenti ricevuti, ed egli e la sua famiglia
furono campati dalla rovina delle acque, sulle estreme vette dell'Imalaya. Visnù vi ha salvi da morte,
disse il pesce che era stato guida alla nave; per sua intercessione, Brama ha fatto grazia all'umanità;
andate ora a compiere i voleri di Dio e ripopolate la terra.
"Così fu, come aveva disposto l'Eterno che fosse. E cent'anni dopo la rovina delle acque,
visse il savio Adgigarta, nipote di Vaiwasvata, uomo pio e temente il Signore.
"Egli abitava nella contrada di Ganga, e quantunque volte sorgesse l'aurora, o cadessero i
crepuscoli della sera, Adgigarta si riduceva in luogo appartato, nel profondo delle selve, o sulle rive
dei sacri fiumi, per offerirvi olocausti al Signore. Colà, prostrato dinanzi all'ara, dopo aver pro-
nunziato sommessamente il mistico Aum, che è l'invocazione all'Altissimo, egli scioglieva l'inno
della Savitri.
"- Signore dei mondi e delle creature, accogli l'umil preghiera del tuo servo, distogliti un
tratto dalla contemplazione di tua eterna possanza. Un solo dei tuoi sguardi purificherà l'anima mia.
"- Vieni a me, così che io oda la tua voce nello stormir delle foglie, nel mormorio delle
correnti, nel crepito della fiamma consacrata.
"- L'anima mia ha mestieri di respirare il purissimo alito che emana dalla tua grand'anima.
Ascolta la mia invocazione, Signore dei mondi e delle creature.
"
- La tua parola sarà più dolce al mio spirito assetato, che non le lagrime della notte alle
arene del deserto, più soave che non la voce della madre al bambino.
"- Vieni a me, tu, la cui mercè fiorisce la terra e maturan le biade; per cui si svolgono i germi
e scintillano i cieli; per cui le madri pongono alla luce i dolci nati e i savi conoscono le virtù.
"- L'anima mia ha sete di conoscerti e di liberarsi dalla sua spoglia mortale, per godere la
beatitudine celeste, per essere rapita nella tua luce. -
"Indi, rivoltosi al sole, che sorgeva glorioso sulla via del firmamento, così cantava il savio
Adgigarta:
"- O radiante e splendido sole, accogli quest'inno che io sciolgo alla tua virtù senza pari. -
Accogli, te ne prego, la mia invocazione; scendano i tuoi raggi a visitare il mio spirito desioso,
come un garzone innamorato che vola ai primi baci della donna diletta.
"- O sole, o tu che illumini la terra, e la cui luce feconda ogni cosa, proteggimi.
"- Meditiamo il tuo mirabile splendore, o purissimo sole; rischiari esso e volga alla sua meta
il nostro intelletto.
"- I sacerdoti, con olocausti e cantici, t'onorano, o purissimo sole; imperocchè la mente loro
scorge in te la più bella fra le opere di Dio.
"- Avido di nutrimento celeste, io imploro con umili preghiere i tuoi doni preziosi, o sublime
e fulgido sole! -
"Così pregava Adgigarta, uomo pio e caro al Signore. E Pavàca, il suo sapiente maestro, gli
disse un giorno, nell'atto di dargli in presente una giovenca senza macchia e inghirlandata di fiori: -
Ecco il dono che Brama ci raccomanda di fare a coloro i quali hanno posto fine allo studio dei Veda.
Tu non hai più mestieri de' miei insegnamenti, o Adgigarta; pensa ora ad ottenere un figlio, il quale
possa compiere sulla tua sepoltura le cerimonie, che ti schiuderanno la dimora dei cieli.
"Padre mio, rispose Adgigarta, e come lo potrei io, il quale non conosco donna veruna? Il
mio cuore ha sete di affetto, ma non sa a cui rivolgere la sua prece.
"Io ti ho data la vita dell'intelletto, disse a lui di rimando il maestro; ecco, io ti darò quella
eziandio della felicità e dello amore. Mia figlia Parvàdi risplende fra tutte le vergini per saviezza e
beltà. Dal dì che nacque, io te l'ho destinata in moglie; i suoi sguardi non si sono ancora soffermati
sopra alcun uomo, e nessuno ha veduto mai il suo volto leggiadro.
"Giubilò nel suo cuore Adgigarta, ed impalmò la bella Parvàdi. Scorsero gli anni senza che
nulla venisse a turbare la loro felicità. I loro armenti erano i più vistosi della contrada: le loro messi
benedette da Dio. Solo una cosa mancava ai loro voti; Parvàdi era sterile. Invano ella era andata in
pellegrinaggio all'onda sacra del Gange, invano aveva ella pregato; e l'ottavo anno di sterilità si
appressava, dopo cui, giusta la legge, dovea ripudiarla come disutil compagna il marito.
"Triste nel profondo dell'anima, Adgigarta tolse un giorno il più bello fra i capretti
dell'armento, e andò in luogo appartato, a farne olocausto al Signore. - Mio Dio, disse egli, non
voler separare ciò che tu stesso hai unito.... E null'altro potè aggiungere, poichè i singhiozzi
soffocavano le parole.
"Ma ecco, in quella ch'egli si rimaneva colla faccia a terra, gemendo e invocando il Signore,
una voce si udì dalla nube: - Torna alle tue case, Adgigarta; imperocchè Dio ha ascoltato la tua
preghiera ed ha compassione di te.
"Ora, tornando il savio alla sua dimora, vide farglisi incontro Parvàdi, tutta sorridente e lieta,
come da lunga pezza non gli era più occorso vederla. E chiestole il perchè di quel suo mutamento,
n'ebbe da lei in risposta: - Un uomo affranto dalla stanchezza è venuto pur dianzi a posarsi sotto il
nostro pergolato. Io gli ho proferto l'acqua limpida, il riso e il latte che si offre ai viandanti. Ed egli
mi ha detto partendo: il tuo cuore è triste e i tuoi occhi sono rossi dalle lagrime; ma statti di buon
animo, imperocchè di te nascerà un figlio, al quale tu imporrai il nome di Viashàgana, ossia nato
dalla elemosina; ed egli ti serberà l'amore di tuo marito e sarà l'onore del vostro legnaggio.
"A sua volta Adgigarta raccontò alla moglie ciò che gli era occorso nell'ora del sacrificio, ed
ambedue si consolarono pensando che le loro angoscie stavano per finire e che l'un d'essi non
sarebbe stato disgiunto dall'altro.
"Nacque il figlio aspettato, e fu il solo del suo sesso, quantunque Parvàdi allegrasse ancora
di numerosa prole la casa benedetta. E come il fanciullo ebbe raggiunto il dodicesimo anno, Adgi-
garta volle condurlo sulla montagna con sè, per render grazie al Signore e sacrificargli un capretto, il
più bello che fosse nell'armento.
"Ed ecco, mentre valicavano un folto bosco, si abbatterono in una tenera colomba, caduta dal
nido, che stava per esser la preda di un serpe. Viashàgana si gettò allora sul rettile, lo uccise d'un
colpo col suo vincastro e ripose la colombella nel nido. La madre, che aliava tutt'intorno riempiendo
l'aria di strida, ringraziò con verso mutato il pietoso fanciullo. Ed Adgigarta giubilò nel profondo
del cuore, vedendo come il figlio suo fosse prode e buono dell'animo.
"Poi che furono sulla vetta del monte, si dettero ambidue a raccattare la stipa e i sarmenti per
l'ara del sacrificio. E in quel mezzo, il capretto, che avevano condotto per l'olocausto, ruppe il suo
vincolo e si appiattò tra i cespugli, cosicchè non fu più dato rinvenirlo. E allora Adgigarta disse al
figliuolo: - Ecco la stipa pel sacrificio, ma oramai ci manca la vittima. Vanne tu al nido della
colomba che hai salvata poc'anzi e portala a me, perchè io l'offra al Signore, in luogo del capretto
fuggito.
"Viashàgana era già per obbedire al cenno del padre, allorquando la voce sdegnata di Brama
si udì. - Perchè comandi tu ciò al figlio tuo? Avreste campato la colomba dalle fauci del serpente,
solo per imitar questo nella sua malvagità? Colui che distrugge in tal modo i suoi benefizi, non è
degno di me. Tu hai peccato, Adgigarta; in penitenza del fallo, immolerai il figlio tuo su quest'ara!
"Il che udendo Adgigarta, si contristò grandemente. E caduto a terra, nell'impeto del dolore,
gridò: Parvàdi! o diletta mia! Che dirai tu, quando io tornerò solo alla soglia domestica? che potrò
io risponderti, quando tu mi chiederai del nostro amato figliuolo?
"E in tal guisa si dolse fino a sera, non potendo risolversi a compiere il funesto sacrifizio, nè
osando disobbedire all'Eterno; mentre Viashàgana, d'animo saldo oltre l'età, veniva pregando il
padre che volesse immolarlo, giusta il comando divino. A ciò finalmente si dispose Adgigarta; con
mano tremebonda legò il fanciullo all'altare, e già, brandito il coltello di pietra, stava per ferirlo alla
gola, allorquando Visnù, sotto la forma di una colomba, venne a posarsi sul capo innocente. - O
Adgigarta, diss'egli, rompi i legami della vittima e disperdi la stipa raunata. Iddio è contento della
tua obbedienza; e tuo figlio, per la fortezza dell'animo, ha trovato grazia appo lui. Viva egli lunghi
anni e felici, imperocchè dalla sua discendenza nascerà l'aspettata Devanaguy, nel cui seno io
ripiglierò forma mortale, per la salvezza degli uomini."
CAPITOLO XI.
IL FANTASMA.
Altro aggiunse, narrando, il savio che aveva tra mani il simbolico fiore del loto. Parlò della
incarnazione di Visnù, che già era l'ottava, dopo la creazione del mondo. Egli era venuto (diceva),
egli era venuto, il divino Paramatma, ossia l'anima dell'universo, nella prima ora del Cali yuga, che
era la quarta età del mondo; egli era venuto, più dolce del miele e dell'amrita celeste, più puro
dell'agnello senza macchia e del labbro d'una vergine; egli era uscito dal grembo della Devanaguy,
ed aveva riconciliato Brama con la sua creatura. Un fremito sovrannaturale aveva invaso l'aere ed il
suolo; voci misteriose avevano dato l'annunzio ai santi eremiti nei boschi; i Gandarvi avevano fatto
suonar l'etra di loro celestiali armonie; le acque del mare avevano esultato dai gorghi profondi; i
venti si erano infusi di elette fragranze; al primo vagito di Crisna la natura aveva riconosciuto il suo
alto signore.
Così aveva proseguito il savio dal fiore di loto, e i due venerandi compagni avevano chiarito
quanto ci fosse nelle sue parole di conforme alle loro istesse dottrine. Avevano inoltre notato come
que' santi veri fossero antichi di antichità sterminata, e come quell'ultima teogonia risalisse a mille e
più anni addietro, fin oltre la medesima età che assegnavano alla lor torre delle lingue i sacerdoti
degli Accad. Invero, quei superbi figli di Cus, venuti per mezzo alle arene del deserto sulla terra di
Sennaar, poveri di storia, o dimentichi del loro passato, non avevano fatto altro che accogliere le
sparse leggende e i primi racconti degli Aria, confusi insieme con le sparse memorie dei nomadi
figliuoli di Sem, per gustarne il senso arcano e far dell'impuro miscuglio un fondamento alla loro
mostruosa idolatria. Ben più antica soggiungevano i tre savi velati essere la stirpe umana, che non la
facessero i Casdim; la luce del vero esser dono d'Oriente, siccome la stessa luce del sole.
Dicevano; ma il giovine Ara, o non udiva già più i loro profondi ragionari, o molto confusa-
mente li udiva, e senza coglierne il senso. In quella guisa che per vapori esalati sul far della sera
dalla superficie d'un lago, s'ingombra di fitta caligine la silenziosa convalle, così a grado a grado,
lentamente, erasi offuscato l'intelletto del giovine. Ammirato da prima, colto al fascino di quella
grave parola, aveva seguito con avida cura il discorso del savio, siccome avrebbe ascoltato, là nella
sua reggia d'Armavir, la canzone d'un poeta, o il racconto d'un ospite pellegrino, o un passo delle
prime istorie della sua stirpe dal labbro d'uno scriba ossequente. Ma a poco a poco un'insolita
stanchezza, un torpore, quasi un senso grave d'ebbrietà, gli eran venuti serpeggiando nelle fibre, gli
avevano intorbidita la mente e prostrate le forze. Di tratto in tratto tentava riscuotersi; qua e là
afferrava una frase, un concetto, ma senza poter altrimenti seguire nel suo corso il ragionamento dei
tre venerandi. E quelle frasi, quei concetti slegati erano come faville, che guizzano e si disperdono
nel buio; passavano davanti agli occhi della sua mente e fuggivano.
Si avvidero i tre dello stato in cui era il re d'Armenia, e ad un lor cenno si fece innanzi il
coppiere, profferendogli la tazza ospitale, colma d'un liquore verdognolo. Bevve egli avidamente a
ripetuti sorsi, e si sentì come rinascere. La bevanda aveva grato sapore; dava senso di frescura alle
fauci riarse, e, destandogli le forze languenti, gli snebbiava altresì l'intelletto. Così almeno a lui
parve.
- Bevi; - gli diceva frattanto uno dei tre; - tu hai d'uopo di rinfrancarti le membra e lo spirito. Le
prove ti riuscirono faticose e la parola del vero ti è tornata molesta....
- Non già! - si affrettò il re d'Armenia a rispondere. - Cara mi è giunta, come mi fu sempre
caro di udire gli insegnamenti dei savii. Le vostre parole, o venerandi, neppur mi vengono nuove del
tutto; esse mi ricordano, sebbene alla lontana, cose già udite nella mia adolescenza, dal labbro di
santissimi uomini, tra' miei monti natali.
- Il vero, - rispose quell'altro, - è come il sole; esso spande un raggio della sua luce do-
vunque. Del resto sono a noi congiunti di sangue gli Armeni, non già derivati dalle genti della pia-
nura, come favoleggiano i Casdim. Questi vanagloriosi credono di aver essi popolata la terra, essi,
gli ultimi venuti nel Sennaar, su questa foce del gran fiume ariano, che inonderà, fecondandolo, il
mondo. Vogliono esser diga; saranno soverchiati e dispersi. Come Dio è uno e trino, così una e trina
è la verità. Iran, Javan, Mesraim, il Gange, l'Arasse ed il Nilo, si collegano per abbattere la
mostruosa possanza dei figli di Nemrod. La tua schiatta, o re, procede dal nobile ceppo degli Aria. Il
forte Aìco avrebbe egli dovuto pugnare contro l'esercito di Nemrod, se gli eroi dei due campi
fossero stati del medesimo sangue? Disgiunti di famiglia e nemici allora, durano nemici pur sempre;
e, quel che è peggio, non sono più pari, come allora le forze. Troppo è divenuto possente il popolo
di Kiprat Arbat, e nella isperata felicità di sue sorti vagheggia ambizioso la padronanza del mondo.
Ogni terra, felice di popolo, di naturali dovizie, e di utili industrie; Tiro e Sidone, coi loro drappi di
bisso, tinti nei vaghi colori della porpora; le isole del mar d'occidente, coi loro candidi marmi e col
più meraviglioso candore delle bellissime schiave; Mesrairn, co' suoi nobili aromi e coi finissimi
lini; Ofir, con l'oro e col cedro; Bakdi, coi poderosi cammelli e colle gemme preziose; l'India
lontana, con le sue molli lane variopinte e co' tenui veli intessuti d'argento; l'Armenia, co' suoi
corsieri veloci come il soffio della tempesta: ecco le invidie, i desiderii, le cupidigie di questi
ladroni. Nuotano essi nelle delizie, si sprofondano nelle voluttà, imperocchè li affida il genio
guerresco di Semiramide, che rassodi le prime conquiste e ne faccia di nuove all'intorno, vuoi con
aperte guerre, vuoi con infinte alleanze ed amicizie.... le quali pagan tributo.... -
Ara sentì il colpo e chinò gli occhi a terra, senza risponder parola. Frattanto quell'altro
proseguiva, incalzando.
- Ah, facil maestra d'inganni è costei! La sua bellezza, che, la mercè di arcani filtri, resiste
alle ingiurie del tempo e sfida gli struggimenti delle protratte vigilie, è pari all'albero della morte, al
cui meriggio posando, l'incauto pellegrino, s'addormenta in eterno. Te pure, o generoso, ella ha colto
ne' suoi lacci, come altri prima di te. Ma costoro negl'incantesimi suoi perdettero solamente la vita:
tu perdesti la vita in pari tempo e l'onore della tua fortissima schiatta. -
Udì le dure parole il re d'Armenia, e non ne prese sdegno, siccome qualche ora innanzi egli
avrebbe pur fatto. Ma il dubbio, atroce dubbio, gli lacerava il cuore; ma la fede in quei tre uomini
velati gli era cresciuta nell'anima. Infine, non dovevano costoro, potenti sugli spiriti invisibili, dargli
le chiare, le certe, le incontrastabili prove di tutto ciò che asserivano? Queste prove attendeva, a
queste mirava, di null'altro gli importava in quel punto. E il capo gli ardeva; il sangue ribolliva nelle
vene, gli martellava concitato alle tempie.
- Lasciamo di me! - gridò egli, che temeva, desiderava, e ad ogni modo, per quelle dirette
allusioni del suo interlocutore, sentiva vicina la catastrofe. - Di lei, dell'amor suo, della fine di
Sandi, io vi chiedo; non per altro son io disceso quaggiù. Perdonate, o venerandi, alla mia
impazienza, alla mia soverchia cura di cose terrene; ora io non sono già più signore di me. Mi avete
soffiato il dubbio nell'anima; mostratemi il vero; esso sarà sempre meno acerbo del dubbio. M'in-
gannò quella donna? E sia; svanirà il mio sogno, cadrà la mia corona nel sangue, morrà con me la
stirpe d'Aìco.... Ma che io n'abbia le prove! Che il vero, l'amarissirno vero, mi si mostri in tutta la
sua dolorosa pienezza!
- Tu lo vuoi, e sia! - disse il savio dal fiore di loto. - Virtù dormenti della natura, idee madri
di ciò che è, incancellabili parvenze di ciò che fu, ripigliate forma visibile davanti agli occhi del re.
Gli sia mostrato da voi quanto egli ebbe di più caro sulla terra; e così vivamente, che i sensi di lui,
offuscati finora dal dubbio, non ricusino più oltre la testimonianza del vero. Schiuditi, adunque,
misteriosa cortina, che ci nascondi il passato! -
Una mano invisibile fe' scorrere, a quel comando, gli anelli della negra cortina, che partita in
due si ritrasse sui lati, lasciando scoperto un largo spazio nel mezzo. Nulla vide il re d'Armenia là
dentro; nulla più vide intorno a sè, il lume delle lampade essendosi spento ad un tratto.
- Noi ti lasciamo; - disse la voce del savio, allontanandosi da lui. - Volgi in quel nero spazio
tutta la possanza del tuo desiderio; aguzza lo sguardo, e prega Iddio che t'illumini. -
Il giovine Ara si sentì solo un'altra volta. Tese l'occhio obbediente, rimase a lungo
aspettando, e finalmente gli parve che il buio si rischiarasse di mano in mano. Era dinanzi a lui
come una superfìcie piana, levigata, ma trasparente in pari tempo e profonda, entro la quale si
veniva disegnando lentamente alcun che d'incerto e di mutevole, incognito indistinto di ombre e di
barlumi, di di forme e di colori nascenti. Che voleva dir ciò? E come chiarire a sè stesso l'arcano di
quel doppio aspetto del piano e del profondo, del diritto e del concavo? Avea trasparenza d'acqua
tranquilla, ciò che egli vedeva; ma come poteva l'acqua rimanersi in tal modo sospesa nell'aria, a
somiglianza di velo? No, acqua non era quella, per fermo; imperocchè, come avrebbero potuto
prodursi nel suo grembo opaco quelle forme svariate, e crescere, illuminarsi, assumer contorni e
colori? Ecco, di fatti; alla sua destra si protendeva una massa scura, si allungava il ciglione, si
partiva in creste e sporgenze, indorate dal sole. Più indietro erano colline digradanti, quali tinte
d'azzurro, perchè più lontane, quali di violetto e di verde, seminate di punti bianchi e lucidi, che si
facevano più frequenti nel basso, verso la sponda d'un lago, la cui superficie si vedeva increspata
dalle lievi brezze del nascente mattino.
- Peznuni! - gridò il giovane, compreso di maraviglia.
E tutto intento, ansioso, palpitante per memore affetto, si stette egli rimirando quella magica
scena, che prendeva sembianza di vero davanti al cupido sguardo, e cercando con assidua cura e
ritrovando di mano in mano i cari luoghi, le balze sporgenti, le insenature, i margini del lago, gli
edifizii, e via via tutte le cose più riposte, di cui gli tornavano in mente le immagini. Di pari passo
con le sue ricordanze, quasi rispondendo ai suoi desiderii, uscivano lucide forme dalla vaporosa
penombra, e il quadro si faceva sempre più vivo. Sì, erano quelli i suoi monti; quella era la rocca di
Van; quel colmo di case che biancheggiava là in fondo, era Armavir, la sua diletta Armavir; quegli
alberi verdeggianti eran pure i sacri platani di Peznuni; quella candida striscia serpeggiante
lunghesso la sponda del lago, era il fiorito sentiero che egli adolescente aveva corso e ricorso le
tante volte in compagnia dell'amico.
E appunto allora, su quel noto sentiero, vide egli affacciarsi da un ammasso di lieta verdura
due giovinetti che procedevano ilari e baldi, l'uno a fianco dell'altro. Vestivano entrambi ad un
modo e d'uno stesso colore; donde si sarebbe argomentato che fossero fratelli. Senonchè, l'un d'essi,
alquanto più rilevato della persona e biondo di capelli, alla dimestichezza con cui s'appoggiava
sull'òmero del compagno, appariva essere di più alto grado, e l'altro, notevole per le chiome corvine,
inanellate e lucenti, mostrava agli atti non essere dall'amicizia disgiunto l'ossequio. Del resto, lieti
ambidue di vivere insieme e tutti assorti nelle tenerezze di un fraterno colloquio.
Poco stante si fermarono, ed Ara rimase estatico a contemplarli. Vide allora l'un di essi re-
carsi tra mani un cavo strumento di legno, che portava ad armacollo, e dalle corde, tese sovr'esso,
trar suoni con le agili dita. Era egli inganno dei sensi, o verità? I suoni della cetra giunsero
distintamente all'orecchio di Ara.
- Sandi! oh, Sandi! - gridò egli commosso. E gli parve allora di non essere più al suo luogo,
spettatore lontano di quella scena del suo dolce passato. Si sentì, in quella vece, si vide vicino
all'amico, e immedesimato con quel biondo adolescente che sedeva sulle molli erbe del prato, al
fianco di Sandi, in atto di pendere dal suo labbro e dal fremito delle corde canore.
- Prosegui! - diceva egli con amorosa sollecitudine al compagno. - Grato m'è il suono della
cetra, e più grato il suono della tua voce. -
Ma Sandi aveva cessato; il suo strumento giaceva a terra colle corde spezzate.
- No; - rispose egli all'amico. - La mia cetra non ha più suoni; nè più ha canzoni il mio
labbro. Non vedi? Son morto. -
E allora il re d'Armenia si fece a contemplarlo, e un senso di raccapriccio gli corse per l'ossa.
Sandi, il suo Sandi, non era più il baldo, sorridente e roseo garzone, che egli aveva conosciuto ed
amato. La faccia aveva livida e gonfia; le membra, siccome apparivano dalle lacere e lorde vesti,
ammaccate e sanguinolenti. Nelle peste occhiaie si sprofondavano le pupille smorte sotto le
palpebre semichiuse; i capegli, già sì neri e lucenti, si vedevano rappresi alle tempie, stillavano
acqua limacciosa lunghesso il tumido collo. Era il cadavere di un annegato, e, orribile a vedersi, più
orribile ad udirsi, il cadavere parlante!
- O Sandi! - gridò il re d'Armenia atterrito; - Sandi, mio dolce amico, che è ciò?
- Ella mi ha ucciso; - rispose Sandi, con voce cavernosa.
- Ella? chi?
- Atossa, la tua leggiadra ed amatissima Atossa.
- Atossa! - balbettò Ara tremante. - Io non t'intendo....
- Sì, - soggiunse il fantasma, - non è egli forse questo il nome che la perfida donna assume, a
nascondere i suoi amori feroci? Vana cura del resto! Ella è ben nota in tutte le opere sue, l'impudica.
Ognuno la conosce in Babilonia, e la fugge. Si teme la regina e si disprezza la donna. Però, non
amore, ma ripugnanza per lei, per la notturna cacciatrice degl'incauti stranieri!
- Ah! dici tu il vero? - gridò Ara, ferito nel profondo dell'anima, e in quella parte più gelosa,
che l'uomo vorrebbe ascondere, non pure altrui, ma a sè stesso.
- Può il labbro d'un estinto mentire? - gli chiese Sandi, con accento severo. - E, vivo ancora,
hai tu mai potuto notarlo di menzogna, l'amico della tua fanciullezza? -
E così dicendo, il fantasma si veniva facendo più pallido nell'aspetto, più incerto ne'
contorni, a guisa di visione che si dilegui, o di sogno che abbandoni il capezzale d'un dormente.
- Ah no, Sandi, fermati, non mi lasciare così! - proruppe Ara, tendendo le palme verso le
amiche sembianze. - Io non dubito già delle tue parole; dubito di me, della vita, di tutto, poichè la
mia fede in quella donna s'è scossa.
- Tanto ti aveva ella ammaliato! - sclamò Sandi, tornando a lui e guardandolo con aria di
profonda mestizia. - E forse domani ancora....
- Ah no, non temere! Io non vedrò più quella donna; lo giuro pei sacri platani di Peznuni; pel
sangue di Aìco, lo giuro. Uccider te, mio Sandi! Te, il più caro, il più nobile, il più affettuoso degli
uomini! E potrei io più avvicinarmi a costei, senza sdegno, accogliere i suoi baci senza ribrezzo?
Ma dimmi, - proseguì Ara, con accento peritoso; - condona a chi amò, e credette di esser riamato, la
molesta dimanda. Come ti avvenne di conoscere costei? Come fu ella cagione della tua morte? La
fama che corse del triste caso in Armenia, non era dunque mendace?
- Assai meno del vero recò intorno la fama; - rispose Sandi all'amico. - Ascoltami, o re, e
vedi in chi avevi tu posto il cuor tuo. Tu lo sai, dolce amico, che io non vedrò più sulla terra; egli fu
nello scorso anno, e nel primo giorno del mese di Bagayadisc (i Babilonesi lo chiamano Ziggar) che
noi ci demmo l'addio della partenza. Te chiamava debito di figlio e di principe, al fianco del
fortissimo Aràmo, sui confini del settentrione, per castigare coll'armi gli irrequieti scorridori Turani.
Me vaghezza di cose nuove, amore di gloria, follia, trassero in quella vece alla pianura di Sennaar.
Oh, avess'io seguito il tuo affettuoso consiglio, che mi chiamava ai campi di Masciag, per celebrare
cogl'inni alati la virtù dei combattenti, i corsi pericoli, le vittorie, i trionfi! Ma il Dio delle sorti
m'aveva posto le mani poderose entro i capegli, mi voleva, mi trascinava quaggiù. E venni, acceso il
cuore di liete speranze, l'anima riboccante di auree canzoni; venni, e nel bosco sacro a Militta....
- Ah, com'io, Sandi, com'io'....
- Sì, pur troppo; egli è in tal guisa che il giovine straniero si perde, che l'aquila della
montagna si lascia cogliere al laccio. Così la vidi, udii il suono delle sue dolci parole, m'inebbriai
nella voluttà dei suoi baci. E non sapevo credere a me stesso; la mia felicità mi pareva un sogno, da
cui dovessi col mattino svegliarmi. Imperocchè, come poteva egli accadere che un ignoto straniero,
un oscuro artefice di canzoni, giunto nel medesimo giorno alle mura di Babilu, s'incontrasse in un
tale miracolo di bellezza, e questo miracolo non gli fosse conteso da mille rivali? Tutti que' baldi
garzoni, fiorenti di gioventù e di leggiadria, che s'accalcavano nel sacro recinto, in traccia di liete
venture, erano essi usciti di senno? Ma forse ella non si cura di loro, pensai; destinata all'amor mio
dal provvido volere di Militta, costei ha negletti gli omaggi di così vani amatori. Diffatti, amano essi
veramente, i figli di Babilu? Amano essi, come noi amiamo, una volta sola nella vita, e per sempre?
Così pensavo; nè le sue parole suonarono disformi dal giudizio ch'io facevo di lei. Cercava affetto,
ma invano, gagliardo e sincero come il suo. Ognuno in lei vedeva e desiderava la regina, nessuno
aveva amata la donna. Ed era sola, si sentiva sola nel suo vasto impero, come un'isola deserta sul
mare!.. -
Il re d'Armenia mandò fuori dal petto un sordo grido che parve ruggito di belva, a cui il
giavellotto del cacciatore siasi conficcato nel fianco. Invero, quelle erano parole di Semiramide;
l'ingannatrice aveva così parlato anche a lui!
- Prosegui! - disse egli impaziente. - Prosegui!
- Io l'amai, - ripigliò con accento disperato il fantasma, - l'amai con tutto l'impeto del cuor
mio giovanile. Amante della donna, non venni meno all'ossequio dovuto alla regina. No; io te lo
giuro per l'antica amicizia; la vanità, l'ambizione non fecero velo ai miei occhi. In lei non vidi, non
conobbi che Atossa. Fu ella che non si tenne paga di ciò, che mi volle ospite suo nella reggia. La
donna che ama (fino a tanto questo incendio le duri nel sangue) non sa, non può, non vuole celare
l'amor suo alle genti; ella se ne adorna come di un prezioso monile, al cospetto del mondo; ognuno
ha da scorgerlo, da invidiarlo eziandio; che monta, se domani, infastidita, ella getterà lungi da sè
quell'ornamento di un giorno? Così apparve nella reggia il tuo Sandi, così fu assunto alla superba
allegrezza, agli splendori del vivere cortigiano; così fu festeggiato, accarezzato e fatto segno
d'invidia profonda. Ma egli, non mutato dal regio favore, agli ossequi della moltitudine rispondeva
con riguardosa umiltà, alle lodi dei grandi con grata riverenza, ai sorrisi delle vezzose ancelle e
compagne della regina con modesto riserbo. L'innamorato garzone non vedeva che lei. Ed ella,
come rispose all'amor suo? Due lune erano trascorse, e Semiram non lo amava già più. Era giusto!
Un vil cantore d'Armenia!... Ma allora, perchè innalzarlo fino al piè del suo trono? Perchè giurargli
un'eternità d'affetto?
Pregata, scongiurata, si schermiva, adonestava il suo mutamento con le assidue cure del
regno o cogli urgenti apparecchi di una guerra, che ella stava per muovere ai popoli dell'estremo
Oriente. Intanto, le care notti vegliate tra i pensili orti, di contro alla dormente città, sotto l'azzurra
vòlta seminata di astri lucenti, erano finite per Sandi, ed egli gemeva solingo e negletto nelle sue
stanze obliate. M'intendi tu! Solingo e negletto! Così teneva fede a' suoi giuramenti costei!
- Finisci! - incalzò il re d'Armenia, con voce soffocata dall'angoscia.
- Sì; la storia è breve, oramai. Una sera, atroci sospetti mi morsero, mi lacerarono il cuore.
Se fossi tradito!... Volli correre a lei, sincerarmi co' miei occhi medesimi, udire la mia sentenza
dalle sue labbra. Palpitante d'amore e di rabbia, balzai fuori dalle mie stanze; m'avviai per un andito
segreto, che conduceva agli appartamenti della regina. Da più giorni ella mi aveva vietato di rifare
quel noto cammino; ma io non badavo già più al suo divieto. Il mio sangue ardeva; non ero più
padrone di me. Corsi, dunque, ma invano; l'uscio era sbarrato ed io mi ritrassi impossente. Un
dubbio, come lampo nelle tenebre, mi guizzò nella mente. Uscii dalla reggia. Ero noto ai custodi, e
mi dischiusero il passo. Dove correvo io, in tanta angoscia, per le sterminate vie di Babilonia? Tu lo
indovini, o re; al sacro bosco di Militta, dove il cuore mi diceva che le gravi cure del regno, i
pensieri della guerra imminente, avesser tratta costei. Presago mio cuore! Ben mi parve di ravvisarla
colà, tutta chiusa nel suo candido pallio di bisso, dal cui lembo traspariva la lunga stola violacea,
frangiata d'argento! Fuggì, quando mi vide, e il mio ignoto rivale con lei; di guisa che, per mezzo
alla calca dei felici, non mi venne fatto raggiungerli, e gl'intricati meandri del bosco mi fecero
perder la traccia. Era dessa; oh, non si poteva dubitarne; era ella Semiram Gli occhi suoi balenarono
attraverso il fitto velo che la copriva, ed io sentii quello sguardo penetrarmi, gelida punta, nel cuore.
Ah mi fosse bastato quel cenno! mi foss'io rattenuto a quel punto! Ma tu lo sai, Ara; l'amore
accieca. Errai lungamente, ignaro di me, della via percorsa, di tutto. Il di vegnente, ella era chiusa a
consiglio co' suoi ministri e capitani d'esercito, nè mi fu dato vederla. Solamente sul far della sera
ella fece chieder di me, come per lo passato, e il mio cuore si riaperse alla speranza, nello scorgere il
muto messaggiero de' suoi teneri inviti. Patimenti durati, collere e pianti, tutto dimenticai in un
punto. Nella sùbita ebbrezza, giunsi perfino a negar fede a' miei occhi; mi persuasi di aver
traveduto, la notte addietro, nel bosco di Zarpanit; la fede, raggio di sole dopo i rovesci della
tempesta, mi racconsolava lo spirito, cancellava ogni passata tristezza. Così è l'uomo che ama! E
giunse finalmente l'ora aspettata. Uscii commosso, palpitante, dalle mie stanze, m'avviai per l'andito
segreto.... Ah, maledizione! Avevo a mala pena oltrepassato l'uscio, non più chiuso tra me e
l'argomento miei desiderii, che il suolo mi mancò sotto i piedi. Brancolai, tentando aggrapparmi da
qualche lato, ma invano; io precipitavo nel vuoto, trabalzato contro le liscie pareti d'un pozzo. La
caduta era alta, quanto il palazzo medesimo della regina, e fu tutta per me una lunga bestemmia, uno
spavento supremo, una feroce agonia. I ripetuti sbalzi, mi pestavano le membra, mi fiaccavano
l'ossa; lame corte e taglienti, infisse ne' muri, mi coglievano al varco, mi spiccavano brandelli di
carne. Finalmente ebbi tregua nella morte; diedi un tonfo; larghe ondate mi schizzarono intorno, e i
gorghi romorosi dell'Eufrate si chiusero sopra di me. -
Le chiome si rizzarono per raccapriccio sulla fronte di Ara, e un sudor freddo gli stillò per tutte le
membra.
- Orrore! - gridò egli, poichè il doloroso fantasma ebbe finito il racconto. - Ma è una belva, costei?
- Ben dici, una belva. E tu pure finiresti così, rimanendo.
- Ah, sarebbe il minor danno, cotesto! Lontano da lei, non avrò io morte del pari? O Sandi, il
mio cuore è spezzato. Ma ella mi udrà.
- Non tentare la prova, sconsigliato! Che potresti tu, solo ed inerme, contro la signora di
cento popoli? Che ardiresti tu, uomo e di nobil sentire, contro una donna? O ti romperesti come una
fragil canna nel pugno della offesa regina, o piegheresti, come giunco, alle lusinghe della impura
maliarda.
- Oh mai, te lo giuro! Ma dimmi, consigliami, ombra diletta; che altro debbo io fare, che non
dispiaccia alla tua vigile amicizia?
- Fuggire; non già come pauroso cerbiatto che teme lo strale del cacciatore, ma come leone
che rompe le sbarre del carcere e ripiglia la sua libertà. Va; mostrerai alla ingannatrice come a te le
sue male arti sian note. Rammenti l'oracolo di Peznuni, innanzi che tu lasciassi Armavir? " La terra
di Sennaar ti sarà fatale! " Torna alla tua reggia, meno sontuosa, ma più ricca d'onore; lascia che
costei si strugga nella sua rabbia impossente, e farai, nelle tue, le vendette di Sandi. Ed ora, addio; ti
sovvenga di me!
- Già mi lasci?
- Sì: l'alba novella è vicina; il dio delle ombre non mi concede più lunga dimora.
- O Sandi, mio diletto, non ti vedrò io ancora una volta sulla terra?
- Forse! - rispose mestamente il fantasma.
- E dimmi.... - aggiunse Ara peritoso, come chi teme di chieder troppo; - non avrò io da te un
pegno del nostro colloquio?
- Dubiti ancora! - esclamò Sandi con accento di rimprovero. - Orbene, eccoti il pegno. -
Così dicendo il fantasma si appressò, pose le palme sugli òmeri di Ara ed accostò le labbra
al suo volto.
Il re d'Armenia sentì, insieme col bacio, l'impressione dell'acqua diacciata, che grondava
dalle chiome del morto; diè un grido di alto terrore e cadde esanime al suolo.
La visione era sparita; le tenebre regnavano nel sotterraneo.
Poco stante uno scalpiccio, un bisbiglio sommesso si udì; quindi apparve una face, portata
da uno dei muti custodi del luogo, e il suo chiarore illuminò i tre savi, tornati allora là dentro. Il re
d'Armenia appariva disteso a terra, colle membra prosciolte, davanti alla negra cortina, che erasi
richiusa da capo.
- Avrà egli creduto? - domandò il savio che portava tra mani il ramoscello di amòmo.
- Non l'hai tu udito favellare col fantasma? - disse a lui di rimando il compagno del fiore di
loto. - Il filtro ha fatto opera efficace su lui.
- Ma partirà egli? - chiese ancora quell'altro.
- Ne dubiti? Io n'ho certezza. Ardente e pieno di fede, come tutti i generosi, egli non vedrà
più regina, seguirà il nostro consiglio.
- Eppure....
- Eppure, t'intendo, tu vagheggi sempre il disegno di ucciderlo.
- Sempre! Nemico ucciso non dà più molestia.
- Nol nego; ma egli non è più nemico.
- Nostro, concedo: ma mio, egli non ha cessato di essere, per questo suo odierno corruccio
contro di lei. Però torno al mio primo consiglio; uccidiamolo. Badate, - soggiunse il savio dal ra-
moscello d'amòmo, parendogli che gli altri due si rimanessero ancora perplessi; - noi siamo uniti dal
vincolo del vantaggio comune. Proseguiamo tutti un medesimo fine; il mio non può non essere il
vostro.
- Bada a te piuttosto, o Zerduste, - rispose il savio dal fiore di loto. - Nella tua privata ven-
detta naufragherebbe l'alto proposito che ci ha collegati. Rivale negletto di questo giovane Armeno,
a cui bastò mostrarsi per conquiderle il cuore, puoi tu fare che ciò che è accaduto non sia? Tanto
varrebbe comandare ai fiumi discorrere a ritroso e rifarsi alle prime sorgenti. Dimmi: la tua maschia
virtù, il tuo antiveggente consiglio, ti avrebbero forse abbandonato di un tratto? Ameresti tu sempre
colei?
- No, t'inganni, o Sumàti. Profondo, tenace, è l'odio mio, siccome fu un giorno l'amore. Così,
non bevuto a tempo, inasprisce il soave liquor dell'amòmo, e si converte in veleno. Ma io temo
ancora.... Lui vivo, potremmo viver sicuri?
- Lui morto, temiamone un altro; - notò prontamente Sumàti. - Ella è donna, e, siccome
avvien delle donne, mutevole ha il cuore, sempre bisognoso d'affetto. Ma lascia che viva costui,
bellissimo fra gli uomini; lascia che, fuggiasco tra' suoi monti natali, si manifesti a lei superbo
spregiatore di sua facil conquista, e vedrai, vedrai furore di donna, come alto divampa!
- Sì; - soggiunse il compagno che aveva tra mani la foglia di papiro; - ben dice Sumàti. E
spento da noi il re d'Armenia, che altro avverrà, che giovi ai nostri disegni? Niente saprà la regina
del disprezzo di lui; sconsolata, lo piangerà, nè certo si rimarrà dal cercare gli autori della sua morte,
per trarne aspra vendetta. Siam noi così certi che i misteri della Triade non abbiano un giorno a
scoprirsi, fors'anco prima che l'opera nostra sia condotta a buon porto?
- Tu lo vedi; - ripigliò allora Sumàti; - anche il savio Manète è contro di te. Cedi ai nostri
consigli, all'utile della causa comune. Infine, di che abbiam noi mestieri? Di che tu stesso, o
Zerduste, il quale gagliardamente ti adoperi per la liberazione della tua Bakdi dal servaggio dei figli
di Cus? Viva ed aiuti i nostri disegni il pronipote di Aìco; egli è un nuovo e possente arnese di
guerra contro i superbi dominatori di Babilonia. Non lo dicevi tu stesso, ieri, mostrandoci la ne-
cessità di questo rapido colpo su lui? Nemici avventurati di Babilonia furono un giorno gli Armeni;
sospettosi vicini durarono pur sempre; son tributarii oggi, ma tementi di peggio, e preparati a
resistere. La favilla che può destare l'incendio sta in nostra mano, e noi la spegneremmo, dissennati,
in quest'ora? Lo sdegno di Semiram, la guerra all'Armenia; non è questa l'occasione fortunata che
attendono i tuoi, per ribellarsi al giogo? Ed in questo risveglio di popoli soggetti, non è la nostra
salvezza comune? Ai patti, Zerduste, ai patti, che tu stesso hai giurati; e rammenta che il numero è
legge. -
Così parlò risoluto il savio del Gange, e Zerduste chinò il capo al voler dei compagni.
- E sia come a voi piace! - diss'egli. - Così torni utile alla gran causa il vostro decreto, com'io
mi sommetto alla legge del numero. -
Ciò detto, si trasse in disparte. E Sumàti frattanto, avvicinatosi al re d'Armenia, si chinò
sopra di lui, dandogli a respirar per le nari le acute fragranze d'una ampolla, che egli aveva cavata
pur dianzi dal seno.
CAPITOLO XII.
LA FUGA.
Il mattino era sorto, restituendo i colori smarriti alle cose. La vôlta celeste, con soavi
trapassi, di cenerognola che l'aveva mostrata il primo barlume del giorno, erasi venuta schiarando in
un bianco perlato, che verso oriente volgeva allo smeraldo, per mutarsi più oltre in colore di
fiamma, su quell'ultimo confine donde aveva a sorgere il sole. Commosse al lene soffio della brezza
mattutina, ondeggiavano le biade per l'immenso piano; e qua e là, da un mare di lieta verdura,
spuntavano le castella lontane, i villaggi, i casolari, sparsi a guisa d'armenti sui pascoli.
Intanto, una lunga cavalcata, uscita pur dianzi dal sobborgo settentrionale di Babilonia,
risaliva di buon trotto la strada maestra, lunghesso la riva destra del fiume. Già biancheggiava
davanti alla torma il villaggio di Lahirù; e l'astro del giorno, apparso in quel mentre sull'orizzonte,
mandava il suo primo saluto alle torri predilette di Sippara.
Correvano frettolosi, volavano via come il vento i cavalieri, coi grand'archi sull'òmero e le
frecce risuonanti nelle lucide faretre. Dinanzi a loro cavalcava un nobil garzone, pallido, smunto le
guance, accigliato e cupo il sembiante, pur tuttavia bellissimo sempre a vedersi. Un'acerba cura, più
assai che l'insonnia, segnava di triste nota il suo volto, e lo faceva noncurante d'ogni cosa che il suo
pensiero non fosse. Difatti, mentre i seguaci suoi ad ogni tanto si volgevano indietro sulle groppe
dei cavalli, per rimirare ancora una volta la gigantesca città, che si veniva illuminando alle loro
spalle e sempre nuovi aspetti assumeva ai crescenti raggi del sole, egli, il taciturno comandante, non
dava da quella parte neppure una fuggevole occhiata, e al premer convulso delle ginocchia ne'
fianchi del suo corsiero, al lentargli le redini sul collo, pareva che avesse fretta di correre, di
allontanarsi da un luogo odiato, o temuto. Per contro, non badava ai compagni, se pronti d'ugual
metro gli tenessero dietro. Istintivamente faceva cammino, respirando a larghe ondate l'aria
frizzante del mattino, quasi a sneghittirsi le fibre; ma il pensiero teneva sempre rivolto in sè stesso, e
si faceva sempre più cupo, come chi, non trovando la via per uscir di tristezza, si chiude disperato e
si compiace nel dolore che lo uccide.
Frattanto i mattinieri abitatori de' campi, gli artefici borghigiani, in volta fra villaggi e
castella, si tiravano, essi e le cose loro, sui margini della strada; frotte di popolo agreste si
affacciavano dalle siepi fiorite; curiosi volti di donne apparivano in sull'uscio dei casolari, per veder
passare la cavalcata, di cui si udiva da lontano lo scalpito.
- Chi sono costoro? - si diceva qua e là, nella moltitudine degli astanti. - Ah, i baldi cavalieri
d'Armenia, che tornano ai loro monti natali. Giunti a mala pena ier l'altro! Breve dimora hanno fatto
essi nelle mura di Babilu! E il malka? Vedetelo; è quegli che va innanzi a tutti loro, Ara il bello!
Ara il prode! Viva in perpetuo il leggiadro malka delle montagne! Invero egli è simile a Nebo, al
malka della vôlta azzurra. Ma come rannuvolato! che ha egli mai, che lo rende così triste? Forse il
dover partire dalla terra di Kiprat Arbat. Ma perchè tornarsene così presto? Le rose di Sennaarnon
non avevano dunque fragranze per lui? Vedete; egli neppure s'accorge della nostra presenza: non
cura i saluti, non risponde agli evviva. Orgoglioso è l'Armeno, come tutto il suo popolo. Pure, egli
ha dovuto scendere, portar tributo alla gloriosa regina degli Accad! -
Così dicevano gli abitatori dei campi; e proseguiva Ara veloce, senza por mente alla turba
curiosa, o dare ascolto ai clamori, agli evviva.
Che era egli avvenuto? Come a quell'ora già tanto lontano da Imgur Bel, colla sua gente
raccolta e frettolosa a seguirlo?
Ricuperati i sensi e riavutosi dal suo smarrimento nel sotterraneo, il re d'Armenia aveva
veduto daccanto a sè il savio dal fiore di loto, non più velata la faccia, che lo guardava con occhio
amorevole e si studiava con paterna cura di essergli utile.
- Santo vegliardo, - disse Ara, crollando mestamente il capo, - la mia anima è triste fino alla
morte.
- Suvvia, - gli rispose Sumàti, - non ti perder d'animo, o re. L'uomo antico è morto quaggiù;
tu rinasci da' tuoi errori, più giovane, più ardito e più forte. La terra di Sennaar non ti sarà più oltre
fatale. Il destino è scongiurato, e qui, alle sacre fonti del vero, tu hai attinta la vita.
- Ah! - esclamò il giovane, sospirando. - E per che farne, ormai?
- Fanciullo! - disse il savio, con piglio affettuoso, che temperava il rigore della parola. - E
credi tu che nulla più ci rimanga a sperare sulla terra, perchè abbiam conosciuto menzognero un
affetto? Ma a che splende il sole nel firmamento? A che accese in noi il creatore la fiamma immor-
tale dell'intelletto, parte dell'anima sua? Sorgi e cammina, o prediletta creatura di Brama! Non sei tu
di quella casta d'uomini ch'egli trasse dal suo medesimo braccio, perchè avessero ad impugnare lo
scettro, per comandare alle genti, e farle gloriose e felici? Non ami tu il tuo popolo? Non ricordi la
tua reggia d'Armavir e i noti volti che ti sorrideranno ossequenti al ritorno?
- Sì; - rispose Ara commosso; - un Dio parla per le tue labbra, o venerando. Noi non na-
scemmo per noi. -
Così dicendo, aveva tentato di sollevarsi da terra; ma non potè reggersi sulle ginocchia, bar-
collò e cadde tra le braccia del savio, che fu sollecito a trattenerlo.
- Bevi; questo ti rinfrancherà; - disse Sumàti, stillandogli sulle labbra alcune gocce da una
fiala che aveva tolta dalla cintura. - Ed ora, figliuol mio, adagiati su questa lettiga; mentre tu
ristorerai le membra affaticate nel sonno, i nostri uomini ti ricondurranno fuori di qua.
- Dove? - chiese Ara, con atto di ripugnanza, che non sfuggì all'occhio del savio.
- Oh, non già nelle tue stanze di iersera. Gli spiriti invisibili che t'hanno dischiuso la via allo
scampo, non riaprirebbero certamente il cammino della tua perdizione. Quell'adito è chiuso per
sempre. Ti desterai in quella vece dove più ami vederti.... fra i tuoi.
- Fra i miei; - balbettò il re d'Armenia, a cui già il sonno faceva gravi le ciglia: - fra i miei!
Ma tu, santo vegliardo, mi lasci?
- È necessario.
- Non ti vedrò io dunque più?
- In seno di Brama è il futuro; - rispose solennemente il savio dal fiore di loto. - Dormi, o re
d'Armenia, e dimentica! -
Il vecchio era sparito; ed Ara, poco stante, dormiva profondamente, in quella che i muti
custodi del sotterraneo, alzata la lettiga sugli òmeri, si disponevano a condurlo all'aperto.
Allorquando il re d'Armenia si risvegliò da quel sonno letargico, egli era disteso su d'un letto
di piume, in una camera adorna di sontuosi tappeti e morbide pelli di fiere. Pendevano sopra il suo
capo, raccolte a festoni, le ampie cortine di un padiglione di porpora; lucerne di forbito rame
spandevano per la camera un mite chiarore. Attonito, volse gli occhi lungamente in giro, e ri-
conobbe il suo posatoio della prima sera, nell'edifizio fuori la cinta di Nivitti Bei, dove era smontato
ad alloggio co' suoi.
Ma, per qual via era egli giunto colà? Come si trovava egli adagiato in quel letto? Aveva egli
sognato dapprima, o sognava in quel punto?
Mentre egli era in cosiffatte incertezze, Bared gli si fece innanzi ossequioso. Il suo fidato
Bared appariva vestito di tutto punto, in arnese da viaggio, con la sua fascia di lana intorno ai lombi
e la spada pendente dal fianco.
- Tutto è pronto! - diss'egli.
Il re d'Armenia lo guardò trasognato. Ma Bared non volgeva gli occhi su lui.
- Che cosa? - domandò allora il re.
- Il corteo, mio dolce signore; - rispose Bared, inchinandosi. - I cavalli sono in ordinanza
sulla via, e i cavalieri fermi in arcione. I cammelli, coi bagaglioni, son già da un'ora in cammino.
- E.... - balbettò Ara, stupefatto, - perchè tutto ciò?
- Ma.... - soggiunse umilmente quell'altro; - non sei tu sceso stanotte al mio capezzale, per
comandarmelo?
- Io?
- Sì, mio signore. Invero, tu mi parevi turbato oltremodo. " Suvvia, mi dicesti; svegliati, o
Bared, e fa che tosto si alzino i nostri uomini. Bisogna partire innanzi giorno; si torna in Armavir;
tra un'ora ci metteremo in cammino. " Furono queste le tue parole; non le rammenti? Temendo di
alcun triste caso che ti fosse intervenuto, ardii chiederti il perchè dell'improvvisa partenza. Non
m'hai risposto; io mi sono affrettato ad obbedirti; ed eccomi qua, pronto ai tuoi cenni. -
II re d'Armenia stette alquanto sopra di sè, mentre Bared parlava, e richiamò alla mente
smarrita tutte le confuse memorie di quell'orrida notte. Furono allora argomenti di tristezza inef-
fabile, paurose visioni, acutissime spine che gli si strinsero al cuore. Così la cerva trafelata, poichè
vanamente ha tentato di sottrarsi allo stuolo de'cacciatori, s'arresta e vede d'ogni banda segugi in
volta, cavalli accorrenti, ed archi tesi, che le fanno piover sopra un nembo di strali.
- Io non ho parlato a Bared; - pensava egli in cuor suo; - ma come potrebb'egli essersi in-
gannato a tal segno? Ah, certo egli è Sandi, che gli ha recato il provvido avviso, il suo volere si
compia! -
E balzò prontamente dal letto; indossò la tunica bigia, listata di rosso, che gli profferiva il
suo fido; cinse la spada; imprigionò i capegli nella mitra di nera pelliccia, ornata al sommo da un
mobil ciuffo di penne; si gittò il mantello sugli òmeri, e uscì e si affrettò per le scale, fino all'in-
gresso, dov'era il suo cavallo bardato; tutto ciò senza far moto, con rapidità fulminea, con atti
convulsi. Indi a pochi istanti era in arcioni e spingeva il generoso corsiero a galoppo; gli altri tutti
dietro di lui, in ordinanza serrata, verso la porta settentrionale della città.
Così erano partiti; ed Ara, spronando il cavallo di là dalla porta di bronzo, non avea pur
vôlto indietro lo sguardo a rimirar Babilonia, la maravigliosa città che egli abbandonava per sempre.
Un misto di odio e di raccapriccio, più ancora di rabbia e fastidio di sè, gl'ingombrava lo spirito. Pur
di sottrarsi a quella oppressura, avrebbe amato uscir di senno, addormentarsi in perpetuo, non
essere.
Povero cuore umano! Com'è egli sempre schiavo delle sue medesime finzioni! Ma infine, e
non son esse la parte migliore della vita? E il cuore che fosse assoluto signore di sè, non regnerebbe
egli nel deserto? Invero, senza questa eterna cagione di pianti, che sono gli affetti nostri, le fantasie,
i rapimenti, gl'inganni, il cuore sarebbe da paragonarsi ad una solitudine ignuda. Ahimè, così sia
dunque; amare, pensare, vivere, e sempre soffrire.
Un senso di sollievo, comunque leggiero e tutto materiale, era pel giovane il correre, volar
via, fendere la brezza del mattino, in groppa al suo palafreno, docile agl'impulsi, saldo alla fatica,
siccome tutti i cavalli d'Armenia, celebrati allora per forza e rapidità singolare nel mondo.
Bello è il corsiero, e veramente degno dell'amore dell'uomo. Nobile e generoso, si acconcia
di buon animo ai voleri del suo signore; servo ossequente, non vile, ama e non lo dice, ma ne' suoi
grandi occhi umidi è un'eloquenza ineffabile. Delicato e sensibile, un nulla lo turba, gli fa arricciar
le nari, drizzar le orecchie e correre un tremito per tutte le membra; ma una parola, un grido, un
incitamento lievissimo, gli fa vincere ogni tema, squassar la criniera e pigliare il galoppo contro
l'ignoto pericolo. Ha terrori femminei, ed impeti virili. Amico dell'uomo, sia che ci porti a ritrovo
d'amore, sia che ci tragga in battaglia, o ci scampi da inseguenti nemici, intende le ansie, i palpiti, i
moti tutti dell'animo; partecipa ai nostri affetti, agli sdegni, ai dolori; non si lagna della nostra
crudeltà momentanea, poichè ci sente accorati; patisce ogni disagio, poichè ci vede soffrire con lui;
sfida animoso la morte, cade sfinito di stanchezza, o coperto di ferite per noi; pago d'uno sguardo
compassionevole, lieto di un'ultima carezza su quel poderoso suo collo, madido di sudore e di
sangue.
Va, corri, Tiglat; divora la via, generoso corsiero. Il tuo signore è triste, come notte d'inverno
nelle gole dell'Ararat; lontano, assai lontano da Babilonia, potranno aver le sue membra un'ora di
riposo, non il suo spirito un istante di tregua. Ben più sereno dell'animo tu l'hai portato a volo sui
combattuti campi di Masciag, contro le schiere fuggenti dei predatori Turani. Va, corri, Tiglat;
divora la via, perchè oggi ti converrà fare un doppio cammino. Dopo una breve sosta alle case di Is,
la cavalcata proseguirà veloce fino alle mura di Erech. E domani? Domani toccherete ai confini
della terra di Naraim, dove a nessun cavaliere che parta da Babilonia sarà più dato raggiungervi.
E via, frattanto; volavano via i cavalli sonanti tra nembi di polvere, allontanandosi sempre
più dalla vista di Babilonia. Era bella, l'immensa città, splendida ai raggi del sole nascente, vero
giardino di delizie, innalzato sovr'archi giganteschi alla gloria di Belo.
Bella era e splendida, piena di delizie per tutti i popoli che accorrevano alle sue mura; ma
non più doveva esser tale per la sua gloriosa regina! Quel dì, giusta il costume, la celeste Semiram
erasi alzata per tempo dai molli riposi. Il corpo aveva di donna, ma virile la tempra, e sapeva
mandare di pari passo le morbidezze del vivere femminile, con le aspre fatiche del campo e le gravi
cure del consiglio. Asterse le membra nei limpidi lavacri, raccolte in lucide anella le chiome,
radiante di fresca bellezza e di senno maturo, aveva chiamati alla sua presenza i ministri, deliberato
sulle faccende più rilevanti della città, udito le novelle dei corrieri, giunti nella notte dalle più
lontane contrade.
Senonchè, quel giorno, una nuova cura, e più dolce, la faceva impaziente. Udì a mala pena
gli avventurosi messaggi; impartì brevi comandi e facili perdoni; nè prestò lungamente orecchie alle
lodi, che lo scriba le riferiva essere state incise su nuovi marmi, dall'ossequio dei governatori delle
provincie.
Sola alfine, chiusa negl'intimi recessi del suo appartamento, ritornò ai geniali apparecchi
della conscia bellezza. Cosa agevole ad intendersi nello stato dell'anima sua, ella era così sicura di
sè, come in passato; bene lo specchio le veniva ripetendo, con la sua muta eloquenza: "sei bella" ma
la regal donna non pareva contentarsi a quelle testimonianze cortesi. Il pensiero correva
malinconico alla sua giovinezza perduta e le faceva temere vicini, presenti quasi, i futuri oltraggi del
tempo. Eppure ella vedevasi allora nel pieno rigoglio delle sue irresistibili grazie, l'invidiata rosa di
Sennaar; in quella stagione che la donna apparisce più bella, siccome il fiore più smagliante sul
ramo; in quello che può dirsi il riposo nella maturità, così lieto di vivaci colori, così liberale di
soavissimi effluvi; più bella, insomma, più giovane che non fosse da prima, imperocchè l'amore,
come occhio di sole, la illuminava, penetrandola, ringagliardiva in lei le fonti della vita; donde lo
scorrer veloce del sangue nelle tumide vene, il perlato splendor delle carni, il vermiglio sulle umide
labbra, il baleno negli sguardi profondi.
Salambo, la prediletta fra le ancelle, bruna figlia del paese di Martu, le si accostò, le cinse il
collo d'un monile di perle, e sorridendo alla immagine della regina, riflessa di contro a lei nel lucido
disco d'acciaio, le disse:
- Mia dolce signora, nessuna donna al mondo è più bella di te. -
Piacque la lode a Semiram, che la ravvisava sincera. Indi, crollando il capo e sospirando con
un suo garbo tra malinconico ed umile, rispose:
- Ah, gli anni, Salambo volano essi, calano implacati su noi, e ci rapiscono questi labili
vanti!
- Che dici tu, regina delle terre e dei cuori? Essi volano intorno a te, come spiriti benefici, e
ognuno di loro ti reca una grazia di più. Forse non vedi come sei desiderata da tutti, accompagnata
dagli avidi sguardi del popolo, da un mormorìo d'ammirazione ovunque tu passi? Dall'ossequio dei
grandi che ogni giorno s'inchinano a te, non vedi tu trasparire la vampa degli amori che accendi? -
A quelle parole dell'ornatrice, Semiramide si fece rossa in volto, siccome il frutto del
melagrano.
- Oh, parer belle agli occhi di tutti! - esclamò ella con accento d'allegrezza profonda. - Sì, gli
è ciò che piace a noi donne. Ma uno, uno solo, regni su noi. Schiavi tutti gli altri e non degnati pur
d'uno sguardo; egli signore nostro per tutta la vita!
- Tu ami, regina?
- Amo, sì, e sono riamata, non pel mio serto regale, per me! -
II pensiero dell'ancella era corso al tempio di Militta e all'incontro di Semiramide col
bellissimo straniero, nel quale Salambo, compagna alla regina nella sua notturna visita al sacro
recinto, aveva poscia riconosciuto l'ospite regale d'Armenia.
- Invero, - diss'ella, - se un uomo era degno dell'amor tuo, per fermo gli è questi il leggiadro
malka delle montagne.
- Ah! - sclamò Semiramide, con atto di stupore, che non aveva nulla d'ingrato.-E tu sai?...
- Perdonami, dolce signora!... - balbettò confusa l'ancella. - I miei occhi....
- Hanno veduto; - interruppe la regina, con un sorriso amorevole, che valse a rasserenare la
turbata ornatrice; - hanno veduto, e non è colpa il vedere. Infine, se io ho potuto amarlo la prima
volta che lo vidi, mi dorrò che Salambo lo abbia creduto degno dell'amor mio?
- O mia regina, non t'ha ingannato il tuo cuore; - soggiunse la bruna figlia di Tiro,
inginocchiandosi e baciando il lembo della veste di Semiramide. - Egli ha la soave bellezza, di Sin,
il benefico Iddio rischiaratore delle notti; nè può dall'aspetto esser diversa l'anima sua. Gloriosa
signora, vivi felice in perpetuo! A te fu propizia Militta Zarpanit, di cui tu sei la vivente immagine
in terra.
- Va, mia buona Salambo, e gli Dei ascoltino l'augurio. Va, ed Hurki, il capo degli eunuchi,
annunzi al malka d'Armenia che la regina lo attende. -
Sola, nel suo geniale ritiro, che era bello a vedersi per marmi di svariati colori e tavole d'a-
labastro nobilmente istoriate, lieto di acque zampillanti e della grata ombria delle latanie e dei salici,
che protendevano le foglie tinte di vivo smeraldo tra le colonne dell'aperto loggiato, Semiramide
attendeva il leggiadro suo ospite. E seduta su d'un trono d'ebano, incrostato di pietre preziose,
rattenuta la bellissima guancia tra l'indice e il medio della candida mano arrovesciata a sostegno del
capo, ella stavasi meditando, godeva tacitamente in cuor suo, pregustava l'allegrezza ineffabile del
vedere l'amato, e scorgere su quel viso i segni dell'interno tumulto, nell'atto di comparirle dinanzi. E
così procedendo di pensiero in pensiero, s'inoltrava nei vaporosi regni del futuro, sognava gaudii
infiniti, intravvedeva giorni di felicità senza pari.
V'ha una pianta nelle contrade predilette dal sole, una pianta singolare tra tutte, la quale, nata
in arida terra, stenta anni ed anni il nutrimento, onde il suolo e l'aria le si mostrano avari. Len-
tamente cresciuta, fa tesoro di elettissimi succhi; di poco s'innalza, ma stende intorno e gonfia a
dismisura le larghe foglie carnose, si fa ricca di umori vitali, mentre tant'altri germi di più facile
contentatura sotto il medesimo cielo intristiscono. Ella ha un intento, la nobilissima pianta; accu-
mula, per prodigare; e infatti, dopo tant'anni di vita modestamente operosa, germoglia e cresce dal
suo grembo uno stelo, la cui cima rapidamente sboccia e s'allarga in grappolo di fiori, onor dei
deserti, allegrezza del viandante che lo scorge da lontano, eretto a guisa di faro amico, sul faticoso
sentiero. Lieta fioritura, tanto più splendida, quanto fu più sudata! Che importa, se, nascendo, ella
prosciuga ed uccide il cespo materno?
Così la pianta umana; cresce, si nutre, si rafforza per produrre il fior dell'amore. Ed è bello, è
maraviglioso il portato, quando tutto alla pianta umana sorride. Grandezza, onore, possanza, umori
vitali di cui la terra non è facile dispensiera per tutti, aiutano a rendere il fiore più splendido, a far
più solenne l'amoroso mistero.
Ed era lieta Semiram. Militta Zarpanit l'aveva fatta felice oltre i suoi medesimi voti.
Bellissimo era tra tutti i viventi, generoso e prode, il destinato al cuor suo. Fervido, nell'amicizia,
insino alla follia, che non sarebbe egli stato nell'amore?
Qui, per altro, tornava alla mente della regina l'ingrato ricordo di Sandi, la cui misera fine
era stata a lei rimproverata dall'ignaro garzone con temerarie parole. Ma non di lui si doleva, bensì
della malvagità profonda del volgo umano, inchinevole a credere il peggio dei grandi, a rigettar su
loro ogni vizio, a farli neri d'ogni delitto. Ed esser tuttavia innocente, nonchè della morte di Sandi,
d'un solo pensiero, di una parola, d'uno sguardo per lui! Invero, ella non aveva avuto altra colpa in
faccia all'estinto, fuor quella di che tanti e tanti potevano accusarla ad un modo, d'esser bella,
possente, e desiderata da troppi, vuoi per dissennato amor giovanile, vuoi per proposito di
sconfinata ambizione.
Difatti, qual era stato il caso di Sandi? Tratto da desiderio di gloria, il giovine cantore di
Peznuni era venuto alle mura dì Babilu, era stato accolto nella reggia ed aveva cantate le glorie della
stirpe di Nemrud; ma più ancora quelle della leggiadra figlia di Derceto, venuta d'Ascalona, nel
paese di Martu, fino alla terra di Sennaar, per assidersi, moglie di Nino, sullo splendido trono di
Nemrod. Ben s'era ella avveduta come il giovine Armeno avesse ardito innalzare fino a lei il cupido
sguardo e l'ambizioso desiderio; ma ciò, in quella guisa che non giungeva nuovo, non doveva parere
altrimenti strano alla donna; però, con quel giusto riserbo che le inspirava il suo stato di donna e di
regina, aveva mostrato nei diportamenti suoi non addarsi di nulla.
Che pensasse egli di ciò, che sperasse dai suoi inni fiammanti, ignorava Semiramide. Nè
altro le fu dato saperne di poi, imperocchè, uscito egli una sera dal suo cospetto, non ricomparve più
mai. La voce si sparse della sua morte improvvisa; alcuni pescatori del quartiere di Suanna avevano
trovato il cadavere impigliato tra i giunchi, in una insenatura dell'Eufrate; ciò erale stato riferito più
tardi, e non è a dire con quanto rammarico per l'animo suo compassionevole. Qual era la cagione
della miseranda catastrofe? Aveasi a vedere nel fatto una vendetta di donna offesa, o d'uomo
fieramente geloso? Malagevole scoprire l'arcano; ed ella non volle pure indagarlo, giustamente
temendo non paresse altrui che ella troppo si curasse dell'amoroso cantore. Ed ecco, ciò che ella
aveva fatto per onesto riguardo, volgevasi biecamente contro di lei! Inaudita perfidia! Ma il re
d'Armenia, amato da lei coll'impeto di un cuore che per la prima volta e liberamente si concede, non
era egli persuaso oramai della sua innocenza? Non aveva ella giurato, pei sommi Dei, per la maestà
del suo regno, per la testa dell'adolescente suo figlio, cioè a dire per quanto una donna ha di più
sacro al mondo, e meno volentieri in simili casi ricorda? E dopo un tal giuramento, non doveva egli
credere alle parole dell'amata? Non aveva egli anzi mostrato di credere?
E tuttavia, quel ricordo, in quell'ora, le tornava molesto, uggioso, come un presentimento di
sventura. Lo cacciò lungi da sè; volse l'animo a più liete immagini; si fece in cuor suo a noverare i
passi di Ara, che certo era in cammino per giungere a lei. Capriccio infantile, che bene intenderà chi
ha un giorno atteso l'arrivo di persona amata; non altri.
In quel mentre, Hurki (il guardiano, nella lingua degli Accad) comparve sulla soglia. Egli
aveva la cera sconvolta, appariva turbato e perplesso, come chi sa di recare un ingrato messaggio.
Quella era di fatti la prima volta che Hurki si presentava alla regina, senza poterle dire: "il tuo
comando è eseguito."
Vide Semiramide il mutato sembiante, e n'ebbe una stretta dolorosa al cuore.
- Orbene, che c'è? - dimandò ella impaziente. - Il re d'Armenia?...
- Vivi in perpetuo, o regina! - disse Hurki, prostrandosi a terra. - Il re d'Armenia non era
nelle sue stanze.
- Ah! uscito forse a diporto fuor della reggia.... - ripigliò Semiramide, con accento sospeso
tra la dimanda e la spiegazione.
- Gli eunuchi che vegliavano nell'anticamera non lo hanno veduto uscire; - rispose Hurki, in
atto di rispettoso diniego.
- Che narri tu ora? - domandò la regina.- E come non sarebbe egli più nelle sue stanze?
- Così è, mia clemente signora, sebbene io non giunga ad intenderlo; gli eunuchi giurano....
- Vengano essi! - interruppe la regina, che già più non sapeva contenersi.
Hurki si ritirò, inchinandosi, mentr'ella, balzata dal trono, misurava a passi concitati il
pavimento intarsiato della sua camera.
Poco stante, i quattro eunuchi, che erano rimasti a guardia dell'appartamento dell'ospite nelle
due vigilie della notte, e gli altri due che avevano dato ad essi la muta nelle prime ore del mattino,
comparvero al cospetto di Semiramide e si buttarono tremanti a' suoi piedi.
- Il re d'Armenia? - chiese ella con voce asciutta e piglio imperioso.
- Possente regina, vivi in perpetuo! Abbiamo vigilato tutta la notte, nelle ore a ciascheduno
assegnate; nè alcuno di noi vide uscire dalle sue stanze il regale tuo ospite. Per tutto il mattino
l'ingresso restò chiuso del pari, nè ardimmo entrare non chiesti. Al cenno di Hurki ci siamo inoltrati
poc'anzi: ma il re d'Armenia non era nel suo appartamento, e invano lo abbiamo cercato dovunque.
Come ha egli potuto uscire non visto, se la porta è chiusa e le pareti intiere? Per fermo, o egli è
esperto d'incantagioni, o Nisroc lo ha tratto a volo dal tetto sulle poderose sue ali.
- Ben piuttosto con le sue lo spirito negro del sonno vi ha chiuse le palpebre, servitori
infedeli! E l'ospite nostro, uscendo dalle sue stanze, vi avrà veduti giacenti a guisa di ebbri sul
terreno.
- Possente signora....
- Non una parola di più! Hurki, sian posti sotto buona custodia i poco vigilanti tuoi uomini.
S'indaghi il vero, e se eglino hanno mentito, siano gittati nella fossa dei leoni. Così voglio; andate! -
Esterrefatti, tremanti a verghe, si alzarono i tapini e uscirono in silenzio dal cospetto della
regina.
Ella stette alquanto sopra di sè, mettendo lampi dagli occhi. Uscito! uscito, senza attendere
un cenno di lei! Imperocchè, già non era da aggiustar fede alla favola degli eunuchi; nè il re d'Ar-
menia aveva potuto sparire dalle sue stanze per virtù di magiche parole. Uscito! e perchè, co
dimenticando l'invito della donna amata? Amata! Ma poteva ella credersi tale tuttavia? L'uomo che
doveva rimanere, ansioso, impaziente, ma fermo, ad attendere la dolce chiamata, era uscito, in
quella vece, sparito ad un tratto, forse da più ore, senza curarsi di lei, nè di ciò che la sua assenza
avrebbe dato argomento a pensare. Che dire de'suoi diportamenti? Pazzo era, od ingrato?
E le ore scorrevano, e nessuna nuova si aveva di lui.
Come leonessa ferita si raccoglie a lambire le sue piaghe nel più profondo della macchia,
ove forse morrà, e tratto tratto con lunghi ruggiti accusa l'acerbità dello strazio, minacciando aspre
vendette a chi ardisse incauto avvicinarsi al suo covo, così la regina si chiuse nelle sue stanze, per
divorare non vista il suo dolore e la vergogna dell'oltraggio patito. Lo scoppio dell'ira non doveva
farsi aspettare più molto.
Un'ora dopo, Ninia chiedeva di vedere sua madre. Il regio adolescente soleva presentarsi al
cospetto di lei ogni giorno; ma soventi volte le cure del regno la distoglievano dal grato uffizio di
trattenersi in affettuosi colloquii col suo diletto figliuolo. Egli, per altro, il giorno antecedente, non
si era mostrato alla reggia, nè forse sarebbe andato così presto quel dì, se il savio maestro Zerduste,
vedutolo di ritorno dai palmeti di Gomer, e udito di ciò che gli era accaduto per via, non gli avesse
comandato di farlo.
Semiramide si ricompose all'aspetto del figlio, e lo accolse con amorosa dolcezza.
- Che hai tu, madre mia? - gli chiese egli, notando lo sforzo che ella faceva per mostrarglisi
lieta.
- Nulla, mio Ninia; - gli rispose la povera donna, prendendogli affettuosamente la mano.
- Oh. no; tu soffri! - disse a lei di rimando l'adolescente. - Il tuo volto reca le tracce d'una
cura profonda; le tue mani ardono come per febbre....
- Non ti dar pensiero di ciò; - interruppe la regina, ritraendo istintivamente le mani
accusatrici; - io non ho nulla, sai? non ho nulla. Le cure dell'impero sono molte, e la corona non è
sempre lieve peso alla fronte. Tu regnerai un giorno, mio diletto figliuolo, ed allora.... Ma dimmi,
piuttosto; donde vieni tu, ancora cosparso di polvere?
- Ah, mi perdoni la possente regina! - gridò Ninia, arrossendo. - Son sceso or ora d'arcione, e
impaziente di vedere mia madre.... Sai? - soggiunse egli interrompendosi. - Ieri non ti avevo
abbracciata....
- E fu male; - ripigliò Semiramide, baciandolo in fronte. - Troppo ti stai lontano dalla reggia,
o mio Ninia. Ieri, ad esempio, fu giorno solenne, e tu non eri al mio fianco, per ricevere l'ospite
tributario d'Armavir.
- Ah sì, l'ho veduto stamane! - disse il giovinetto, con accento d'amarezza.
- E dove? - gridò la regina.
- Poco più oltre il villaggio di Lahiru; - rispose egli allora, senza por mente alla subita com-
mozione che dipingeva di pallore il volto di sua madre. - La cavalcata volava via come il vento.
Generosi corsieri ha l'Armenia; ma superbi sono oltremodo i suoi re.
- Come? Perchè parli tu in tal guisa?
- Sì; - continuò l'adolescente; - egli è passato davanti a me, e non si è pur degnato di vol-
germi lo sguardo, sebbene le grida del popolo dovessero avergli fatto udire il mio nome. A che tanto
orgoglio in un principe tributario? Non sono io il figlio di Nino? Ma che hai tu, madre mia? -
La domanda affettuosa di Ninia non era fuori di luogo. Difatti, Semiramide si sentiva venir
meno. Le forze che ella aveva sollecitamento raccolte per resistere al colpo improvviso, si erano
consumate in quel momento supremo, ed ella ricadeva perduta sul trono, in preda ad una com-
mozione indicibile.
Così era egli partito? L'offesa non poteva esser più grave. Nel cuor della notte, mentre gli
eunuchi nell'anticamera cedevano al sonno, egli era uscito dalle sue stanze, fuggito dalla reggia,
corso ai baluardi di Nivitti Bel per raunar la sua gente e allontanarsi da Babilona, innanzi le prime
luci del giorno. E come e quando aveva egli potuto meditar quella fuga? Certo laggiù, nella sala del
convito, davanti a lei, mentre ella figgeva gli occhi amorosi nei suoi, per leggervi, stolta, le
promesse e i rapimenti d'un affetto profondo, immutabile.
E come sapeva egli infingersi! - "A domani! gli aveva ella detto nel prendere commiato da
lui. Debbo conferire di gravi cose con te." - Ed egli aveva ricambiato il dolcissimo invito con un so-
spiro che pareva sprigionarsi dal cuore, e dirle tutto ciò che le sue labbra non potevano in quel
punto. - "Ed è la regina che mi parlerà domani?" aveva chiesto. - "E te ne duole?" - "Oh no,
soggiungeva egli tosto; ma le parole di Atossa tornano più soavi al mio cuore." - Così dicendo,
l'aveva come involta in uno sguardo d'amore infinito. E mentiva! Mentivano gli sguardi, mentivano
le parole, mentivano i sospiri!
Ma in chi ed in che cosa, creder più oltre nel mondo? È egli dunque vero esser di tali uomini
sulla terra, che dotati d'un fascino pari a quello del serpente, tirano i cuori inesperti a metter fede in
esso loro, ne suggono avidamente il meglio e li gittano avvizziti lungi da sè? Si mostrano e vincono;
la resistenza è impossibile; che anzi, è un desiderio, una voluttà, una beatitudine il cedere.
Onnipotenza del male! E i sommi Dei la consentono?
Ella, invero, non si sentiva colpevole di arrendevolezza soverchia. In così solenne occasione
s'era egli offerto ai suoi occhi! Il tempio, il momento della preghiera a Militta, la sovrumana
bellezza di lui, il suo medesimo invaghirsi d'una donna velata, che potè farle credere esaudito il suo
voto, il regio sangue, la generosa foga dell'animo, che pareva candido come la neve dei suoi monti
natali, la soavità dei modi, i sacri giuramenti, tutto aveva contribuito a soggiogarla. Quale altra
donna, cui fosse vuoto il cuore e desideroso d'affetto, non avrebbe ceduto del pari? Ed ella erasi data
in balia di quell'uomo, ella, Semiramide, la fortissima donna, che in ogni altra occasione aveva
saputo comandare a sè medesima, tanto era avvezza all'impero!
E datasi appena, vedersi tradita! Che più? Offesa nella profondità del suo nobile affetto,
offesa nel suo pudore di donna, offesa nella sua maestà di regina, nel cospetto della sua corte, agli
occhi del suo medesimo figlio! Di suo figlio anzitutto, che, inconsapevole, veniva a recarle il colpo
fatale! Ahi, povera donna, da quanta altezza le era forza cadere!
- Nulla, nulla! - aveva ella risposto a Ninia, nell'atto di aggrapparsi con le mani tremanti ai
leoni alati che servivano di sostegno ai fianchi del trono. - Non è che un lieve malore!... Passerà;
non temere!..
- Chiamo le tue ancelle? - proseguì il giovinetto, con cura ansiosa.
Ma già Semiramide erasi riavuta e balzava in piedi scuotendo alteramente il capo.
- No, figliuol mio. Per che fare le ancelle? venga Hurki, e chiami egli i ministri dei miei
voleri a consiglio. Va, e statti di buon animo, o figlio di Nino, - proseguì ella, baciandolo in fronte; -
l'Armenia pagherà a caro prezzo la tracotanza degli stolti suoi re. -
CAPITOLO XIII.
DAL CAMPO DI ASSUR.
Era già presso gli Armeni il ventesimo quinto giorno di Adukanna, che i Babilonesi dicono
Muna, o mese della mano, perocchè in esso si dà opera a raccogliere i frutti ond'è liberale la terra.
Oltre un mese era dunque trascorso dagli ultimi eventi narrati, e nelle ubertose convalli
dell'Ararat gli abitatori dei campi attendevano a mieter le spighe, pur dianzi maturate ai cocenti
raggi del sole. E tuttavia non erano lieti, come in simiglianti occasioni suol essere il colono, che
vede centuplicato il frutto delle sue industri fatiche La gaia canzone dei mietitori non risuonava pei
colli, nelle ore del riposo tra gli affastellati covoni; le fronti apparivano pensose, le braccia sollecite
più dell'usato al lavoro. Così il villano, che sente nell'aria grave la minaccia del nembo vicino,
raduna il frumento battuto sull'aia e lo ripone in fretta ne' capaci granai.
Ora, qual nube era apparsa sull'orizzonte, che da Tarbazu a Nahiri e da Muhuzri a Milidda,
per quanto è vasta l'Armenia da settentrione a mezzogiorno e da oriente a occidente, faceva così
gravi i sembianti? E che s'aveva egli a pensare di quelle file di mandriani che lunghesso i campestri
sentieri guidavano a torme i cavalli verso le sponde di Van? E que' fabbri intenti nelle officine a
foggiar lame di spade e punte di frecce perchè tanto affrettavano essi i colpi dei pesanti martelli sul
càlibe infuocato?
Una voce era corsa, sommessa e dubitosa da prima, indi a mano a mano più ricisa e più
chiara, voce di guerra possibile, di guerra imminente coi popoli della pianura. Gli Accad si
preparavano in silenzio alle offese, levavano gente dalle più lontane contrade, ingrossavano verso
settentrione, tra Sippara e Gutium, rimontando l'Eufrate. Dove potevano essi volgere tanta piena
d'armati, se non contro l'Armenia?
Inoltre, non erasi veduto, sugli ultimi giorni del mese trascorso, ritornare a' suoi monti il
giovane re, il dilettissimo Ara, grave e severo come chi porti un triste presagio nell'animo? E non
avea bisbigliato una voce che egli fosse scampato a fatica, anzichè liberamente partito, dalle mura
inospitali di Babilu?
Che era egli avvenuto al pronipote d'Aìco, al più gentile dei re? Nulla di certo erasi risaputo
all'intorno. Giunto appena in Armavir, il principe si era chiuso nel silenzio della sua reggia; nè
alcuno dei suoi sudditi, coi quali era, uso mostrarsi affabile tanto e cortese, aveva potuto per giorni
parecchi godere della sua vista.
Da Bared, per altro, si era avuto, sebben lieve, un barlume. Ai grandi del reame e ai
governatori delle città, congregati in Armavir, egli aveva parlato a un dipresso così: - Troppo grave
tributo chiede Babilonia agli Armeni, volendo rapire ad essi il più amato tra i re. Già uno dei nostri,
Sandi, il cantore, caro al popolo, caro al monarca, fu vittima dei feroci amori di Semiramide. Ara il
bello, il prode tra i prodi, avrebbe corsa la medesima sorte. -
Così narrando, Bared aveva chiesto ai congregati il silenzio. Ed essi l'avevano pure serbato,
ma non tanto che non ne trapelasse alcun che, subitamente raccolto dagli avidi orecchi del volgo,
sformato dal correre di labbro in labbro, e più facilmente creduto, quando si buccinò di apparecchi
guerreschi in Babilonia, o parve di scorgere in Armenia che i governatori delle città intendessero a
provvedimenti di efficace difesa.
Il presentimento di gravissimi casi era dunque negli animi. E pareva cosa naturale ad
ognuno. I venerandi Sos, dedicati al sacro ministero nelle foreste dei platani d'Aramaniag, presso il
lago di Van, non avevano essi profetato, al tremolar delle foglie vocali, che Babilonia avrebbe
arrecato sventura al giovane re? Ed ecco si adempievano i tristi presagi; la guerra non era indetta tra
i due popoli, ma frattanto s'indovinava, si sentiva imminente, come nell'afa estiva si sentono i segni
precursori della tempesta.
E frattanto, che diceva, che lasciava intendere il re? Taciturno era giunto nella sua diletta
Armavir; taciturno era rimasto nella reggia, cupo, grave d'inesplorati pensieri. Senonchè, alcuni
giorni dopo, egli era uscito dalla città, in volta per le provincie, e al campo di Aiotzor lo avevano
veduto star lungamente immobile, con le braccia conserte sul petto, e gli occhi fisi sulla collina di
Kerezinanc. Ora, sul campo di Aiotzor, il suo grande progenitore aveva sconfitto l'esercito di
Nemrod, e sopra il poggio di Kerezmanc era caduto il gigante, trafitto dalla infallibil freccia di Aìco.
E da quella sosta pensosa, di cui nessuno aveva ardito chiedere al re la cagione, tutti avevano cavato
il pronostico delle sovrastanti sciagure.
Oltre di che, il sembiante di Ara vedevasi profondamente mutato. Certo, su quel nobile capo
era stata gittata una malìa. Popolo di maghi, il babilonese! Laggiù, comuni i sortilegi e gl'incanti, e
gli occhi, le labbra, i volti, le mani, esercitavano un influsso malefico.
E in questa occasione si erano infiammati nel popolo l'amore e la devozione pel re, in quella
guisa che una leggiadra donna torna più cara ai riguardanti, se nube di tristezza le faccia velo alla
fronte. Ara il bello, così malinconico e grave, destava maggiormente l'affetto dei cuori. E con-
fusamente indovinando le cagioni della sua tristezza, si malediceva a Semiram; in ciò prime le
donne, che ognun sa più esperte e più pronte degli uomini a scorgere la mano del loro sesso nei
nostri mal celati rammarichi. Un amore infelice diffonde una cert'aria sul nostro volto, che elleno
sole sanno intender che sia, poichè elleno sole hanno virtù di chiamarla coi loro rigori, di
scongiurarla coi loro sorrisi. Egli è forse per ciò che l'uomo ferito d'amore, cioè a dire amato, o reso
infelice da una, trova altre in maggior numero, consolatrici volenterose, o rivali.
Così uomini e donne sentivano pietà della mestizia di Ara; lo amavano sventurato, più assai
che non lo amassero felice da prima. E in tutti un tacito foggiarsi sul suo grande contegno; un
prepararsi istintivo agli eventi; un ansioso interrogar gli echi e odorar l'aria infida della pianura.
Si era adunque sul finire del mese di Adukanna, ed Ara viveva pensieroso nelle più solitarie
stanze del suo palazzo, donde si scorgevano le onde tranquille del lago di Van, allorquando un drap-
pello di Babilonesi giunse alle porte di Armavir e il suo capitano chiese d'essere introdotto alla
presenza del re.
- Venga! - disse Ara, a cui l'annunzio repentino, quantunque da più giorni atteso, aveva
cagionato un turbamento indicibile, che non era già figlio di paura, sibbene di ripugnanza, per un
messaggio di quella donna così profondamente odiata e diletta.
Invero, egli amava quella donna pur sempre. Creda ciò impossibile chi nulla sa dei fieri con-
trasti d'un affetto gagliardo e delle arcane contraddizioni del cuore. Ei l'amava, esecrandola.
Impunemente non s'era egli accostato ai sacri misteri di Militta Zarpanit; impunemente non aveva
detto a quella bellissima tra le donne: "io t'adoro; la dea ha assunte le tue forme, per farmi il più
lieto o il più triste degli uomini; qualunque cosa avvenga, sarò tuo, sempre tuo!" Bene erasi egli
allontanato dalla odiata regina, ma fieramente amando la donna; era fuggito, ma recando lo strale
confitto nella ferita. E voleva disprezzarla, e non poteva; tanto olocausto non gli era dato di fare
all'ombra amata di Sandi. L'amore è possente come vin generoso, e più ancora che in altri, nel petto
dei forti. Gli Elleni, trovatori felici di profonde allegorie, dovevano adombrarlo nella veste di Nesso,
che s'apprende alle carni del semidio e si consuma nell'apprestato rogo con lui.
Il re d'Armenia si circondò, per ricevere il messaggiero babilonese, di tutti i grandi della sua
corte, guerrieri la più parte e cantori; quelli avvezzi a combattere, questi a celebrare le gesta dei
prodi.
- Venga il Babilonese! - dicevano essi. - Reca egli messaggio di guerra?
- Forse; - rispose gravemente il re.
- E tu, che gli risponderai, nobile figlio di Aràmo?
- Quello che voi rispondereste, o miei fedeli; pace a chi viene con amiche parole: guerra a
chi cova sinistri disegni.
- Guerra adunque vuol essere! L'orgogliosa signora di Babilonia non può mandare cortesi
messaggi agli Armeni.
- Ella ha costrette a tributo le aquile della montagna! - dicevano i guerrieri. - Ha tentato di
umiliare, nei pronipoti loro, i domatori della superbia di Nemrod. Ella invidia le recenti palme ai
vincitori di Masciag, ai generosi custodi della pianura, contro le irruzioni dei predatori Turrani!
- Ella odia la gente nostra; - soggiungevano i cantori; - ella ha ucciso Sandi, il soave garzone,
il signore dei carmi, amico e fratello del re.
In quella che così parlavano essi, cercando d'indovinare il messaggio imminente, comparve
il babilonese nella sala del trono. Indossava il candi, tunica rossa, frangiata d'oro sui lembi, che gli
scendeva ben oltre il ginocchio, e sovr'essa il sàrapo, camiciotto di lana bianca, dalle corte maniche,
le quali lasciavano scorgere le braccia ignude e i polsi cinti d'armille d'oro. Le gambe apparivano
chiuse ne' saraballi, o schinieri di cuoio, fin sulla noce del piede, dove, sul fondo rosso della calza di
lana, salivano i correggiuoli incrociati dei sandali, le cui suola si raffermavano alla pianta, la mercè
d'un anello rigirato sul pollice. Costui era per fermo uno dei primarii uffiziali di Babilonia, e ben lo
dimostravano il balteo lucente, la guaina leggiadramente lavorata e la tiara biancodorata, i cui lembi,
chiusi a soggolo, scendevano a coprirgli le guance ed il mento.
Due guerrieri, armati di tutto punto, seguivano l'ambasciatore. Uno di essi recava tra le mani
una spada senza guaina; l'altro un giavellotto dalla punta aguzza e lucente.
Ara, poichè il messaggiero gli fu venuto davanti, ravvisò tosto in lui quel medesimo uffìziale
che con larga mano di cavalieri babilonesi gli era uscito incontro, per servirgli di scorta alle mura
della capitale di Nemrod. Che voleva dir ciò? Era egli caso, o meditata ironia?
Seduto sopra il suo trono, che era tutto coperto di negre pelli foderate di porpora, vestito a
bruno egli stesso, senz'auro segno di regio fasto che la sua benda di perle intorno alle tempio, grave
nell'aspetto come si conveniva all'attesa d'un grave personaggio, stette Ara guardando l'inviato di
Semiramide.
Il babilonese s'inchinò profondamente, raccogliendo le braccia sul petto, indi così prese a
parlare:
- Re degli Armeni, vivi in perpetuo!
- Grazie a te, messaggero! - rispose Ara, con piglio cortese. - Chi ti manda alla reggia dei
figli d'Aìco?
- La gran Semiramide, cui Nebo protegge, a cui Belo ha concessa la vittoria della spada e
l'impero dello scettro sui potenti della terra.
- Che gli Dei le concedano lunghi giorni di vita. E che chiede essa da noi?
- Ragione della tua fuga; - rispose lo inviato. - Sceso in Babilonia a portarle tributo, accolto
nella sua reggia con animo e pompa veramente ospitali, perchè sei tu uscito dalla città e dal reame,
celatamente, a guisa di ladrone, e senza pur render grazie alla regina delle oneste accoglienze?
- Altero parli, - disse a lui di rimando il re, trattenendosi a stento, - più assai che a me non si
convenga di udire.
- Così m'è stato ingiunto, - notò il babilonese, inchinandosi. - Pel mio labbro ti parla
Semiramide, non io, oscuro soldato che la possente regina degli Accad ha scelto ad interpetre de'
suoi alti comandi.
- Sta bene; - soggiunse Ara concentrato. - E a donna non risponderò io come la giusta ira
consiglia. Nè tutto dirò io ciò che penso; bada bene, non tutto! Ciò dunque rispondi alla signora
degli Accad: il re d'Armenia non esser fuggito dalla sua presenza, bensì liberamente partito, come
principe che aveva compiuto il debito suo. Più non aggiungo; nè mi dorrà che sembri scortese atto a'
suoi popoli, ciò ch'ella intenderà, se ben guarda, essere stato umano consiglio nel suo ospite d'un
giorno. Ora, che altro mi dice ella per le tue labbra?
- Tu hai niegato il saluto al figlio di lei, nel quale t'abbattesti per via, fuor delle case di
Lahiru; hai usato villania al principe Ninia, all'erede del trono di Nemrod, al futuro signore di tutte
le genti, dimenticando che la montagna, come la pianura, è soggetta all'impero degli Accad.
- Ah, non sarà! - interruppe Ara, dando un sobbalzo, a quelle parole dell'inviato. - Regnino
costoro su monti e piani, donde sorge e dove tramonta il sole; a me non si spetta di contenderlo. Ben
so che i gioghi dell'Ararat sono e dureranno vergini di loro conquista, fino a tanto cingerà spada il
figlio di Aràmo.
- Tu dunque nieghi ai re di Babilonia il tributo? - chiese il messaggero. - E non lo avevi tu
recato pur dianzi?
- Libero presente fu quello, e pegno di amicizia, tributo non già! - rispose Ara sollecito.-
Rammenti tu le mie parole, alle porte di Babilù? "Nemici da prima e più e più volte alle prese,
furono i padri nostri coi re della vasta pianura; amici noi, se tali ci accolgono: vassalli non mai!"
- Non farò contesa di vane parole con te: - disse freddamente il messaggero. - Sia pure libero
presente, e pegno d'amicizia, come giova all'orgoglio aicano di chiamarlo; ma proseguirai tu a darlo
in futuro?
- Il futuro è in grembo di Zervane Acherene! - rispose il re, con accento di mal frenata im-
pazienza. - Chi può dire oggi ciò che domani avverrà?
- Esso non è dunque nella tua mente? - incalzò il babilonese. - Non nella fede giurata?
- Giurata! Quando? e da chi? - proruppe il re, con voce tonante. - Bada a te, messaggero; la
menzogna è sul tuo labbro, e chi t'ha detto avere gli Aicani giurato un patto di servitù, ha mentito al
cospetto dei cieli. Ma, poichè egli bisogna dir tutto, - proseguì Ara, tornando, sebbene a fatica, in sè
stesso, e piegando la voce ad accento di sottile ironia, - dimmi ancora: se io pure ti rispondessi che
l'Armenia seguiterà a pagare, come voi lo chiamate, un tributo, basterebbe ciò alla regina degli
Accad?
- No, difatti.... - rispose quell'altro, - non basterebbe.
- Ah, - esclamò Ara sorridendo amaramente. - E che altro si vuole?
- Che tu abbia a tornare, scortato da noi....
- In Babilonia?
- No; al campo della regina, che è di presente in Assur, nel paese di Nahiri. Colà, al cospetto
di tutti i popoli che seguono in armi la possente regina, tu giurerai fedeltà al trono degli Accad, e
quindi, tu e i successori tuoi, sarete prosciolti da ogni tributo. Semiramide è generosa, non avida di
ricchezze pel tesoro di Babilu. Spesso ella dona in un giorno, ciò che dieci provincie potrebbero
darle in un anno. Tu vedi, o re, da ciò che ella chiede, come non la muova cupidigia o mal animo
contro le genti d'Armenia.
- Grande è Semiramide! - notò con piglio sarcastico il re. - Se ella mi avesse chiesto cosa che
tornasse a danno del mio popolo, avrei recisamente negato. Ella chiede in quella vece la mia
umiliazione. E a ciò forse potrò io inchinarmi; - aggiunse, dopo essere stato alquanto sopra di sè. -
Ma che ne pensano coloro che m'hanno riconosciuto pel loro signore? coloro che da me s'aspettano
diportamenti degni del nome aicano? A voi, grandi del reame, e governatori delle città, il solenne
giudizio! Rispondete liberamente al messaggero, e come l'utile del popol nostro consiglia. Debbo io
andarne al campo di Assur?
- Pronipote di Aìco, - disse gravemente Vasdag, principe di Tarbazu, che è sulle rive
dell'Eusino, - tu non puoi giungere a mezzogiorno più oltre del campo di Aiotzor e della valle
memorata di Kerezmane.
- Colà, - aggiunse un altro, e tutti i presenti assentirono, - dee piantarsi il tuo stendardo di
guerra.
- Tu li odi? - chiese Ara al messaggero babilonese.
- Ho udito; - rispose quegli, con atto di commiato. - Semiramide prevedeva una simigliante
risposta, e dal campo di Assur vi annunzia i suoi alti disegni. Ella stessa verrà ben più oltre di
Kerezrnanc; verrà in Armavir e in quante città novera il reame dei figli d'Aìco.
- Come ospite? - chiese nobilmente Ara, alzandosi in piedi, poichè la conferenza accennava
al suo termine.
- Come vincitrice! - disse quell'altro, con accento di minaccia.
E trattosi indietro, tolse dalle mani dei due guerrieri il giavellotto e la spada, che gittò poscia
solennemente ai piedi del trono.
- Conservate questi segni di guerra; - soggiunse il messaggero babilonese. - Semiramide
verrà col suo esercito a raccoglierli nel sangue vostro; e li consacrerà alla memoria di Bel Nemrod,
su quella rocca di cui veggo sorgere i fianchi dirupati dalle acque del lago.
- Se non li riporteremo noi prima al campo di Assur! - disse Valdag, alzando la spada e il
giavellotto da terra.
- O in Babilonia! - aggiunse un altro, tra le grida dei consenzienti compagni.
- Tacete! - gridò il re. - Non s'addice ai prodi essere vantatori. Va, messaggero, al campo di
Assur, e reca alla tua grande signora che i figli d'Aìco, fidenti nell'armi loro e nella giustizia dei
Numi, attenderanno di piè fermo l'assalto. -
CAPITOLO XIV.
IL PELLEGRINO.
Era alta la notte, e migliaia di fuochi, contendendo lo splendore agli astri del firmamento az-
zurro, brillavano sulle colline di Aiotzor, ultimi contrafforti dei monti d'Armenia. Colà, presso le
sorgenti dell'Eufrate, vigilava l'esercito d'Ara, a custodia, delle sue terre natali. Colà, diffatti, era a
temersi l'assalto: per quelle strette erano sempre venuti, risalendo il corso d'un gran fiume, i nemici
della indipendenza d'Armenia; su quelle rupi s'erano sempre inerpicati i guerrieri della pianura, a
molestare il nido dell'aquile aicane.
Il grande altipiano che si innalza ad un tratto dalla contrada di Nahiri e da maestro vien
digradando con dolce declivio fino alle pianure che lo separano dalle catene del Caucaso, ecco
l'Armenia, detta negli antichissimi tempi Aiasdan, o vero sia il paese di Aìco. Imperocchè questo fu
il progenitore della nobilissima schiatta, e da lui doveva essa aver nome ed auspicii.
L'altipiano è intersecato da catene parallele di alte montagne, e da più umili colli di dolce
pendio. Le valli interchiuse sono in parte strette e solitarie vallicelle, in parte larghe e fertili pianure,
come quella, ad esempio, cui bagna col suo rapido corso l'Arasse. Una cosiffatta configurazione di
terreno mal consentiva lo stabilimento di un forte governo centrale, che signoreggiasse l'intiera
contrada, e più s'acconciava alla libera vita di indipendenti tribù, forti a guerreggiarsi tra loro, deboli
al cospetto di un possente vicino che le assalisse alla spartita.
E i dominatori della pianura avevano sempre avuto una ragione particolare a tentar simili
assalti, essendo che i corsi superiori dell'Eufrate e del Tigri giacevano entro le montagne d'Armenia.
Le quali, per contro, correndo da oriente a occidente, presentano il loro più rapido pendio dalla parte
di mezzogiorno, contrariamente alle catene dello Zagro, le quali, rivolte a levante, declinano
dolcemente verso la valle del Tigri. Donde avviene che mentre lo Zagro invita gli abitanti della
pianura a tentare i suoi alpestri recessi, facili da principio, indi di mano in mano più orridi e
malagevoli, i monti dell'Armenia li respingono, con presentar subito le maggiori difficoltà e ad un
tempo il più squallido aspetto, e coi fianchi rocciosi e le cime nevose appaiono insuperabile osta-
colo ad un esercito invasore. Per altro, e appunto perchè chiudevano nei fianchi loro le sorgenti dei
due grandi fiumi del Sennaar, i monti occidentali offerivano la via più accettevole agli assalitori del
piano.
Per colà, dunque, avevano ad inoltrarsi le schiere degli Accad. A quelle strette accennava
chiaramente l'esser eglino venuti ad oste in Assur, nella contrada di Nahiri. Già parecchi giorni eran
corsi dalla intimazione di guerra; già si era al principio del mese di Garmapada, che i Babilonesi
chiamano Tana, o mese del fuoco, e l'esercito aicano, già preparato agli eventi, era venuto a
chiudere i passi dell'alto Eufrate, lunghesso i poggi e le gole di Aiotzor.
Centomila uomini avevano risposto alla chiamata del re. Nessuno dei validi guerrieri era ri-
masto negli ozii imbelli delle pareti domestiche. Le tribù tutte quante aveano mandato il fiore dei
loro combattenti. La regale Armavir e la sacra Peznuni, Tarbazu marinara e Masciag educatrice di
cavalli, le tre grandi provincie del paese, cioè a dire la montuosa Urarti, la fluviale Adduri e la
lacustre Mildis, con nobil gara aveano dato di piglio all'armi. E sugli ultimi lembi della catena
dell'Amano e di quella dell'Arzanìa, che si raccostano da occidente e da oriente intorno alle non
lontane sorgenti dell'Eufrate e del Tigri, erano venuti a metter campo i guerrieri. Sukkia, Laiuknu,
Cartar, Izirtu, piccole città più vicine alla stretta dove occorrean le difese, erano dense d'armati.
Sarda e Zikartu, provincie che guardano il mare del sole oriente, avevano dato i più destri arcadori;
dalle ampie valli dell'Arasse, generoso largitore di messi, eran giunti a torme i più baldi cavalieri; i
cittadini d'Armavir, portatori di gravi loriche e di mazze ferrate, i montanari di Urarti, vestiti dal
capo alle piante di vellose pelli, e sicuri lanciatori di giavellotti, i valligiani dell'Oronte, fiondatori
valenti, erano accorsi ad ingrossare le file, tutti frementi amor di patria, ed ira gagliarda contro gli
audaci invasori.
Saviamente distribuiti da Vasdag, il principe di Tarbazu, esperto condottiero, già amico di
Aràmo e suo compagno nell'armi, vigilavano essi a difesa del confine. Il grosso dei cavalieri si
raccoglieva nelle città e borgate, pronto ad accorrere dove più bisognasse; il nerbo dei fanti si
addensava nelle gole e agli sbocchi delle vallate; numerosi drappelli d'arcieri accampavano sui
greppi e lungo le digradanti costiere; fanti e cavalli vigilavano sui poggi avanzati e nelle forre;
esploratori, scelti tra i più animosi e sagaci, s'inoltravano per l'ombre notturne, fino ai primi paeselli
della sottostante pianura.
Di là, si è già detto, bisognava ai nemici farsi strada alle alture. Era stato quello il cammino
seguito anticamente dalle schiere di Nemrod; quello doveva essere altresì il cammino dell'armi di
Semiramide. Per mezzo a quei monti scorreva l'Eufrate, ancora povero d'acque, ma più impetuoso
per contro, chiuso com'era in più modesti confini. Più giù, a mezzogiorno, seguivano collinette e
rialti, biancheggianti al mite chiaror della luna, tra i quali si andava svolgendo in lunga e tortuosa
striscia luccicante il gran fiume, per confondersi più oltre coi lembi estremi della pianura, involta in
una nebbia sottile e d'incerto colore. Quella ròcca, che si scorgeva lontan lontano sull'orizzonte, era
Assur, forte castello edificato dai figli di Sem, già padroni della terra di Sennaar, indi cacciati a
settentrione dai feroci conquistatori della progenie di Cus.
E laggiù, in mezzo ai popoli signoreggiati, la cui alterezza doveva rifarsi più tardi degli
oltraggi patiti, e da Ninive cresciuta in possanza offuscare le cadenti fortune di Babilonia, laggiù
ingrossavano da parecchi giorni le schiere che gli ultimi Cussiti aveano raccolte da tutte le più
lontane provincie del loro vastissimo impero; attendevano laggiù, numerose come le arene del mare,
minacciando da presso i liberi monti d'Armenia. Non si scorgevano i fuochi delle innumeri schiere;
ma non le sentivano men vicine per ciò gli arcadori di Zikartu, che stavano a guardia dei contrafforti
dell'Amano, sulla collina di Lukdi.
Ora, mentre essi stavano vigilando, ultime scolte dell'esercito aicano, e specolando
all'intorno la biancheggiante pianura, diè loro negli occhi un uomo che uscito da una macchia
d'arbusti, a lenti passi procedeva per un sentieruolo alle falde del poggio. Veniva egli guardingo,
come chi sappia d'essere in luogo pieno d'agguati e tema di abbattersi in qualche drappello
d'esploratori; per altro, non aveva seguitato a rasentare la macchia, la cui ombra ancora per lungo
tratto di strada avrebbe potuto nasconderlo.
Chi era egli? Troppo misurato negli atti. non era certo un guerriero dei loro; nè tanto guar-
dingo, da parere uno spione degli inimici. Avvicinandosi sempre più lo sconosciuto, videro ancora
com'egli fosse inerme, e si giovasse di un lungo bastone ricurvo, alla guisa dei pellegrini, che
correvano mendicando di paese in paese, per andare a sciogliere il voto a qualche tempio celebrato e
lontano. Diffatti, egli indossava una tunica modesta che scendeva poco oltre il ginocchio; e certo a
chi l'avesse veduto più da vicino, sarebbe apparsa lacera e rattoppata di brandelli d'ogni colore.
L'arnese che gli biancheggiava sul capo, doveva esser la fascia rigirata intorno alle tempie, portata
dai nomadi pastori del deserto, a custodir la cervice dai cocenti raggi del sole; quell'altro che gli
faceva ingombro sugli òmeri, anzi che un mantello, doveva esser una di quelle bisacce, nelle quali i
pellegrini sogliono portare lo scarso viatico accattato dalla umanità dei borghigiani, che loro hanno
profferto l'ospizio.
Sì, forse egli apparteneva a quella classe d'innocui viandanti; ma non poteva esser egli un
nemico, che, più audace degli altri, s'inoltrasse nel campo loro, argomentandosi d'ingannarli, con la
umiltà delle spoglie? Arte degli esploratori era questa; ma nel caso presente assai poco sagace,
dappoichè nei dintorni non era tempio, o santuario, che potesse ragionevolmente attirare i viandanti
divoti. Tre giornate ancora egli avrebbe dovuto far di cammino, prima di giungere al tempio di
Anaiti, in Urfa, che era il più vicino di quei luoghi; ma neppur quella, che il viandante seguiva, era
la strada, bensì ad occidente, e più verso i piani di Assur, che non verso le alture di Lukdi.
Così pensando, gli arcieri fecero quello che ogni prudente soldato avrebbe fatto in tal caso.
Due di loro si dilungarono dal manipolo e si calarono per una insenatura del terreno da un lato; altri
due fecero il somigliante dalla parte opposta, e venendosi incontro sulle falde del poggio, furono
addosso al viandante con le spade sguainate.
Gli atti dello sconosciuto, all'improvviso apparir dei soldati, mostrarono come non fosse
mestieri di tanta minaccia. Dato un passo indietro, più assai per prudenza che non per repentino
sgomento, egli alzò placidamente il capo e disse agli arcieri:
- Sia sempre con voi la vittoria. Che volete da un povero pellegrino?
- Che chiedi tu piuttosto, in quest'ora notturna, - dissero a lui di rimando gli arcieri, - inol-
trandoti in mezzo alle prime scòlte del campo aicano? Chi sei?
- Ve l'ho detto; un pellegrino.
- Ah sì! - esclamarono gli altri, con piglio sarcastico. - E dinne; a qual santuario erano volti i
tuoi passi?
- A quel di Peznuni, se non vi spiace, - rispose lo sconosciuto; - ma non senza aver fatto da
prima una sosta alle tende di Aiotzor. -
Queste ultime parole soggiunse egli sorridendo, con un fil d'ironia, che pareva una rivinta sui
loro sarcasmi.
- E tu ardisci confessarlo! - gridarono allora gli arcieri. - Ma sai tu che cosa si spetti ai pel-
legrini della tua sorte?
- No, in verità, io non lo so; - diss'egli con accento di candore.
- Odilo dunque; si cavano loro gli occhi che hanno voluto veder troppo, si mozzano loro i
piedi che hanno tentato di farsi troppo oltre, e con le mani legate dietro le spalle a guisa di vili
malfattori, si lasciano sui campi, alla sferza del sole, in pascolo agl'insetti, agli sciacalli, agli uccelli
di rapina.
- Questa è giustizia per gli spioni, - rispose lo sconosciuto, senza punto mostrarsi turbato; -
ma io non sono uno spione, e nemmeno, a dir vero, un pellegrino dei soliti... quantunque, per
giunger fin qua, io abbia dovuto mentirne le spoglie.
- La tua schiettezza si piglia giuoco di noi! - gridarono stizziti gli arcieri. - Ma il tuo caso è
grave; non vieni tu dal campo di Assur?
- Per l'appunto.
- Sta bene, e noi ti condurremo in vista delle tende di Aiotzor, dove egli ha da esser domani
un mal giorno per te.
- Sì, conducetemi pure laggiù; - ripigliò il pellegrino. - Non vi ho io detto che quella era la
meta del mio viaggio? Ara il bello, che i santi Numi proteggono, sperderà i vostri negri pronostici.
- Bada! - notarono gli arcieri, in quella che, postolo in mezzo, lo conducevano per l'erta. -
Non vede il re chi vuole.
- E che? Non vive egli in mezzo a' suoi guerrieri? Non partecipa egli ai disagi del campo?
- Sì, così vive Ara il bello; ma gli stranieri non hanno a vederlo che per mezzo allo sfolgorar
delle spade. E se tu hai messaggi pel re, come di certo inventerai, per destreggiarti e causare la
croce, esci di inganno, tu non giungerai fino al re. Le gravi cose che ti girano per la fantasia, le dirai
a più umile orecchio, al capitano degli arcieri di Zikartu.
- Ah, nulla a lui; tutto al re! - disse lo sconosciuto, con accento tranquillo. - Ma via; troppo
abbiam ragionato di ciò; vediamo ora il vostro capitano, che certo sarà più umano di voi.-
La placida serenità del pellegrino cominciava ad impacciare i soldati. Essi perciò non rispo-
sero verbo; e borbottando, quasi a scarico di coscienza, confuse minacce tra' denti, si avviarono con
lui alla tenda del capitano.
Il mite raggio di Sin gli illuminava in quel mezzo la fronte e la persona vestita di umili lane.
Per fermo egli era innanzi cogli anni, ma nol facevano parere tant'oltre il portamento eretto e la
carnagione olivigna, che conferiva alle fattezze sue regolari e robuste alcun che della lucida
rigidezza del bronzo. Lunghi, ma radi, i peli del mento; povero l'arco delle soppracciglia; donde
avevano più lume i grandi occhi neri di smalto, dei quali ei si studiava dissimular la vivezza,
tenendo, quanto più gli veniva fatto, socchiuse le palpebre. Non era un pellegrino mendico, lo aveva
confessato egli stesso pur dianzi; ma certo molte altre cose egli celava di sè.
Giunto alla tenda del capitano, espose in breve ciò che già aveva detto agli arcieri; non esser
egli ciò che il suo aspetto mostrava, ma neppure un esploratore nemico; gravi cose recava, e non
poteva dirlo che al re, lo conducessero a questi, che, se mentitore, lo avrebbe mandato a morte
senz'altro. La sicurezza dei suoi modi e l'accennar che faceva ad alti segreti, poterono sull'animo del
capitano più della naturale diffidenza. Laonde, comandato che gli bendassero gli occhi lo fece
montare a cavallo e con buona scorta de' suoi uomini su per la via del fiume, condurre all'accampa-
mento del re.
Già sorgeva l'aurora, tingendo di ròsea luce le nevi eterne dei monti, allorquando l'infinito
pellegrino giunse guidato da' suoi custodi, in mezzo alle colline di Ajotzor. Era tutto intorno un gaio
spettacolo di tende d'ogni forma e colore, di cavalli condotti ad abbeverarsi nel fiume, di guerrieri in
moto, di bagaglioni o di servi intenti alle cure del campo, di scudieri che forbivano armature, di
trombettieri che davano allegramente nelle lor trombe di rame.
La tenda del re, sormontata da un'asta al cui sommo sventola una lunga e sottile striscia di
porpora, era sul poggio più eminente della convalle La cavalcata mosse a quella volta, e come fu
giunta alla meta, si calò d'arcione il pellegrino e gli fu tolta la benda dagli occhi.
Parecchi ufficiali del re stavano a crocchio davanti alla tenda. Uno di costoro, alla vista del
nuovo venuto, impallidì, torse lo sguardo e si allontanò chetamente. Era egli Bired, lo scudiero, il
fedel servo del re.
Il pellegrino non pose mente a cotesto, abbagliato com'era da tutto quel tramestio d'armi e
d'armati, e sovra pensiero per l'imminente sua introduzione al cospetto di Ara. Diffatti, a mala pena
gli uomini della scorta, ebbero detta agli ufficiali la cagione della loro venuta, uno di costoro entrò
nella tenda, e tornò poco stante, annunziando al pellegrino che il re consentiva a vederlo.
Ara il bello! ahi quanto mutato da quel di prima! Il dolore aveva sfiorata la morbida guancia;
l'interno struggimento gli si leggeva nella fronte corrugata e nel torbido lume degli occhi.
Vide egli il pellegrino o n'ebbe un soprassalto al cuore. Tosto congedò Vasdag, il savio
principe di Tarbazu, che era presso di lui, e accostatosi al nuovo venuto, con voce sommessa ma con
accento concitato, gli disse:
- Santo vegliardo, tu qui?
- Io, sì; - rispose il pellegrino; - ed ho posta a repentaglio la vita, per giungere fino a te,
recarti una nuova e darti un consiglio.
- Parla! - disse a lui di rimando il re.- Ciò che viene dallo tue labbra è triste, ma vero. E se gli
è un altro dolore che tu mi rechi, sii ringraziato del pari. -
Profferite queste parole, con accento malinconico, ma con piglio veramente regale, Ara,
additò al vecchio uno sgabello vicino al suo, invitandolo a riposarsi. Il vecchio gli volse uno
sguardo lungo od intenso, donde trasparivano insieme affetto e tristezza, fors'anche rimorso; indi,
ubbidiente, s'assise.
- Necessario è talvolta recar dolore altrui; - rispose egli poscia. - Non siamo noi sempre
arbitri degli atti nostri e delle nostre parole; gli Iddii ci guidano il braccio e c'inspirano il labbro,
quando a sanare, quando a ferire. Fu voler loro che per noi ti apparisse la dolorosa verità; io stesso,
umile strumento in mano dei santi Numi, fui primo a sentirne rammarico. Odimi ora; ciò che m'era
dato di fare per utile tuo, la mia presenza tel dica. Lieta novella io ti porto. La superba donna che ha
posto le sue tende in Assur, pronta a rovesciare su te l'impeto delle sue fortissime schiere, sta per
vedere domato il suo orgoglio feroce.
- Che dici tu mai?
- Ier l'altro, - ripigliò gravemente il vecchio, - ier l'altro, sesto giorno del mese di Tana, detto
da voi Garmapada, la rivolta è scoppiata in Babilonia. Oggi, forse, tutto il paese di Sennaar ha già
innalzato lo stendardo della ribellione, il trionfo delle nazioni soggetto è vicino.
- Ma come?- dimandò il re d'Armonia, che quell'annunzio inaspettato riempiva di stupore.
- A Babilonia, - rispose il vecchio, - spiacque l'intimazione d'una guerra, che tutti sapevano
cagionata da un corruccio di donna; d'una guerra che gli antichi esempi fanno temer disastrosa. La
sconfitta o la morte di Nemrod erano presenti all'animo di tutti; nè si dimenticava che, or fanno
pochi anni, lo stesso Nino, il marito o re di costei, sebbene covasse in cuor suo la vendetta e
meditasse di sterminare fino all'ultimo rampollo la progenie d'Aìco, avea dovuto divorar la sua
rabbia, dissimulare l'impotenza sua con amorevoli messaggi e liberali concessioni ad Aràmo, al tuo
gran genitore. Conservi Aràmo la sua potenza tranquillo, dicevano i messaggi; abbia egli diritto di
portare la benda di perle e sia secondo dopo di noi. Così, sebbene potentissimo, temeva Nino di
cimentarsi all'impresa. E, lui morto, ardisce la vedova sua romper guerra agli Armeni? Nemica del
suo popolo è costei, non madre, se, per far vendetta sopra un amato garzone, non dubita, di
immolare le più nobili vite di una contrada, cui ella, al postutto, è straniera. Così il popolo di Ba-
bilonia, poichè ella fu uscita dalle porte; così ingrossarono l'ire, così crebbero facilmente a tempesta.
Indegna del trono fu dichiarata costei dai maggiori della città; indegna la gridarono i sacerdoti di
Belo, dal sommo della gran torre di Barsipa. E là, nel tempio del Dio, plaudente il popolo ed auspice
il presidio, Ninia fu consacrato re su tutta la gente degli Accad.
- E in qual guisa t'è noto? - gridò Ara confuso.
- Come può l'annunzio aver fatto in così breve tempo dodici giornate di cammino?
- Tutto è noto ai veggenti; - sentenziò il vecchio con accento solenne; - e sei tu che lo ignori?
Ma via; - soggiunse tosto, notando il rispettoso acquetarsi del re; - qui non è niente di sovrumano.
Tutto era già concertato tra i grandi, e, a mala pena la rivolta scoppiò, un lungo ordine di fuochi
accesi di colle in colle ne ha mandalo il rapido annunzio fino alla rocca di Assur.
- Ingegno profondo! - esclamò Ara ammirato. - Ed ella ignora tuttavia?...
- Sì, tutto ignora; - rispose il vecchio. - Fuochi d'allegrezza le parvero, o di sacrifizio offerto
sulle alte vette ai celesti; ed erano in quella vece gli annunzi della sua imminente rovina. Il triste
evento non le sarà noto che tra dodici giorni.... quanti bastano a rafforzare le nascenti fortune di
Ninia. Per lui è il popolo delle quattro favelle; per lui i sacerdoti degli astri deificati, che si adorano
nella terra di Sennaar; per lui i governatori delle provincie.
- Ma, dimentichi tu il possente esercito che ella ha raccolto in Assur? - chiese il re crollando
malinconicamente il capo.- I miei esploratori, tornati ieri da diversi punti dalla vasta pianura, hanno
potuto noverare cinquanta miriadi d'armati.
- Forse; - soggiunse prontamente il vecchio; - ma di gente raccogliticcia o la più parte mal
fida. Credi tu che s'abbia a fare grande assegnamento su popoli, ieri nemici, oggi domati coll'armi?
Credi tu, ad esempio, che i Medi, i nobili Medi, combatteranno volentieri per lei? Bakdi già tanto
felice, Bakdi con l'alta bandiera, come i suoi sacri cantori la van celebrando, centro e guida a tutti i
figli dell'Iran, morde sdegnosa il freno della servitù....
- Ma Zerduste, il suo principe, non è egli ospite in Babilonia? Non è egli tra i grandi del
reame, maestro e custode di Ninia? La regina non lo pregia o nol venera, siccome è fama, tra tutti i
consiglieri del trono?
- Troppo lo venera; - notò sarcasticamente il vecchio; - o meglio sarebbe stato per lei averlo
ricambiato d'amore.
- Ah! - gridò il re, a cui quelle parole erano spina acutissima. - Ed egli pure, il principe di
Bakdi, amò la regina?
- La maliarda è divinamente bella, e molti son caduti a' suoi piedi. Egli, per altro, men
fortunato di tanti; nè ciò avrà giovato a rendere i Medi più amanti del giogo.
- Intendo; - disse Ara.- Ed era Zerduste il savio dal fiore di amomo?
- No, - rispose quell'altro, con accento breve, se non per avventura molto sicuro. - Bene è
egli fautore della rivolta, insieme col vecchio Sumàti, che ti sta innanzi, nato sull'Indo, alle cui rive
la superba s'attentò di spingere il suo cavallo di guerra. Noi l'anima della congiura contro un potere
che minaccia d'invader la terra, e di assoggettarne ogni libero popolo; e tu ne sei il braccio
gagliardo, o re d'Armenia, a cui ella si sforza di togliere il regno e l'onore.
- Oh, mi toglierà la vita, - interruppe Ara, - e sarà il meglio per me.
- No, tu dèi vivere e vincere. Ora, tu vincerai, re d'Armenia, se avrai prudenza pari al valore.
- Ah sì, rammento che insieme con un lieto annunzio tu mi rechi un consiglio. Udiamo il
consiglio, - soggiunse Ara, con voce impressa di profonda mestizia, - e se potrà tornar utile alla
gente aicàna, grazie a te dal profondo del cuore!
- Tu stesso giudicherai, - disse Sumàti, - se il consiglio sia utile, com'io penso, al tuo popolo e a te.
Esso ti è porto in nome della lega giurata ai danni della stirpe di Nemrod; ma te lo reca altresì un uomo, che,
vedendoti prode, generoso e fedele alla santa amicizia, ha preso ad amarti d'un amore paterno. Forse egli
non opera sagacemente in cotesto. I sapienti che si travagliano per vie segrete al trionfo del vero, non
dovrebbero soffermarsi mai sul fatale cammino, nè dissipare la forza loro in pietose cure ed affetti vani, sic-
come è lecito alla comune degli uomini. Ma così avvenne di me; la mia tempra non è così forte, da can-
cellare nell'animo i più teneri sensi. E t'amo come un figlio, ti venero come il più nobile, ti ammiro come il
più valoroso tra i re. Degli uffizi a ciascheduno assegnati, io mi elessi quello d'invigilar Semiramide. Era il
più umile e il più pericoloso; quello degli altri ha più fortuna e più gloria. E lo elessi per farmi più vicino a
te, generoso Aicàno, per dimostrarti l'affetto mio, per salvar te in questa grande rovina. Mi crederai tu
veritiero?
- Ti credo! - rispose Ara, mettendo le sue mani in quelle del vecchio.
- Accogli dunque ora il consiglio. L'esercito di Semiramide è forte per numero. Dove lo
attenderai tu?
- Qui, sulle colline di Ajotzor, dove il gran progenitore della mia stirpe sgominò le forze di
Nemrod.
- Troppo è vicino il luogo al passo di Lukdi. E non temi che, mentre sarà impegnata la
mischia, nuove schiere possano giungere in breve ora dal piano?
- Vengano; alla spartita le affronteremo. Oltre a quaranta migliaia di nemici non possono
liberamente muoversi in questa valle che noi difendiamo.
- Intendo; ma pensi tu ai danni d'una prima o grossa battaglia perduta?
- In pugno di Zervane è il destino.
- Sì, ma Zervane dà la vittoria ai prudenti. Montuosa contrada è l'Armenia, e ad ogni piè
sospinto t'è dato di avere una nuova Ajotzor. Non potrai tu tirar dentro il nemico, costringerlo a
chiudersi, a frastagliarsi in queste convalli, temporeggiare, molestarlo dai greppi, predare lo sue
salmerie, riunirlo insomma, e attenderlo poscia, stremato di forze, di là dal salso lago di Van, presso
la tua munita Armavir? E pensa che neppure ti bisognerebbe giungere a quest'ultima prova; impe-
rocchè tra pochi giorni Semiramide udrà l'annunzio della rivolta scoppiata in Babilonia e in pari
tempo le verranno meno le vettovaglie bisognevoli a sfamare un così numeroso esercito. Ella in
paese nemico, e intorno a lei spopolato, col malcontento e la costernazione tra' suoi, si vedrà
costretta a rifar la sua via. E tu allora a piombarle sopra improvviso, da qual parte ti piaccia, o far
pace onorevole.
- Buono è il consiglio; - disse Ara, dopo alcuni istanti di pausa. - Ma pace io non spero, nè
fuggire saprei. Il tuo disegno fu già nella mente di Vasdag, il savio principe di Tarbazu, che è il
primo de' miei consiglieri; ma egli stesso ne ha abbandonato il pensiero.
- Egli non poteva sapere della rivolta di Babilonia; - entrò sollecito a dire Sumàti;- e questo
evento....
- Sì, intendo ciò che vuoi dirmi; - interruppe il re; - ma questo luogo è fatale. I sacri platani
di Peznuni hanno dato il responso, « È in Ajotzor la tomba dei Babilonesi. »
- Ambigui troppo, gli oracoli! - notò brevemente Sumàti.
- Non credi tu che in essi parlino i Numi? - chiese Ara con accento di sicurezza.
Sumàti chinò la fronte, pensoso.
- Io credo, - rispose, - che nella mente del savio sia il più venerabil tempio e il più certo
oracolo di Dio.
- Chi può dire: io sono il savio tra tutti? - ripigliò Ara, crollando mestamente il capo. -
Comunque sia, grazie a te dell'amorevole consiglio; ma vedi, oramai la sorte è gittata. Non è egli
forse già troppo aver condotto l'Armenia a questo cimento per me? Il meglio è di finirla in un
giorno. Qui pugneremo da valorosi; qui morremo, quando non sia possibile il vincere. Vivo ella non
m'avrà in sua balìa; m'intendi tu? - proseguì il giovine con accento di sicurezza profonda. - Io l'ho
giurato all'ombra amata di Sandi, del dolce amico di cui m'è viva qui la presenza in ogni cosa che io
miro, più ancora che non mi fosse chiaro l'aspetto in quella notte orribile, donde hanno principio i
miei mali. Ben poco invero io darò in preda alla morte! Non m'ha già ella ucciso, spegnendo nel mio
cuore la fede? O padre! la mia, vita è un tormento, un'atroce agonia dello spirito. Mi ami, hai detto?
Orbene, così m'avresti tu amato del pari, nelle tenebre paurose del sotterraneo, chè m'avresti usato
misericordia laggiù, dandomi d'un pugnale nel cuore, innanzi ch'io varcassi la soglia di bronzo! -
Sumàti reclinò la testa sul petto e stette a lungo sopra di sè, corrugate le ciglia e gli sguardi
atterrati. Quello che gli facea così grave la fronte era un acerbo rimorso. Tutta egli avea misurata, in
quello sfogo dell'ambascia di Ara, la profondità della ferita che egli aveva aiutato ad aprire. Egli,
cuor di macigno, s'era intenerito alla vista di quel candido garzone, di quell'animo incauto, così
facile, per l'indole sua generosa e fidente, a cader negl'inganni degli ambiziosi e dei tristi.
Commosso da quella grazia e da quella prodezza giovanile, s'era adoperato a salvargli almeno la
vita, e di ciò appunto, senza saperlo, gli faceva, rimprovero quel misero cuore straziato. Lo amava,
oramai; si doleva amaramente di averlo condotto a quel punto, vittima innocente di ambiziosi
disegni, strumento inconsapevole di alte vendette. Iddio ha seminato il rimorso nell'anima del
malvagio, come il filo d'erba nel deserto, come l'amore nella immensa miseria del mondo. Egli è
forse per ciò che non siam tristi, o codardi, del tutto. E tale era Sumàti, che, nella schiettezza del suo
rammarico, avrebbe voluto alzar quella fronte umiliata e parlare al re d'Armenia in tal guisa:
- Tutto ciò che hai udito, tutto ciò che hai veduto, è menzogna. Nulla è vero di Sandi, e tu,
inebbriato da magici filtri, hai creduto di scorgere le sembianze dell'estinto in quel bugiardo aspetto
che la nostra arte perversa ti ha mostro. Come sapessimo noi così minutamente del tuo passato, t'è
oscuro? Ma torna indietro coll'animo, e rammentati. Non hai tu troppo fatto a fidanza coi silenzi
notturni, là, nel sacro bosco di Militta, allorquando, curuccioso di doverti presentare al temuto
cospetto di Semiramide, giuravi fede e rapivi la pace del cuore ad Atossa? E ben altro sapemmo,
ben altro. Non metter tua fede intera negli uomini, o re! I sensi loro, i desiderii, le ambizioni, i
rancori, oggi a te ligii o tacenti per te, si gioveranno della tua fede, si armeranno del tuo segreto
contro di te, solo che un astuto malveggente ti possa infiammare a tuo danno. Bared, il tuo
fedelissimo Bared, fu colto ai lacci d'una tentatrice leggiadra; tutto egli disse, ciò che a noi mettea
conto sapere, per colorirne la fantastica scena che t'è parsa sì vera; e il suo silenzio, la sua
complicità, furono compri dalla paura di aver troppo parlato, assicurati alla lega coll'oro, o più assai
con minaccie di morte. Egli ha taciuto finora, temendo di avere assiduo al suo fianco il punitore;
tacerà, più pauroso ancora, poi che avrà veduto me nel tuo campo. Io solo, dei tre congiurati, mi
mostrai a viso scoperto; io solo, il men noto, ti condussi al tuo alloggiamento fuori il baluardo di
Nivitti Bel. Tu sei vittima, o re, dell'odio di Zerduste, del più possente tra noi, contro il quale in-
tendevano le mie parole a metterti in sull'avviso poc'anzi. Egli, contrariamente all'utile della causa
comune, e non ascoltando che la sua rabbia gelosa, voleva la tua morte; io a fatica ho rattenuta la
sentenza fatale, t'ho salvata la vita. Non basta ancora; io debbo far posare la guerra, ridarti la pace
del cuore. Quella donna è calunniata; ella e tu, siete involti in una rete d'inganni. Uccidimi, o re;
dammi ai più fieri tormenti; ma questa è la voce del vero. -
In tal guisa avrebbe voluto parlare Sumàti La schietta confessione gli turbinava nell'animo,
gli faceva impeto alle labbra. Ma quale vergogna non sarebbe ella, stata per lui! Apparire al cospetto
di Ara un vil mentitore, un artefice di biechi inganni, egli, Sumàti, il discepolo di Manù, l'interprete
dei santissimi Veda! E non c'era egli altro modo di tornar utile al re, senza tanto disdoro? Egli ben
lo cercava, ma in quel suo turbamento non gli venia fatto trovarlo.
E mentre così dubbiava tra rimorso e vergogna, s'affacciò all'ingresso della tenda Vasdag, il
principe di Tarbazu, con aspetto che già di per sè annunziava rilevanti novelle.
L'occasione era fuggita. - É il destino che lo vuole! - aveva detto Sumàti in cuor suo.
- Che rechi di nuovo? - dimandò Ara al vecchio capitano.
- Un cavaliero, - risposo Vasdag, - è giunto or ora da Lukdi...
E si arrestò, guardando Sumàti.
- Parla liberamente; - disse Ara; - questo pellegrino non è di soverchio fra noi.
- E giunto da Lukdi, - ripigliò allora Vasdag. - e porta novelle dell'esercito babilonese, che ha
lasciato il campo di Assur ed è tutto in marcia verso di noi. Le sue ali si stendono all'orizzonte come
i corni d'una luna falcata, e lo schiere in moto appaiono numerose come un nembo di locuste, che si
rovescino a devastare i campi d'una intera contrada.
- Era tempo; - sclamò il re. - E dove accenna il nemico?
- A sforzare col nerbo de' suoi il passo dell'Eufrate, mentre forse una parte, che s'avanza
diffatti sulla riva sinistra del fiume, risalirà alle sorgenti del Tigri. Questa io l'ho per una vana
minaccia; del resto, laggiù son munite le strette e poca gente basterà a trattenere gli audaci.
- Sia bene, - disse Ara. - E che faremo noi ora, o Vasdag?
- Mio signore, - rispose il principe di Tarbazu, - lo ha già detto il tuo senno. Li lasceremo
penetrare in questa valle, dove, coll'aiuto degli Dei, sarà la lor tomba.
- E t'ascoltino gli Dei; - soggiunse il re. - Ma pensiamoci ancora; egli è accorto consiglio
aspettarli qui, o non piuttosto ritirarci più indietro, per modo che non possano così facilmente
rifornirsi di gente fresca, destreggiarci, insomma, rigirarci di greppo in greppo, traccheggiare,
stancar l'inimico o attendere una migliore occasione? Sappi, o Vasdag; Babilonia si è ribellata o con
essa tutta la regione di Sennàar. Quest'uomo che vedi, e nel quale è da riporre gran fede, me ne ha
recata or ora la certa notizia. -
E si fece a narrargli partitamente tutto ciò che sapeva, e ciò che aveva cercato di persuadergli
Sumàti.
Ma il principe di Tarbazu, o fosse religione vera e profonda, o diffidenza dell'ignoto
pellegrino, rispose:
- È tardi oramai. L'oracolo di Peznuni ha parlato, e il tuo esercito, o re, vedrebbe di mal
occhio un mutamento di ordini, che oggi, all'approssimarsi del nemico, avrebbe sembianza di fuga.
- Tu l'odi? - esclamò il re, volgendosi, con piglio grave, a Sumàti.
- E sia! - disse questi rassegnato. - Concedimi, o re, di rimanere al tuo fianco e di far mia la
tua sorte.
- Ma... - disse amorevole il re, - se ti incogliesse sventura? E se troppo noto ai nemici....
- Che importa? - interruppe Sumàti. - Non l'hai tu detto poc'anzi? In pugno di Zervane è il
destino. -
CAPITOLO XV.
IL CANTO DI ABGARO.
La voce dello avvicinarsi dei Babilonesi al passo di Lukdi si era sparsa rapidamente nel
campo aicàno. Il bellicoso popolo aveva salutato l'annunzio con un grido di giubilo.
Il luogo che gli Armeni avevano scelto per aspettare il nemico, era acconcio che nulla più.
Ne conoscevano ogni insenatura ed ogni declivio, ogni sentiero, ogni forra; sapevano da qual parte
celarsi, da quale altra uscir fuori improvvisi; ove i guadi, ove i passi difficili. Quello era inoltre un
luogo consacrato da gloriose memorie. Che più? I platani vocali di Peznuni avevan dato, pochi
giorni addietro, un responso: "È in Ajotzor la tomba dei Babilonesi." E dal labbro dei Sos,
venerandi custodi del sacro recinto, s'era diffuso per ogni dove l'oracolo, argomento di speranza alle
turbe, nuova esca all'amor patrio delle pugnaci tribù.
Gli Armeni, giusta il culto di tutti i popoli discesi dalle alture dell'Imalaya, adoravano il
tempo sconfinato, sotto il nome di Zervane Acherene, donde era uscito Ahura, lo spirito divino ed
eterno che penetra l'universo. E vedendolo essi in ogni cosa, erano venuti a grado a grado deificando
le forze tutte della natura, siccome avean fatto i popoli affini di Javan, di Iran, e gli altri di Turan,
più lontani consanguinei, sebbene più vicini per moleste incursioni. Ed anco ad essi parve di
ravvisarli nel fuoco, acceso sui monti, la più pura essenza dello spirito eterno, anch'essi popolarono
di deità minori lo spazio, le viscere della terra e i flutti del mare. Nè meno aveano essi a sentire dalla
vicinanza dei figli di Cus, pe' quali erano confuse in un culto le ingenite virtù della terra e le stelle
del firmamento; però avevano anch'essi la loro Istar nel ciclo e la loro Militla Zarpanit sulla terra; e
quella dicevano Asdlig, questa Anait, ambedue più severe e di più casti riti onorato in quella
contrada di assidue nevi e di costumi più rigidi.
Altri riti aveano comuni le due genti vicine e tratto tratto nimiche. Nè tanto era puro negli
Armeni il nobil seme ariano, che non vi si scorgesse mescolato alcun che del sangue cussita, o
camitico. Dicevasi che lo stesso Aìco, il loro gran padre, traesse l'origine dalla terra di Sennaar;
forse non era egli che un figlio di Javan, od anco di Turan, disceso al piano dalle cime dell'Ararat,
insieme coi campati dal diluvio, indi tornato alle sue prime sedi. Comunque fosse, in molte cose
appariano conformi i due popoli; perfin nella lingua si notavano qua e là i segni dell'influsso stra-
niero; certo, poi, la scrittura degli antichi Armeni era ereditata dagli Accad. E lassù, come tra le
genti della pianura, erano magici riti, sortilegi, augurii e superstizioni in buon dato; epperò i platani
di Peznuni, reputati faticidi, circondati di venerazione profonda e ciecamente creduti dalle
moltitudini. Non aveano essi parlato il vero, profetando sventura pel viaggio del re in Babilonia!
Doveano esser creduti dal paro, quando, con dolce lusinga all'orgoglio nazionale, vaticinavano in
Ajotzor la tomba dello schiere nemiche.
E il vaticinio stava finalmente per compiersi. I Babilonesi, dopo lunga sosta in Assur, certo
necessaria ad ordinare così numerosa turba d'armati, avean levate le tende e s'inoltravano alla volta
dei monti. Ancora un giorno, due al più, e sarebbero giunti all'assalto. Venissero pure, si
perigliassero in quelle anguste convalli; le aquile aicàne erano pronte a riceverli.
Quel dì fu festa nel campo. S'incontravano i compagni d'arme, gli amici, e si scambiavano
parole a vicenda aspettate. A domani! Ci siamo! Finalmente! Farà ognuno il debito suo. E
lampeggiavano gli occhi, e una stretta di mano faceva sentire le pulsazioni gagliarde del sangue.
L'esercito aicàno si raccoglieva adunque in quel sereno riposo, che non è ozio, ma
aspettazione; posava, ma meditando i colpi imminenti e le prede. Bella, ampia, ben chiusa sui lati
ora la convalle, e, per ogni ciglione, o pendio, per ogni greppo su in alto, o sentiero nel fondo,
brulicava di armati. Era egli possibile che, rimanendo in piedi anco un drappello d'Armeni, l'esercito
babilonese potesse aprirsi un varco là dentro?
L'ora delle quotidiane fatiche era scorsa e tutte le cure minute e varie del campo, cessate d'un
tratto. Appesi entro le tende i grandi archi e le capaci faretre; a fasci raccolti i giavellotti, lunghesso
i sentieri e di rincontro ad essi appoggiate le targhe di rame, e gli scudi lunghi di cuoio. Sciolti dallo
pesanti bardature, pascevano liberamente i cavalli nei prati, o si diguazzavano nitrendo nel fiume.
Qua e là seduti a crocchi, o lentamente vaganti per le viottole campestri, si davano spasso i
guerrieri.
Gran ressa, si notava alle falde del poggio, su cui sorgeva la tenda del re. Attirava la
moltitudine in quel luogo una danza militare, passatempo così grato agli Armeni. Ai suoni dei
cembali percossi in cadenza da parecchi tra gli astanti, le coppie dei danzatori fingevano assalti di
spade, si minacciavano coi giavellotti, s'intrecciavano in molteplici giri, si scioglievano e si
assalivano ancora, con impeto più grande e moti più celeri, fino a tanto il ballo non rendesse
immagine di una mischia, accompagnata da grida feroci e terminata dagli applausi del popolo
spettatore.
Dopo le danze, i canti. Si riposava facendo cerchio in mezzo alle tende, dov'era più libero il
campo, e sedevano al centro i poeti, venuti a far gara di maestria gli uni cogli altri. Eglino, di solito,
accompagnando il finir d'ogni strofa, con parecchi colpi di cembalo, cantavano antiche tradizioni
della stirpe aicàna; ognuno, secondo l'umor suo e la feracità della fantasia, mutando alcuna cosa al
racconto, e fiorendolo d'immagini proprie; del che pigliavano gran diletto gli uditori e faceano
paragone tra i varii rapsòdi. La poesia, non la storia, si vantaggiava di questo continuo
raffazzonamento, che venia di mano in mano trasformando le cronache paesane in finzioni
mitologiche, e queste rinfrescava poi di nuovi colori e apparenze di storica vita.
- "Ancora, - cantava uno di essi, - ancora nella terra dei due fiumi non era edificata la torre,
testimonio dell'umana tracotanza, nè lo sdegno celeste avea corrotte e moltiplicate le lingue,
allorquando erano principi della terra Zeruano, Titano e Jafeto.
"Appena si divisero essi l'impero del mondo, che Zeruano si levò padrone degli altri due.
Titano e Jafeto si opposero alla sua tirannia e gli ruppero guerra. Imperocchè Zeruano pensava a fare
che i suoi figli su tutti regnassero.
"E già Titano aveva rapita una parte delle terre di Zerunno; ma Asdlig, loro sorella, frappose
le candide braccia e quetò gli spiriti irati.
"Acconsentirono regnasse Zeruano, ma patteggiarono giurati di far morire tutti i maschi che
di Zeruano nascessero, perchè egli non regnasse su loro sempre ne' posteri suoi.
"Perciò posero alcuni Titani robusti, che vegliassero ai parti delle donne di Zeruano. E già
due maschi sono uccisi, per ossequio al patto giurato, quando la pietosa Asdlig, secondata dalle
piangenti donne, commuove i barbari cuori.
"Vivano i figli di Zeruano, e valide braccia ti portino in occidente, sulla vetta di un monte. E
sia come un altro Ararat, donde la nostra stirpe discenda a popolare la terra."
Tacque, ciò detto, il cantore, e un altro gli sottentrò non meno caro alle turbe.
- "Dopo la navigazione di Chisutro alle terre alte e il suo approdo alle ultime vette
dell'Ararat, uno dei suoi figli, per nome Sim, va verso tramontana e ponente. Tratto da vaghezza di
conoscere i luoghi, s'inoltra egli a tramontana e ponente.
"Qua giunge, e mette sua stanza a' piedi d'un monte dalle lunghe falde, solcate dai fiumi che
scendono nello terre degli Accad. Mette qui sua stanza per due lune e chiama il monte Sim dal suo
nome; indi fa ritorno verso mezzogiorno e oriente, verso le contrade dond'era venuto.
"Ma uno de' suoi figli, Darpan, co' suoi trenta nati e quindici figliuole, coi loro mariti, separandosi
dal vecchio padre, si formano a dimora tra noi. E Sim, dal nome del figlio, chiama il luogo Daron, e la
regione ov'egli stesso aveva abitato, chiama Tzeronk, che significa dispersione.
"Imperocchè ivi si separò il suo figlio da lui, e un altro del pari, che va a metter dimora
presso i confini della regione di Bakdi. E quest'altro luogo serba tuttavia il nome di Zaruant.
"Questo è il poco della stirpe di Sim, che rimase nelle terre d'Aiasdan, innanzi che il forte
Aìco venisse a rallegrarle di sua dolce presenza. Ora, non sì tosto egli apparve, che tutti, discendenti
di Sim, tribù bellicose di Javan, e domati figli di Turan, accolsero volonterosi la sua paterna
autorità, si confusero in una sola gente, in un solo volere, sotto lo scettro del gigante dagli occhi
azzurri.
"Ricordate la vostra storia, o genti aicàne; queste le prime e care memorie domestiche; così
fu popolato il suolo che tutti ad una dobbiamo difendere, contro le voglie rapaci dei figliuoli di
Nemrod."
Unanimi applausi e grida fragorose salutarono il bardo; e agli applausi, alle grida del popolo,
si aggiunsero amorevoli parole del re. Ara, il bello era uscito pur dianzi fuor della tenda e si era
seduto all'aperto, sul poggio, in mezzo a' suoi capitani.
- Nobile è il canto di Sempad; - aggiunse il vecchio Vasdag, principe di Tarbazu; - ma
nessuno di voi, o poeti, per le cui labbra parlano i Numi, canterà le gloriose gesta d'Aìco? Oscuro è
tutto ciò che avvenne prima di lui; sebbene, è da lodarsi la cura che voi ponete a serbare ogni più
lieve frammento delle lontane memorie. Ma coll'eroe dai riccioluti capegli ha finalmente nome e
vita la patria nostra; da lui comincia la storia; da lui la fama d'Aiasdan. Cantateci Aìco, o bardi, e
nelle sue lodi prenderemo gli auspicii delle pugne vicine. -
Gran plauso ottenne il dire di Vasdag; del quale per altro era nota la saviezza. Di lui correva
questa sentenza in Armenia, non potere l'antico guerriero dir cosa che non fosse vera e sennata.
- Sì; - gridarono molti facendo eco alle parole del vecchio principe di Turbazu e incoronatore
dei re; - chi canterà le gloriose gesta d'Aìco? -
Esitarono i bardi, guardandosi in viso l'un l'altro.
- Cantare d'Aìco! - sclamò alla perfine uno di essi. - Chi lo ardirebbe, se è qui presente
Abgàro?
- Egli il vate divino; - aggiunse un altro; - egli il signore degli inni! L'eroe dal braccio
gagliardo non ebbe mai, nè avrà certo negli anni futuri, un più degno poeta.
- Sciogliere un inno ad Aìco, mentre è il soave Abgàro nella corona degli uditori, sarebbe
temerità maggioro di quella d'un astro notturno, il quale s'attentasse di splendere quando il sole è
spuntato. -
Un vecchio sorrise a quelle parole, un vecchio cui in quel punto erano volti gli occhi di tutti.
Era egli vestito di candida lana, alla guisa, dei sacerdoti di Van, ma al fianco gli pendeva la spada o
all'òmero la capace faretra.
Sorriso egli, e, stesa la destra in atto cortese, parlò:
- Bella è, o giovani, la lode data ai canuti, anco se paia soverchia. Chi onora i vecchi, dà lode
agli Dei; imperocchè nei vecchi si esalti il senno maturo, grazia impartita dal cielo, ad
ammaestramento e guida delle nuove generazioni. A voi rende grazie, o giovani, il cantore d'Aìco,
che, scarso d'ingegno, ha ravvivati coll'affetto i suoi carmi. Beati voi, che, cresciuti a vostra volta in
età, come già siete d'arte doviziosi o di sapere, darete più alti insegnamenti al popolo aicàno,
tramandando ai nepoti le imprese e lo vittorie di Ara il bello, del generoso figlio d'Aràmo.
- Vivrai tu per cantarle, o maestro; - risposero gli aèdi.
- In pugno di Zervane è la sorte; - disse Abgàro con accento solenne. - II guerriero non può
dire: "domani", ed oggi, per la difesa del patrio suolo, tutti gli Aicàni saranno guerrieri, nè i vecchi
si mostreranno da meno dei giovani. Ma via, smettiamo gli inutili vanti, che all'opere, non già alle
parole, dee misurarsi il potere dell'uomo. Chiedevate il cantico d'Ajatsor? Il vecchio poeta, innanzi
di tacere per sempre, vuol farvi oggi contenti. -
Un grido di giubilo manifestò al vecchio il grato animo della guerresca assemblea, e il si-
lenzio che tosto si fece d'ogni parte gli disse altresì con qual religiosa attenzione egli sarebbe
ascoltato. A tutti era noto il carme, com'era nota la materia intorno a cui s'aggirava. Senonchè, era
consuetudine degli aèdi mutar forme, accrescer poetici fregi all'opera loro, e appunto in questo la
valentia d'Abgàro era somma.
Tolto di mano al più vicino de' suoi compagni il cembalo festivo, lo percosse egli con tese
palme più volte, quasi ad eccitar gli estri dormenti; volse gli occhi inspirati all'intorno, e così prese,
con voce piena e armoniosa, a cantare:
"Abbia da' sommi Dei princìpio il canto. Terribili per maestà erano dessi, largitori de'
massimi beni al mondo, alta cagione d'ogni cosa creata e della moltiplicazione degli uomini. Da loro
si separò la schiatta dei giganti, mostruosi di forze, invincibili, di statura colossi, che nel loro orgo-
glio concepirono il disegno di edificar la torre. Già erano all'opera; un vento terribile e divino,
soffiato dall'ira dei celesti, l'edifizio disperse. Gli Dei, dato ad ogni uomo un linguaggio dagli altri
non inteso, misero tra loro confusione e scompiglio.
"O il più chiaro tra questi, figliuolo di Thogarma, del seme di Jafet, o Aìco, o principe va-
loroso, possente ed abile arciero, chi esalterà degnamente il tuo nome? Famoso per bellezza e nerbo
di membra, riccioluto i capegli, azzurro gli occhi al pari d'un Dio, gagliardo il braccio e pugnace, ma
pietoso dell'animo e amante del giusto, ti opponesti tu a quanti alzavano la mano dominatrice sopra
i giganti e gli eroi. Infiammato da nobile ardire, armasti il tuo braccio contro la tirannia di Nemrod,
allorquando il genere umano su tutta la terra si sparse. Era in mezzo a questo un popolo di giganti,
fuor di misura robusti e di lor forza superbi; il perchè ciascuno, come da una furia sospinto,
immerse la spada nel fianco del compagno; tutti sforzandosi dominare sugli altri.
"Ma la fortuna aiutò Nemrod ad usurpare la terra tutta; Nemrod, figliuolo di Mesdrim, a cui
fu padre Cus, della progenie di Titano. E ricusa Aìco obbedirgli; e glorioso come la stella del suo
nome, vagante pe' cieli
3
si allontana verso settentrione, menando seco, astri minori, i figli, le
figliuole, i nepoti, uomini vigorosi, in numero di forse trecento. Vassene co' figli de' suoi servi, cogli
estranei a lui ossequenti e con tutto il suo avere; vassene alle terre alte dell'Ararat. e si pone a piè
d'un monte, ove alcuni degli uomini, per lo innanzi dispersi, già avevano messo dimora.
Costoro ei sottomette alle sue leggi; mura edifizi su questa terra e la dà in retaggio a Cadmo,
al figliuolo d'Armènago suo.
"Di là trascorre, il savio gigante, progenitore dei nobili Aicàni; va col resto dei suoi tra set-
tentrione ed occidente, e si ferma ad un piano, che oggi ha nome di Harc, ovvero dei padri. Lo
rammenti con allegrezza ognuno di voi e lo insegni a' suoi figli; dinota quel nome che lassù
abitarono i padri della casa di Thogarma, nel borgo Aicascèno, che suona costrutto da Aìco. A
mezzogiorno del piano, vicino ad un monte di larghe falde, s'erano prima alcuni uomini stabiliti. E
costoro, tratti da riverenza, spontanei giurarono fede all'eroe.
"Ma il titano Nemrod, raffermato il suo dominio sui leoni della pianura, guata con invidia
all'aquile della montagna, si strugge della nascente potenza d'Aico. Tosto gli spedisce un fìgliuol
suo con buona scorta d'uomini fedeli, e melate parole dissimulano l'imperiosa acerbità del
messaggio.
"Tu abitasti finora tra i ghiacci e le brine. Riscalda e tempera il freddo gelido de' tuoi alteri
costumi, e a me sottomesso ed amico, vivi tranquillo là ove piace a te, sulla terra del mio soggiorno.
"Regni il Titano sulla terra sua; - rispose il figlio di Thogarma, corrugando le ciglia. - Aìco
nulla gli invidia, nulla chiede da lui. Andate, e ditegli questa breve risposta: l'arco lungi saettante del
cacciatore ha intorno a sè mestieri di spazio.
"All'udire l'altiero diniego, tutto si svela il mal animo di Nemrod. Irato cavalca il Titano alla
montagna; cavalca con grande esercito e giunge alla contrada di Ararat, sotto alle case di Cadmo.
Fugge questi a ricovero presso dell'avo, e manda avanti a sè veloci corrieri.
"Sappi (manda il figlio d'Armènago), sappi, o il più grande tra gli eroi, che Nemrod sta per
rovesciarsi su te, co' suoi sempre gagliardi, co' suoi guerrieri colossi. Com'io il vidi avvicinarsi alle
mie stanze, fuggii; eccomi, vengo io gran fretta; tu cura ciò che devi e l'accorto ingegno t'inspiri.
"Come l'impetuoso Arasse, sfondate le caverne delle montagne, corre le valli boscose, varca
le anguste gole e gli stretti, e scende, precipita col terribil fragore nel piano, così venia
romoreggiando il Titano, colle ardite e poderose schiere. Confidava egli nel valore e nel numero de'
suoi soldati. Ma il cauto e savio gigante dai capegli riccioluti e dall'occhio vivace, raduna tosto i
suoi figli e nipoti, guerrieri intrepidi e arcieri valenti, pochi di numero, ed altri alla sua legge osse-
quenti. Arriva, dì e notte correndo, alle salse acque di Van; e così parla il cauto e savio gigante alle
schiere:
"Ad util segno soltanto si tende l'arco del cacciatore esperto, e sempre decisivo è il suo
colpo. Nel riscontrare l'esercito di Nemrod, sforziamoci di giungere ov'egli sta, da molti suoi
guerrieri circondato. O morremo, e le nostre salmerie cadranno in sua mano; o la destrezza del
nostro braccio mostrando, disperderemo la sua gente e avremo frutto della vittoria.
"Tosto superato quell'intervallo di lunghissimo tratto, i guerrieri d'Aìco arrivano in una con-
valle tra erte montagne; poscia, a destra del fiume, si trincierano sopra una altura. E in quel mentre,
alzati gli occhi, videro la confusa moltitudine dell'esercito di Nemrod, spinta qua e là da audacia
feroce e su tutto il terreno diffusa.
"Nemrod, tranquillo e fidente, con forte drappello si stava alla sinistra dell'acque, come alla
vedetta, là su quel poggio ch'io vedo. Aìco riconobbe il drappello dov'era il Titano innanzi alle sue
torme, con iscelti e ben armati guerrieri. Ed era tra lui e l'esercito suo grande spazio di terra.
"Elmo di ferro cingeva il possente; elmo di ferro ampiamente crinito. Corazza di rame
3 Orione, la più lucente tra le costellazioni, è chiamato dagli armeni Aìco, e così tradoto in Giobbe, canto
XXXVIII,v.31, ed in Isaia, canto VIII, v.10
portava al dorso ed al petto; schinieri e bracciali gli chiudeano le membra. I fianchi accinti; al
sinistro spada a due tagli; nella destra gran lancia; saldo scudo a sinistra; da un lato e dall'altro eragli
il fiore de' suoi.
"Aìco, vedendo il Titano così tutto lucente nell'armi, mette in ordinanza le schiere.
Armènago ed altri due figli alla destra; Cadmo e due altri della sua prole a manca, perchè erano
esperti in trar d'arco e in maneggiare la spada. Egli, poi fattosi avanti, dispone dietro a sè in cuspide
di lancia le sue genti e le fa ordinatamente procedere.
"Orrido scontro! Di qua, di là, serratisi i giganti gli uni sopra degli altri, coll'urto scambie-
vole facevano rimbombare la terra, e col furor degli assalti spargevano mutuo timore e spavento. Ivi,
molti giganti robusti, quinci e quindi colpiti dalle frecce e dalle spade, stramazzavano al suolo;
tuttavia il combattimento pendeva incerto dall'una parte e dall'altra.
"Bene si avvide allora il figlio di Misdraim di aver troppo confidato nella sua vecchia
fortuna. Sbigottito dallo imminente pericolo, fece ritorno sul colle dond'era poc'anzi disceso; chè
pensava in mezzo alle sue schiere affortificarsi vieppiù, fino a tanto che, giunto tutto l'esercito,
potesse in larga fronte ridar la battaglia. E dietro a lui salivano l'erta i suoi guerrieri colossi, per
fargli scudo e difesa, maledicendo alla gagliarda resistenza del nemico e invocando con rabbiose
grida il soccorso de' cieli.
"Già erano al colmo e respirava finalmente il monarca. Ma in quel mezzo, Aìco, il forte
arciere, cui erano noti i più ascosi sentieri, apparisce sovra un poggio, che lo mette a pari del
fuggente nemico. Lo ravvisa Nemrod, alla prestante alterezza della persona, alla vellosa pelle che
penda dagli òmeri del montanaro, alle penne d'aquila che gli fanno orrido cimiero sull'elmo di ferro
lucente; lo ravvisa e trema forte in cuor suo, il possente cacciatore di popoli. Fremono, poi che
l'hanno veduto a lor volta, i giganti, i sempre valorosi guerrieri di Nemrod; già stanno per muovere
contro di lui, sperando vendicarsi sovr'esso dei danni patiti.
"Ma invano; già il figlio di Thogarma ha teso il grand'arco lungi saettante, e, tolta la mira
coll'azzurro occhio infallibile, scocca poderosamente una freccia a tre ale, diritta al petto di Nemrod.
Romba in aere la corda, vola sibilando lo strale, rompe la corazza come fosse di tenero cuoio e
trapassando il petto riesce pel dorso. Cadde a terra il Titano; indarno tenta strapparsi l'acuto ferro
dal seno, e fiotti di sangue e bestemmie gli gorgogliano dalle fauci; dà un tratto, indi un altro, cerca
degli occhi il sole e rende lo spirito invitto.
"Un grido di gioia, grido possente, si eleva. È il grido di Aìco, che fa restarsi sospese e
attonite le pugnaci coorti. Si addensano intorno al caduto i suoi prodi. Egli è spento. Che fare? Ecco,
nuovi dardi fischiano per l'aria, seminano la morte intorno al riverso Titano. Terribile, implacato
come il Dio della folgore, Aìco saetta. Fuggono allora, compresi d'alto spavento, fuggono i guerrieri
colossi; invano schermendosi coi larghi scudi sonanti sugli òmeri, senza più volgersi indietro.
"Gloria al tuo arco, o nobile Aìco! Posi esso eternamente sospeso alla sacra parete del
tempio di Peznuni. Braccio mortale non varrebbe a tenderlo oggi; e il potesse anco, avrebbe forse
compagno l'infallibile sguardo azzurro del fortissimo arciere?
"Sangue bagna la collina di Kerezmanc; sangue allaga tutta l'ampia convalle di Ajotzor; san-
gue scorre l'Eufrate, ancor povero d'acque. Odorano i corvi la preda, e calano in fitto stuolo alla
pastura. Ma il forte è magnanimo e pio; dà sepolcro onorato ai cadaveri, e la collina ha il nome suo
dalle tombe. Il gran corpo di Nemrod, plasmato entro e fuori di balsami e di sontuose vesti coperto,
lo portano le vittrici aquile montanare in Harc, alle sante sedi de' padri. Colassù, alla vista della
regal casa di Thogarma, dorme gli eterni sonni il nemico delle libere genti aicàne. "
Così cantò il vecchio Abgàro, tra l'ansia, il fremito e la commozione profonda delle migliaia
che l'ascoltavano. E un grido di ammirazione, di gioia, di gratitudine immensa, si levò tutt'intorno,
poi ch'egli ebbe finito.
Ardevano tutti i cuori, e bene a ragione, per quei gloriosi ricordi. Quello era appunto il luogo
della memoranda pugna; quella pianura, che si stendeva dinanzi ai loro occhi, era Aiotzor; in vista
del poggio di Kerezmanc era cantata la vittoria di Aìco.
- Mai così grande si palesò il vecchio Abgàro, - dicevano ne' loro crocchi i guerrieri.
- Il suo canto, - soggiungevano alcuni, - ha dissipati i tristi presagi.
- E quali?
- Nol rammentate, il responso dubbioso dell'oracolo di Peznuni? "È in Aiotzor la tomba dei
Babilonesi."Sicuramente, ella c'è; ma degli antichi seguaci di Nemrod.
- Orvia; troppo chiare parole si chiedono agli oracoli. I sommi Dei vonno lasciare alla
fortezza del nostro braccio l'adempimento dei vaticinii felici.
- E in Harc, l'altra notte, non s’è egli udito un sordo rumore nelle viscere del monte, come
d'armi percosse? Il feroce Titano s'è desto e si solleva sul cubito.
- Stolto consiglio sarebbe il suo. Là presso riposa colui che l'ha vinto ed ucciso. Se Nemrod
si sveglia, non temete; anche Aìco non dorme. -
Intanto che questi ragionari si facevano nella moltitudine, Ara il bello erasi avvicinato ad
Abgàro e nell'impeto della sua ammirazione lo aveva abbracciato. Il vecchio cantore, commosso,
tenne lungamente stretta sul seno venerando la bionda testa del principe, tra gli applausi di tutti gli
astanti. Grande è la maestà, come la potenza dei re; ma l'ingegno, raggio dell'anima, in sè racchiude
alcun che di divino; donde un'arcana virtù che penetra i cuori e soggioga.
- Prode figlio di Aràmo, tu rinnoverai, - disse allora il poeta, - gli alti prodigi del valore
d'Aico.
- Ah, non lo spero; - rispose il giovine re; - ma le tue parole mi staranno qui dentro, e farò
d'imitarlo ne' generosi propositi.
- Già cominciasti, - entrò a dire Vasdag, - scegliendo il tuo campo. Qui pugneremo; di qui ci
avventeremo sulle schiere elette della superba regina. O morremo, e le nostre salmerie, le nostre
fortune tutte cadranno in sua mano; o la destrezza del nostro braccio mostrando, disperderemo il suo
esercito e avrem frutto della vittoria.
- Verrà ella sulla prima fronte, audace al pari di Nemrod? - chiese, con piglio d'incredulo,
uno tra gli ufficiali del re.
- Certo, ella verrà! - rispose Ara, fremendo. - Forte guerriera è costei. -
Nè altro disse, che gli faceva ostacolo l'interno ribollir degli affetti.
- Forte sì, e superba, - soggiunse Abgàro, - come nelle vene le scorresse il sangue dei Titani.
Ma non è tralignato il seme aicàno e la fortuna lo ha sempre assistito fin qui. Armènago, fondatore
di Aracaz, ed Armais, che diede il suo nome alla città d'Armavir, non estesero sempre più l'avito
dominio? Amasia, il padre del fortissimo Kogam, del valoroso Parok e del giocondo Tzolag, non si
fè' egli padrone di tutta la catena dell'Ararat, detto Masis da lui? E Kegam non signoreggiò egli in
breve ora tutta la felice contrada cui bagna l'Arasse? Ed Arma non dilatò d'ogn'intorno il reame?
Che dire di Aràmo, del glorioso tuo genitore? Questo guerriero, amante della fatica, voleva piuttosto
per la patria morire, che scorgere i figli dello straniero calcare il suolo natìo, sopra i suoi fratelli
imperando. Narro storia a noi molto vicina e presente all'animo di tutti. Aramo, pochi anni innanzi
l'impero di Nino, molestato dalle vicine nazioni, raduna tutta la moltitudine de' suoi valorosi, abili a
trattar l'arco e a scagliare il giavellotto, giovani, nobilissimi, di gran, destrezza e bellezza notabile;
esercito che per coraggio, e nell’atto, vale cinquanta migliaia. Sui confini d'Armenia incontra il fiore
dei Medi, condotti da Niucar, detto Matès, superbo e bellicoso guerriero; gli piomba addosso
improvviso, innanzi lo spuntar del sole, e stermina la sua gente; lui, fatto prigioniero, conduce ad
Armavir e in cima alla gran torre, forata la fronte con lungo palo di ferro, comanda che sia
inchiodato, a terribile esempio per tutti gli oppressori e scorridori delle contrade d'Armenia. Nino
istesso se l'ebbe per detto. Nino che, avendo in cuore una memoria d'odio pel suo progenitore caduto
in Aiotzor, meditava lungamente vendetta. Celò egli i suoi tristi disegni, sebbene potentissimo
fosse, e mandò messaggieri ad Aramo; conservasse il suo dominio, portasse liberamente la benda di
perle, e secondo regnasse, dopo di lui, tra i re della terra. Aquile aicane, salvete; è vostro l'impero
dei monti. -
CAPITOLO XVI.
LA REGINA GUERRIERA.
Così s'apparecchiavano le genti aicàne alla prova dell'armi. E frattanto, dal passo di Lukdi si
avanzava l'esercito di Semiramide, facilmente respingendo i drappelli armeni colà posti in vedetta, e
tacitamente distendendosi su per le circostanti alture. Buon nerbo di cavalieri e di fanti s'erano volti
ad oriente, accennando a risalire verso le sorgenti del Tigri, siccome gli esploratori avean riferito ad
Ara; ma poco oltre una mezza giornata di cammino, i cavalieri avean fatto sosta, e i fanti, scelti tra i
più destri arcadori dell'esercito, aveano piegato non visti a settentrione, inerpicandosi per le ripide
coste ed addentrandosi a gran fatica nelle impervie forre delle montagne.
Bene era Semiram quella eccelsa guerriera che il re d'Armenia, nella onesta schiettezza
dell'animo suo, erasi affrettato a riconoscere. Mai donna degli antichissimi tempi era stata più
addentro di costei nelle gravi cure e nelle aspre discipline della guerra, nè altra che potesse
ragguagliarsi a lei avevano a darne le età più recenti.
Nata d'arcane nozze in Ascalona di Siria, nutrita nel tempio di Derceto e cara (dicevano le
favole del volgo) siccome figlia alla Dea, le grazie nascenti d'una sovrumana bellezza l'avean fatta
sposa a Mènnone, prefetto e governatore, pel re degli Accad, di tutto il paese di Palastu sulle rive
del Mar d'occidente. Ora il re degli Accad era Nino, figlio d'Arbel, della stirpe di Neinrod, che
allora, con tutte le forze del suo impero, si disponeva ad invadere la Bakdiana.
Chiamato era Mènnone al campo del re; nè potendo egli lungamente rimanervi senza la
donna dell'amor suo, che colla leggiadria delle incomparabili forme e coll'avvedutezza del consiglio
sì l'aveva soggiogato, mandò alcuni suoi famigliari a chiamarla, che, come più presto poteva, si ri-
ducesse al suo fianco. E l'ebbe come desiderava, mentre l'esercito, corso tutto il paese dei Medi,
stringeva Bakdi, la capitale, vanamente d'assedio.
D'ingegno acutissimo e d'animo pronto, la donna leggiadra aveva colta quell'occasione per
far mostra di sua grande virtù. E per potere, con più sicurezza fare il viaggio, ch'era di molte
giornate, aveva indossata una stola, per la quale non potesse distinguersi se fosse uomo o donna, chi
n'era ammantato; giovandole inoltre quel vestimento, così a difesa delle candidissime carni contro
gli ardori del giorno, come a farla più snella, in ogni occorrenza, o pericolo. E tanta fu la grazia di
quel suo modo di vestirsi d'allora, che i Medi poscia, e gli Assiri, e da ultimo i Persi, insignoritisi
dell'Asia, vollero portare la stola di Semiramide.
Intanto, giunta ella al campo, considerando come l'assedio era condotto, aveva visto tutta la
forza del nemico rivolgersi contro i luoghi campestri ed ovvii alle irruzioni, ma nessuno frattanto
custodire la rocca, che per natura e per arte era fortissima. Presi pertanto uomini che sapessero iner-
picarsi sulle rupi, e valicata con essi una certa valle, ascese alle opposte eminenze ed occupò una
parte della rocca, ed ai suoi, che combattevano nel piano sotto le mura, diede il segnale. Fu allora
che i difensori della città, colti da terrore improvviso per la rocca presa, non avendo più speranza di
difendersi, abbandonarono le mura.
Volò il nome di Semiramide per tutte le bocche. La vide il re, e, preso da tanta bellezza, ne
innamorò vivamente. Abbi, - dissegli a Mènnone, quanta sostanza del mio tesoro vorrai, e mi
appartenga Semiram.
- Nulla sono le ricchezze del tuo regno, - rispose Mènnone al re, - nulla sarebbero quelle dei
mari lontani al paragone di lei.
- Sii secondo appo me, - ripigliò Nino infiammato; - abbiti in moglie la mia figliuola Sosane,
per cui tanti re della terra sospirano, e mi appartenga Semiram.
- No; - disse a lui di rimando il marito. - Io ti rendo grazie, o re dell'onor singolare, che ogni
altro m'invidierebbe per fermo. Che mi varrebbe esser secondo appo te, quando io non fossi più il
primo e l'unico nel cuor di Semiram? Vada la tua gentil Sosane ad un possente, che sia degno di
così alto parentado; nessuna figliuola di re mi pagherebbe la perdita del vago fior d'Ascalona.
- E sia; - gridò Nino, corrugando la fronte e mettendo lampi dagli occhi; - rinunzia alle
ricchezze; rinunzia agli onori; ma io giuro per Nisroc, che in questo mentre già libra le tue sorti, tu
non vedrai più il vago fior d'Ascalona. Con ferro rovente ti si sfonderanno le pupille tra un'ora; che
più non ti concedo di tempo a consigliarti di ciò. -
Preghiere, pianti e scongiuri, non valsero; bisognava obbedire. Mènnone, pel timore delle minacce
del re, e per la gelosia che era possente in cuor suo, montato in furore, corse alla sua tenda e s’uccise. Per tal
modo, sebbene riluttante, Semiramide era fatta consorte di Nino.
Il fiero Cussita nulla tralasciò che giovasse a medicare l'acerba piaga, aperta da'suoi desiderii
in quel giovine cuore. Unica sua compagna la volle; regina la pose su tutte le genti tra il Mar
d'occidente e le terre dei Medi. Ma, più che il regio fasto e l'obbediente affetto dell'ammansato
leone, valse il grand'animo desideroso di grandi cose, a lenire la sua cura. Indi a non molto, il suo
possente signore moriva, lasciandola madre di Ninia. E fu allora che la sua mente gagliarda si
palesò tutta quanta. Spiaceva agli Accad, perchè donna e straniera; ma la sua grandezza, superiore a
quella di tanti uomini portatori di scettro, li vinse. E non si dolsero d'essere caduti in balìa d'una
mano di donna, allorquando videro quella mano impugnare la lancia e tentar le redini del corsiero,
che volava sempre dov'era più aspra la pugna.
Un giorno (e fu dei primi del suo regno), la rivolta era scoppiata nelle vie di Babilonia. La
regina sedeva nel suo spogliatojo, in mezzo alle ancelle, intenta a rassettarsi le lucide chiome. Udire
il molesto annunzio e balzare in piedi fu un punto. Scese nella corte del suo palazzo, ove stavano
poche schiere adunate, e così scarmigliata come era, accesa in volto di sdegno, montò subitamente a
cavallo, corse a furia dove più spesseggiavano i rivoltosi, entrò di lancio nel mezzo, e con fiere
parole li rampognò di lor fellonia. Sbigottiti gli uni, commossi gli altri da tanto ardimento, tutti
soggiogati da una così felice mistura di sublime bellezza e di regale corruccio, posarono le armi, la
gridaron regina e veramente figlia di Dea.
Abbellita in singolar modo la città e quasi riedificata da lei; la Media domata, e il suo
vecchio re Ossiarte costretto a tributo; signoreggiata tutta la terra degli aromi, che si stende dal
paese degli Aribi infìno al mare di mezzodì; temente ed ossequioso il popolo altero di Mesrahn; le
insegne degli Accad condotte di vittoria in vittoria per l'estremo oriente, fino alle rive dell'Indo;
erano questi i diritti di Semiramide alla obbedienza ed alla venerazione delle genti del Sennaar. E là
sull'Indo, recata la guerra contro il re d'innumerevoli schiere, Staprobate, non aveva ella fatto prova
d'altissimo ingegno, pari a quello dei più insigni condottieri d'esercito? Assai prima di Alessandro
Macedone, non aveva ella provveduto guado d'un largo fìume, con migliaia di barche in tal guisa
costrutte, che si potessero agevolmente scomporre e portare sui carri? E laggiù s'era ella mostrata
grande nella prospera, più grande nella avversa fortuna, allorquando, fallita in sul meglio l'impresa,
perchè i suoi soldati non erano avvezzi a combattere gli elefanti, condusse il suo esercito al ponte e
lo ridusse in salvo, ultima a ritirarsi davanti al nemico e pronta a recidere le funi che tenevano le
barche congiunte.
Donna invero eccelsa per grandezza d'animo e per felice accoppiamento di virtù virili e di
grazie femminee, a tutto intendeva, di tutto si pigliava gran cura, e in pace maturava gli
accorgimenti di guerra, in guerra assicurava le arti della pace, senz'altro pensiero, fuor quello della
felicità del suo popolo Il monte Bagistano, da lei foggiato a monumento della sua gloria, città
nuove, templi, strade militari, canali portatori di acqua ai campi infecondi, tutto recava l'impronta
del suo genio multiforme. Per lei la stirpe degli Accad fu grande e avventurosa, come non era stata
mai; lampada che dà guizzo di più splendida luce, quando ella è presso a mancare.
E ben meritava la pace e la contentezza per sè, lei che cotanto aveva fatto per la prosperi
del suo popolo. Ma, pur troppo, non può esser tregua al dolore, pei nati dalla creta. E appunto allora,
quando ella sperava rifarsi dalle molte fatiche ne' taciti gaudii del cuore, in gloriosa quiete, con-
fortata dal più nobile affetto, un'altra guerra le appariva necessaria. Il delicato sentir della donna e la
maestà della regina erano stati offesi del pari. E da chi? Da un re tributario; dall'uomo in cui aveva
ella riposto sua fede, a cui s'era data in balìa, con quel sublime abbandono, con quella piena
dimenticanza di sè, che accompagnano e dimostrano le profonde passioni, le sole vere e desiderabili
della vita.
Stava ella al passo di Lukdi, siccome si è detto, e le sue schiere, passate in rassegna, a mano
a mano si avviavano ai luoghi assegnati.
Giusta il costume suo in simiglianti occasioni la regina aveva fatta sul piano un'alzata di
terra a guisa di poggio, su cui vedevasi eretto il suo trono, sotto un padiglione di bisso divisato a co-
lori. Sorgeva a manca un'antenna, dal cui sommo sventolava una striscia di porpora, insegna del
comando che tutti potessero agevolmente vedere da lunge, e a destra lo stendardo degli Accad, che
era un leone alato, dalla faccia umana, tutto d'oro massiccio, innestato sulla punta di un lungo
giavellotto.
A' piedi dello stendardo e distribuiti sul pendìo di quella eminenza, trecento sceptùchi, o
portatori di scettro, vegliavano, tutti nobilmente vestiti di bianca e corta tunica, frangiata d'oro, sotto
di cui apparivano le anassìridi di cuoio colorato, che s'attagliavano alla gamba e la facevano più
salda al cammino.
Dall'altra banda, ove sorgeva l'antenna colle insegne del comando supremo, stavano a custo-
dia trecento portatori di lancia, terribili a vedersi nelle corazze di rame e negli elmi criniti.
Alle falde del poggio era il carro di guerra della regina, tutto di bronzo, con aurei fregi, che
simulavano soli fiammanti. Otto poderosi cavalli di Media erano fermi al timone, tutti bardati a
squamme di ferro e muniti d'un’ampia rotella sul petto, dal cui mezzo sporgeva un minaccioso
spuntone. Succinti valletti erano di fianco ai cavalli, per tenerne le redini e frenarne i moti im-
pazienti; l'auriga stava immobile al suo posto, aspettando la regina, mentre lo scudiero disponeva in
bell'ordine, sulla proda del carro, l'arco, la faretra, i giavellotti e lo scudo.
Semiramide intanto stavasi ritta sul trono, in nobile atteggiamento, con una lancia nel pugno.
Indossava una tunica di porpora, del color d'amatista, e una bianca sopravveste, serrata ai fianchi da
un'aurea cintura, donde pendeva la spada, col fodero tempestato di gemme. Non portava collana o
monile; per contro, al sommo del petto appariva fuor della tunica una gorgiera di ferro lucente,
segno che tutta la persona era catafratta del pari. Un elmo alato le cingeva le tempie, lasciando
libera la nerissima capigliatura che scendeva in larghe anella sugli òmeri.
Così chiusa nell'armi ed altera, i Greci l'avrebbero tolta per Minerva discesa tra gli uomini, e
si sarebbero prostrati a' suoi piedi, adorandola. Il pastore di Frigia l'avrebbe piuttosto creduta Ve-
nere, rivestita delle spoglie di Marte; e a lei pur sempre, a lei sola, avrebbe dato il vanto della
bellezza. Severa bellezza era per altro la sua; una torva luce, come lampo per notte buia, rischiarava
il profondo di quegli occhi stupendi; erano chiuse, irrigidite da acerbo dispetto, quelle labbra di
corallo, che agli umili riguardanti facevano sognare la ineffabile ebbrezza d'un bacio.
Ai fianchi della regina, ma alquanto in disparte, si vedevano i primi uffiziali dell'esercito,
vecchi e sagaci consiglieri di guerra. Sui gradini del trono stavano immoti i portatori di flagello, vivi
emblemi delle pene imminenti ai ribelli, ai trasgressori de' comandi reali. Dietro a lei gli eunuchi,
riconoscibili alle guance imberbi e alle fattezze muliebri, ardevano soavi aromi e scuotevano flabelli
di candide penne.
Nella pianura sottostante, l'esercito si scorgeva tutto in moto, e in ordine così lungo, che
l'occhio non poteva abbracciarlo d'un tratto. S'inoltrava quella moltitudine immensa, balenando,
ondeggiando, siccome campo di spighe. Nitrivano i cavalli scalpitanti; sonavano con alto fragore i
carri, dando frequenti sobbalzi lunghesso il sentiero; strepitavano i timpani, gli oricalchi e gli
strumenti della musica guerriera. Gli scudi, le loriche, gli elmi e le lancie, luccicavano al sole,
confondevano lo sguardo. Pareva di scorgere Sam, nell'ora che si mostra sull'orizzonte, e fa
scintillare in mobili pagliuole d'argento le creste del mare agitato. Qua e là, per mezzo allo
sterminato piano di elmi e di punte lucenti, si rizzavano le lunghe cervici dei dromedari sabei, le
doppie terga dei cammelli di Bakdi, le immani teste orecchiute degli elefanti indiani, colle lor
proboscidi erette e le torri barcollanti sul dorso, e trofei, bandiere, pennoncelli di cento colori; tutto
in moto verso le falde del poggio, innanzi al quale dovea passare ogni schiera.
Colà diffatti si scorgeva un ampio e lungo steccato, entro al quale i guerrieri, poichè tutto
l'avean colmo, si fermavano un tratto, indi proseguivano speditamente la via. In quel modo si
noveravano allora le forze degli eserciti. Capace era lo steccato di una miriade, cioè di diecimila
uomini mandati innanzi su d'una fronte di cento; epperò, a mano a mano che i guerrieri varcavano lo
spazio misurato e una o più schiere addensate giungevano a riempirne i limiti estremi, lo scriba
segnava un numero nel suo papiro, e così via via fino all'ultimo, per poi cavarne la somma.
Quel dì lo scriba reale aveva a segnare settanta numeri e più, imperocchè tante miriadi con-
duceva seco la regina degli Accad; cinquecento mila fanti e dugentomila cavalli. Il primo novero g
era stato fatto nel campo di Assur, ed in altra maniera anch'essa in uso a que' tempi. Secondo quella,
ogni soldato passando gittava una freccia entro una cesta, a tal uopo preparata. A mano a mano che
le ceste si riempivano, eran chiuse col regio suggello e si riponevano in luogo da ciò. Finita che
fosse la guerra, si rimettevano in ordine e, rotti i suggelli, ogni soldato di là passando ripigliava una
freccia. Le ultime rimaste, come di leggieri s'argomenta, davano il numero dei perduti in battaglia.
E passavano i guerrieri, passavano lieti e superbi dinanzi al poggio reale, facendo suonar
l'aria di lor grida discordi.
Primi erano i soldati delle contrade a mezzogiorno di Babilonia; settantamila di numero. Si
riconoscevano gli uomini di Mahabu e di Karbaniti, sui confini di Mesraim; gli Arìbi e i Kidri, i
Nabati, i Curassiti e i Sabei, fieri abitanti della vasta penisola che s'immerge come ascia lucente nel
mare lontano. Guidavano innumeri torme otto principi di quelle ultime regioni che son presso alla
aurifera spiaggia di Ofir; i capi delle tribù di Caldili, di Rapiati, di Magalani, Cadascì, Dihtani, Ihilu,
Gahpani, Guzbièh. Tutti costoro, valenti arcadori, vestivano succinte tuniche e portavano calzari
intessuti con fibre di palma; cingevano il capo di bende a più giri ravvolte, e corte spade recavano al
destro lato sospese. Nel sembiante della più parte di loro erano impressi i segni della stirpe camitica;
breve la fronte, il naso piatto, corti i capegli e crespi, la carnagione abbronzata.
Seguivano gli uomini delle regioni d'occidente, di Martu, di Aharru e di Hatti. Erano costoro
duecento migliaia, tutti della progenie di Sem. Numerosi tra essi i Dimaskiti, quei di Birtu, la città
bianca sul monte, di Laki, di Simari, alle falde del Libano, di Arvada, che è sul mare, di Bit Buruta,
di Sidunnu, la trafficante di porpora. Mancavano quei d'Izcaluna, avendo Semiramide liberati i suoi
concittadini dall'ufficio dell'armi. C'erano in quella vece i fieri abitatori di Palastu, armati di fionda e
di accette di selce. Seguivano del pari le insegne i popoli marinari di Yatnana, che è Cipro, e delle
altre isole, di Idihai, Kitusi, Sillua, Pappa, Aprodissa, poste sul mare del sole occidente; questi
armati di scure e diligenti artefici di macchine da espugnare città; gli altri tutti, nominati più sopra,
arcieri gagliardi e destri nel maneggiare la clava nodosa.
Venivano dopo questi i guerrieri delle regioni settentrionali di Nahiri e di Assur, di Urusu e
di Urumi, di Nazibi e di Arbel, di Tusan e di Amida, che è sulla riva sinistra del Tigri, di Ninua, la
futura rivale di Babilu, di Tuhani e di Izama, di Kabsu, nei pressi di Nipur, le cui abitazioni son
fabbricate in alto sui greppi come nidi d'uccelli, di Haran e di Resen, di Tadmor e di Reoboth. Tutti
costoro discendenti di Assur, Semiti, fuggiaschi dalla terra di Sennaar ai primi tempi della
dominazione cussita, ed ora assoggettati da Nino e da Semiramide all'impero babilonese. Forti
guerrieri son essi, e nel combattere corpo a corpo valenti. Portano corazze a sette doppi di lino,
macerato da prima nell'aceto, donde si fa più tenace e più saldo; imbracciano tondi scudi, e cingono
elmi di bronzo; spade, archi e mazze ferrate, son l'armi loro. Di essi una parte è a cavallo, e gli uni e
gli altri ascendono a cento migliaia.
Quarto in ordine di cammino veniva il forte popolo d'Elam, che è di là dai monti orientali. Si
notavano per la bella presenza gli uomini di Susan, città reale, di Rasu e di Hamanu. Seguivano i
Madai, nobilissima schiatta, i Parsua, gli Ariarvi, i cittadini di Muru e di Bakdi, tutti della
antichissima e pura stirpe di Javan, e di sangue, ma non più di memorie e d'affetti, congiunti agli
Armeni. I Parsua attiravano più d'ogni altra gente lo sguardo, per le loro bionde capigliature
inanellate e per gli occhi bigi, che li facevano parer quasi una famiglia al tutto separata dalle altre.
Elamiti, Medi, Persi, Ariani, Margiani e Battriani (che cosi, lievemente mutati, giunsero i nomi loro
alle età susseguenti) erano duecento migliaia: metà de' quali a cavallo con archi sugli ómeri, corazze
di ferro a squamine, elmetti e scudi parimente di ferro. Destri erano costoro a trar l'arco cavalcando
e a tôr la mira fuggendo, colla fronte ed il petto rivolti all'indietro. I fanti vestivano di cuoio;
portavano, come i cavalieri, le anassiridi di pelle a difesa delle gambe; armi da offesa avevano i
giavellotti, ascie a due tagli e spade di ferro alla cintura. |
A queste genti tenevano dietro gli abitatori del Sennaar, i fieri Cussiti, gli Accad, i Sumir
aspro favellanti, tutta, insomma, quella mescolanza di popoli diversi, che furono i fondatori di
Babilu. Cinquanta migliaia erano i cavalieri, con loriche ed elmi di forbito rame, lancie ritte sulla
staffa e mazze ferrate pendenti all'arcione. Più numerosi i fanti, tutti vestiti di cuoio; parte
fiondatori, con bisacce sull'ómero, che recavano selci, ghiande di piombo, o d'argilla e bitume; parte
arcadori, dalle cui spalle pendevano le capaci faretre.
Si avanzavano poscia le artiglierie, torri, uncini e macchine da trarre, con cammelli carichi di
munizioni, dardi intrisi di nafta, palle di bitume e di zolfo. Seguivano quaranta elefanti, smisurati
animali condotti dalle rive dell'Indo, ognun de' quali portava il suo custode sulla negra cervice e una
torre sul dorso, con dieci uomini armati di giavellotti e di frecce. Ultimi quattrocento carri di guerra,
con scelti guerrieri, armati d'aste poderose e accompagnati da esperti cocchieri.
Chiudevano la marcia diecimila uomini di scelta cavalleria. Militava in quella schiera il fiore
e il nerbo della gioventù babilonese, tutti usciti dalle prime famiglie dei Sennaar. Era gran lustro lo
entrarvi, imperocchè s'avevano a comandanti dei drappelli uomini di regio sangue, o congiunti di
parentado colla discendenza di Nemrod.
Le fogge e l'armi rispondevano per lo sfarzo loro alla dignità di quel nobilissimo corpo.
Sulla lorica di ferro temprato portavano il candì, tessuto di bisso, di latteo colore, con fregi di por-
pora, cosparso di soli fiammanti in oro. Sul capo avevano la tiara, i cui lembi si raccoglievano a
soggolo, lasciando scoverta appena la metà delle guance. Ricche cinture sostenevano le lunghe
spade dalle lucenti guaine, ed archi e faretre pendevano dagli omeri. Bianchi erano come neve i
cavalli, cresciuti pur essi nelle regie mandre di Sippara. E così bianchi sulle bianche cavalcature,
rutilanti d'oro e di porpora, era una vaghezza a vederli.
Diceansi i cavalieri di Belo, o, con altre parole, la sacra miriade. Accompagnavano l'esercito,
quando esso stava sotto il comando del re, e in battaglia non erano adoperati che ne' momenti
supremi. La conscia nobiltà del sangue e l'obbligo dei forti esempi, li facevano valorosi a gara su
tutte le schiere. Andavano contro il nemico a corsa sfrenata, lasciando le redini sul collo ai destrieri;
quando si scorgeva quella moltitudine incalzare a galoppo, coi brevi mantelli e le criniere
svolazzanti in mezzo a un nembo di polvere, pareva di vedere una legione di spiriti celesti, scesi a
combattere le miserande pugne degli uomini.
Passando di sotto al poggio, i cavalieri di Belo acclamarono con alte grida la possente
regina, che d'un gesto cortese ricambiò loro il saluto; indi ella pure si mosse, per salire sul suo
cocchio di guerra, che l'attendeva nel basso. Dietro a lei scendevano a cercare le loro cavalcature i
suoi uffiziali, gli sceptuchi e i melofori; quindi gli eunuchi, i serventi, i custodi del tesoro. E postosi
in moto il corteo, si affrettarono sull'orme i bagaglioni colle salmerie, e una grossa compagnia di
cavalieri, che doveva proteggere le spalle dell'esercito e impedire lo sbandarsi ai codardi.
Al passo di Lukdi non era stata quella confusione, che in tanta moltitudine d'armati era age-
vole immaginare. Gli ordini della regina erano stati avvedutamente distribuiti; e i comandanti,
aiutati da guide esperte dei luoghi, avevano prese le vie a ciascuno assegnate.
I fanti s'inerpicarono per le costiere e per le viottole alpestri; i cavalli seguirono le strade che
correvano lungo le rive del fiume. Sulla più vasta, che risaliva la sponda destra, s'avanzavano, preceduti da
buon nerbo d'arcieri, i carri di guerra e la sacra miriade. Tenean dietro a questa le macchine, gli elefanti e i
bagaglioni, che ad un certo luogo dovevano far sosta per non riuscire d'ostacolo ai movimenti dell'esercito.
Ogni cosa per tal modo disposta, la marcia che doveva condurre l'esercito babilonese in vista
del campo d'Ajotzor, fu recata a buon fine in quel giorno. Gli Aicàni avevano udito dalle loro scolte
ravvicinarsi del nemico, e, come s'è detto, erano pronti a riceverlo.
L'alba del giorno seguente salutò i due campi, l'uno in presenza dell'altro.
XVII.
A J O T Z O R
Videro le aquile aicàne da quanta moltitudine di combattenti fossero minacciati i lor nidi. Le
cime dei monti, le digradanti costiere, i poggi, i declivii, erano coperti di armati. Ancora non si
distinguevano le insegne, nè potevano noverarsi i manipoli; ma si notava da lunge, e diceva più
assai allo sguardo, il brulichìo delle innumeri schiere.
- Per l'anima dei padri nostri! - esclamò Sempad, guatando in giro le aperte colline, in mezzo
alle quali si dilungava scorrendo l'Eufrate. - Qual fitta selva d'armati!
- Numero sterminato, non forza! - disse di rimando Vasdag, alzando superbamente le spalle.
- Calano dai monti e fuggiranno dal piano, siccome è lor costume ne' sabbiosi deserti. Assai più
molestia mi danno quegli altri, che io vedo inoltrarsi laggiù, sulla riva sinistra del fiume. -
Così dicendo, il principe di Tarbazu additava una frotta di cavalieri, che compariva allora
alla svolta d'una rupe, in fondo alla valle. Era l'antiguardo dell'ala destra dei Babilonesi, che doveva
per l'angustia de' luoghi avanzarsi da quella banda, lasciando tra sè e il centro dell'esercito il corso
dell'Eufrate.
- Dividono le forze! - notò Sempad, con aria di trionfo.
- Possono farlo; - rispose con amarezza Vadag. - Molto maggior nerbo di gente avranno
incamminato sulla riva destra del fiume, dove sono i lor movimenti più agevoli. Mirano a pigliarci
in mezzo, e accortamente preparano i cerchi; ma per gli Dei, innanzi che siano calate quelle miriadi
senza nome dai monti, avremo fatto un profondo squarcio nelle schiere del piano, e i tronchi del
serpente dureranno fatica a ricongiungersi.
- Ti ascolti Zervane! - disse Ara il bello, che stava poco lunge da lui, ritto sull'arcione e il
collo teso, guardando nel fondo. - Ecco, diffatti, la prima fronte si avanza, è già presso alla macchia
di Rezduni. -
Non s'ingannavano gli occhi del re. Mentre l'ala destra dei Babilonesi, che era composta di
cavalleria meda e di arcadori di Martu, s'inoltrava dall'altra parte del fiume, mollemente accennando
a cercare un guado, il centro e l'ala sinistra si facevano speditamente innanzi su quel campo più
vasto, che le alluvioni dell'Eufrate aveano formato sulla sua sponda destra. Grossi drappelli d'arcieri
cussiti precedevano, misti a frombolieri di Palastu, che si venivano sparpagliando dinanzi alla fronte
di battaglia, colle fionde tese dietro alle spalle e pronti a rotarle in aria al primo apparir di nemici.
Dietro a costoro si muovevano grosse squadre di cavalieri. I carri, che venivano in terza linea, erano
celati allo sguardo da quella profonda siepe d'armati.
- Orbene, mio re, che faremo? - disse Vasdag, poi che ebbe osservato a sua volta il grosso
dell'esercito contrario. - Lasceremo che s'inoltrino ancora e si dispongano in battaglia ordinati?
- No, certo! - esclamò il re. - I fiondatori di Van sono appostati a piè della macchia di Rez-
duni. Eglino, che numerosi sono e valenti, prenderanno a sfrombolare i cavalieri babilonesi, e noi
compiremo l'opera loro, facendo impeto dei nostri cavalli, entro le sgominate ordinanze. Cotesto
non dee parer dubbio, - soggiunse il re, alzando la voce, perchè tutti intorno lo udissero - a chi per la
sua patria ha risoluto di affrontare ogni più grave pericolo. Egli è piuttosto da stare in pensiero per
quegli altri che s'avanzano laggiù e si fermano ad ogni tratto e mandano cavalli a tentare il guado
del fiume.
- Stratagemma! - notò sorridendo il vecchio principe di Tarbazu. - Guadando il fiume laggiù,
farebbero ingombro alle lor medesime schiere.
- Sì, ben dici, o savio Vasdag. Coloro vorrebbero trarci in inganno, perchè facessimo inutil
ressa più avanti, lasciando più debole il campo nostro, dove certamente, al momento opportuno, si
sforzeranno di giungere. Io dunque penso che a questa altezza si debba aspettarli. Vadano gli arcieri
di Tarbazu e si appiattino sotto a quella triplice fila di pioppi. Colà, non altrove, tenteranno il guado
i nemici. Ad ogni costo vuolsi impedirlo. Tu stesso, noto, alla tua gente e diletto, veglierai in quel
luogo. È il nostro lato debole, ed ha mestieri del capitano più valoroso ed accorto. -
Così parlò il giovine re, di senno maturo; e Vasdag. bene intendendo come in quel luogo,
che aveva detto il re, fosse necessaria la sua presenza, s'incamminò a quella volta, per disporre i suoi
arcadori lungo le vincaie del fiume, e un buon nerbo di cavalieri e di fanti al coperto, dietro la selva
dei pioppi.
Ciò ch'egli aveva argomentato, e che il re aveva detto con lui, era vero. I Medi, comechè
lentamente, s'avanzavano pur sempre, e senza mai risolversi al guado. Aspettavano, per ciò fare, che
la pugna fosse sull'altra riva impegnata, e con manifesto vantaggio pei loro compagni.
Ora, a che i lor voti andassero vani, si affaticava il re d'Armenia con provvedimenti solleciti.
Per fermo, pensava egli, su quel po' di pianura stesa dinanzi a lui tra le colline ed il fiume, dovea
venire la piena delle forze nemiche. Certamente era laggiù Semiramide, coi migliori dell'esercito e
coi più terribili congegni di guerra. E diffatti, da un poggio alla sua destra, su cui si era prontamente
condotto, egli aveva potuto scorgere i carri, nascosti dietro le profonde ordinanze della cavalleria
babilonese.
E si avvicinava frattanto l'antiguardo nemico. Ad un tratto, il suo balenare irresoluto, il cader
di parecchi, e un nuvolo, come di negra polvere per l'aria, mostrò al re d'Armenia che i nemici erano
giunti nelle vicinanze della macchia di Reznuni, e che i fiondatori di Van mettevano ai loro passi
impedimento gagliardo.
Un tal po' di sgomento erasi sparso nelle file degli arcieri cussiti, a quell'improvviso assalto
di fianco. Tosto avevano poggiato dalla parte del fiume, e, postisi al coperto degli alberi, scaglia-
vano frecce agli appostati nemici; ma con pochissimo frutto, essendo questi in parte nascosti agli
occhi loro da una fila di massi scoscesi, che faceano orlo alla macchia.
Veduto il frangente, furono pronti i Babilonesi al riparo. Una mano dei loro, con scudi
imbracciati, giavellotto in pugno e corte spade al fianco, si gittarono di lancio alla costa del monte,
per inerpicarsi lassù e sloggiarne i fiondatori molesti.
Ara, ciò vedendo, non ne fu punto turbato. Egli ricordava che al comando dei fiondatori era
preposto Dicranu, forte e risoluto guerriero, e non dubitava che i Babilonesi non avessero a pagar
tosto il fio della loro temerità. Diffatti, le pietre seguitavano a piovere, e gli alberi sotto cui si ri-
paravano gli arcieri, ne erano sfrondati, come per rovescio di grandine. E i soldati che avevano pur
dianzi tentato l'assalto, se ne tornavano in grande scompiglio sul piano, dov'erano fatti segno a
quella rovina di sassi, non potuta rintuzzare dalle valide risposte dei frombolieri di Palastu e degli
arcieri cussiti. Trasvolando in aria, fitte a guisa di nuvole, le frecce, le pietre, i globi d'argilla e di
piombo, fischiavano, rompevano le spade in pugno ai guerrieri, sfondavano le corazze,
rimbalzavano sugli scudi, facevano schizzar gli occhi dall'orbite, le cervella dalle infrante cervici.
Grida di giubilo per tutto il campo aicàno salutavano questa vittoria dei fiondatori di Van.
Ma che avviene egli mai? Fumanti globi si levano da tergo alle squadre babilonesi, fendono l'aria,
piombano sulla macchia di Reznuni.
Semiramide, scorgendo che i Medi non hanno ancora guadato il fiume, nè possono, perchè il
nemico ha deluso il loro accorgimento e veglia certamente al passo pericoloso; pensando inoltre che
la sua cavalleria e i suoi carri di guerra non potrebbero impunemente passare sotto quella rovina di
sassi, ha fatto incontanente sul fianco sinistro avanzar le sue macchine. L'assalto dei guerrieri alla
macchia non era che un infingimento per guadagnar tempo e sviar l'attenzione degli Armeni. Ed
ecco, le sue macchine, in acconcio luogo collocate, scagliano dardi intrisi di nafta e palle di bitume
acceso sulla costiera. S'appicca il fuoco alla selva; cigolano le piante investite dalla fiamma; vortici
di denso fumo s'innalzano, ingombrano l'aere, acciecano i combattenti, di cui si rallentano i colpi.
Vide Ara il pericolo che da quella impotenza dei fiondatori di Van sarebbe derivato
all'esercito, e si affrettò a scendere dal poggio.
- Suvvia, cavalieri di Armavir! - gridò egli con voce tonante, - il momento è venuto di dar
dentro alle ordinanze nemiche. -
Alte grida rispondono al comando del re. I prodi d'Armavir, lentate le redini sul collo, strette
le ginocchia nei fianchi ai poderosi corsieri, appuntate le frecce sulla corda degli archi, galoppano.
Quel tratto di strada che li divide dallo incalzante nemico, è superato in brev'ora. Si traggono in
disparte, fuggono, si rovesciano gli uni sugli altri i fanti babilonesi, non potendo resistere a tanta
rovina. Conoscono le amiche insegne i fiondatori di Van, e calano solleciti al piano; dietro a loro
s'avanzano i montanari d'Urarti, che portano punte di ferro innestate al sommo di lunghi bastoni.
Semiramide, dall'alto del suo cocchio di guerra, ha veduto il nembo di polvere che sollevano
i cavalieri d'Armavir. Tosto comanda che la sua cavalleria si divida in due ale e lasci aperta la via.
Avanti i carri! Pesanti come sono, muniti di ferrea cuspide al sommo del timone, riusciranno più
saldo ostacolo all'impeto dei cavalieri aìcani.
E si muovono i carri, con alto fragore vanno a dar di cozzo in quella mobil muraglia di petti
anelanti. Ma gli Armeni hanno scorto da lunge il mutamento; sviano i cavalli e piombano sui lati, si
ristringono addosso ai cavalieri di Balilonia. Dietro a loro, apron le file i fiondatori di Van, si
stringono a densi manipoli i montanari d'Urarti; e quelli fan piovere una grandine di sassi sui carri
che passano, questi fan selva di picche nei fianchi ai cavalli. D'ogni parte è aspra la zuffa; si
confondono gli ordini, e, trattenuti i carri nel corso, incomincia la strage. I cavalli feriti
s'impennano; questi infrangono il giogo; quelli rovesciano i carri; gli uni, acciecati, vanno a rom-
persi la cervice contro le ruote dei cocchi vicini; gli altri, sbuffanti, con erette criniere, trascinano
morto l'auriga.
Così ridotti a mal partito i carri babilonesi (che pochi poterono aprirsi la via nelle schiere
avverse, nè uno tornò più indietro a raccontare il suo trionfo), si volsero i montanari di Urarti in
aiuto del cavalieri di Armavir. Destramente rigirandosi in mezzo ai combattenti, sforacchiavano il
ventre delle cavalcature nemiche, tagliavano le cinghie, recidevano i garretti; come tigri si
scagliavano in groppa, si avvinghiavano ai fianchi dell'avversario, lo trascinavano a terra, sotto le
zampe dei cavalli, entro laghi di sangue. Rotti, sbaragliati da quell'impeto non preveduto,
impossenti contro i feroci assalti di quelle belve rabbiose, tentano i Babilonesi divincolarsi dalle
strette, e come possono, e quando possono, si dànno alla fuga. Grida, urla selvaggie, sono il cantico
di vittoria della gente aicàna.
Cuoceva frattanto al buon principe Vasdag di rimanersene là inoperoso, all'ombra dei pioppi.
E i suoi soldati, udendo le grida dei compagni, che sempre più si allontanavano per la valle,
incominciarono a dolersi altamente.
- I nostri incalzano il nemico, gli dànno la caccia colle spade nel tergo, e noi resteremo qui
senza gloria!..
- Ad udire le voci di trionfo che salgono al cielo!...
- A contemplare quei cavalieri sull'altra riva del fiume!...
- Que' simulacri di pietra, che non si muoveranno mai più!...
- Pazienza, miei prodi! che farci? - diceva amorevole, ma non meno scontento, il principe
Tarbazu. - Queste sono le sorti della guerra. Se noi volassimo laggiù, dove il re nostro combatte, gli
porteremmo inutile aiuto; e frattanto quelle squadre di cavalieri, che mi hanno l'aria di farsi sempre
più numerose, guaderebbero impunemente il fiume e piglierebbero i nostri valorosi alle spalle. -
Laggiù frattanto, dove i soldati di Vasdag si dolevano di non essere, continuava, non più la
pugna, il macello. Ara infuriava nel mezzo, pari al Dio delle stragi. Ma finalmente, vedendo sgom-
berarsi il campo davanti a lui, da capitano prudente, fe' suonare a raccolta. Temeva egli infatti non si
sbandassero i suoi nel tripudio del sangue e non si perdesse in tal guisa il frutto di quella vittoria,
che, a dir vero, non gli pareva anche sicura.
E ben gliene incolse. Difatti, un nembo di polvere si solleva da lunge. Sono i bianchi
cavalieri di Belo, che giungono alla riscossa. Trema la terra allo scalpito dei cavalli accorrenti; la
nuvola cresce, s'approssima, par l'uragano che rovinoso s'avanzi.
Ara comanda a' suoi di ritrarsi. Una macchia di arbusti dalla parte del fiume, nasconderà in
parte i cavalieri d'Armavir. I carri rovesciati dei Babilonesi faranno serraglia in mezzo alla strada;
dietro essi staranno a riparo gli arcieri di Zikartu, i fiondatori di Van, i montanari di Urarti.
Grida sinistre accolgono gli assalitori, e una tempesta di frecce, di pietre e globi di piombo,
si disserra sovr'essi. La prima fronte della sacra miriade è disfatta; sottentra la seconda ed egual
sorte l'attende. Nuovo ostacolo fanno i cavalli caduti: altri s'impigliano tra le ruote dei carri,
inciampano nelle redini sparse, stramazzano al suolo. La lotta a corpo a corpo ripiglia più acre, più
furibonda che mai; si calpestano i feriti, e su monti di lacere membra i sopravvissuti combattono. È
pugna di Titani, non d'uomini della comune misura. Guaiscono i caduti, bestemmiano i moribondi,
urlano gli incolumi, e si van provocando mutuamente a battaglia. Con voce pari a mugghio di tuono,
Balsam, il capo dei bianchi cavalieri, va chiamando Ara dovunque, lo dimanda avversario, giura di
tracannare il suo sangue. E l'ode il re d'Armenia e tenta col cavallo di farsi strada alla volta del fiero
Cussita. Ma in quel mezzo, Dicranu ha fatto rotar la sua fionda, il sasso ha colto l'orgoglioso
provocatore nel petto e lo ha trabalzato d'arcione. Svelto come un leopardo, si cala Dicranu da un
monte di cadaveri e per mezzo ai cavalli nemici corre ad impadronirsi delle spoglie di Balsam,
seguendolo nell'audacissima impresa i fiondatori di Van. Gli si attraversano i seguaci del caduto: la
mischia non è più per vincere da una parte o dall'altra bensì per contendersi la nobile preda. Per
lungo tratto non si discerne più nulla in quel brulichìo in quella confusione, in quell'agitarsi
disordinato di membra. Ma ecco, finalmente, appare Dicranu sulla groppa d'un cavallo; egli stringe,
acciuffata pei capegli la testa recisa di Balsam; la mostra ridendo ai compagni, che gli si serrano
intorno; cade a sua volta; un dardo ha fischiato nell'aria, gli s'è ficcato nella strozza, troncandogli ad
un punto i superbi dispregi e la vita.
Ara intanto, poichè l'impeto della sacra miriade si è franto, comanda ai cavalieri d'Armavir
di uscir dalla macchia. Accorrono essi e colgono le profonde coorti di fianco, vi fanno per entro uno
scempio. Rotte così le ordinanze, i montanari d'Urarti, cui il sangue ha reso sitibondi, si gittano alla
carnificina, come stuolo di corvi rapaci. Orribile! orribile!
Belli ed alteri nelle candide spoglie, erano venuti i generosi all'assalto. Niente resisteva al
loro urto giammai; nelle convalli di Elam, sui campi di Bakdi, sulle rive dell'Indo, que' fulmini di
guerra avevano sempre sgominate e disperse le più valide schiere. Ed ecco, qui, in una stretta
d'Armenia, impacciati, confusi, dovevano essi venir meno alla loro gran fama, alle più grandi
impromesse! Già non erano più una falange ordinata; sibbene una torma cieca, ondeggiante, lacera e
pesta, per entro a cui s'aggiravano belve con faccia umana, mostri usciti dai regni tenebrosi, che
sventravano le cavalcature e riversi li facevano cadere colle inutili armi, per trucidarli nella mischia,
diromperli sotto le zampe ferrate, affogarli nel sangue.
Guatava dinanzi a sè la regina, dall'alto del suo cocchio di guerra. E diceva intanto in cuor
suo: o come non vanno più innanzi i cavalieri di Belo? come non hanno ancora sgomberata la via?
Bene ella sapeva forti guerrieri gli Armeni, ad essi propizio il luogo e ministro d'armi nuove
il furore; tuttavia non s'aspettava una così gagliarda resistenza.
- Per fermo, - ella disse, - il re loro combatte laggiù.
- Sì certamente; - notò Faleg, uno de' suoi uffiziali, - non si pugnerebbe con tanto
accanimento, dove egli non fosse a capo de' suoi. Ah! la sua testa è poco, a rifar Babilonia di tante
vite mietute. -
Semiramide non rispose parola a quella acerba considerazione di Faleg.
- E i miei cavalieri, - gridò ella invece, - morranno così, senza che io sia con loro e corra gli
stessi pericoli?
- Possente regina, - entrò a dire un altro dei suoi, - lo sguardo tranquillo ed onniveggente del
duce è necessario alla comune salvezza.
- Ah! così pure avranno parlato a lui le timide lingue de' suoi consiglieri. Cionondimeno, egli
è nella mischia, come l'ultimo de' suoi combattenti. Orvia, Faleg; sian pronti gli elefanti ad ogni
occorrenza; noi ora andiamo, corriamo, dove si pugna per noi. -
Si mosse il cocchio regale, rapidamente trascinato da otto generosi corsieri, verso il luogo
del combattimento. Ma l'esito non rispose ai voleri della regina. La sacra miriade era respinta e i
fuggenti travolsero il cocchio nella ritirata, invano chiamati, invano ripresi dalla voce di
Semiramide. Tutto intorno a lei era un indescrivibil tumulto; cavalli senza cavaliere, anelanti
fuggivano, con le viscere penzoloni fuori dal ventre squarciato; altri, imbizzarriti, si traevano dietro
il morente signore, co' piedi impacciati nella staffa; molti, compresi d'alto spavento, volgevano al
fiume, quasi temendo di non essere più in tempo ad evitar l'urto dell'incalzante nemico.
La regina guatò un istante con torvi occhi quello stuolo di femmine imbelli; indi, comandò
che gli elefanti uscissero a lor volta, protetti da quanti uomini rispondessero in quel punto
all'appello.
- Avanti, orsù! - gridava la fortissima donna, che, già discesa dal cocchio, era balzata a ca-
vallo, brandendo il suo giavellotto. - Avanti, generosa prole degli Accad! Ricordate che tributari
vostri furono sempre questi montanari orgogliosi, e che voi siete i vincitori del mondo! Era difficile
il passo; ecco perchè i nostri cavalieri hanno dovuto piegare davanti ad un pugno di mandriani
armati di fionda. Animo, via; non fate che ridano di voi le donne di Armavir, torcendo il fuso nelle
veglie invernali! Vedete! Già calano le nostre migliaia dai monti; appariscono dal sommo dei poggi:
scenderanno tra breve a ruina. Ancora uno sforzo. valorosi Cussiti, e la vittoria è per noi! -
La battaglia è al suo momento supremo. I prodi Armeni s'inoltravano, irrompevano sul
piano, come gonfio torrente che abbia rotti i suoi argini. Ma ad un tratto i cavalli si arrestano, nitri-
scono, s'impennano, sbuffano, non sentono più lo sprone dei cavalieri. Che è ciò? Negre moli si
affacciano sulla strada. Son gli elefanti; nuovi arnesi di guerra, che Semiramide ha condotti seco
dalle rive dell'Indo. I montanari d'Aiasdan non hanno mai combattuto contr'essi.
Accorrono sulla prima fronte e scagliano dardi gli arcieri di Zikartu; ma, contro a quei
colossi coperti di ferro, fanno mala prova gli strali. S'inoltrano minacciose le negre moli, e il valore
aicàno è di bel nuovo arrestato a mezzo il suo corso.
Il re d'Armenia volge lo sguardo all'altra riva del fiume. I Medi, accalcati colà, non danno
segno di volersi muovere ancora. Tosto egli manda messaggi a Vasdag. che tolga dalle sue file
quanti più uomini può, senza suo nocumento, e li avvii lunghesso la sponda destra del fiume, per
cogliere gli elefanti di fianco. Egli intanto fa testa co'suoi: ma invano. Gli smisurati animali, incitati
dagli spiedi de' guardiani che siedono loro sul collo, galoppano contro le sue schiere mal ferme,
scuotono gli orecchi, larghi come ali di enormi vipistrelli; cogli acuti barriti sgomentano i cuori più
saldi.
Qualche freccia più fortunata si ficca tra le giunture dei pettorali di ferro; ed essi colle curve
proboscidi strappano le canne innocenti, le gittano sul volto ai nemici. Stizziti dalle punture, si
scagliano entro le file, mentre dall'alto delle torri che recano in groppa, guerrieri babilonesi scara-
ventano sabbia e bitume infuocato. I larghi petti, muniti di sprone, già sono addosso ai cavalli; come
prore di navi fendono il mare, così essi la calca; e intanto le proboscidi guizzano in aria, scendono
nella mischia, afferrano, strizzano, lanciano in alto le vittime. Pallidi, esterreffatti, i soldati armeni
danno le spalle, s'incalzan fuggendo davanti ai negri colossi.
Infiammato di sdegno, coi primi che gli giungono in aiuto dalle schiere di Vasdag, il re d'Ar-
menia fa impeto nel fianco dei mostri. I più audaci de' suoi si cacciano sotto, tentano di strappare le
cinghie che tengono ritte le torri, di tagliare i garretti e di squarciare il ventre alle belve. Un elefante
cade, ma schiaccia nella caduta i suoi uccisori. Avanti! avanti sempre! Un altro, per mano del re, ha
recisa la proboscide ed agita urlando il moncherino sanguinolento; infuria coi denti d'avorio e
trafigge chi non è pronto a cansarsi, indi si volta indietro, mette a scompiglio le file. Sollecito il
guardiano, perchè non abbia a recar danno maggiore tra' suoi, si toglie da fianco un lungo scalpello
e, appuntatelo sulla giuntura della cervice, tanto vi picchia su col maglio ferrato, che spezza il
cranio e fa stramazzar l'elefante,
Ma, caduti quei due, altri molti ne restano, e menano strage all'intorno. Per colmo di
sventura, mentre gli arcieri di Tarbazu cercano di farsi più innanzi, si abbattono nelle macchine, che
la regina ha fatto avanzar prontamente di costa agli elefanti, e sono sfolgorati da una pioggia di
fuoco.
Ora, mentre il grosso delle forze aicàne è arrestato da quei baluardi animati e da quelle mac-
chine che scagliano fuoco, Semiramide è salita sopra un'eminenza, per abbracciar d'uno sguardo
l'intiero campo di battaglia. Dalla tenda di Ara infino al luogo ove s'infrange l'inutil valore del re, la
pianura è seminata di strage, ma libera, vuota di combattenti; soltanto le schiere di Vasdag sono
visibili là in fondo, dalla parte del fiume, imboscate all'ombra dei pioppi. Poche migliaia d'uomini
stanno ancor dietro le tende, alla guardia del campo aicàno.
Il momento le sembra opportuno per mandare ai Medi, ai Persi, agli Ariarvi, il segnale
stabilito. Un dardo acceso fischia nell'aria e va a cadere nel mezzo del fiume. Tosto quel fitto stuolo
di cavalieri si muove, affretta al guado, sotto gli occhi di Vasdag.
Un nembo di frecce accoglie il movimento dei Medi. Il principe di Tarbazu non ha voluto
perder tempo, e i primi che si sono perigliati nell'acqua, vi trovano tosto la morte. Si allegrano nel
profondo del cuore i destri arcadori, e raddoppiano i colpi. Ma, pur troppo, essi non basteranno a
impedire il passaggio. Vasdag, al cui vigile occhio nulla sfugge di ciò che si tenta sulla riva sinistra,
ha veduto che i Persi e gli Ariarvi si dispongono a guadare in altri due punti l'Eufrate. Non si
smarrisce d'animo, tuttavia, e manda incontanente per le riserve, raccolte dietro alle tende; le guida
egli stesso, appena giunte, le colloca ne' luoghi più acconci, lungo la destra del fiume.
- Guerrieri d'Aiasdan! - egli grida. - Qui bisogna far l'ultimo sforzo, e con quanto vigore ci è
dato. Noi non avremo più patria, se non ributtiamo gli assalitori nell'onde. -
Aspro è il combattimento: i soldati di Vasdag fanno prodigi di valore. Ben sette volte i cava-
lieri nemici afferrano la sponda, e sette volte son respinti nel fiume. L'Eufrate è sparso di cadaveri.
Nei luoghi ove il letto è meno profondo e più facile il guado, si ammonticchiano gli uni sugli altri i
caduti, fanno argine alla corrente, che intorno ad essi ribolle, s'innalza flottando e straripa.
Da due ore il sole avea varcato il meriggio; nè cessava ancora lo strepito dell'armi, il clamore
dei combattenti. Per quanto era lunga la valle, dai poggi di Ajotzor alla collina di Kerezmanc, la
quale signoreggiava il luogo dello azzuffamento tra il re d'Armenia e le macchine babilonesi, non
era più un breve spazio di suolo che non fosse coperto di cadaveri, o d'armi infrante, o di lacere
membra; e un odor crasso di sangue, un leppo arsiccio, misti ad una nube di polvere, salivano alle
nari.
Un messo del re giunge galoppando e chiede nuovi aiuti a Vasdag.
- Che avviene egli laggiù? - dimanda il vecchio soldato.
- Che intorno agli elefanti, - risponde il messo, - abbiamo perduto il meglio dei nostri; che la
via sulla riva del fiume è sbarrata dallo macchine, vomitanti fuoco; che non possiamo romper la
diga nemica, se non abbiamo sussidio di gente fresca e animosa.
- Non è ferito il re? - chiese Vasdag.
- No, grazie sien rese agli Dei.
- Sta bene. Va alle tende di Ajotzor; ancora due migliaia d'uomini rimangono a noi. Pensavo
di chiamarli io, a custodia del fiume; - soggiunse sospirando il vecchio guerriero; - ma che farci? Li
abbia il re, che forse ne ha maggior bisogno di noi.
- Che debbo io dirgli di te? - chiese il messo, già in atto di partire.
- Che il vecchio è alla meta del suo viaggio sulla terra; - rispose Vasdag, - che, qualunque
cosa avvenga, nessun Medo potrà vantarsi, me vivo, d'avermi vedute le spalle. -
Ciò detto, il buon cavaliere si allontanò verso la riva, per respingere un nuovo assalto dei
Medi. Ma ormai l'impresa era superiore alle forze de' suoi. Durò a lungo lo scontro, sulla riva
contrastata; finalmente, perduto gran numero dei loro, i nemici giunsero a piantarsi saldamente sul
greto; e fu libero il guado.
Vasdag non sopravvisse alla rotta. Slanciatosi col cavallo nella schiere' dei Medi, ebbe morte
degna di sè, combattendo da forte, coll'ultimo colpo della sua spada fendendo l'elmo e il cranio del
capitano nemico.
Accesi di sdegno, furibondi, si gettarono i suoi nella mischia, per difenderne il corpo e
vendicarne la morte. Fu lotta disperata; bisognò ucciderli tutti, ad uno ad uno, e l'impresa fu lunga e
difficile, costò ai vincitori gran sangue.
Così mantenne la sua fede Vasdag, il vecchio principe di Tarbazu, che è sulle rive
dell'Eusino. Esperto condottiero d'eserciti, era stato compagno ad Aràmo, nelle sue guerre fortunate
contro i Medi e i Turani; d'onde aveva meritato d'esser secondo nel reame, e incoronatore dei re
d'Armenia. Epperò a lui era concesso portare la corona fregiata di giacinti, due orecchini, il calzare
rosso ad un piede, e il diritto altresì di bere in coppa d'oro. Biondo in giovinezza i capegli, colorito
il viso, gli occhi grigi, robusto le membra, largo le spalle, il piè bello e saldo alle fatiche, fu sobrio
sempre nel bere e nel mangiare, nei piaceri temperato. Per lungo ordine di secoli, i memori poeti, a
suon di cembali lo cantaron prudente, moderato nei desiderii, pieno di senno, eloquente, utile in
tutti gli umani negozi. Sempre giusto nelle sentenze, pesava con bilancia a tutti eguale, senza studio
di parti, gli atti d'ognuno. Non invidiava ai grandi, nè i piccoli sprezzava; non altro voleva che
stendere su tutti il manto delle sollecitudini sue.
Ignaro della fine di Vasdag, ma udendo le grida di vittoria e notando l'affrettarsi dell'ala
destra dei Babilonesi nel passaggio del fiume, Ara meditò un ultimo colpo; sforzare il passo, non
più dove infuriavano le macchine, ma dall'altro lato, dove sorgevano le colline. Scelti a tal uopo i
più animosi dei suoi, si condusse a volo verso le alture. Lo seguirono primi, al sommo di un
poggio, Bared, lo scudiere, Sumati ed Abgàro; Abgàro che pel lungo combattere vedevasi lordo la
bianca tunica di sangue e di polvere.
- È questo il colle, - disse con accento d'amarezza il cantore, - d'onde il fortissimo Aìco
saettò l'orgoglioso Titano. Vedi, o re; quello che ci sta dinanzi è il poggio di Kerezmanc. Colà noi
dobbiamo giungere, calarci di là, piombare alle spalle di quei luridi cani! Ma che vedo? O m'in-
ganno, o il duce dei Babilonesi è lassù. Destro arciere, suvvia, chè non adatti uno strale alla corda e
non gli mandi il saluto della morte? -
Trascinato dalle aspre parole di Abgàro, il re impugnò l'arco e si fece a togliere la mira. Dal
poggio di Kerezmanc il suo aspetto fu conosciuto e l'atteggiamento notato.
- Ah! - gridò Semiramide. - Lui! -
E spronato il cavallo, si avanzò imperterrita sul ciglione, ad attendere il colpo.
Faleg e gli altri che l'accompagnavano, veduto il pericolo a cui ella si esponeva, furono
solleciti a correre, per farle scudo colla loro persona. Ma la fortissima donna li rattenne con un
gesto imperioso.
- Non ardirà! non ardirà! - soggiunse ella poscia, con un altero sorriso.
E stette immobile, guatando il suo avversario; ben lieta e largamente vendicata di lui, se
avesse potuto scorgere il tremito che gli invadeva tutte le fibre in quel punto.
Rimase egli incerto un tal poco, quasi volesse aggiustar la mira, e sperimentare la tensione
della corda. Ma questa per fermo non doveva essere la cagione dell'indugio, poichè tosto, con atto
disperato, gittò l'arco e lo strale lungi da sè.
- Non posso! - gridò egli. - Non posso!
- Ma potrò io! - disse Abgàro.
E raccolse l'arco da terra. Il re lo rattenne, che già stava per poggiare la cocca sul nervo
disteso.
- No, no, mio vecchio Abgàro! A qual prò? -
Abgàro lo guardò trasognato; indi, come parlando a sè stesso, acerbamente rispose:
- Ah! invero nessuno saprebbe più tender l'arco di Aìco. Ma nessuno ama più la sua patria
come il figliuol di Thogarma. Gli occhi d'una maliarda hanno virtù perniciosa su noi, come quelli
del serpe. Oh, dimmi ciò che vorrai, re d'Armenia; - soggiunse il vecchio cantore, notando il cor-
ruccio che balenava dagli occhi del giovane; - uccidimi, se t'aggrada, e togli un altro soldato alla
misera terra dei padri.
- No; - rispose gravemente Ara; - io nol farò. Risponderò invece al tuo cieco amore di patria
che questo inutil colpo contro una donna potrebbe aggravare la sorte del popolo nostro, che non
avrà più noi per difenderlo. -
Nulla rispose il vecchio; ma un amaro sorriso d'incredulità gli sfiorò le labbra; e fu risposta
peggiore. Trasse indi la spada; gittò la guaina al basso, dove in quel punto si vedevano apparire i
nemici, e giù di lancio, come se avesse al piede le ali della giovinezza, si scagliò incontro alla
morte.
- Tu solo? - gridò il re, con accento disperato. - Vecchio Abgàro, non disprezzare i giovani,
perchè essi hanno un cuore e non amano combatter le donne. -
E impugnata la sua larga spada a due tagli, avanzò per seguire il vecchio sdegnoso.
Ma in quel mezzo, Abgàro cadeva. Una torma di arcieri sbucava da un colmo di arbusti,
sulla destra degli Armeni. Erano i primi che calavano dai monti. Non che la fronte dell'esercito
aicàno, già più non eran sicure le spalle. E il medesimo accadeva dall'altra banda del fiume. Quella
parte dell'esercito babilonese che davanti al passo di Lukdi avea piegato a destra, verso le sorgenti
del Tigri, per inaccessi e mal guardati sentieri, riuscita era alle spalle di Aiotzor, tagliando la via di
ritirata verso Armavir, e piombando sulle tende del campo di Ara, innanzi che i Medi, i Persi e gli
Ariarvi avessero distrutto gli ultimi avanzi delle schiere di Vasdag.
Il re d'Armenia non vide la morte di Abgàro. Egli era appena a mezzo del declivio, che una
freccia lo colse, penetrando là dove la corazza si allacciava alla gorgiera. Sul punto non s'era
avveduto di nulla, attribuendo la caduta all'aver posto il piede in fallo. Senonchè, tentando di rial-
zarsi, sentì una trafittura, come un bruciore al sommo del petto. Recò istintivamente la mano colà e
trovò la canna infissa nella giuntura; la strappò con violenza e un umor caldo gli spicciò sulla
mano. Era sangue, e appariva copioso.
- Ah, grazie! - esclamò, alzando al cielo le pupille smarrite.
E ricadde, ma non più sul terreno, bensì tra le braccia di uno de' suoi. Riaperse gli occhi a
guardarlo, e riconobbe Sumàti.
- Santo vecchio, - diss'egli con voce spenta, - che avviene di noi?
- Mio dolce signore! - rispose amorevole e triste l'Indiano. - Scendono innumeri schiere dai
monti; già ci romoreggiano da tergo.
- E il fiume?
- Guadato!
- Ah! É dunque morto Vasdag. Povero amico! Povera terra d'Aiasdan! Uccidimi, te ne
prego, Sumàti! Toglimi ai miei rimorsi, al mio disonore, finiscimi! -
Sospirò profondamente il vecchio Sumàti, e chiuse gli occhi come per raccogliersi nei suoi
dolorosi pensieri. Anch'egli sentiva il rimorso, che gli lacerava il profondo dell'anima.
In quel mentre s'avvicinavano a passi concitati, e feroci nell'aspetto, i nemici.
- Rattenete le armi! - gridò Sumàti, poichè li ebbe veduti salir minacciosi per l'erta. - È il re
d'Armenia ferito. Oscuri soldati, ardirete dar morte ad un re?
- Ah! - sclamarono giubilanti i guerrieri. - Il re d'Armenia! il re prigioniero?
- Non si uccida, pel dio Nergal! non uccida! - gridò il capitano, accorrendo tra i primi, colla
spada sguainata. - Arrendetevi, figli d'Aìco, e giù l'armi, o tutti pagherete col vostro sangue ogni
scalfittura che tocchino i miei. -
Erano in piedi sul fianco del poggio, Sumàti, Bared, Sempad, e pochi altri guerrieri aicàni.
La resistenza sarebbe stata impossibile; posarono le armi.
- Dobbiamo prenderlo vivo; - proseguiva il capitano, parlando a' suoi, che s'erano fatti in-
torno al ferito. - La regina ha promesso un lauto premio a chi le condurrà vivo il nemico. E siete
voi, voi, uomini di Birtu, la città bianca sul monte, i fortunati!
- Gloria a Birtu! - gridarono i soldati, levando in aria gli archi e le spade. - Gloria al paese di
Libnan, dove sorgono i cedri!
- Il vinto re farà bello il trionfo alla possente signora degli Accad; - dicevano alcuni di essi. -
Pagherà egli il fio di tante migliaia di uomini che questa orrenda giornata ci costa.
- Che farà di lui la regina?
- Lo darà in pasto ai leoni.
- Lo farà configgere con chiave di rame nella fronte alle porte della sua reggia. -
Così semivivo, il re fu adagiato sull'erba. Sumàti, scioltogli prestamente l'usbergo, gli
veniva astergendo la ferita; e con una fascia, che s'era tolta dai fianchi, s'apparecchiava a stringere il
sommo del petto, perchè il sangue stagnasse.
Intanto Semiramide, discesa dal colle di Kerezmanc, affrettava il cavallo lassù.
- Vivo! - gridarono i guerrieri di Birtu, muovendole incontro. - Possente signora, egli è
nostre mani, il tuo crudele nemico. -
La regina, severa in volto, accigliata, come chi si sforza di nascondere la tempesta dei
contrari affetti che gli freme nel cuore, comparve sul luogo, tra le grida e le acclamazioni delle sue
schiere affollate.
Sumàti torse le ciglia da lei, ripugnandogli di vedere su quella fronte la gioia dell'ottenuto
trionfo. Ma vide in quella vece Bared, lo scudiere, il fido di Ara, che gli stava tutto confuso e
tremante da lato.
- Ah, Bared; - susurrò nell'orecchio all'Armeno il vecchio della Triade. - Tu lo vedi? Il tuo
tradimento ha perduto l'Armenia; ha perduto il suo re. -
Un singhiozzo venne a morir sulle fauci di Sared.
- E tu? - diss'egli di rimando.
- Io? - sclamò il vecchio. - Io non ero de' vostri, nè conoscevo quel nobile cuore. Ma ora, mi
assista l'Eterno, io salverò la sua vita.
- Che vuoi tu fare? Tradirci? - balbettò, impallidendo, l'Armeno.
Sumàti crollò alteramente le spalle e non gli rispose che una sola parola: - codardo! -
La vittoria di Ajotzor era stata piena ed intiera. Saviamente scelto il campo di battaglia
dall'esercito aicàno; ma egli sarebbe bisognato, per vincere, che il re d'Armenia avesse avuto più
gente, per custodire la sinistra riva del nume e asserragliare le gole circostanti. Non erano in quella
vece che cento migliaia di valorosi; valorosi, sì certo, dappoichè tutti giacevano sul campo. Povere
donne di Aiasdan! esse non dovevano più rivedere gli amati.
Le perdite dei Babilonesi erano gravi; si potea noverarle ad occhi veggenti. Duecento
migliaia tra morti e feriti; la sacra miriade distrutta; poche centinaia i superstiti.
Il vecchio della Triade s'era ingannato. Semiramide fu triste, assai triste, quel giorno.
CAPITOLO XVIII.
IL TALISMANO.
Il dì seguente, che fu il settimo di Garmapada (così il costume dei popoli medo-ariani; ma presso i
Caldei era detto Tana, o mese del fuoco), l'esercito babilonese entrava in Armavir.
Profondo squallore, silenzio di tomba, accolsero le schiere dei vincitori nella capitale
dell'Aiasdan. La maggior parte del popolo, donne, vecchi e fanciulli (che d'uomini acconci alle armi
già non ve n'era pur uno) avevano presa la fuga all'avvicinarsi del nemico; e sconsolati per la morte
dei loro diletti, più sconsolati per l'eccidio della patria, quali tementi le orrende vendette del vinci-
tore, quali rifuggenti dal solo pensiero di doverlo vedere orgoglioso ed insolente padrone in mezzo
alle vie della loro città, s'erano rifugiati sulle montagne d'Urarti, che tale avea nome presso gli
Armeni la catena dell'Ararat. Non rimanevano nella città che i decrepiti, gl'infermi, i mendichi.
Colpita da quel doloroso aspetto della città principale, e volendo con esempio di
magnanimità chetare gli spiriti nell'altre provincie del regno, Semiramide inviò pronti messaggieri
ai fuggiaschi. Tornassero senza timore, liberi nella loro tristezza. Bene ella sapeva non esser tra loro
uomini validi al maneggio delle armi; per altro, non voler prigionieri, salvo i pochi fatti in battaglia.
Bastarle la sua piena vittoria, le spoglie e i tributi di guerra. Aggiungeva, non sarebbe torto un
capello ad alcuno; sè esser donna e voler rispettate le donne dei vinti. Tornassero adunque: sacro
alla gente degli Accad il dolore di un popolo soccombente; Belo e tutti i sommi custodi di Babilonia
non esser gelosi del culto che alle loro deità avrebbero liberamente seguitato a prestare gli Armeni.
Generose parole, a cui, ne' feroci tempi di allora, non erano avvezzi per fermo gli abitanti
delle soggiogate contrade. Insolite erano; parvero soverchiamente umane, incredibili. Ma i
messaggieri della clemenza portavano in pegno di loro sincerità il suggello di Semiramide; li
accompagnavano alcuni superstiti di Ajotzor, che giuravano di avere udite le sante promesse dal
labbro medesimo della possente regina. Credettero i derelitti, e a lenti passi, come chi sa di non
andare a lieto ritrovo, finalmente tornarono.
Intanto, alle città e provincie più lontane del regno, a Tarbazu, che è sull'Eusino, a Sarda e
Zikartu sui confini d'oriente, a Mildis e a Masciag dove il sole s'asconde, erano spedite numerose
coorti, per levar tributi e recar provvigioni all'esercito. L'oro, le gemme, le pelli preziose, i viveri e
quant'altro chiedevano i superbi, tutto fu dato in silenzio, prontamente, con quella severa alterezza
che sdegna di piatire, o d'implorare condizioni più miti. A che contendere del più o del meno cogli
oppressori? Comunque fosse, non esisteva più Armenia.
Pure, la gran donna non meditava di soggettare la vinta contrada all'impero. Più giusto sa-
rebbe il dire che nessun concetto aveva ella ancora in mente formato. S'era chiusa nella ròcca di
Van, rupe foggiata dalla natura a baluardo, sull'acque salse del lago, cosicchè poco aveva dovuto
aggiungervi l'arte degli uomni. E là rinchiusa, mostravasi a pochi.
Il suo ferito nemico era in una camera appartata della ròcca, e vegliavano al suo letto
indovini Caldei, esperti di farmachi e di erbe salutari, i quali seguivano sempre l'esercito. Sumàti,
essendo stato fatto prigioniero insieme col re, aveva potuto seguirlo fìn là. Bared, mal sopportando
l'aspetto dell'Indiano, e lacerato dal suo rimorso, era andato a confondersi cogli altri prigionieri,
spiando con animo intento una occasione di fuga.
Egli non si sarebbe detto per fermo, al vedere l'aspetto desolato della ròcca di Van, che
fossero vincitori i suoi ospiti e giorni d'allegrezza per le schiere babilonesi. Una nube di atra
mestizia incombeva sul luogo; triste e taciturna la regina; pensierosi, come fastiditi, i suoi uffiziali.
Dicevasi nei sommessi parlari che il negro umore della regina derivasse dalle gravissime
perdite che aveva toccate l'esercito. La distruzione della sacra miriade, in particolar modo, e la
morte di tanti prodi, congiunti di sangue alla casa di Nemrod, erano invero cagione di alto dolore
non che per lei, per tutti i guerrieri di Kiprat Arbat, veri sostegni dell'impero degli Accad e partecipi
alla sua smisurata fortuna. Tanto sangue sparso, e del migliore di Babilonia, non era egli un
argomento di profondo rammarico? ma come, altresì, e con che inusitato rigore, non avrebbe fatto
Semiramide le sue vendette e quelle de' suoi nella progenie d'Aìco! Certo, quel cupo silenzio, il
lampo sinistro degli occhi regali, promettevano tempesta. Bene doveva egli risanare, il vinto re degli
Armeni, ma per abbellire, entro le mura di Babilonia, il trionfo della possente regina e pagare il fio
di tante nobili vite mietute. Tale era il costume degli Accad. Mozzata la lingua a chi aveva
spergiurato la sua fede; tronche le mani che avevano impugnate le armi della ribellione; cavati gli
occhi, che più non erano degni di vedere la luce di Belo; questa sì, questa era la sorte dell'orgoglioso
Aicàno.
Frattanto, egli giaceva nel suo letto di dolore. Stremato di forze e non al tutto ritornato in sè
medesimo, egli non aveva ancora aperte le labbra a parlare. Hurki, il capo degli eunuchi regali, era
quasi sempre nella camera del ferito, e ad ogni tanto ascendeva alle stanze della regina per recarie
notizie di lui. Ma erano tristi nuove, e poco ancora l'una dall'altra dissimili. Era sfinito il garzone,
pel molto sangue perduto; gli ardevano le membra per febbre; il seno, tutto intorno alla ferita,
tumido sempre e infiammato. Cibo non voleva, nè conforto; i farmachi apprestati dal Casdim a,
stento gli erano ministrati, e non da altri fuorchè da quel suo vecchio fedele. Gli atti, i moti
incresciosi del volto, mostravano l'interno fastidio d'ogni cosa e di sè; la vita che gli rimaneva, parea
volesse comprimere nel profondo, nella speranza di soffocarla e di sottrarsi al suo fato.
Ciò turbava sempre più la regina. A notte colma, tutta chiusa nel suo manto bruno, scese
furtivamente la scala interna, che metteva alla camera dell'Armeno. Nessuno vigilava colà, tranne
Hurki, che ravvisò la sua signora e fu pronto a ritrarsi nelle stanze attigue, dove gli altri si
ristoravano con poche ore di sonno.
Un fioco lume rischiarava la camera, lasciando il letto del ferito in una mite penembra. Ara
mostrava il petto scoverto; ma una larga benda, addoppiata intorno al torace, nascondeva la piaga.
La regina si avvicinò, dal lato dell'ombra, tirandosi sul volto i lembi del velo. Colà, ritta dac-
canto alla proda del letticciuolo, stette lungamente guardando. Il cuore le palpitava forte nel seno;
gli occhi mettevano lampi di sotto alle ciglia contratte; aspra battaglia di pensieri le travagliava lo
spirito.
Egli era là, il traditore, il leggiadro straniero, così facilmente impadronitesi di lei nel sacro
bosco di Militta, Ara il bello, il benvenuto alla reggia, l'ospite inebriato, che celava la perfidia nel-
l'anima! Egli era là, il superbo dispregiatore, il primo che l'avesse mortalmente offesa, lei, la signora
del mondo! Egli era là finalmente, il tributario ribelle, per cui tante migliaia di guerrieri avevano
incontrata la morte; il feroce, l'immemore, che aveva osato tender l'arco e toglier di mira un cuore,
già da lui con più crudele arma ferito. Destro e audace a colpirla nel più intimo degli affetti, non gli
era bastato l'animo a squarciarle il seno in battaglia! Ella, una donna, era stata più intrepida, più
forte, più generosa di lui. Però giusti gli Iddii, ed ella vincitrice a buon dritto: egli là, vinto,
disonorato, morente forse!...
Si accostò al suo capezzale. Il ferito dormiva d'un sonno greve, affannoso. Allungò peritosa-
mente la mano su lui. La fronte gli ardeva; grosse stille di sudore bagnavano le tempie, rapprende-
vano i capegli. Tremò tutta a quel tocco, e ritrasse la mano.
- Ma che gli ho fatto io? - mormorò nell'angoscia del suo cuore. - Perchè è egli fuggito?
Perchè m'ha fatta vergognar di me stessa? È orribile, orribile! E m'odia egli, dopo avermi sprezzata.
Io ho saziata la collera mia; non l'odio più: l'ho mai odiato? O Militta, o protettrice, m'avrai tu
condannata per sempre? E sia; ma io darei me stessa, il mio regno, la mia fama nel mondo, tutto
darei, per l'attener questa vita che gli sfugge dal seno.-
Così disse, piangente, perduta dell'animo; e tratta dalla piena del dolore, cadde ginocchioni
daccanto a lui, lo baciò d'un bacio sommesso, ma intenso, ma lungo, bacio di donna amante che
tutta all'amor suo si concede.
- Risorgi, adorato, esclamò, - ed odiami pure! -
I singhiozzi potevano tradirla, risvegliare il sopito. Si tolse prontamente di là, e andò a rica-
dere dietro lo stipite dell'uscio per cui era venuta. Si vergognava del suo pianto, la possente regina,
la sventuratissima donna. Pure, quelle erano le più nobili lagrime che avesse mai versato creatura
mortale.
Inginocchiata, colle palme tese, pregò.
- Anu, o soccorritore, tu che dài la costanza ed esaudisci le preci, non allontanare il tuo
sguardo da me. Bel, padre supremo, che tempri lo scettro ai regnanti; Auv, guida e custode, signore
del mondo; Nisroc, che governi le unioni, signor dei misteri e re degli abissi inesplorati, ascoltatemi.
Sam, o reggitore del cielo e della terra, tu, cui ho innalzato un tempio, facendolo splendido come il
tuo astro, coll'oro di cento popoli vinti; Adar, tu che sperdi ogni resistenza; Nergal, che hai data a
me la vittoria della spada; Nebo, o sapientissimo, che leggi nel profondo dei cuori come
nell'immenso dei cieli, nume pietoso, che risani e conforti; uditemi voi, soccorretemi, per l'amore
delle vostre spose immortali; date voi luce e forza al mio spirito, risollevatemi voi, fate che que-
st'uomo non muoia; o uccidetemi con lui! -
Confortata dalla preghiera e rasciugate le lagrime, tornò ancora la misera donna al letto
dell'amato, e lui baciò in fronte più volte.
Ma in quel punto, o fosse che la presenza di lei, avvertita nel sonno, riscuotesse il ferito, o
ch'egli altrimenti dolorasse per la medesima acerbità della piaga, il supino mosse la testa sul
guanciale e diede un gemito fioco. Temè ella non si destasse d'improvviso e la vedesse in quell'atto;
però fu pronta a ritrarsi, e, ravvoltosi il manto sul capo, con un passo leggiero s'involò dalla camera.
Quella visita l'aveva spossata. Il sonno discese sulle sue palpebre; ma fu sonno affannoso,
febbrile, turbato da dolorose visioni.
Sognò che l'uomo diletto era presso a morire, e che a lei sola era dato di camparlo da morte.
Ma come? Facendo sua la sorte del giovane, partecipando alla sventura di lui. Ara aveva perduto il
suo regno; anch'ella doveva perdere il suo.
La regina possedeva una negra gemma, con caratteri incisi, d'una lingua sconosciuta, intorno
ai quali il più dotto dei Casdim aveva affaticati vanamente gli occhi e l'ingegno. Quella piccola
pietra, tonda, levigata ed opaca, era dono della sacerdotessa di Derceto, in Ascalona; di quella
severa e malinconica sacerdotessa che l'aveva educata presso di sè, ed amata a guisa di figlia, lei
oscura bambina, raccolta sui gradini del tempio. Per anni ed anni, la ignara fanciulla aveva creduto
che quella donna fosse sua madre. Ma un giorno le avevano detto che ciò non era; che, giovanissima
ancora, Astarte era stata consacrata agli altari, e di madre non aveva per lei che l'affetto.
Ora il dì che Semiram, fatta sposa a Mènnone, usciva dal tempio di Derceto, la mesta
sacerdotessa l'aveva chiamata a sè, e dopo averla lungamente stretta al suo seno e bagnata delle sue
lagrime, così s'era fatta a parlarle, togliendosi quella negra gemma dal collo:
- Arcani caratteri sono incisi su questa pietra, o figliuola, e d'alta virtù l'hanno dotata gli Dei.
Essa custodisce dai pericoli ed esalta chi la possiede. Io non l'ebbi che tardi! Ma non mi esalta, non
mi giova ella forse, poichè tu l'avrai nell'uscire di qui, e la sentenza della tua vita non è ancora
impressa nelle tavole del destino? In te io rivivo, o Semiram; in te, che io amai, come se tu fossi
carne della mia carne e sangue del mio sangue. Tu abbila cara, custodiscila gelosamente; essa ti
recherà ventura in ogni cosa che imprenderai; donna d'umile stato, ti renderà felice nelle pareti
domestiche; salita ad alte fortune, ti guarderà dai rovesci, ti conserverà ciò che avrai per essa
acquistato. -
Nè la promessa era stata fallace. Non lieta ne' suoi affetti, Semiramide avea pure ottenuto
quanto a creatura mortale è dato di conseguire, nella prosperità delle imprese e nella altezza del
grado. Il talismano si chiariva acconcio alle grandi ambizioni. E ad esso ascriveva la regina il suo
continuo inoltrarsi di trionfo in trionfo, la felice intrapresa di Bakdi, il diadema regale, la gloria, i
popoli vinti e raccolti sotto il suo scettro potente. Tutto, come signora di genti, erale andato a
seconda; quel talismano l'aveva preservata nei pericoli, esaltata nelle prosperità, sottratta quasi alla
legge delle umane vicende.
Però, in ogni impresa a cui s'accingesse, soleva la regina portare la negra gemma sospesa al
collo, incastonata nel mezzo ad un monile di perle. E quel talismano le venne mostrato dal sogno. -
Gittalo in mare! - le bisbigliava una voce arcana. - Tornino le perle alle conchiglie natali; torni la
pietra a confondersi coi negri sassolini del fondo. Tu pure tornerai donna in tutto simile all'altre.
Forse la sorte, che ti fece avventurosa sul trono, si muterà; ma per fermo avrai fatto felice il tuo
cuore. Essere ogni cosa non è dato ai mortali; o il regno, o il tuo diletto; o la possanza, o l'amore. -
Ed ella non esitava pure un istante. Toltosi il monile dal collo, con pronta mano lo gittava
nei flutti. Con quelle perle s'inabissava ne' gorghi la sua fortuna; ed ella, sereno il ciglio, l'avea
veduta perire.
Ecco, ad un tratto, tremava sui cardini, si sfasciava il suo fortissimo impero. - Regina, - di-
ceva un nunzio, accorrendo ansioso con occhi smarriti, - il re di Mesraim vien meno alla fede
giurata e aduna le sue schiere contro di te. - Regina, - soggiungeva un secondo, ancora lordo di
sudore e di polvere, - i popoli del lontano occidente hanno occupate le tue isole, distrutte le tue
colonie; già scendono alle spiaggie di Martu, donde finora imperasti felice sui mari. - Regina, il tuo
regno è caduto; - gridava un terzo piangendo; - i Medi e i Persi, ribellati, calano dalle montagne; il
tuo popolo, il tuo popolo fedele, si è collegato coll'inimico e gli ha dischiuso le porte. -
Frattanto, negli oscuri penetrali del suo pensiero, un'ombra cresceva, si condensava, assu-
meva umane parvenze. Avea volto a lei noto, quel sinistro fantasma: eppure in quella negra barba,
in quella fronte spaziosa, in quegli occhi profondi, ella non sapeva più discernere il ricordato
sembiante. Ma poco lunge, seduto sul trono di Nemrod, il figliuol suo, l'amato suo Niuia, regnava, e
una gran luce di contentezza era diffusa sul volto adolescente; ma Ara, il diletto del cuor suo, non
posava già più sul triste giaciglio; ma una rosea nube li accoglieva ambedue, li alzava da terra, li
portava con soavissimo impulso per le vie dello spazio. Candide colombe, volate infino a loro dal
recinto sacro a Militta, guidavano la rosea conca perlata, su cui riposavano essi l'uno nelle braccia
dell'altro.
- Oh, quanto io t'amo! - le susurrava egli, baciandole il viso e colle dita errabonde accarez-
zando le sue morbide chiome. - Odiai la regina, ma amo, ho sempre amata la donna. Atossa, mia
divina Atossa, perdonami; sorridimi, o diletta; io son tuo. -
Un senso d'inusitata dolcezza le corse per tutte le fibre, a quelle soavi parole. Ella era felice,
intensamente felice, com'era stata un'ora sola in sua vita.
Si svegliò in quel mezzo, e per le ciglia semichiuse le apparvero i primi chiarori dell'alba,
che tingevano d'azzurro le nevose vette di Urarti. Ahimè! la povera Semiram, dal vaporoso reame
dei sogni, faceva ritorno alle orride asprezze della vita. Ma ancora nell'aria le pareva di sentire la
fragranza ineffabile di quel bacio, e un ultimo soffio di quella voce carezzevole che le ripeteva:
Atossa, io ti amo; son tuo.
Sorse dal letto e fe' chiamare alla sua presenza il capo dei Casdim. L'indovino fu pronto a
comparirle dinanzi.
- Possente regina, vivi in perpetuo. Che posso io fare, che ti sia grato?
- Il re d'Armenia?... - dimandò ella con ansia
- Riposa. La sua notte fu calma, più ch'io non credessi. Siamo oggi al punto fatale....
- E speri? - incalzò Semiramide, figgendo gli occhi suoi scrutatori in quelli del Casdim.
- Negli Dei è ogni nostra fidanza; - rispose egli, chinando la fronte. - Ho sognato poc'anzi
che essi lo serbavano in vita, perchè tu avessi liberamente a disporne, o regina.
Semiramide lo guardò stupefatta.
- Hai sognato! - esclamò. - E credi nei sogni?
- Sono gli Dei che li mandano; - disse, con accento di sicurezza l'indovino; - però sta scritto:
"Dai sogni infausti, o re del cielo, difendici; o re della terra, difendici! " A noi recano le notturne
visioni gli spiriti, che si muovono per voler degli Dei nel profondo de' cieli e della terra; a noi le
recano, perchè in esse leggiamo gli eccelsi avvertimenti. Non ci consente la vita della carne di
sollevarci agli Dei; soltanto nella notte, quando l'anima s'è disgiunta dal corpo, ci è dato di co-
municare con essi.
- Eccelsi avvertimenti! - ripetè Semiramide. - Sta bene; io li ho per tali, e obbedisco. -
S'avvicinò, così dicendo, a uno stipo che conteneva le sue gemme; ne tolse il monile di
perle, contemplò il talismano, lo baciò e si mosse verso il verone, che dava sulle acque.
Il Casdim la guardava attonito e tremante. Imperocchè egli non intendeva perchè lo avesse
fatto chiamare la regina a quell'ora; nè perchè, dopo le strane domande, avesse cavato fuor dallo
stipo il suo monile di perle.
- Dimmi ancora: - ripigliò Semiramide, volgendosi a lui, dal vano della finestra, ove si era
recata; - non è egli vero ciò che ho sempre udito dai savi, che l'acque di questo lago son salse?
- Sì, mia signora; epperò questa gente lo chiama il mare di Van. Fu un tempo che
quest'ampio lago e i mari lontani eran tutti una sola mistura.
- Al mare, dunque, al mare! - proruppe la regina, senza ascoltarlo più oltre.
E gittò incontanente il talismano nel vuoto. Volò in aria il monile, e tratto dal suo peso andò
veloce al basso, diè un tuffo nelle onde azzure e disparve.
Ora le perle di Semiramide erano note al popolo delle quattro favelle, per l'arcana virtù
attribuita a quella pietra nera che vi era incastonata nel mezzo.
- Che fai, regina? - gridò esterrefatto il Casdim. - Quel talismano, che ti ha sempre custodita,
che ha sempre esaltato il tuo regno...
- È là, nei gorghi profondi; - interruppe la regina con fervido accento. - Non m'hai tu detto, o
saggio indovino, che egli s'ha da credere ai sogni? Un sogno m'ha ingiunto di gittarlo nel mare.
L'eccelso avvertimento è stato seguito da me. Vanne, ora, e se vorrai dire: "son cadute le perle di
Semiramide in mare," aggiungi che esse tornarono là dond'erano uscite, e nessuno potrebbe oramai
discernere il luogo.
- Io tacerò, possente regina; - balbettò l'indovino, chinando la fronte e le spalle in atto umi-
lissimo, - Te certo inspirano gli Dei; ma il volgo non dee sapere ogni cosa; che potrebbe cavarne,
presagi funesti e intiepidir nella fede.
- Va dunque, ritorna al re d'Armenia. Vivo lo voglio! - aggiunse ella, con tale intensità di de-
siderio che parve furore e trasse in inganno la mente del Casdim. - Semiramide è grata a chi
interpetra i suoi voleri e seconda l'opera sua. Chiedi ciò che vorrai, se egli è salvo da morte.
- Possente signora, - rispose il Casdim, - l'uomo farà quanto è in poter suo. Ministrerà i
farmachi salutari, e implorerà con fervide preci il soccorso di Nebo. Se cessa quell'ardore ond'è tutto
invaso il ferito, se egli riapre gli occhi alla luce e dal suo parlare si fa manifesto che nessuna parte
del cavo petto fu lacerata dallo strale de' tuoi, scioglierò un cantico di lode agli Eterni, imperocchè
egli sarà risanato. Ora io vado, obbediente al tuo cenno, o regina. Unico premio alle mio fatiche,
desidero sia prospero sempre e avventuroso il tuo regno. -
Partì, ciò detto, meditando in cuor suo, ma non intendendo per fermo, che significasse quella
furia improvvisa della regina, e lo aver essa gittate il suo talismano nelle acque. Bene avrebbe
voluto sapere del sogno; ma oltre che non era costume d'interrogare i monarchi, egli giustamente
pensava che in quel momento la sua curiosità avrebbe potuto tornargli dannosa. L'essere Casdim
non bastava ancora a salvare un uomo dai flagelli e dai chiovi del patibolo. Superstiziosi, ma feroci,
erano i re della stirpe di Nemrod; temevano a volte gli Dei, ma non pativano libere parole dai
sacerdoti. Soltanto dopo che il popolo delle quattro favelle, e tutti con esso i figli di Assur, ebbero
sperimentata la tirannide forastiera, e una seconda dinastia nazionale fu inalzata dai Casdim, questi
sacerdoti, indovini, osservatori degli astri, diventarono una setta potente e temuta, che fu la gloria da
prima, indi la rovina del più nobile tra gli antichissimi imperi.
Uscito il Casdim, la regina rimase a lungo assorta ne'suoi turbinosi pensieri. Quel giorno,
quell'ora, decidevano della sua sorte; da quella di Ara, la sua vita pendeva. Nè già più si ricordava
del regno; il talismano gittato non le tornava alla mente, in quel punto, che come argomento di
dubbio. Può ella chiudersi (diceva) in una vil pietra, questa favoleggiata virtù che incateni gli eventi
e governi a sua posta il futuro?
Un rumore di passi la scosse. Era Hurki, il fido guardiano, che compariva sul limitare.
- Orbene? - gridò ella, balzando in piedi, e della mano comprimendosi il petto, quasi volesse
impedire al suo cuore di battere. - Signora, - disse Hurki, - i Casdim ti stanno mallevadori della vita
del re d'Armenia. Egli è salvo.
- Ah! salvo! ripetilo!
- Sì; ogni timore è svanito, - ripigliò il capo degli eunuchi; - l'ardor delle membra è cessato;
il re d'Armenia ha aperti gli occhi ed ha ringraziato di lor cure pietose gli astanti, sebbene, egli ha
soggiunto, avrebbe meglio amato non risvegliarsi più mai. -
La fronte di Semiramide si ottenebrò, a quelle amare parole, e un freddo acuto le corse per
tutte le fibre. Ma da lunga pezza oramai ella era temprata al dolore, e, passato quel primo istante
d'angoscia, ricuperò l'impero di sè medesima.
- Sta bene; - diss'ella, crollando alteramente la testa; - egli è salvo; amerà ancora la vita. Ma
dimmi; come è egli avvenuto che in quel momento, dopo tante dubbiezze dei Casdim....
- Regina, neppur essi lo sanno, e vedono in ciò un prodigio dei Numi. -
Semiramide non aggiunse altre dimande. Il suo voto era stato esaudito.
- O Astarte, madre mia, perdonami! - mormorò ella tra sè. - Ho gittato il tuo dono; ma egli è
salvo, il crudele! Non avresti tu fatto il medesimo, se l'ignoto re del tuo cuore avesse aspettato da te
la vita, o la morte? -
Si volse allora, per congedare il servo fedele. Ma in quel mezzo uno scriba dell'esercito chie-
deva licenza di entrare al cospetto della regina. Fu subitamente introdotto.
- Possente signora, - disse lo scriba prostrandosi a terra, - il novero dei prigioni, giusta il tuo
comandamento, fu fatto. Tra i pochi che furono colti insieme col re d'Armenia, uno ve n'ha che
disertò le tue schiere dal campo di Assur. Egli è un indiano, e l'hanno riconosciuto parecchi; nè egli,
or ora interrogato, lo nega.
- Faleg conosce i miei voleri; - disse brevemente la regina; - tratti in servitù i prigionieri
aicàni; a morte i disertori.
- Egli è l'unico disertore, e innanzi di soggiacere alla sua pena, chiede di esser condotto a te.
Qual fede meriti il suo dire, non so; ma egli giura di possedere alti segreti e di non poterli svelare
che alla regina degli Accad. -
II cuore le si strinse a quell'annunzio dello scriba. Sinistro presagio! Il getto del talismano
portava già forse le sue conseguenze fatali?
Stette così per pochi istanti silenziosa, pensando, chiedendo a se stessa che mai volesse dirle
quell'uomo. Forse era un codardo, che non sapeva morire, e mendicava un pretesto per prolungar la
sua vita. Ma no! Disertore, colto coll'armi in pugno, al fianco di Ara, forse diceva il vero, alti segreti
chiudeva in cuor suo. Ma quali, che non riguardassero il re d'Armenia, fors'anco la sua fuga da
Babilonia e gli alteri dinieghi che lo avevano condotto, lui e il suo regno, a così misera fine?
- Venga, - esclamò la regina; - lo aspetto. -
CAPITOLO XIX.
GLI ARCANI DELLA TRIADE.
Poco stante, condotto dallo scriba, entrò nella camera della regina il vecchio Sumàti, stretto i
polsi dietro alle terga da catene di ferro. Chinò egli il capo davanti a Semiramide; indi rimase
immobile, in attesa d'essere interrogato da lei, triste, ma fermo, nell'abbronzato sembiante.
- Chi sei tu? - dimandò la regina, a cui quel volto non ricordava nulla di noto.
- Un indiano; - rispose il prigione. - Mi chiamo Sumàti. Discepolo di Manù, ho consumata la
mia giovinezza sui Veda, santissime pagine dettate da lui per la salvezza degli uomini.
- Com'eri tu nelle mie schiere?
- Fui fatto prigione sull'Indo, mentre io davo alla patria mia, al buon re Staprobate, l'aiuto
che per me si poteva, il mio braccio e quello dell'unico figliuol mio, contro le tue armi invaditrici.
Vissi un anno in Babilonia; da ultimo, intimata da te la guerra agli Armeni, mi giovai della presenza
de' miei fratelli di patria nel tuo numerosissimo esercito; viaggiai coi custodi degli elefanti, e son
giunto con essi fino al campo di Assur.
- E di là, perchè hai tu disertato, riparando in mezzo ai nemici?
- È il mio segreto; - rispose gravemente Sumàti; - ed io tel dirò. Ma tu mi giurerai, innanzi
tutto, o regina, che il re d'Armenia avrà salva, la vita. Triste voci corrono nel tuo campo; - continuò
il vecchio, senza por mente agli atti di Semiramide, cui tanto ardimento aveva compresa di stupore e
di sdegno; - si dice che tu pensi farlo morire di crudelissima morte, e che per ciò i tuoi Casdim si
travagliano a risanarlo della sua grave ferita.... - Semiramide si contenne a stento.
- E se tal fosse l'animo mio? - domandò ella con piglio superbo.
- Faresti orribile cosa, - disse a lei di rimando Sumàti, - e a te di danno certissimo;
imperocchè io tacerei; io, tuo prigioniero e condannato a morte, che pure, per capriccio della
fortuna, ho la tua vita nel pugno.
- Ah credi? - replicò la regina, con aria di sommo disprezzo. - Io frattanto ho la tua e vo'
darla ai tormenti.
- Io medesimo te la offersi; - ripigliò tranquillamente Sumàti, - chiedine al tuo Faleg, ed egli
ti dirà ch'io mi son posto in sua mano. I tormenti non fanno paura ai seguaci di Brama; uscir di vita
non mi duole per fermo. Fin dal momento che non v'ebbe più speranza per l'armi aicàne, avrei
potuto darmi la morte; nol feci, perchè anzitutto mi premeva la salvezza del re. E certo, se la tua
collera non si fa ella a colpirlo, io l'ho salvato stamane....
- Tu? in qual modo?
- Io, sì! Ho qui meco un'ampolla; ma le mie mani non possono cavarla fuori dal seno,
impedite come sono di ferri.... -
Hurki, ad un cenno della regina, si avvicinò al prigioniero, e frugatolo, gli tolse dalla cintura
un'ampolla, dal cui seno traspariva un umore verdognolo, e la recò a Semiramide.
- In quell'ampolla, - proseguì Sumàti, - è un liquore possente, stillato da piante arcane della
mia terra. Una metà di questo liquore basterebbe a dare la morte; lenta morte e soave, ma certa. Una
goccia sola, stemperata nell'acqua, rinfranca, ravviva gli spiriti languenti. Così ho io richiamato
nelle vene del re la vita che sembrava fuggirgli; e credano pure i tuoi Casdim ad un prodigio del
cielo, o alla efficacia dei farmachi loro. Ieri appena, e stamane, mi fu dato di rimanere solo un
istante con lui, per ministrargli la portentosa bevanda. Ora egli è fuor di pericolo; ed eccomi a te, o
regina degli Accad, per espiare i miei falli, narrarti il passato e il futuro, senz'altro compenso per
me, tranne questo: la vita e la libertà di quell'uomo.
- ll futuro? E il passato, hai detto? - sclamò la regina, guardandolo fiso negli occhi, come vo-
lesse penetrargli nell'animo.
Il prigioniero le rispose con un ripetuto cenno del capo, che voleva dire: l'una cosa e l'altra
saprai.
Tosto la regina si volse allo scriba e di un gesto lo accommiatò. - Hurki, - diss'ella poscia al
capo degli eunuchi, - esci sull'atrio ed attendi. -
Rimasero soli nella camera, ella e Sumàti.
- Parla! - gridò Semiramide allora, muovendosi ansiosa verso di lui. - Per gli Dei che il
popolo delle quattro favelle ama ed onora; per l'acqua dell'Oceano, donde emerse Oanne, il pesce
dio, ad insegnare la sapienza ai mortali; per tutto ciò che splende nello spazio azzurro; pei sacri
elementi delle cose create; per gli spiriti eccelsi, che presiedono alle stagioni; pei divini serpenti;
che più? pel capo di Ninia, lo giuro; il re d'Armenia vivrà, nè gli sarà torto un capello. Se io fossi
così malvagia donna da venir meno al mio giuramento, Anu, il regnatore de' cieli, non sorregga più
il fianco della mia regia autorità; non m'illumini più la mente inferma il veggente occhio di Nebo;
Militta Zarpanit non ascolti più le mie preci. Ecco, io pongo la mia mano su te, in pegno della mia
fede; ma parla, in nome del tuo Dio, dimmi tutto quello che sai.
- Grazie, regina! - rispose prontamente Sumàti. - Ora il mio supplizio incomincia; e il tuo,
povera donna, non sarà meno acerbo, pur troppo! Odimi; tu sei tradita. Tu vivi sicura, trionfi in
Armavir, e Babilonia da sette giorni s'è ribellata, già maledice il tuo regno.
- Ah, per gli Dei! - proruppe Semiramide accesa in volto di sdegno. - La tua lingua ha
mentito.
- Tu non avevi ancora levate le tende dal piano di Assur, quando scoppiò la rivolta; -
proseguì umilmente quell'altro. - Non hai tu veduto, per gli alti silenzi della notte, i fuochi che
ardevano sui colli, da Assur fino al paese di Nahiri? Per lungo ordine seguivano essi, fino alle alture
di Sippara. L'un dopo l'altro accesi, essi davano a me il rapido annunzio, che forse ti giungerà fra
alcuni giorni pe' tuoi corrieri; se pure essi non saranno arrestati per via. In tal guisa avvertito, uscii
dal tuo campo, corsi alle tende aicàne....
- Ma tu? - interruppe la regina, balzando indietro per alta meraviglia e terrore, mentre veniva
guatandolo con occhi smarriti. - Chi sei tu, a cui giungono per tal via, e premono tanto, così gravi
novelle?
- Io te l'ho detto, o regina; un Indiano, un vecchio interpetre dei santissimi Veda. Non hai tu
tentato, o Semiramide, di sottomettere la diletta mia terra, di spingere il tuo cocchio regale fino
entro le mura della sacra Ayodìa e di assoggettare i nostri Dei a quelli della stirpe di Cus? Dominare
su quante son terre dalle isole del mar occidente infino alle inesplorate rive del Gange; far tuo il
mondo; gittarlo in pascolo ai desiderii immani del popolo delle quattro favelle; era questo il tuo
sogno. Orbene, mostruoso era il disegno, e bisognava sgominarlo, anzi che tutti imprigionasse nelle
insidiose sue fila. Tre uomini si congiurarono contro di te; tre uomini soli, ma ognuno d'essi era
legione, era popolo, moltitudine immensa. Uno di questi tre uomini t'è innanzi, umile e dappoco per
sè, ma grande, ma forte, per ciò che egli metteva in moto, a tuo danno; i sospetti, gli sdegni e le
vendette dell'India. Contro di te sorse un altro, Manete, della nazione di Mesraim, che la tua potenza
minacciava, e che già i figli del deserto, obbedienti al tuo cenno, hanno tentato d'invadere. E venne
un giorno che questi due collegati s'abbatterono in un odio, più feroce a gran pezza e più profondo
del loro, rinvigorito da tutte le sorde collere che il rancore, la gelosia, l'amaro struggimento dei patiti
dispregi, possono addensare nel cuore d'un uomo. Si congiunsero a lui; la Triade era formata; aveva
un braccio possente e sicuro, per ferire i suoi colpi.
- Quest'odio avrà un nome! - ruggì Semiramide. - ll suo nome io ti chiedo.
- E il cuore non te l'ha egli mai detto, o regina? Quel senso delicato, che soccorre alla più
debole ed alla più leggiadra delle creature di Brama, non t'ha egli avvertito che chiudevi nella tua
reggia un serpente? Sei donna, ed ignori che amore negletto si cangia in odio mortale, siccome
inacidisce, se obliato in disparte, il soave liquor della palma?
- Zerduste! - esclamò la regina, a cui un lampo di tarda luce balenò nella mente. - Ma potevo
io darmi pensiero dell'amor suo? Chi può avvedersi di ciò ch'egli non cura? Ero io donna così
volgare, da gittare il mio tempo in questi vani compiacimenti del mio sesso? Di donna ebbi il corpo,
non l'anima. Zerduste, adunque? Zerduste ha nome quest'odio?
- Sì, - ripigliò Sumàti, - Zerduste, al quale incauta, commettevi l'adolescenza di Ninia.
Povera madre! Egli ha foggiata a suo talento la molle cera, e tuo figlio non t'ama più, nè ti teme; tuo
figlio è ribelle. -
Qui trattenne Sumàti il suo dire, poichè la regina non avrebbe potuto udirlo più oltre. A
quelle parole: " tuo figlio è ribelle, " che compendiavano per lei tutto il lento e coperto lavorio del
nemico, Semiramide aveva dato un grido di fiera che torna al covo e più non vede i suoi nati; e si
era abbandonata, singhiozzando, contro la spalliera del suo trono, a cui le mancava la forza di
ascendere. Si riebbe finalmente; e quando volse la faccia a Sumàti, già non era più quella.
- Il cuor della madre ha toccata una acerba ferita; - diss'ella gravemente, poichè si fu posta a
sedere sull'alto suo scanno. - Ti udrò ora con calma; prosegui! -
L'Indiano s'inchinò davanti a quella semplicità maestosa.
- Ti obbedisco, - soggiunse. - Tu scenderai, com'io penso, a Babilonia, e troverai chiuse le
porte della tua grande città. Questa rivolta indugiò lo scoppio, fino a tanto che tu non avessi
condotto lungi dal Sennaar e impegnato in una guerra pericolosa tra i monti il tuo fortissimo
esercito. Ad assicurarne l'esito, era mestieri che qui ti fosse ritardato il trionfo; e fu stabilito perciò
di avvisare l'Armeno, le cui lentezze e i destreggiamenti, agevoli in queste gole, avrebbero
procacciato la nostra vittoria e la sua. Io stesso mi proffersi messaggero, e venni nel tuo campo ad
aspettarvi il segnale, per andarne dal re. Animo generoso, respinse egli il consiglio. Regnerebbe
ancora, se lo avesse ascoltato; e te, o regina, intenta a dargli caccia faticosa per queste montagne,
l'annuncio della rivolta e della perdita del tuo regno, avrebbe fatto ristar dall'impresa.
- Lo credi? - tuonò la regina, con sarcastico piglio. - Ai vicini prima, ai lontani più tardi, e
Semiramide avrà tempo per tutti. Ma dimmi, piuttosto; per quali vie si è impadronito colui della
mente di Ninia?
- Del cuore anzitutto; - notò prontamente Sumàti. - II cuore di Ninia si era da breve tempo
dischiuso all'amore, e già questa vampa era fatta un incendio. È sangue di Nino, e fortemente vuole
tutto ciò ch'egli vuole. Ma la bellissima giovinetta che l'aveva infiammato, di repente morì, e tu già
indovinerai di qual morte. Ella risusciterà nel tempio di Belo, quando, per placare gli Dei,
corrucciati contro l'Armena....
- L'Armena! - esclamò Semiramide.
- Sì! così chiama Zerduste la donna che, per castigare un fuggitivo tributario, mette a rovina
l'impero. Egli ciò dice, non io. Or dunque, ella risusciterà, la fanciulla di Ninia, nel tempio di Belo,
quando, per placare gli Dei corrucciati, il giovinetto, ribelle a sua madre, abbia cinto corona di re;
morrà tosto, se egli la depone; così hanno decretato gli Dei.
- Orribile! orribile! Ma egli, l'astuto malveggente, morrà! E morrai tu, suo complice infame:
tra i più feroci tormenti, morrai!
- Non li temo! - disse a lei di rimando Sumati. - Mi sono dannato a morte io medesimo: che
puoi tu farmi di peggio? Ben più feroci, più acerbi, ne infligge a questo mio cuore il rimorso. Ma io
ho la tua fede, o Semiramide! Tu non incrudelirai nel sangue innocente, e il vecchio Sumàti morrà
forse perdonato del turpe inganno, in cui cadde il più prode, il più nobile, il più generoso degli
uomini. Tutto ancora non ti è noto, o regina.
- Ah! - gridò Semiramide, alla cui mente si affacciava un atroce sospetto. - E che altro riman,
per cui debba velarsi il casto raggio di Sin? Parla, o vecchio; dovessi io pure concederti, per tua
maggiore vergogna, la vita! Non mi nasconder nulla, sai? Son grande ancora e possente per te; ogni
parola che tu dirai ti frutterà un tesoro, se io mi appongo al vero, se il mio cuore presago ha
indovinato di che ti resta a parlare.
- Sì; - disse il vecchio, a cui tanta veemenza d'affetto inaspriva i rimorsi nell'anima, - sì, o regina, il
tuo cuore ha precorsa la mia confessione. Ella sarà piena ed intera. Ma tu non mi darai in premio tesori, nè
mi farai grazia altrimenti della vita. Non mi dire il contrario! Alla mia età, gli occhi della mente vedono
lunge, assai lungo, e il pensiero, ammaestrato dalla triste esperienza, non si pasce di vane speranze. Ma
ecco, io ti ragiono di me, laddove di un altro mi chiede, di un altro, quell'ansia mortale che ti scolora la
faccia. Sì, sventurata! Un giovine di regio sangue, di cuor generoso e di sovrumana bellezza, era venuto alle
mura di Babilu. La Triade, che spiava ogni passo, ogni moto d'una donna tanto odiata quant'era bella e
possente, lo incontrò sulla sua via, lo circuì, lo strinse, insieme con quella donna, ne' suoi lacci invisibili.
Ella si credeva sicura laggiù, ignota ad ogni altro, siccome a lui; ma orecchi tesi e sguardi acuti vigilavano
nelle tenebre. Ella per fermo non s'attendeva agli ingiuriosi sospetti ond'egli flagellava la sua dignità, mentre
implorava l'amor suo e le giurava eterna costanza; nemmeno pensava colei che il dubbio sarebbe da altri
sfruttato, e l'amor suo prepotente fatto arma terribile contro di lei. Nostro il garzone, ella era nostra del pari.
Fu compro coll'oro, vinto, ammaliato dalle lusinghe d'una facil bellezza, il più fedele, il più caro de' suoi
compagni, e quanto occorreva ad ordire il più nero degli inganni, si seppe. È orribile, tu dici? A noi parve
giustissima guerra; e tale forse mi parrebbe ancor oggi, se oggi io non amassi quell'uomo, quel fidente eroe,
che, uscito a mala pena dalle ebbrezze d'un regio convito, fu dalla voce d'un estinto chiamato a profondi
misteri nelle viscere della terra. La Triade sapeva evocare le ombre dei trapassati.
- Evocar l'ombre!.... - ripetè Semiramide, con ironico accento.
- Credi almeno, - ripigliò il prigioniero, - ch'ella sapesse mentirne l'aspetto e la voce. Chia-
mato da magiche cifre, scese il garzone per una segreta apertura, dischiusa nella sua camera.... La
camera dei leoni alati, o regina! Essa era delle antiche e più care ai re di Babilonia, innanzi che la
tua magnificenza, allargando la reggia, vi edificasse una più sontuosa dimora. Il tuo gran
maggiordomo, ora al fianco di Ninia, ne conosceva i segreti. Egli assegnò quella camera al biondo
ospite Armeno; nè fu opera del caso, o innocente consiglio.
- Prosegui! - incalzò la regina. - E laggiù, nel sotterraneo?...
- Parlò, o credette parlar coll'estinto. I suoi felici amori con quella donna; indi il cuore mu-
tato di lei; da ultimo la barbara morte in un abisso dischiuso a' suoi piedi; tutto narrò partitamente il
fantasma, e fu facilmente creduto. Possono i morti mentire? E quello era Sandi, il suo Sandi, l'amico
della sua fanciullezza, non ombra vana, creata dal sogno. Se egli ancora avesse potuto dubitarne, le
livide labbra del morto, che si posarono sulla sua fronte, avrebbero dissipato quel dubbio. E
credette, l'incauto, e giurò; giurò che sarebbe fuggito da quella donna, non l'avrebbe veduta più mai,
avrebbe patita la morte, anzi che un altro bacio dell'impudica, che allettava e uccideva gli amanti.
Sopito da filtri, come da filtri era stato indotto in ebbrezza, affinchè i suoi sensi medesimi aiutassero
dove più manchevoli apparivano gl'inganni, fu trasportato per la via sotterranea (da te scavata, o
regina) al suo alloggiamento di Nivitti Bel. Colà, per sollecita cura del servo infedele, erano già
sellati i cavalli e i cavalieri in arcione.
- Ah scelleraggine inaudita! Il negro abisso v'ha rigettati, o malvagi? Gli spiriti delle tenebre
si vergognarono dunque di voi? Anima incauta, che hai fede nel bene, che il male ignori, o di-
sprezzi, che solo metti ad eccelse cose la tua mira, ecco, ciò si trama intorno a te nel silenzio; il li-
vido serpe striscia nel buio a' tuoi piedi, ti schizza la sua immonda bava sulle candide vesti. E non
avvedermi dell'insidia! E non sentirmi alle nari il lezzo della vostra presenza! Ah, tu l'hai detto, o
vecchio; il tuo pensiero non può nutrirsi oramai di vane speranze; di mille morti sei degno. E senti
rimorso, tu? Merita il tuo spirito impuro questa rugiada de' cieli? -
Così parlò Semiramide, sopraffatta dall'ira, e fiamme le uscivano dagli occhi.
- Io t'odiavo; - le rispose freddamente Sumàti; - nè t'amo oggi; nè, pure volendo, il potrei. La
tua grandezza, o regina, è minaccia perenne alla libertà del mio popolo, il più antico, il più illustre
che sia comparso mai sulla terra. Nemici siamo; tu forte troppo; noi deboli. Alla forza risponda
dunque l'astuzia. Ogni arma è buona, purchè ferisca il nemico. Di che ti lagni, tu, cui la fortuna
concesse le parti del leone? Noi dunque i serpenti, e nelle nostre spire morrà soffocata la progenie di
Cus. Ella deve sparire dal mondo, questa orgogliosa schiatta di feroci Titani. Saranno i Medi
dapprima; sian pure più tardi gli Assura, i Persi, e quanti altri, soverchiato l'antecessore,
s'argomenteranno di esercitare l'impero a lor volta; essi tutti cadranno, e la tua Babilonia dovrà tutti
inghiottirli. Io non ho mai letto così chiaramente nelle tavole del futuro, come in questo momento.
Son sacro alla morte e mi attende l'altissimo oblio, la confusione dello spirito nella increata sostanza
di Brama. Accolga egli il mio rimorso; imperocchè, io lo confesso, l'opera mia sorpassò la misura,
ferì a morte il più nobile cuore. Io lo vidi, quel generoso, là, solo, perduto nell'orrore infinito de' tuoi
sotterranei, tra ignoti pericoli, formidabili apparizioni, bagliori sinistri e voci di morte, imperterrito,
sereno ed altero come Crisna, il divino figliuolo della vergine di Madura. Così era prode, così
animoso nelle armi, Narada, l’unico figlio, che i tuoi soldati m'hanno ucciso sull'Indo. Il suo dolore
mi vinse, e lo amai. Voleva spegnerlo Zerduste, mentre egli era fuori dei sensi; e lo avrebbe fatto, se
io non lo avessi impedito: lo avrebbe fatto, tanta era la sua gelosa rabbia: ma avrebbe in tal guisa
distrutto l'opera sua faticosa, rinunziando al trionfo del comune disegno. Da quel giorno Zerduste
ebbe odio contro di me, com'io contro lui: soltanto la necessità ci tenne sulla medesima via. Ed ora
ogni cosa t'è chiara. Regina, tu sei perduta; Ninia regna e Zerduste trionfa. Checchè tu faccia, o
tenti, l'impero è distrutto. I Medi, e l'altre nazioni del sole oriente non tarderanno a separarsi da te;
Mesraim scuoterà il giogo della paura; i popoli di Martu, le città marinare e le isole del sole
occidente ripiglieranno la loro libertà. Lo intento della Triade è raggiunto; a te, minacciosa signora
delle genti più nulla rimane. Felice ancora, se ti basterà di regnare nel cuore di lui, che un oscuro
prigioniero, un vecchio condannato, ti rende. Egli t'ama, o Semiram. Nella pugna che il destino ha
suscitato tra voi, egli, generoso, si elesse la sconfitta e la morte. Egli t'ama! Poteva colpirti de' suoi
dardi, e non ne ebbe la forza; bensì l'ebbe per rattenere il braccio degli altri, già pronti a toglier la
mira. Egli t'ama, o Semiram; t'ama pur sempre d'un amor disperato. Sgombra da' suoi occhi l'errore,
tutto partitamente fagli noto l'inganno che Zerduste ha tessuto nell'ombra, ed egli cadrà pentito a'
tuoi piedi.
- Che? - sclamò Semiramide. - Non gli hai tu già disvelato ogni cosa?
- No; - rispose Sumàti, chinando raumiliato la fronte; - non ho ardito di farlo.
- Ma penso che gliel dirai! - incalzò la regina. - Tu hai parlato de' tuoi rimorsi, o vecchio. E
che? credi tu che il tuo Dio abbia ad usarti misericordia, se non t'umilii nel tuo rossore davanti a chi
hai ingannato, se non diffondi la verità dove hai seminata la menzogna?
- Ah! e credi tu, - disse a lei di rimando il
prigioniero, con voce impressa d'ineffabile
angoscia, - che avrei scelto di offrirmi alla tua presenza, se mi fosse bastato l'animo di aprirmi
d'ogni cosa con lui? Bene era questo il mio primo disegno; confessargli ogni cosa, bere un sorso di
quell'ampolla liberatrice e morire. Fui una volta sul punto, e non ne ebbi la forza. Il veleno mi -
avrebbe tolto la vita, non la vergogna di quel temuto colloquio. Inoltre, egli era già tardi.
Sopravvenne la pugna; indi, egli ferito e fuori dei sensi, agonizzante forse; io disperato per tanta
rovina d'ogni cosa a lui cara; da ultimo con un più acerbo dubbio nell'anima, non forse l'inganno
nostro, dopo avergli fatto perdere il regno e la pace del cuore, gli procacciasse morte da un tuo
barbaro comando, e morte non degna di re. Semiram, io muoio consolato, pensando che tu l'ami.
Tu, non colpevole, tu avrai forza di palesargli il vero. Ne sarà la mia morte il suggello, e mi meriterà
il suo perdono.
- Tu parlerai! - gridò la regina con inflessibile accento. - Sarai condotto al suo capezzale e
tutto egli udrà, dal tuo labbro.
- No: - rispose tristemente Sumàti, - la mia vita ti ho offerto; altro non puoi chieder da me.
- Poche parole soltanto, poche parole ti chiedo. Mio re, gli dirai, la Triade t'ha mentito; hai
veduto una larva creata da noi....
- No, regina, non l'ardirei. Guardarlo in faccia e parlargli in tal guisa?... È impossibile. Vedi;
io mi sono umiliato davanti a te, a te che non amo. Ma tu sei donna; e la donna è per noi la creatura
debole; ci facciamo più facilmente codardi con lei. Ma al cospetto di un uomo.... dell'uomo che
amo!.... Ah perchè, eterno Iddio, questo vecchio mio cuore sente e palpita ancora? Credevo che
fosse morto, quel giorno che il mio povero Narada perì. E vive, tenace, ed ama tuttavia; il paterno
affetto ha trovato ancora cui dare i suoi ultimi ardori. Perchè? Come avviene egli ciò? V'hanno
piante, le quali, recise in sul tronco, pure non sanno rassegnarsi a morire, e, non potendo farsi ramo,
frondeggiano dal ceppo rugoso e mettono un fiore....
- Bada, o vecchio! - esclamò Semiramide, la cui voce in quel momento assumeva alcun che
di solenne. - Tu m'hai svelata poc'anzi la più orrida trama in cui possa pericolare un impero; tu m'hai
mostrato l'abisso in cui sono già per cadere. Nè di questa minacciata rovina, nè di quel danno mi
curo. Avvenga che vuole; io so questo soltanto, e mi basta, che, dove io comparisca, farò ancora
tremare i miei congiurati nemici, e che, se io pure debba lasciarvi la vita, il mondo, per quanto duri
lontano, ricorderà come Semiramide è morta. Tu mi hai addolorata, abbattuta non già, nè sorpresa.
Stamane, dopo aver veduto io stessa, con questi miei occhi, il re d'Armenia nel suo letto di dolore,
pallido, stremato di forze, languente, ho pregato gli Dei, ho votato ogni mia fortuna per la salvezza
di quella nobile vita. Odimi ancora! Io avevo un talismano, impresso d'arcane cifre, che fu sempre
con me, fin dai miei anni più verdi. Era fama che le sorti del mio regno, la mia grandezza, la mia
gloria, la mia esaltazione su tutti i potenti della terra, fossero incatenate a quella negra gemma da
virtù di magici incanti. Orbene, vedi; laggiù, in quelle acque profonde, io l'ho gittata stamane. La via
è lunga, ed io ho veduto il mio talismano percorrerla intiera; nè, mentre esso cadeva, ho sentito pur
uno spasimo, una trafittura, una stretta di pentimento nel cuore. Misura da ciò l'amor mio per
quell'uomo! E credi tu che, giunta l'occasione di apparirgli qual sono, di riconquistare quel cuore
che è mio, potrò lasciarla fuggire? Dovrò io umiliarmi, arrossire, perchè tu, il colpevole, il traditore,
il codardo, non avrai osato di farlo?
II prigioniero, che con ansiosa cura aveva seguito il discorso della regina, chinò la testa sul
petto e non rispose parola.
- Bada ancora! - soggiunse ella, con accento quasi amorevole. - Tu m'hai fatto più male che
regina e donna non siano use a patire. Cionondimeno, io ti concedo la vita. Ricco e potente sarai;
ma a te si spetta parlare col re. -
Sumàti taceva ancora.
- E sia di te ciò che tu stesso hai voluto; - ripigliò Semiramide. - Sarai dato a' tormenti. Ve
n'ha di terribili, che fanno rizzare i capegli per raccapriccio sulla fronte ai più saldi; che trarrebbero i
gemiti perfin dalle pietre. V'hanno bronzi lentamente scaldati, in cui frizzano le membra, e l'aria
vien grado grado mancando, e ti senti soffocare, senza poter anco morire. V'hanno strappi di
tanaglie, che lacerano e traggono via a lunghi brani la pelle. V'hanno aculei che si ficcano tra le
unghie e le carni, e pungono senza tregua, fanno desiderare che l'anima se ne voli in un grido. Ma la
morte è più lenta a venire, e l'orgoglio rintuzzato chiede finalmente mercè.... Olà, Hurki! - diss'ella,
avvicinandosi al limitare, su cui fu pronto a comparire il fedele. - Vengano i tuoi; sia consegnato
quest'uomo ai flagellatori; ma non prima, - soggiunse incontanente, - non prima di esser condotto
alla presenza del re d'Armenia, per udirsi a ripetere laggiù tutti i suoi tradimenti. -
Sumàti, che era stato fermo alle minacce, muto alle promesse, imperterrito alla descrizione
degli atroci tormenti serbati alla sua pervicacia, diè un grido a quell'ultime parole di Semiramide, un
grido che fece sobbalzar la regina e tornare Hurki sollecito sopra i suoi passi; indi, rapido a guisa di
tigre, si volse indietro, corse alla finestra, e così impedito com'era dalle catene che gli stringevano i
polsi alle terga, spiccò un salto sul davanzale di pietra.
- Regina, io tel dissi; - esclamò egli allora; - è questo il solo supplizio di cui temesse Sumàti.
Mi sottraggo al dolore, ed espio la mia colpa. Dov'è piombata la tua fortuna, piomberà la mia vita.
Iddio riceva il mio spirito. -
Chiuse gli occhi, ciò detto, si spinse all'indietro e si lanciò nello spazio.
- Ah! si salvi! si salvi! - gridò la regina, correndo a guisa di forsennata, con palme tese, là
dond'era scomparso l'Indiano.
Ma come salvarlo? Affacciata al davanzale, Semiramide potè scorgere ancora il corpo
barcollante che piombava veloce nel vuoto. Esso ad un tratto diè un tonfo; le acque percosse
schizzarono in alti zampilli dintorno; spumeggianti gorgogliarono un tratto, indi sbattute ancora,
divallate per lo squarcio improvviso, finalmente si chiusero.
Con occhi intenti, trascinata da un'istintiva cura, come di voler trattenere coll'alito una cosa
che fugge, la regina guatava quell'onde che avevano inghiottita la sua fortuna da prima e l'ultima sua
speranza in quel punto.
Alcuni istanti trascorsero, e l'affogato ricomparve a fior d'acqua.
- Ah, forse potrà salvarsi! - diss'ella.
- E come, mia signora? - notò Hurki, crollando la testa. - Egli ha incatenate le braccia. -
Il morente, nella postura in cui erasi riaffacciato alla luce, parve alzar gli occhi verso la re-
gina, e quegli occhi mandarle un addio, chiederle una parola di supremo perdono. Quindi l'inerte
corpo si sommerse da capo, nè più oltre fu visto; le onde si richiusero come pietra di sepolcro su lui,
si spianarono e scintillarono tranquille ai raggi obliqui del sole.
CAPITOLO XX.
ALLA RISCOSSA.
Sei giorni erano scorsi dopo le gravi rivelazioni e i più gravi annunzi del vecchio della
Triade, e il grosso dell'esercito babilonese era già molto innanzi sulla via del ritorno.
Si affrettavano le schiere, venivano senza indugio, a marcie sforzate. Essendo allora nei mas-
simi ardori dell'estate, non viaggiavano che a lume di stelle; però facevano più spedito cammino.
Sostavano poche ore dopo il romper dell'alba, e si rimettevano in viaggio al tramonto del sole. Ma
dopo il sesto giorno, varcato già dall'esercito il paese di Nahiri, si cominciò a guadagnare altresì
qualche ora sul giorno, tanta era la fretta di Semiramide, il suo desiderio di accorciare lo spazio.
Nè, in tanta agonia di corso lanciato, aveva la regina trascurati gli accorgimenti di guerra, in
cui era meritamente famosa. Giunte le sue schiere nei pressi di Haran, ella aveva spiccato cinquan-
tamila uomini, mandandoli innanzi per la valle dell'Eufrate. Li comandava Faleg, sperimentato
guerriero, fido seguace delle fortune di Semiramide; la quale, da umil grado, lo aveva innalzato ai
primi onori della milizia.
Quelle cinquanta migliaia erano l'antiguardo dell'esercito. Il grosso, comandato dalla regina
guerriera, doveva tener dietro a due giornate di marcia. Così era detto apertamente, e lasciato cre-
dere ai soldati; ma Faleg non ignorava che egli doveva, esser solo su quella via; cionondimeno,
animosamente scendeva verso Baliki e Cabur, a marce spedite, ma giuste.
Frattanto la regina, con tutta la numerosa sua gente, piegando rapida a manca, andava a cer-
care la valle del Tigri, a ridosso dei monti di Lallua; ed avviatasi finalmente sulla destra riva del
fiume, scendeva, come si è detto, con quanta celerità per lei si potesse.
Quale intento era il suo?
Certo, e non era da dubitarne, i ribelli di Babilonia avevano in quei giorni raunato un
esercito. Quanta gente era valida alle armi nella città e in tutta la terra di Sennaar tra Bitdakuri e
Larsa, già doveva esser sotto le loro insegne, volente o nolente. E fors'anco d'altri paesi aspettavano
aiuto. Scendendo ella, siccome era naturale che facesse, lungo l'Eufrate, i ribelli non le avrebbero
opposto resistenza che a Sippara, dove, consentendolo il luogo, si sarebbero fortificati e muniti
d'ogni difesa. Laggiù dunque, o poco lungi, lo scontro; indi, se soverchiati da lei, sarebbero corsi a
rifugio in Babilonia.
Ora, chiuse ad un esercito assalitore le porte di Babilonia, malagevole al sommo, per non
dire impossibile, sarebbe stato lo entrare.
La gran capitale degli Accad era cinta all'intorno di salde mura e fortificata di valli profondi:
nè Semiramide ignorava cotesto, ella che aveva innalzate quelle mura, credute universalmente
inespugnabili allora. Poteva la gente assediata ridursi per fame? Colmi erano pel consumo di un
anno i granai, e tra la prima e la seconda cinta di mura stendevasi tanto di terreno da cavarne un
raccolto che bastasse per tutto l'anno seguente.
Così giustamente pensando, la regina aveva anche nel suo sagace consiglio noverati i giorni
di sicurezza che si riprometteva il nemico. Semiramide, anco ad avere in tempo l'annunzio della
rivolta, e senza gli indugi che si sarebbe tentato di frapporre ai messaggi, non avrebbe potuto essere
avvisata di nulla innanzi il dodicesimo giorno di Tana. E allora, se libera di partire dall'Armenia
(che non era nemmanco da credersi, tante erano e varie le sorti di guerra!), ella non avrebbe pure
potuto così speditamente raccogliere le sue forze, e rimettersi in cammino, da giungere nel piano di
Sennaar innanzi il principio di UlulùScrivo
4
. Così dovevano pensare i ribelli, e da ultimo confortarsi
nella fiducia che, se anco Semiramide avesse usato d'ogni sua sollecitudine, e guadagnato qualche
giorno di cammino, eglino, appostati nei pressi di Sippara, l'avrebbero trattenuta colà.
In quella vece, e a danno dei giudizi dell'inimico, che era egli avvenuto? Che la regina aveva
risaputo il tradimento nel decimo giorno di Tana; che tosto aveva levato il campo dall'Armenia, e il
sedicesimo giorno, varcato già il paese di Nahiri, s'affrettava alla pianura di Babilonia, ma non già
per la valle dell'Eufrate, sibbene per quella del Tigri, mentre Faleg, avviato con quel nerbo di forze
sull'antico cammino, ne copriva la rapida marcia.
Rapida invero, e quasi fulminea, se i moti degli uomini possono ragguagliarsi agl'impeti
delle forze celesti. Certo, così veloce correva oltre col pensiero la regina; e appunto per vincere in
parte quelle fastidiose lentezze che il lungo spazio portava, Semiramide aveva comandato di far
cammino anche alcune ore del giorno. Nè più era costume di attendere coloro che la stanchezza
opprimeva; posassero pure coi loro capi; avrebbero proseguito nella notte e tentato di raggiungere i
più gagliardi alla stazione vicina.
Così diceva, ben certa in cuor suo che molti sarebbero rimasti indietro di parecchie giornate.
Ma ella, co' suoi migliori, con cento migliaia almeno, sarebbe giunta il ventesimo giorno di Tana
alla sua capitale, e senza impedimento di nemici, girando alle spalle della città, dove per fermo non
doveva esser buona vigilanza d'armati.
Il regal prigioniero seguiva il corso di quella sterminata falange, adagiato su d'una lettiga,
tratta da cammelli, la cui sollecita e dolce andatura, non affaticava punto il ferito. Lo scortavano gli
arcadori di Birtu; ed era giusto che un tale onore fosse per l'appunto serbato a quei medesimi che
avevano ferito e fatto prigioniero il malka delle montagne. Del resto, a più certa custodia, era Hurki
con essi; e lo seguivano trecento melofori, o portatori di lancia, della regina.
Dall'altra parte, Faleg, proseguendo la sua marcia lunghesso l'Eufrate, era giunto il
diciottesimo giorno in vista delle torri di Sippara. Colà aveva fatto sosta e mandato un drappello
d'arcadori a sopravvedere il paese. Ma udito poco stante come la terra non fosse guardata, e solo
nella notte vegnente si aspettasse una grossa mano di ribelli, prontamente vi si condusse co' suoi,
che gli parve grande ventura avere quel fortissimo sito, ricco di vettovaglie e d'ogni maniera
sussidii, senza colpo ferire.
Piantatosi colà, e mentre pur le sue schiere attendevano a collocarsi nell'ordine più acconcio
sui rialti e nei piani a mezzogiorno delle mura, Faleg inviava messaggi a Ninia, in nome della
regina.
4 Scrivo questo mese come suona in lingua assira, mancando ancorail nome ideogrammatico, ed il fonetico, nell’antico
caldeo, a cui i tempi disemiramide si riferiscono. Soltanto è noto che il mese chiamato Ululù dagli Assiri (Agosto-
Settembre) suona in caldeo nell’ultima sillaba “na” come il suo precedente Tana (Luglio- agosto) che è
ideogrammaticamente il mese del fuoco; ma ancora nelle iscrizioni cuneiformi non si è potuto leggerne con certezza il
principio.
Egli infatti non poteva più far le viste d'ignorare la rivolta avvenuta. I cittadini di Sippara gli
avevano detto apertamente:
- Regna Ninia in Babilonia e su tutta la terra del Sennaar. Il Saccanàco, vicario dei sommi
Dei, lo ha incoronato re nel tempio di Belo, che sta in cima alla torre delle sette sfere. Semiramide,
come nemica del popolo di Kiprat Arbat, che ella ha condotto a perire per suo folle pensiero nelle
strette d'Armenia, è stata spogliata del regio comando e il suo scettro gittato nell'Eufrate, in mezzo
ai cadaveri che il biondo fiume trasporta alla foce. -
Così stando le cose, non tornava difficile a Faleg di argomentare che l'invio dei messaggi
niente avrebbe giovato per mutare i consigli dei ribellati. Egli anzi prevedeva in cuor suo che i mes-
saggeri non sarebbero giunti fino alla reggia, forse nemmeno avrebbero potuto varcare le porte della
città. Ma egli, per contro, faceva in tal modo avvertiti i rivoltosi della vicinanza di Semiramide, ed
otteneva l'intento di trattenerli dalla loro disegnata marcia su Sippara, procurandosi il tempo di
affortificare il suo campo e di pigliar lingua, così intorno agli ultimi casi, come intorno alle forze di
cui disponea la rivolta.
Tranquilla scorse la notte; ma sull'apparire del vegnente mattino, l'esercito dei ribelli si
dilagò nella pianura davanti alle torri di Sippara. Ancora non sembrava molto ordinato e bene ad ar-
nese; tuttavia s'inoltrava, accennando ad un subito assalto. Così voleva Zerduste.
Il principe dalla mente profonda e dallo sguardo acuto, aveva detto tra sè:
- La regina è rimasta indietro, a malgrado d'ogni suo desiderio e d'ogni sforzo per affrettare il
cammino, impedita com'è dalla stessa moltitudine de' suoi combattenti. Tutto ciò ch'ella ha potuto
fare, si è di spingere avanti le squadre più leggere e più pronte, sotto il comando di Faleg.
Ascendono forse a cinquanta migliaia; non sono certamente di più; chè i cittadini, fuggiti da Sippara
per darcene avviso, non hanno potuto ingannarsi. Or dunque, assaltiamoli con quanta gente è stata
da noi raccolta finora, e vediamo di vincerli alla spartita, prima che ricevano aiuto. -
Invero, egli si pentiva amaramente di non aver fatto occupare la città nel giorno addietro; che
forse, con una parte degli uomini a ciò destinati, il poteva. Ma, per contro, come arguire una tanta
celerità in Semiramide? Da chi e per che modo avrebb'ella risaputi i gravissimi casi di Babilonia,
più giorni innanzi che le fossero riferiti dai corrieri, o lasciati temere da un improvviso difetto delle
corrispondenze consuete?
E tuttavia, o notizia o sentore della rivolta aveva ella avuto in Armenia. E come ciò, mentre
egli, a mala pena di poche ore, per le vanterie dei messi di Faleg, udiva l'annunzio della pronta e
piena vittoria di Aiotzor? Egli era ben lungi dal sospettare di Sumàti, che forse era morto nel tentare
di ridursi al campo aicàno. Questa era almeno la conghiettura più ovvia, imperocchè il subito
scontro dei due eserciti dimostrava apertamente come al vecchio Indiano fosse fallito il disegno di
penetrare fin nelle tende di Ara e persuaderlo a non accettare battaglia. Solo alcuni giorni di poi,
doveva egli risapere della presa di Sumàti, colto coll'armi in pugno al fianco di Ara, e della sua
morte volontaria nel lago di Van, certo per sottrarsi ai tormenti cui lo avrebbe dannato la regina e al
pericolo grande che il dolore gli strappasse il suo segreto di bocca.
Comunque fosse di quella celerità prodigiosa, egli non era tempo di fantasticare sul passato;
bensì occorreva di dare, e tosto, nell'antiguardo di Semiramide. E corsero i ribelli all'assalto; ma per
quel giorno, e per l'altro che seguì, fu opera vana. Nessun vantaggio si otteneva da alcuna delle due
parti. Faleg non si perigliava troppo lontano dalle mura, per tema d'esser preso alle spalle. Egli più
forte per agguerrite schiere, ma queglino più numerosi d'assai. A lui metteva conto il rimanere colà;
agli altri, poichè di vincerlo non era nulla, tornava anco di averlo chiuso in quel luogo, dove, se più
tardava la regina, lo avrebbero prestamente affamato. Sentivano in quella vece approssimarsi il
grosso delle forze nemiche? E allora correvano a rifugio in Babilonia, aspettando colà i Medi e i
Persi, che già a quell'ora dovevano valicare i monti di Elam, e il disperdimento dello stesso esercito
di Semiramide, in cui erano tante migliaia di quelle due nazioni oramai sollevate.
Intanto la condizione di Faleg, ottima per assicurare la sorte d'un combattimento, per tutto
l'altro era pessima. Nella antica e nobil città che egli occupava, erasi sparsa la fama del troppo
sangue che la vittoria di Aiotzor era ai Babilonesi costata. Da parecchi giorni il vicino Eufrate non
volgea che cadaveri, alla vista di tutte le genti del Sennaar. Inoltre, i soldati suoi, come quelli che si
reputavano tornati in patria, non avevano taciuto dei danni sofferti; segnatamente avean detto della
sacra miriade, di cui a mala pena poche centinaia erano scampate da morte. Però si udiva già a
mormorare contro la regina, nelle mura amiche di Sippara, contro la guerra finita pur dianzi e contro
quest'altra che cominciava. Infine, chi era Semiramide, se non una straniera, e, come regina, assai
più fortunata che saggia? Laddove Ninia era del sangue di Nemrod; egli o presto o tardi legittimo re;
meglio adunque riconoscerlo allora, evitando mali maggiori.
Questo e il pensiero delle scarse vettovaglie, inducevano tristezza, fastidio, ripugnanza negli
animi. Sarebbero essi durati nell'obbedienza più oltre? Per buona, sorte, diceva Faleg tra sè, la
regina non doveva esser lungi da Babilonia; ad ogni modo, quei due giorni di combattimento a Sip-
para, le avrebbero spianata grandemente la via.
Nè s'ingannava. Appunto in quella notte che seguiva il secondo assalto di Sippara, la regina
giungeva, con poco più di centomila combattenti, alla vista di Babilonia, davanti ad una delle porte
che guardavano il sole oriente. Appiattato l'esercito nei campi, dove già crescevano le biade pel
secondo raccolto, chiuse con buona custodia d'armati le uscite dei villaggi, perchè nessuno avesse
modo di recare l'annunzio alla vicina città, Semiramide si avanzò con uno stuolo di cavalieri lun-
ghesso il canale Libil Higal, per esplorare il terreno.
Sin, il casto pianeta a lei caro, splendeva alto nel firmamento azzurro, illuminando la pianura
all'intorno e la via battuta che conduceva ad una delle porte. E mentre Semiramide cautamente s'i-
noltrava pe' colti, evitando la strada e non perdendola d'occhio, le venne udito da lontano un rumore
smisurato e crescente, come lo scalpitìo di una cavalcata, che a quella volta spronasse.
Incontanente fe' restare i suoi cavalieri; e muti, ansiosi, stettero tutti origliando.
Il rumore si avvicinava sempre più. Semiramide, che già meditava un audace disegno, si
volse a guardare i suoi cavalieri, se fossero abbastanza coperti agli occhi del nemico. Erano essi
dietro un campo di sèsamo, di rigogliosa cresciuta e di larghissime foglie, siccome portava la natura
di quel fertile suolo. La regina non si tenne paga tuttavia, e comandò, che tutti smontassero da
cavallo, pur rimanendo con un piè sulla staffa e la mano alla criniera.
Così del tutto nascosti, spiavano l'arrivo della cavalcata nemica. Essa pervenne indi a poco
su quel tratto di strada che essi vedevano, e veloce trascorse. Erano a mala pena sei cavalieri; e alle
fogge, vedute così di profilo a lume di luna, apparivano Medi. Forse erano esploratori, fors'anco
portatori di messaggi a qualche luogo vicino.
Semiramide lasciò che andassero oltre a lor posta. Infatti, a mezzo miglio discosto era ac-
campato il suo esercito, nè potevano essi cansare d'esser fatti prigioni.
Ella intanto diè il cenno e l'esempio di risalire in arcione. Dietro a lei tutto il drappello si
cacciò a galoppo sulla strada, serrandosi sulle orme dei Medi. Udirono essi l'improvviso rumore alle
spalle e pensando che fossero altri cavalieri usciti di città, per richiamarli indietro, o per altro che
loro importasse sapere, si fermarono tosto. E innanzi che avessero tempo a raccapezzarsi, a
conoscere d'esser caduti in agguato, erano circondati da un nugolo di fantasmi; chè tali dovevano
parer loro, in quel luogo, i cavalieri di Semiramide, creduti ancora così lontani, e sulla via
dell'Eufrate.
Thuravara, il loro capo, fu condotto alla presenza della regina. Tremò egli, quando ebbe rav-
visata Semiramide, e, a mala pena interrogato, disse tutto ciò che a lei mettesse conto sapere.
Thuravara, creato di Zerduste, non ignorava qual sorte lo attendesse, ove, con pronta sommissione e
con utili ragguagli, non si fosse raccomandato alla clemenza di lei.
La regina adunque udì dal suo labbro che Faleg resisteva da due giorni tenacemente sulle al-
ture di Sippara, ove Zerduste credeva fosse ella per giungere, col rimanente dell'esercito. Per altro,
in quella medesima sera, due esploratori erano tornati da Burat, che è sull'Eufrate, a una giornata più
in alto di Sippara; nè lassù si aveva fumo di soldatesche vicine. Cotesto aveva confortato Zerduste
nel suo primo pensiero, che l'invio di Faleg fosse tutto quanto ella aveva potuto fare, al primo
annunzio della rivolta di Babilonia, e che ella fosse, con tutto l'esercito suo, di parecchie giornate
più indietro.
Del resto, soggiungeva Thuravara, Ninia e il suo fedele ministro dimoravano nel palazzo
della riva occidentale, per esser più vicini al pericolo e più pronti alle acconcie difese. Avevano essi
un esercito di duecento migliaia; ma la più parte di gente ragunaticcia, nè ancora bastantemente ad-
destrati. Si aspettavano bensì grossi soccorsi dai Medi e dagli Elamiti, già chiamati in arme dal
preveggente Zerduste, alla vigilia della rivolta e della incoronazione di Ninia. Egli, Thuravara, an-
dava per l'appunto sulla via di Libil Higal, a vedere se ancora giungessero, e ad affrettarne l'entrata
in città. Armi, poi, e vettovaglie, come alla regina doveva esser noto, in Babilonia abbondavano.
Udì Semiramide i copiosi ragguagli; e come Thuravara ebbe finito, gli disse:
- La tua vita dipende dal parlar che farai. Qual motto hanno ora i custodi delle porte?
- Per Anaìti! - rispose tosto il Medo infedele.
- Che significa ciò? - chiese la regina in atto di stupore.
- È il re, - soggiunse Thuravara, - è il figliuol tuo, mia clemente signora, che in tal guisa
ricorda la diletta del suo cuore.
- La risuscitata! - sclamò Semiramide.
- Sì, potente regina.
- E per grazia de' sommi Dei, non è egli vero? - incalzò ella con accento d'amara ironia.
Thuravara chinò vergognoso la fronte.
- Sta bene; - proseguì la regina, senza curarsi della risposta. - Tu, vieni tra le nostre or-
dinanze; e guai a te se non m'hai detto il vero! -
Poco stante, era dato il cenno all'esercito, che tutto avesse a rimettersi in moto ed accostarsi
alle porte. Ella, col suo stuolo di cavalieri, precedeva le squadre.
Giunsero in breve alle mura. Il ponte era alzato davanti alla porta; ma allo scalpitar dei
cavalli sulla pianura, le scolte s'erano affacciate alle feritoie, e allo squillar d'una tromba sul ciglione
del fosso, furono pronte a chiedere ai nuovi arrivati:
- Chi siete? In nome di chi venite?
- Siamo guerrieri di Ninia; - risposero gli altri. - Usciti dalle porte di settentrione, torniamo
da questa, e per Anaìti veniamo. Sbrigatevi; sono i Medi aspettati con noi. -
II ponte fu tosto calato. Semiramide fu la prima a spingere il suo cavallo sull'ampio tavolato
di cipresso.
- Giungono i soccorsi di Media! - gridavano intanto sotto l'androne i custodi. - II veggente
Nebo ci assiste.
- Egli viene su voi, traditori, per fulminar le sue collere! - gridò Semiramide, menando a cerchio la
mazza ferrata entro lo stuolo malcauto.
- Per Anaìti custodivate le porte!... Per Semiramide arrendetevi, o tutti di mala morte
morrete.
- La regina! sì, è dessa la regina! - andavano ripetendo i malcapitati, mentre, quinci e quindi
fuggendo, tentavano schermirsi dai colpi. - Chi l'avrebbe mai detto? Ahimè! c'ingannarono i
sacerdoti; non erano per Ninia gli Dei! -
Ben presto fu fatta strage di quella turba fuggente; i più lontani, sentendosi incalzati dai ca-
valieri, si buttavano ginocchioni, chiedendo mercè, ed avevano così salva la vita. Non uno andò fino
al baluardo interno della città, per recarvi la terribile nuova; e prima ancora, prima sempre tra tutti,
vi giunse l'audace guerriera, il cui esercito, infiammato dalla portentosa felicità dell'evento, già si
accalcava sul ponte, sbucava dal profondo androne, si dilagava nel vastissimo piano tra Imgur Bel e
Nivitti.
Non era pugna, nè inseguimento di nemici; era libera corsa sfrenata, in mezzo a spaventati
drappelli. Entro il baluardo di Nivitti Bel fu un tumulto indicibile. I primi che videro le negre
schiere apparire agli sbocchi delle vie e irrompere nella città, minacciose come una legione di spiriti
d'abisso, si sparpagliarono tosto per le strade minori, quali cercando nelle lor case rifugio, quali
fuggendo senza saper dove, non d'altro solleciti che di scansare l'imminente pericolo, tutti levando
altissime strida e mettendo a romore e scompiglio la sterminata città. Semiramide! È qui Semi-
ramide alla riscossa! Sventura al popolo delle quattro favelle, su cui la regia vendetta discende!
La tristissima voce per ogni dove s'è sparsa, ha precedute le squadre degl'invasori. Quanti
n'han tempo, o modo, si danno alla fuga verso l'Eufrate; l'ampia travata del ponte cigola sotto il peso
e la furia di quell'onda di popolo, che incalza alla destra riva: uomini, donne, fanciulli, mezzo
vestiti, scarmigliati, ignudi, come il terribile annunzio li colse, come la paura li spinse.
Non cura la regina i fuggenti; anzitutto ella mira a impadronirsi della reggia. Sfondano i suoi
guerrieri l'ingresso, chiamano per nome, invitano alla obbedienza i custodi. È la loro regina, è
Semirarnide, che batte alle porte; chi più oltre serberà fede al ribelle, innanzi che giunga il sole al
meriggio, penderà inchiodato dai merli.
È l'alba, e già Semiramide ha ricuperato la sua reggia, nobile e forte arnese, dove ella troverà
armi, sicurezza ai nuovi combattimenti. Dall'altra sponda del fiume hanno appiccato il fuoco al ta-
volato del ponte; fuoco arde nel valico sotterraneo, per dar tempo ai ribelli di chiuderne più si-
curamente lo sbocco. Ma che importa? Semiramide è padrona, con un colpo audace, in poche ore, di
tutta la parte orientale di Babilonia.
- Grazie, santissimi Numi! - ella dice. - Voi non avete tolta la vostra mano da me; io sono
ancora la regina degli Accad. -
CAPITOLO XXI.
LA MANO DI NISROC.
La fortuna, che già sembrava avere abbandonato le insegne di Semiramide, tornava ora a
farle buon viso. Era pentimento, sommessione all'audacia, o crudelissimo scherno? Risorgeva la
regina più gloriosa e più forte dal suo abbattimento, o non era a vedersi altro in quella ardita
riscossa che il sollevarsi del guerriero sulle ginocchia e l'ultimo suo brandir l'arme sanguinosa
contro il nemico che sta per finirlo? I prossimi eventi dovevano dar la risposta.
Intanto, mercè la sua rapida corsa e l'occasione prontamente afferrata, ella era venuta a capo
di penetrare in Babilonia e di farla sua fino alla sinistra riva del fiume. Solleciti messaggi avevano
mosso Faleg dal suo baluardo di Sippara, e mentre egli rumoreggiava alle porte della sponda destra,
tirandosi sopra una gran parte dell'esercito dei ribelli, la regina tentava con barche e zattere d'otri
gonfiati il passaggio del fiume, e finalmente ristorava la travata del ponte sotto una pioggia di dardi.
Ninia e Zerduste, con tutti i loro, si ritrassero in Barsipa, la città sacerdotale, congiunta a Ba-
bilonia da un prolungamento del muro esterno, ma forte di per sè stessa e dentro e fuori, acconcia a
durare per mesi e mesi un assedio.
Colà, all'ombra del più eccelso tempio di Babilonia e del mondo, incuorato dalla inflessibile
baldanza di Zerduste, sorretto dal favore dei sacerdoti, ammaliato dalle carezze di Anaìti, posava il
giovin ribelle, o non curante, o inconsapevole del suo delitto. Infine, non era egli il re, unica prole di
Nino, ultimo della stirpe di Nemrod? I santi ministri delle sette luci della terra non avevano essi
consacrato il suo capo? L'oracolo di Belo non aveva egli pronunziata la reità di Semiramide al
cospetto dei cieli? Inoltre, conforme al volere dei sommi Dei di Babilonia, non era forse il volere
del Dio di Zerduste? Mai tra rivali divinità si era manifestata una simigliante concordia.
Invero l'astuto principe di Bakdi si era rigidamente astenuto dal palesar la sua fede. Da lunga
pezza egli soleva dire al suo regio discepolo che il tempo non era anche venuto di annunziare il
regno di Ahuramazda alle genti; questa essere dottrina eccelsa pei savi; al volgo doversi lasciare
intanto le sue idolatrie grossolane. Nessuna prova di loro virtù avevano fatta gli Dei di Babilonia a
favore di Ninia; laddove il soffio potente di Ahura gli aveva restituita la sua diletta Anaìti. Egli
l'aveva pure veduta, là, nel suo casolare tra i palmeti di Gomer, distesa sul letto di morte, le membra
prosciolte e fredde; invano aveva pianto amarissime lagrime; invano aveva chiesto a' suoi numi un
prodigio. Ma laggiù, ne' sotterranei di Babilonia, ove il Dio vero nascondeva ancora il suo purissimo
culto, egli aveva pure udito dalla voce di Mazda la cagione per cui era morta Anaiti. "Non tra ozii
imbelli doveano poltrire i nati di re; amori e carezze di donna amata esser premio ai valorosi, ai
fedeli seguaci degl'insegnamenti celesti, non facil sollazzo, non riposo consentito a mezzo il
cammino, quando il debito delle sante opere e la via lunga sospingono. A lui, per ventura, agevole il
meritarsi quel premio, intercedendo la cara autorità di Zerduste, nè chiedendosi troppo lungo disagio
a chi dovea regger lo scettro, moderatore di popoli. Cedesse adunque ai lagni di Babilonia, sdegnata
per una stolta e rovinosa guerra e per maggiori danni minacciati al buon seme cussita; cedesse alle
voci che il cielo provvidamente spirava sulle labbra degl'idoli bugiardi; cingesse corona di re, ed
Anaìti sorgeva dal suo letto funereo. Resa a lui dal favore di Mazda, al suo ardimento, al suo
perseverar ne' propositi era sospesa la vita della fanciulla diletta."
Ora, a mala pena nel tempio di Belo il credulo adolescente aveva impugnato lo scettro d'oro,
non erasi infuso di bel nuovo lo spirito vitale nelle rigide membra di lei? Non aveva egli sentito
sotto la sua mano tremante riscaldarsi e palpitare quel bianco seno, a cui tre giorni innanzi aveano
tentato invano ridar la vita i suoi baci? Così Ninia era stato condotto ai voleri di Zerduste, e fatto
ribelle, nimico alla maestà di sua madre. Nè già viveva pel regno, di cui lasciava ogni pensiero al
sapiente maestro; nè già si curava della sua sconfinata autorità, se non per ricordare che la regia
possanza è una piramide al cui sommo sta preparata e colma la coppa di tutte le umane delizie.
Viveva allora per Anaìti, per quella fiorente bellezza che si profondeva inconsapevole a lui,
tremante di dover morire se egli vacillasse, e per amore, per ambizione, per paura, incatenata al suo
fianco. E in lui, il saperla così sospesa tra morte e vita accresceva, gli ardori. Si ama, dicono, assai
più fortemente ciò che si teme di perdere. Triste sentenza, se vera; ma forse ciò che pei nobili cuori
non è, potrebbe credersi vero per l'anima fiacca e per l'indole tutta sensuale di Ninia; di quel
lioncello, a cui, per mezzo agl'ingenui moti della tenera età, cresceva la ferocia dell'avita natura.
Insignoritesi con tali arti della mente di Ninia, il principe di Bakdi non aveva durato fatica ad
attizzar gli sdegni del popolo; la mercè di falsi messaggi e di aggranditi pericoli, aveva aggiunto
esca al fuoco, e, con l'immagine dei certissimi danni, infiammati gli spiriti a rivolta.
Facili i volghi ad essere trascinati; più facili, se vissuti in lenta ed inerte soggezione, a
credere ogni cosa, a farsi stromento docilissimo in mano agli scaltri. Nè manco agevole, pel grado
suo e per l'imperio ch'esercitava su Ninia, gli era tornato di vincere la riluttanza dei sacerdoti.
Sempre più ardente di giorno in giorno la plebe; impensierite pei lor cari assenti le più
ragguardevoli famiglie; tutti contrarii ad una guerra che accortamente si mostrava esser frutto di
un'amorosa follia; non avrebbero ardito i sacerdoti far contro alla corrente delle popolari opinioni.
Volevasi Ninia per re; meglio averlo tale e dominarlo, come offeriva Zerduste, che osteggiarlo
invano, opponendosi ai voti del popolo. Il saccanàco, il gran vicario degli Dei, si faceva schiavo in
tal guisa agli eventi, assicurava ai più forti la benevolenza del cielo; vecchio costume degli uomini
che si vantano di custodirne i responsi! E, maledetta Semiramide lontana, Ninia era incoronato sulla
gran torre di Barsipa; armi ed armati si raccoglievano dalle vicine provincie; i Medi, gli Elamiti, e
quanti eran popoli soggetti di là dallo Zagro, tutti incitati a scuotere il giogo. L'impero, saldo in
apparenza e durevole, si sarebbe sfasciato dopo il trionfo delle schiere ribelli, se pure lo stesso
Zerduste, sotto colore di chiamare i Medi a difesa della stirpe di Nemrod, non pensava a disfarsi, per
utile suo, di quel malaccorto adolescente, trastullo nelle sue mani, vera larva di re.
E intanto che costui, riparato con Ninia entro le mura di Barsipa, faceva assegnamento sulla
irruzione dei Medi, sullo scompigliarsi dell'esercito di Semiramide e sulle ire di Babilonia, cresciute
a dismisura per la morte di tante migliaia de' suoi cittadini, la fortissima donna vacillava nei suoi
consigli, esitava a condurre innanzi l'opera sua. Il nemico ch'ella doveva combattere, che un colpo
malaugurato de' suoi ingegni di guerra poteva stendere al suolo, era Ninia, era suo figlio! ll
tradimento dei Casdim la turbava altresì, la faceva più perplessa. Bene erano ossequenti a lei i
sacerdoti di Militta e di Nebo, rimasti in città; ma che potevano costoro, contro il maggior numero
rifugiato in Barsipa ed anco di là possente sul popolo, tranne il pregare in silenzio?
Fatta accorta del pericolo, confidandosi inoltre che il suo inaspettato trionfo in Babilonia
avesse ridotto quei temuti nemici a più miti consigli, diè mano a pratiche segrete con essi, facendo
che alcuno dei sacerdoti di Nebo andasse a Barsipa, come a cercarvi rifugio, e, avuto agio di parlare
col saccanàco, ogni più larga promessa e giuramento gli facesse, in nome di lei. Frattanto i giorni
scorrevano, ed altri dolori le si stringevano al cuore.
Il re d'Armenia andava ricuperando la sanità ad occhi veggenti. La ferita non aveva nulla
avuto di grave, tranne forse lo spargimento copioso del sangue. Vinta la febbre mercè il farmaco
dell'Indiano, egli era tornato in sè medesimo, e la ingenita vitalità aveva trionfato di tutto, perfino
della negra mestizia che gl'ingombrava lo spirito. Il cammino da' suoi monti natali alla pianura del
Sennaar non gli era tornato a disagio, dappoichè la sua scorta viaggiava sempre nelle ore notturne,
ed egli posava su morbide piume, procedendo leggero e senza scosse, o sobbalzi, al dolcissimo
passo dei cammelli battriani. La tacita compagnia giungeva in Babilonia tre giorni dopo il vittorioso
ingresso di Semiramide, e la frescura dei pensili orti, l'abbondanza di tutti gli agi del vivere, ave-
vano rinfrancate le membra affralite del giovine, facendo il resto la gioventù, questa medicina in-
comparabile, che tutti, ahimè! non sempre portiamo dentro di noi. Sbiancato mostrava il volto, già
tinto di rosa e ammorbidito da riflessi dorati; una nube di tristezza offuscava il placido lume degli
occhi; pure la sua bellezza non aveva nulla perduto della prima virtù; simile al fiore che il soffio
della bufera ha alidito, ma che un tiepido raggio di sole ravviva.
Semiramide lo aveva veduto. Nel suo breve colloquio con lei, il prigione erasi mostrato
ossequioso, ma freddo. Posto di bel nuovo al cospetto di quella sovrumana bellezza che lo aveva
rapito, memore di tante angosce, più ancora di tante dolcezze, combattuto da contrarii pensieri e da
immagini di lutto recente, si adirava con sè medesimo, si struggeva di non odiarla quanto avrebbe
dovuto.
- Son vinto e tuo prigioniero; - le disse. - Fammi morire; altro io non aspetto oramai. Donna
di grande animo ti dice la fama, e le imprese tue ti dimostrano. Fanne un'ultima prova per me, af-
frettando il mio fine, ed io benedirò l'odio tuo.
- Nemico di un giorno, e pensi ch'io t'odii? - replicò nobilmente la regina. - Ho vendicato un
oltraggio, ho punito un atto di ribellione; tutto l'altro io non ricordo, non vedo. Son regina per te
come per tutti; ciò soltanto soffri da Semiramide. Ella è soddisfatta: nè pensa, ai dolori patiti, o alle
profonde allegrezze che si riprometteva dalla sincerità del suo cuore, se non per lagnarsi della sorte,
a lei così larga dispensatrice di potenza, e così avara di giustizia nel mondo. Credi tu che di questa
potenza m'importi? Credi tu che mi prema del regio fasto, dell'impero accresciuto e di questa
Babilonia, che un mio cenno ha creata? Io sono più superba a gran pezza; mi paragono alla stella
che trascorre veloce lo spazio e non cura il solco di luce che lascia dietro di sè. Mi spegnerò come
ho vissuto, splendendo; ma non vo' che nulla offuschi a' tuoi occhi il mio raggio; non l'amor tuo, la
tua stima domando. So quali ragioni t'abbiano mosso alla fuga; Sumàti, innanzi di cercare spontaneo
la morte nelle acque salse di Van, mi ha confessato ogni cosa. Tu fosti vittima di un'empia
macchinazione, che l'abisso non poteva immaginar la più nera. Per darle a' tuoi occhi colore di
verità, un tuo fedele ti ha venduto ai nostri comuni nemici.
- Un mio fedele! - sclamò Ara turbato. - Altri non meritò più questo nome, che Bared.
Impossibile! Bared pugnava al mio fianco. Non tradiscono, i valorosi. Fatto prigione con me, perchè
non lo vedo io al mio fianco? -
Tosto, ad un cenno di Semiramide, fu cercato per ogni dove l'infido scudiere del re. Ma
invano. Bared, nel muoversi dei prigioni da Armavir, profittando della confusione in cui era
l'esercito, aveva presa la fuga, nè più s'era avuta nuova di lui.
- Tu lo vedi, o regina? - disse Ara, con piglio severo. - Anche Bared, l'ultimo testimone, ti
manca. Egli pure, come Sumàti....
- Basta! - tuonò la regina, il cui sangue si rimescolò tutto e riarse, come le fosse penetrato un
dardo rovente nel cuore.
E furono le ultime parole di lei. Composta negli atti, grave nell'aspetto, ma fieramente
combattuta nell'animo, vacillante, smarrita di sensi, uscì la misera donna. Ella non era più
Semiramide; non era più la regina. Sì, ben lo sentiva in quel punto; la sua fortuna era fuggita per
sempre; la dura mano di Nisroc si aggravava su lei.
A che più combattere? Per quali speranze? A qual pro? È dei giovani il travagliarsi, durare aspre
fatiche animosi; dei giovani, che hanno il futuro davanti a sè, per chiamarli colle arcane sue voci, stimolarli
colle sue confuse promesse. Ma il vecchio, deserto d'ogni promessa e d'ogni speranza, a che tenderebbe i
nervi e l'ingegno, conscio pur troppo che pochi passi più oltre una fossa lo aspetta? Così Semiramide, a cui
la gioventù splendeva ancora sul volto, ma più non esultava nel cuore. Vivere, vincere, regnare, perchè? Non
è grata fatica, dove manchi la speranza del premio. È vanità rialzare un trono, su cui non abbia a sedere che
un'ombra. Cedono allora, cedono le anime grandi ai più profondi sconforti. Gittar l'opera di tante braccia
obbedienti, spargere inutilmente il sangue proprio e l'altrui, peggio che errore non è forse un delitto? E varrà
egli per avventura, contro queste voci della coscienza il dire che giusta è la causa per cui si combatte? Sarà
scusa bastevole al cospetto del mondo, o conforto per sè, l'aver combattuto per seguire la sua generosa
natura?
Chiusa nel silenzio delle sue stanze, la regina pensava. Che aveva ella fatto di così reo, da
meritarle un tal scempio? Vedova di Nino, aveva, più ancora che colle sue vittorie, colla temuta
altezza del nome, formato il più vasto impero che fosse mai; aveva recato un sorriso di grazia nella
forza, un raggio di serena maestà nella ferocia di que' prepotenti Cussiti. Luce e bellezza è la donna
nel mondo; solo quando ella vi apparve, credettero gl'immortali che Dio avesse compiuto l'opera
sua. Tale era stata Semiramide sul trono degli Accad, luce e bellezza all'impero. Ma forse l'alba dei
leggiadri costumi non era anche spuntata; ed ella, precoce apparizione, doveva rimanere come un
gentile esempio ai venturi, meteora luminosa in quelle tenebre lunghe.
Cionondimeno, era egli forse un delitto lo aver tentato di raggentilire i culti disumani e
rozzi, lo avere raunati tanti sparsi popoli in un grande consorzio, lo aver recati i benefizi d'una
civiltà nascente su tanta parte della terra? E di che, se giustizia celeste presiede all'opere umane, di
che era ella punita? D'esser donna e pietosa, d'aver confidato negli uomini, d'averli reputati
magnanimi e schietti al pari di sè, di non aver creduto alle tenebre perchè essa era la luce, al livore
perchè essa era la bontà, all'ingratitudine, alla viltà, al tradimento, perchè essa era la generosità, la
grandezza e la fede. Sì, quella era colpa sua; nè doveva per ciò muover lagno agli Dei. Ah, come
avrebbe voluto mutarsi allora, farsi tutt'altra da quella di prima, esser barbara, incrudelire, operare il
male, come tanti nel mondo, per la sola voluttà del male! Ah, se quel tristo adolescente, quel mostro
di perfidia precoce, non fosse uscito dal suo grembo, come le sarebbe bastato l'animo di entrare in
Barsipa col ferro e col fuoco, e là, al sommo della torre, costringerlo a bere il sangue del suo
Zerduste e del gran sacerdote di Belo, confitti a lungo martirio sugli altari bugiardi!
Ma ella era madre; era magnanima e pia; i feroci pensieri trascorrevano veloci nella sua
mente, a guisa di nuvole rotte in un cielo sereno. La nobile creatura non poteva mentire all'indole
sua; doveva struggersi nel suo dolore impossente, e cadere, se così voleva il destino.
Gli eventi incalzavano. Medi, Persi, Elamiti, si erano ribellati ai governatori delle provincie.
Le torme loro muoveano minacciose dai monti, alla volta del Sennaar; cotesto recavano i frettolosi
messaggi, come nel profetico sogno della rocca di Van. Fortuna estrema per lei, che i popoli sol-
levati non si fossero posti prima in cammino, come, nella veemenza de' suoi desiderii, aveva sperato
Zerduste! Frattanto, egli bisognava spedire un buon nerbo di valorosi ad affrontarli; ella stessa
avrebbe dovuto correr laggiù, coglierli alla sprovveduta e sconfiggerli. Ma come uscire di Babilonia,
come sfornire la città di soldati, mentre i ribelli erano così numerosi in Barsipa e dall'alto delle mura
certo spiavano l'occasione di rifarsi alle offese?
Inoltre, Babilonia non era sicura, vacillava nell'obbedienza. I grandi, forza e decoro della
città, si erano allontanati con Ninia; il popolo rimaneva, ma inquieto, cruccioso, sbigottito tra i mali
presenti e l'incertezza del futuro. Cessate le feste, rovinati i commerci, rotte le consuetudini d'una
vita facile e piana, a cui era necessaria la prosperità di tutto l'impero, ben si scorgeva che il ritorno
della pristina pace non era più possibile oramai, senza varcare un'altra sequela di durissime prove. E
d'ogni cosa (siccome avviene in mezzo alle pubbliche calamità, che fanno gli animi ingiusti) si
accagionava l'autorità più vicina, quella a cui sarebbe bisognato dar forza per uscire con essa
d'angustie; s'accagionava Semiramide, la regina vera, l'autrice di tanta prosperità passata; non Ninia,
il ribelle, delle cui grandi opere, delle cui felici impromesse, null'altro pur anche era noto, fuorchè il
suo tradimento.
Gran colpa, agli occhi del volgo, un'ora di mutata fortuna! A Semiramide niente giovava
aver tante cose operato per la felicità di quel popolo. Che era per costoro il passato? Un generoso li-
quore bevuto a rapidi sorsi, un'ebbrezza, un sogno felice, di cui non si serba gratitudine, e molto è se
la memoria rimane. Del presente era ella accusata, del triste presente, di ciò che la regina non avea
fatto per soggettarsi il destino, di ciò che Ninia, Zerduste, complice il popolo di Babilonia, avevano
perpetrato contro di lei.
Intanto, lutto, squallore e tumulto per ogni dove. In mezzo all'abbondanza, si pativa difetto
d'ogni cosa. Col pretesto della pugna imminente, si smetteva il lavoro; si domandava pane, e
avutolo si chiedeva che fossero aperti i granai. Nè di minore ansietà era cagione l'esercito. Tutte
quelle migliaia di guerrieri d'ogni nazione, forti e compatte schiere all'aperto, riuscivano colà
branchi disordinati e turbolenti, facili a scorarsi, più facili a secondare, che non a contenere ne' suoi
vaneggiamenti la plebe.
Emissarii di Zerduste, fautori di ribellione, correvano di continuo tra le file. Erano popolo,
nè poteva sospettarsi di loro.
- Contro chi combattete? - dicevano. - E per chi? Doloroso è morire, quando a nulla giova la
morte. Sapete a cui siano propizi gli Dei? Non certo a Semiramide! La sua stella è tramontata, dopo
ch'ella ha voluto sacrificare agl'idoli stranieri. Ninia ha da essere un giorno il re nostro; a che
combatterlo oggi? Egli è oramai al suo sedicesimo anno, e l'ha educato al regno la savia tutela di
Zerduste. Egli è ragionevole che, cresciuto negli anni e nella saviezza il discendente di Nemrod, lo
scettro continui ad esser impugnato da una fragil mano di donna? Compagna la fortuna ed auspice la
gran memoria di Nino, costei ha potuto condurre innanzi malagevoli imprese, altre lasciarne a
mezzo, senza troppo suo scorno. Oggi, abbandonata dal favore de' cieli, esce in mostruose follie. Il
miglior sangue di Babilonia s'è sparso inutilmente nelle gole d'Armenia. Il vostro si sparge
inutilmente del pari sotto le inespugnabili mura di Barsipa, con alto rammarico dei vostri cari, che
v'aspettano tremanti alle case natali. Ninia vi darà pace; egli vi rimanderà liberi e ricchi alle vostre
contrade. Che può darvi oramai Semiramide, se non certezza di forsennati assalti e di morte
ingloriosa? tra breve incalzeranno alle porte i popoli sollevati dalle regioni orientali. Avremo guerra
dentro e fuori, carestia, desolazione, esterminio. Che farete voi, uomini di Elam, voi Medi, Persi,
Ariarvi, cavalieri animosi, su cui Semiramide fa assegnamento per distruggere il popolo delle
quattro favelle? Uscirete voi in campo aperto, spingerete i baldi corsieri contro i vostri fratelli di
sangue, scesi dai monti in aiuto del legittimo re? -
Con arti siffatte era tentata e scossa la fedeltà dell'esercito. Nè più molto occorreva; forse
una lieve occasione dovea bastare a discioglierlo.
- Viva Ninia, in perpetuo! - già avevano incominciato a gridare i nativi del Sennaar.
- E Anaìti, con lui, la vezzosa regina! - soggiungevano i popolani. - Quella è nostra, nata del
nostro sangue più schietto. Felice chi la vedrà, come noi l'abbiam veduta, passare per queste vie,
bella come il sole nascente, e dall'alto del suo cocchio d'argento e d'oro sparger sorrisi e saluti, come
sparge fragranze il fiore della mandragora. È dessa, Anaìti, la vera rosa del Sennaar; la venturiera
d'Ascalona più non usurpi quel nome. -
E scorreva, tra i dissennati, scorreva, versato largamente nei calici, il liquor della palma. Cit-
tadini e soldati, dopo aver maledetto alle regali follie, pianto sui mali presenti e sui temuti danni
futuri, gozzovigliavano, infingardivano, tumultuavano insieme.
I capitani delle squadre, giustamente inquieti, andavano a consiglio presso la regina.
- I soldati, sparsi tra il popolo, avranno perduto ogni ritegno ben presto; la licenza e la ri-
bellione son penetrate nel campo. Bada, o regina: se i rivoltosi di Media giungeranno alle porte, con
quali forze andremo noi a combatterli? -
Semiramide, oppressa da tanta rovina, perduta nel suo ascoso dolore, non sapeva a qual
partito appigliarsi. Dar tosto l'assalto a Barsipa? Sì certo era quello il più saggio consiglio; e là, o
vincere, o morire! Ma il suo cuore materno tremava. Infatti, come mai, senza mandare in fiamme il
covo dei ribelli, avrebbe ella potuto metter piede colà?
Faleg, sempre costante nella sua fede e ammonito dalla necessità di uscir presto da quella in-
certezza, propose un suo divisamente alla regina.
- Se tu tentassi di bandire una tregua, e di chiamare a parlamento gli anziani di Babilonia,
insieme coi grandi rifuggiti in Barsipa? Tu udresti ciò ch'essi dimandano; essi le tue proposte, o
signora. Imperocchè, tu lo vedi, questa inerzia è fatale. O assalire i baluardi, o calare agli accordi,
ma subito!
- E sia, come tu saviamente proponi! - rispose la regina. - Vengano a parlamento, e dicano
l'animo loro qual è. -
Indettatesi d'ogni cosa con lei, Faleg esce sollecito dalla reggia e manda gli araldi per la città. Egli
stesso sale arditamente in arcione e s'avvia con pochi uomini di scorta, a Barsipa. Giunto a' piè delle mura e
fatte squillare le trombe, così parla ai ribelli:
- In nome della possente signora degli Accad cui Nebo ha concesso l'impero dello scettro e
la vittoria della spada, a voi cittadini e difensori di Barsipa, tregua è proposta da questo momento
fino all'alba di doman l'altro, che sarà il trentesimo giorno di Tana. I soccorsi, che voi attendete dalle
terre del sole oriente, non giungeranno prima di sei giorni in vicinanza di Babilu. Così recano i
nostri esploratori; vedete voi medesimi se vi confortino più felici notizie. In questo termine, io ve lo
annunzio, Barsipa sarà espugnata col ferro e col fuoco. Or dunque, accettate la tregua, e quale di voi
l'abbia grato, purchè sia dei maggiorenti di Kiprat Arbat (o principe tra i suoi, se straniero alla terra
del Sennaar), venga a parlamento nella reggia, insieme cogli anziani di Babilu. Udrà la regina le
proposte de' suoi avversarii, e che cosa essi chiedano da lei per far posare la guerra; ella dirà ciò che
da loro s'aspetta, o che può loro concedere. Liberi e sacri gli inviati di Barsipa; maledetto, dai
sommi Dei chiunque, durante la tregua, tenterà cosa alcuna a danno del suo più odiato nemico. -
CAPITOLO XXII.
IL BIVIO.
Dispiacque la proposta in Barsipa. Che vuole costei? dimandavano i ribelli, radunati a consi-
glio. Qual nuovo inganno si cela in questa tregua, che ella ci profferisce? Tarderanno ancora parec-
chi giorni i soccorsi di Media; che importa? Le nostre mura sono salde, e ingegni di guerra non
mancano a noi, per respingere i minacciati assalti della regina. Alla perfine, di quali speranze si
nutre, col popolo avverso e l'esercito mal fido? E non è forse da credere che ella tema più di noi
l'esito di quest'ultimo scontro? Di certo, le è giunto all'orecchio che domani, dal sommo della gran
torre, i Casdim chiameranno solennemente sovr'essa la maledizione degli Dei, e questa sua profferta
è intesa a scongiurare il pericolo. Ella ben sa che il popolo di Kiprat Arbat, servo riverente dei
Numi, si solleverà contro di lei, dichiarata sacrilega, e l'esercito, in cui è tanta parte dei figli del
Sennaar, piglierà ansa a sostenere le ragioni del popolo. No, si risponda a Faleg, non tregua, nè
accordi!
Vinceva per tal guisa il partito di respingere la proposta. Ma Zerduste, che fino a quel punto
aveva serbato il silenzio, si oppose.
- Due notti in Babilonia, - egli disse, - sono gran ventura per noi, quale non ci era dato spe-
rare dalla benevolenza del cielo. Ponete mente, o savi consiglieri del re: ciò che a noi tornò così
malagevole di ottenere, la mercè di destri emissarii, tenteremo liberamente noi stessi per le vie della
città, nelle lunghe ore che ci consente la tregua. Nè così audace è il popolo, nè ancora così pronto ad
ammutinarsi l'esercito. D'una propizia occasione è mestieri, e questa occasione è la tregua.
- Ma sarà ella osservata, la tregua? - notarono gli altri, con accento di dubbio. - Non è per
avventura da temersi una insidia?
- Semiramide non è donna da tendere insidie! - rispose brevemente Zerduste. - Ciò ch'ella
promette fedelmente atterrà. State di buon animo, ed eleggete quali di voi dovranno recarsi alla
reggia. Io medesimo, che più d'ogni altro avrei cagion di temere, scenderò in Babilonia cogli inviati
del re e col venerato collegio dei Casdim. -
Ora, Zerduste era l'anima della rivolta e a lui tutti facevano capo, come al vero monarca. I
Casdim medesimi, ai quali l'astuto prometteva tanta possanza nell'impero, erano a lui vincolati. La
proposta fu dunque accettata.
Tosto, recatesi alle porte della città, il principe di Bakdi venne a parlamento con Faleg.
- La regina ascolterà dunque i voti del Casdim e dei grandi rifuggiti in Barsipa?
- E degli anziani di Babilu; - aggiunse Faleg. - Il popolo rimasto in città è sempre il maggior
numero; nè il suo voto, qualunque esso sia, va lasciato in disparte.
- Sta bene; - disse Zerduste. - E che intendi tu per altri dei ribelli, purchè siano principi delle
loro nazioni? Son io dunque del numero?
- Tu primo, - rispose l’inviato di Semiramide, - e le mie parole indicavano te. Non fosti tu il
consigliere della ribellione? Non comandi tu, non fai ogni cosa a tuo talento appo il re? Vieni dun-
que, se ti aggrada; la tua persona, come quella d'ogni altro, ci è sacra. -
Così minutamente convenuti di tutto, fu giurata quel medesimo giorno la tregua nel tempio
di Nebo. Giurò Zerduste per Ninia e pei ribelli; Faleg per la regina e per l'esercito suo; Abdenago, il
primo degli anziani, pel popolo delle quattro favelle.
Babilonia si rasserenò come per incanto, dopo che gli araldi ebbero bandita quella
sospensione d'arme, altrettanto gradita, quanto era inattesa. Gli animi, riaperti alla speranza,
intravvidero la pace imminente. A che si sarebbe fatta la tregua, se non fosse parso ai combattenti di
poter giungere ad utili accordi? Del resto, l'esser chiamati in mezzo gli anziani della città, quasi
arbitri del litigio, affidava il popolo che in un modo o nell'altro, per la madre o pel figlio, gli sarebbe
restituita la calma.
In sull'ora del tramonto, schiuse le porte di Barsipa, scesero i grandi e i sacerdoti in Babi-
lonia. Sulle orme loro si affrettarono molti altri, che pure non dovevano andare alla reggia, guerrieri
e cittadini, a cui premeva di vedere i congiunti o gli amici. Nè Faleg si oppose a questo lor
desiderio. Così, largheggiando di generosità e di clemenza, volea Semiramide. Non erano che un
solo i due popoli; soltanto le sorti della guerra intestina li avean separati; tornassero quelli di prima,
finchè durava la tregua.
La mattina del giorno seguente, che fu il ventesimonono di Tana, gli anziani di Babilu, con-
dotti da Abdenago, i capi della rivolta, e i maggiori tra i Casdim, guidati dal saccanàco,
ascendevano alla reggia, ed erano introdotti nella sala di Nemrod, al cospetto della regina.
Semiramide era seduta sul trono, pallida in volto, ma tranquilla, in atteggiamento regale.
Immobili ai suoi fianchi stavano i flabelliferi, con alti ventagli di penne, i melofori coll'armi in
pugno e i portatori di scettro, interpetri e ministri de' suoi alti comandi. Faleg e i capi dell'esercito
erano in attesa, raccolti ai piedi del trono.
Zerduste non era tra i nuovi venuti. O fosse riguardo per sè, o atto di meditata cortesia verso
la regina egli non aveva posto piede là dentro; ma bene erasi aperto cogli altri, ed essi indettati con
lui, d'ogni cosa che avessero a dire. Il saccanàco, per giusto riserbo della sua dignità, non voleva dal
canto suo esser primo ad ossequiar Semiramide. Però l'ufficio di parlare in nome di tutti era
commesso al capo degli anziani, che difatti fu il primo ad inoltrarsi a' piedi del trono.
- Potente signora, - disse Abdenago, inchinandosi a mezzo, - vivi in perpetuo!
- E a te ed a chi viene con te, - rispose la regina, - dian lume di savio consiglio i celesti. Io
vo' che posi la guerra, e, perdonati i ribelli, allontanati gli estrani, sia riverita la mia autorità dal
popolo delle quattro favelle. Ora, che pensate voi dell'offerta? I disegni della mia clemenza son
questi. Amo meglio vengano essi incontro a voi, in sembianza di doni amorevoli, anzi che paiano
concessioni lungamente patteggiate, e quasi strappate alla resistenza d'un animo acerbo. Madre io
mi tengo del popolo, come sono di Ninia. La mia fede vi è nota. Schietto ed aperto ditemi dunque
l'animo vostro. -
Abdenago si fece innanzi d'un passo, e postasi la manca sul petto e stesa la destra in alto,
come per aggiungere solennità al suo discorso, parlò:
- Regina, non ti dispiaccia il mio dire. Pel mio labbro ti parlano gli ordini tutti della città, i
rifuggiti in Barsipa, il venerato collegio dei Casdim. ll popolo delle quattro favelle è per cagion tua
sventurato. Sempre, dacchè lo raccolse in questa pianura e gli diè legge il fortissimo Nemrod, que-
sto popolo fu governato da re, scesi tutti da una medesima stirpe. Per la prima volta l'ebbe in sua
balla una donna, e quella tu fosti. La tenera età di Ninia, la tua gloria, la tua fortuna, persuasero di
lasciarti lo scettro, che soltanto a destre virili era concesso impugnare....
- Io lo tenni per virtù mia, non l'ebbi in grazia a voi! - interruppe la regina.
- E sia; - disse di rimando Abdenago; - noi dunque a forza obbedienti, non già condiscen-
denti alla tua autorità per nostra elezione. Regnasti sola e felice undici anni; la fortuna arrise alle tue
armi, fino a quel giorno che, condotto il tuo esercito sulle rive dell'Indo lontano, il Signor delle sorti
volse la sua faccia da te, e tu non campasti che colla fuga da una certissima morte.-
Un amaro sorriso sfiorò le labbra di Semiramide.
- Trasvolate assai presto undici anni di gloria! - diss'ella con piglio sarcastico. - Vi giova al-
tresì dimenticare che questa felicità, questa grandezza, di cui rimpiangete la perdita, voi, prima e
vera cagione del vostro medesimo danno, sono opere mie. Chi ha fatto l'impero? Chi ha esaltato i
sommi Dei di Babilu al cospetto delle vinte nazioni? Prima che io fossi, io, avventuriera d'Ascalona,
siccome taluno di voi oltraggiosamente mi chiama, nessuno degli Accad aveva ancora veduto un
tratto di mare. Io quattro ne vidi, e sulle rive trionfate posi i confini della mia, della vostra possanza.
Chi ha soggettato al nome dei figli di Cus tutto il paese di Martu, dalle arene di Mesraim fino alle
spiaggie di Rifat, con entro città popolose e fiorenti di traffichi, e Chittim, e Caftor e tutte l'altre
isole belle che si specchiano nel mare del sole occidente? Bene le terre dei Medi attrassero il cupido
sguardo dei vostri re, da Nemrod a Nino; ma chi venne a capo della resistenza di Bakdi, della città
che sovrasta con l'alta bandiera su tutta la contrada del sole oriente, dal Caspio, in cui l'Oxo si versa,
infino all'Eritreo, dove l'Indo mette le numerose sue foci? Chi stese il regno alla terra degli aromi e
dell'oro, che siede felice in mezzo a tre mari? e le prede di tante guerre, i tributi di tanti popoli
soggiogati, chiusi io forse per me, o gittai nelle feste? Non mutai, dov'era bisogno, il corso de'
fiumi? Non murai cittadelle? Non apersi vie spaziose, ov'erano dapprima boscaglie, dirupi e libere
orme di fiere? Io strinsi d'argini poderosi l'Eufrate ed il Tigri; io riedificai la città, cingendola di
saldissime mura e di fosso profondo; io innalzai questa reggia, splendor della terra; io que' templi,
grata dimora ai celesti. Quale dei vostri barbari re, sia egli pure Nemrod, il terribile cacciatore di
popoli, o Nino, mio sposo, giunse a tanto di gloria? E a me si ardisce dar cagione delle sventure di
Babilu? Dinanzi a me si ardisce rimpiangere la mano d'un re? -
Un mormorìo d'approvazione era corso per le file dei cortigiani e dei capi dell'esercito,
molti de' quali avevano partecipato ai pericoli e alla gloria di tante nobilissime imprese. Gli stessi
cittadini di Babilonia, e parecchi dei grandi rifuggiti in Barsipa, avevano sentito come un'aura della
passata grandezza aleggiare sulle loro cervici e curvarle ad atto di riverenza e d'ossequio. Ma
Abdenago, nella cui mente aveva stillato le sue sapienti perfidie il principe di Bakdi, non si era
dato per vinto:
- E sia ancora; - ripigliò il capo degli anziani, - sia sempre come tu dici, o regina. Tante mi-
rabili cose hai operato, o, per dire più veramente, hanno operato per tua mano gli Dei protettori di
Babilu. Ma perchè, a mezzo il corso de' tuoi benefizi, hai tu voluto arrestarti e distruggerne i frutti?
Perchè tu, fondatrice dell'impero, facendo contro a te stessa, ti sei consigliata di mandarlo a rovina?
Questa recente guerra contro la maledetta Armenia, per qual ragione fu impresa? -
E Abdenago, uscendo in questa dimanda, si piantò arditamente dinanzi al trono, guardando
la regina con aria di sfida. Parlavano pel suo labbro i lutti numerosi che quella guerra aveva arrecati
a Babilonia, e gli crescevano l'audacia. Fremettero i convenuti nella sala di Nemrod, quali di
memore sdegno, quali di corruccio per la temeraria domanda; ma gli uni e gli altri, ben sapendo che
là era il nodo di quell'aspra contesa, stettero muti ed intenti ad aspettare la risposta di Semiramide.
Essa fu breve.
- Non vi ho mai detto perchè imprendessi le altre; - disse alteramente la regina; - non vi dirò
dunque le cagioni di questa. Ben voglio sia ricordato da voi che l'Armenia era soggetta a tributo e
che, d'improvviso, scossa la nostra autorità, offesa dai figli d'Aìco la maestà del trono degli Accad,
occorreva domarne con pronta guerra l'orgoglio. Un grande impero siccome il nostro non può viver
sicuro, con audaci e turbolenti nemici alle spalle.
- Così non dice la fama! - replicò prontamente l'anziano.
- La fama! - esclamò Semiramide. - La fama! - ripetè con ironico accento. - E che si fa dire a
questa compiacente ministra dell'invidia, del maltalento e della stoltezza del volgo?
- Che fu un capriccio di donna; - rispose Abdenago, senza fermarsi a raddrizzare la frase. -
Condonami, o regina, le ruvide ma schiette parole. Siam qui per farti udire la voce del vero, non
piaggerìe di servi ossequenti e paurosi. Questa guerra è costata tesori. Per essa, settanta miriadi
d'armati furono raccolte in Assur; tutte le più valide braccia tolte alle case loro e all'operosa pace dei
campi. Ma che dico dei tesori profusi, quando è il sangue sparso che grida vendetta? Duecento
migliaia di combattenti lasciarono la vita ne' preziosi monti d'Armenia, nelle infami strette di
Ajotzor! Tu vincevi, o regina; trionfavi del riluttante Armeno e godevi in cuor tuo; ma tu non eri già
nella desolata terra del Sennaar, confusa tra le orbate famiglie di Babilu, per lunghe e terribili ore
immobile sulla riva dell'Eufrate a contemplare i cadaveri tratti nell'onde vorticose del fiume natìo! Il
fiore e il nerbo della nostra schiatta miseramente perduto; i diecimila cavalieri di Belo, onore e forza
della progenie di Nemrod, mietuti dall'orrida morte; e perchè? Guerra utile era forse cotesta? O
necessaria almeno? Che non la facesti tu prima? Che non ne rimovesti i danni con previdente
consiglio? Ma inutile era, inutile e dannosa pel popolo di Kiprat Arbat; utile soltanto a' tuoi
corrucci, profittevole alle tue regali vendette!...
- E non erano esse le vostre? - interruppe Semiramide. - Lasciamo le perfidie che s'ascon-
dono nelle tue parole, o Abdenago; la regina le ha udite, e ti basti. Di tante morti mi duole; a me
prima e più fortemente è doluto che a voi. Ma la sorte delle battaglie è cotesta; nè la vittoria frut-
tìfica, senza che il campo sia innaffiato di sangue. Molti guerrieri e de' migliori, perirono, in tutte le
guerre che hanno fatto grande e poderoso l'impero; molti più ancora in disutili imprese, e non già di
donna corrucciata, ma d'uomini forti e prudenti, di re animosi e feroci, che voi oggi a mio scorno
esaltate. E nessuno si dolse allora, nessuno impugnò l'armi della ribellione, quando il fortissimo
Nemrod, in quelle medesime strette di Ajotzor, famose, o Abdenago, famose finchè duri memoria
negli umani intelletti, lasciò la vita, la gloria dei passati trionfi e non una parte de' suoi, ma tutta la
schiera de' valorosi Titani. E voi sventurati per me! Voi sollevati contro la mia autorità, per alto
rammarico delle vite mietute! Sii più cauto, o Abdenago, nel far tuo pro di un lutto comune. In
Ajotzor si combatteva il sesto giorno di Tana, e voi già apertamente ribelli dal terzo, mentre io mi
disponevo a levare le tende dal campo di Assur.
- È vero; - balbettò confuso l'anziano. - Ma infine, e non era egli agevole di prevedere quella
immensa rovina? Tu stessa hai ricordato il figlio di Misdraim. Sì, l'impresa del forte Titano contro
le case di Thogarma fallì; vita e gloria vi perdette ed esercito. E tu, non ammaestrata dall'esempio,
hai voluto ritentare la prova, far contro all'espresso voler degli Dei. Vincesti, ma la tua vittoria fu
scherno amarissimo di Nisroc; per la tua vittoria, per la tua, contentezza, è Babilonia, è tutta la terra
di Sennaar immersa nel lutto. A che contenderemmo di giorni? L'impero è scosso ne' suoi cardini;
questo è il danno più grave, e dimanda le cure sollecite dei savi che consigliano i principi. Nè
mancano essi a Ninia, al regio adolescente, che il popolo volle e che i sacerdoti consacrarono re
sulla gente degli Accad. Figlio di Nino e tuo, non dee parerti un usurpatore del regno.
- Figlio di Nino e di Semiramide, aspetti dunque l'ora del suo destino! - gridò Faleg, che già
più non poteva frenarsi. - Male s'argomenta di ottenere obbedienza dal popolo, chi primo si ribella
all'autorità della sua genitrice e regina.
- Savio parli; - rispose Abdenago, scosso da quelle ferme parole e più ancora da segni di as-
sentimento che esse avevano destato tra i capi dell'esercito e tra parecchi de' suoi medesimi com-
pagni. - Ma Ninia dovrà pure un giorno impugnare lo scettro de' suoi maggiori. Egli regna oramai; a
che scemargli la maestà del nome, avvilirlo al cospetto delle genti, richiudendolo di bel nuovo
nell'ombra gelosa del suo umile stato? Ricordi Babilonia, ricordino i Casdim, ricordi l'esercito
(poichè tutti qui raunati non siamo che una famiglia, il popolo delle quattro favelle) essere a noi
necessario di premunirci contro un più grave pericolo. Bene avrei desiderato tacerlo, ma infine....
- Parla, - gridò Semiramide. - Molto hai già detto, e che altro oramai può farti nodo alla
lingua?
- Orbene, sì, parlerò! - soggiunse Abdenago, che astutamente aveva meditata la sua
reticenza. - Corrono voci strane e paurose tra il popolo. Non sono forse caduti, in un sol giorno di
pugna, tutti i nobili rampolli della progenie di Nemrod? Balsam, il capo dei bianchi cavalieri di
Belo, Balsam, il terzo nato di Arbel, che fu padre al gran Nino, tuo sposo; Ninip, ultimo del sangue
di Bab, che fu il secondo figlio di Nemrod; e Samas Iva, del sangue di Cael, e Misdrac, Ioreb,
Dudaimo, balda giovinezza e decoro del vecchio ceppo di Cus, non sono essi tutti, dal primo
all'ultimo, rapiti per sempre all'amore e alle speranze degli Accad? Per contro, non hai tu condotto
alla reggia l'Armeno, con ogni più sollecita cura campato da morte, prigioniero in apparenza, ma
perdonato in cuor tuo? Che dovrà pensare il popolo di Babilonia? che argomentare da ciò? Regina,
io nol negherò, che sarebbe vano e non degno di noi! le tue gesta furono e rimarranno gloria impe-
ritura di Kiprat Arbat. Gioventù, bellezza, ardimento ti arridono, e molto ancora ti sarà dato operare.
Ma il popolo, di cui t'è necessaria l'obbedienza e l'affetto, chiede certezza del futuro, vuoi essere
raffidato da te. Qual cosa vogliano i rifuggiti in Barsipa non so; parlino i loro inviati qui raccolti con
noi. In nome del popolo di Babilonia ti parlo io, in nome di questo popolo che ha veduto perire in
un giorno la progenie dei re, e che teme non si preparino per avventura le vie del trono ad una stirpe
nuova, e, quel che peggio sarebbe, di sangue straniero. -
Le vampe del rossore e dell'ira salirono alle guance di Semiramide. Il colpo era tratto alla
donna, e la feriva nel cuore. Cionondimeno, l'accusa di Abdenago appariva così stolta, che ella
riavutasi tosto, anzichè prorompere in accento di sdegno, sorrise di compassione.
- Dimenticate che Ninia vive? - diss'ella.
- Si, vive, - ripigliò Abdenago, crollando mestamente il capo, - ma per prodigio dei Numi.
Ier l'altro, nella sua coppa d'oro gli fu ministrato un veleno. Zerduste lo trattenne, che egli già stava
per accostarlo alle labbra. Il coppiere, costretto a bere invece del re, cadde fulminato a' suoi piedi.
- Ah! e che vorresti tu dire? - gridò Semiramide, che durava fatica ad intenderlo. - Forse che
io.... Orribile pensiero! Una madre!.... E siete voi cittadini di Babilu, voi che lo avete creduto? Ma
andate da colui, dal re vostro, correte, e questo ditegli in nome di sua madre, che ella può di-
sprezzarlo, ma ucciderlo.... ucciderlo! oh, anzi che ciò potesse balenarle alla mente, ella avrebbe
lacerato col suo ferro il maledetto fianco che lo ha partorito.
- Infame calunnia scaturita dal negro abisso! - tuonò Faleg a sua volta, pallido dalla rabbia
troppo a lungo repressa. - E il vostro Zerduste, l'astuto consigliero d'ogni più vil tradimento, non
può egli avervi mentito? Che è mai una nuova menzogna, un nuovo inganno per lui? Che è mai la
vita di un umil servo babilonese, per l'uomo straniero che non ha dubitato di mandare a rovina la
patria nostra e che s'argomenta oggi di salvarla con l'aiuto dei Medi? D'ogni peggiore artifizio è
capace costui! Non lo temo io, lo sdegno dei tristi; soldato sono, e so che dovunque è battaglia; son
figlio di questa terra, e l'ho per nemico de' miei fratelli di sangue. Badate, o cittadini; egli inganna
voi, come inganna il suo regio discepolo, e tardi vi accorgerete del danno, quando i Medi, ora
sudditi vostri, vi staranno padroni sul collo. Badate, o Casdim; egli vi ha ravviluppati nei suoi lacci
insidiosi, abbatterà i vostri altari, purificherà le vostre rozze idolatrie, com'egli superbamente le
chiama, nel fuoco de' suoi sacrifici. -
Le concitate parole del guerriero turbarono profondamente gli astanti.
- Che dici tu? - gridò il saccanàco. - Potrebbero gli Dei esser caduti in inganno?
- No! - incalzò Faleg sollecito. - Eglino infatti vi parlano pel mio umile labbro e vi consi-
gliano a diffidare di Zerduste. Egli vi tradirà, o venerandi, vi tradirà, come ha tradito la donna che
incauta per soverchio di generosità lo ha innalzato, lui principe di una vinta contrada, ai primi onori
del regno. La prova? mi direte voi, la prova? e non l'avete voi, nella istessa mostruosità del delitto
che egli appone alla regina? Può forse una madre, e una madre che abbia nome Semiramide,
compresa della sua grandezza regale, sacra alla immortalità delle opere sue, macchiarsi di
parricidio? Lo credano i perversi, nel cui negro animo gli spiriti malvagi vanno soffiando il loro
alito immondo, non io, non voi, cittadini di Babilu, memori ancora delle nobili imprese della vostra
regina, nè così dissennati da imputare a lei gli errori del caso. E a voi forse parrebbe meno evidente
ciò che a me, non straniero a voi, ma fratel vostro di sangue e non meno di voi sollecito della patria
comune, appar manifesto, luminoso, come il raggio di Sam? Io ne attesto gli Dei, Nergal, il corrusco
signore delle battaglie, Nebo, il veggente custode del vero, Auv, il regnatore de' cieli; e possano le
loro destre onnipossenti fulminarmi sul punto, se io vi dico menzogna. La madre che Zerduste
accusa, si ritenne dallo assalire incontanente le mura di Barsipa, che non sono già di bronzo, come
voi pensate, o ribelli; si ritenne, dico, dallo incenerirvi nel vostro ultimo covo, per tema di arrecar
morte allo stolto adolescente, che crede di regnare su voi, perchè ha ferito il cuor di sua madre.
Orvia, cittadini di Babilu, e voi ministri dei santissimi Numi, tornate in voi medesimi, non
perseverate nella via dell'errore, su cui vi ha trascinato il malveggente di Bakdi. Io non aggiungerò
le minacce, poichè la regina non n'ha profferite. Vi dirò solo che l'esercito farà il debito suo, e, rotti
finalmente gl'indugi, non darà tregua, o quartiere.
- No, nulla! nulla! Sarà fuoco e sterminio! - gridarono i capi dell'esercito, facendo eco ter-
ribile alle parole di Faleg. - Possente signora, le nostre spade son tue! -
Un gesto di Semiramide ringraziò quei valorosi; un suo accento, uno sguardo, un raggio di
contentezza ineffabile, aveva già ringraziato il buon Faleg delle sue generose parole.
Negli animi dei ribelli erasi infiltrata una grande incertezza. Sentivano di non aver buone
ragioni da opporre, e quel nobile ardore incominciava a soggiogarli. Più di tutti già vacillavano ne'
primi propositi gli anziani della città, dalle cui risoluzioni pendevano oramai le sorti della grande
contesa. Ma il vecchio Abdenago, cui rafforzavano i consigli di Zerduste e la stessa sua condizione
di orator dei ribelli faceva ostinato, fu pronto a ravviare i compagni.
- Intendo, - diss'egli, - e non so darvi biasimo di questo nobile ardore. Egli è giusto che se dal
colloquio nostro non deriva alcun frutto, la lotta ripigli più accanita che mai. Ma egli è da por mente
altresì, e tu già non ne dubiti, o clemente signora, che la vittoria arriderà a quella tra le due parti che
abbia il popolo babilonese per sè. Io vo' concedere, - e così dicendo la voce di Abdenago s'era fatta
più umile, carezzevole quasi, - che Babilu, messa al punto di scegliere a quale delle due parti
accostarsi, non dimenticherebbe i dolci vincoli dell'antica obbedienza e la grandezza dei tuoi
benefìzi. Questa città non t'odia, checchè sia avvenuto; ma ella vuol quiete, per medicare le sue
acerbe ferite; vuol sicurezza del futuro, quella sicurezza, che un giorno la condusse a scorgere in te,
sebbene straniera, la degna continuatrice dei fasti della casa di Nemrod; quella sicurezza che il triste
eccidio di Ajotzor e un più recente spettacolo d'ingiustizia, hanno miseramente distrutta. Ella
dunque ti tornerà fedele, onorerà i tuoi comandi, sorreggerà il fianco della tua autorità regale, a patto
che i suoi timori siano dissipati e l'ombre de' suoi morti non siano offese più oltre dalla incolumità
di quell'uomo che cagionò tanti lutti alla terra di Sennaar. A noi testè il valoroso Faleg minacciò la
pena dei nostri trascorsi; nè delle minacce gli anziani si dolgono; essi che accetteranno umilmente,
dal volere degli Dei, premio o castigo, secondo che i celesti arridano, o si mostrino avversi, alle
armi di Ninia. Ma tu, o regina, se giusta sei col tuo popolo, se non odii la casa di Nemrod, se onori
gli Dei che noi tutti adoriamo, devi con atti aperti e sinceri, mostrarti degna del patrocinio celeste....
- Al fine! al fine! - gridò Semiramide impaziente.
- Ci vengo: - ripigliò Abdenago. - Sia uguale la tua misura per tutti. Cada, per tuo comando,
colui che fu cagione del danno. Sconti il malka delle montagne la pena della sua funesta ribellione.
Sia dato al patibolo dinanzi alle porte della tua reggia, cosicchè dalle due rive dell'Eufrate il popolo
delle quattro favelle lo veda espiare il suo tradimento e le lagrime che ci costa; e lo sdegno del
popolo sarà placato allora (ma bada, allora soltanto) da un atto di solenne, quantunque tarda,
giustizia.
- E quello degli Dei sarà placato del pari! - soggiunse il saccanàco, levando in atto di giu-
ramento la destra.
- Sì, muoia l'Armeno, e tornerai la regina degli Accad! - incalzarono i grandi del regno. -
Giustizia per tutti! Troppo sangue di Babilonia si è sparso; ne porti la pena il primo e il più grande
ribelle! -
Il nuovo accorgimento di Abdenago sconcertava i prudenti disegni di Faleg. Nato anch'egli
nel Sennaar, imbevuto di tutta la ingenita superbia della schiatta cussita, Faleg non poteva per fermo
vedere di buon occhio l'Armeno. Ma in lui era forte la gratitudine e profondo l'ossequio per la
regina. Ora la lentezza di lei a punire il nemico, la bieca ostinazione dei ribelli nel volerlo morto, gli
dicevano chiaramente che il leggiadro malka delle montagne era già perdonato nel cuore di
Semiramide e che ella lo avrebbe conteso con ogni sua possa alle feroci vendette che instigava
Zerduste. Tra l'avversione dell'animo suo e il debito della gratitudine, tra le pretensioni dei ribelli e
gli indovinati impulsi del cuore di lei, non era dubbia la scelta di Faleg. Ma come opporsi effi-
cacemente alle bieche proposte, che al cospetto degli astanti si ammantavano di tanta giustizia? Gli
stessi capi dell'esercito, amici e compagni suoi, che non vedevano così addentro com'egli ne' fini
riposti di Abdenago e negli struggimenti arcani d'un cuore di donna, facevano buon viso alla do-
manda, e il loro spiare ansiosi e muti la risposta di Semiramide, avrebbe chiarito ad occhi meno
accorti de' suoi, da qual parte pendessero i loro consigli. Invero, poichè tutta la resistenza dei ribelli
si restringeva in quel punto, i capi dell'esercito pensavano che ad assai lieve prezzo si comprava la
pace, e non dubitavano che la regina fosse per accettare un partito, in cui la giustizia e la dignità sua
erano salve del pari.
Avvenne da ciò che Faleg, cercando invano tra sè come venire in aiuto alla regina, si
rimanesse alquanto sospeso. E gli altri solleciti a trar profitto dal suo silenzio, incalzando
negl'insidiosi parlari. Con quell'atto di giustizia che si chiedeva a Semiramide, era tolto ogni
appiglio ad oltraggiosi sospetti, ogni argomento a paure degli uni, a perfidie degli altri. La pena
inflitta all'Armeno era l'ostia propiziatoria ai celesti, era il messaggio di pace, il patto della nuova
alleanza tra la regina ed il popolo delle quattro favelle. Ninia sarebbe tornato alla prima umiltà;
Zerduste, poi, bastava cacciarlo fuor del reame, colla sua vita comprando l'obbedienza dei Medi
sollevati. Qual più largo trionfo per lei, se per ottenerlo non occorreva spargere pur una goccia di
sangue? La pace restituita ad un tratto; i guerrieri d'una medesima patria non più costretti a
combattersi l'un l'altro, a incrudelire ne' padri e fratelli loro; gli orrori di una guerra civile,
gl'incendi, le stragi, i lutti, risparmiati alla città diletta, che era costata tanti anni di amorose fatiche;
la gratitudine immensa d'un popolo salvato; nulla fu pretermesso dagli accorti avversarii, in ciò
facilmente seguiti, sostenuti, oltrepassati dallo zelo degli amici malcauti, che facevano a gara per
dar nella pania dei fallaci consigli.
Semiramide non rispose parola. Aveva impallidito all'audace dimanda; in quella condizione di pace
gittata là come la cosa più ragionevole del mondo, tanto più ragionevole allora, che il costume di guerra non
faceva sacra la vita dei prigionieri, aveva ella ravvisato il colpo maestro del suo implacabil nemico. Ah, egli
non era dunque per la esaltazione di Ninia, che si adoperava l'astuto? Quell'ignaro fanciullo non era che uno
strumento, un'arma brandita contro di lei, un'arma che si gittava, dopo averla adoperata a ferire! Non era più
sete di regno che contrastava il poter suo; era una vendetta che cercava il cuor della donna, una vendetta
tanto più sottilmente feroce, in quanto che nessuno di quella moltitudine di nemici e di fautori, poteva averla
per tale. Zerduste, infatti, per la proposta degli anziani, non giungeva egli a far sacrifizio di sè? Accettava
l'umiliazione e l'esilio; si dava inerme in preda allo sdegno di Semiramide, che bene avrebbe potuto, appena
sedata la rivolta e ristabilita la sua autorità, cercarlo dovunque egli fosse e farlo inesorabilmente morire. Chi,
ciò pensando, avrebbe sospettato della magnanimità di Zerduste? Quella sua volontaria caduta era il sommo
della ipocrisia; quel suo consiglio di finire ogni cosa colla morte del re d'Armenia, era la stretta fatale in cui
la regina, o la donna, doveva certamente soccombere. E si sentì perduta, allora, e rimase più atterrita a gran
pezza, che non fosse stata prima, all'udire d'ogni altro suo danno.
Ben le restava uno scampo; la guerra disperata, la sorte dell'armi. Ma questa, che fallacis-
sima era, non poteva farla altresì micidiale nel sangue di Ninia? E poi, a che proseguire la lotta? Era
ella tanto desiderosa di regnare, temuta, non amata più dal suo popolo, odiata, non creduta
dall'uomo, per cui aveva messa a repentaglio la sua possanza e la fama? V'hanno istanti supremi, in
cui le anime più salde sentono il fastidio della lor medesima forza, dovuta usare in troppo vili
contese; e allora dalla inerzia, che si offre noncurante ai colpi nemici, spira assai più sublime
grandezza, che non dall'ardore crescente, dalla terribilità della pugna.
Così smarrita, la regina volse a Faleg uno sguardo di suprema tristezza. Lo intese il fedele
guerriero, che incontanente si fece a salire i gradini del trono e si curvò sul ginocchio, per udire i
regali comandi. Ma egli non era già più un comando quello che Faleg doveva udire dal labbro di
Semiramide.
- Tu lo vedi, o Faleg; - sussurrò la regina con malinconico accento. - Tutto è perduto oramai.
- Signora! - rispose sommesso il guerriero, e il cenno del capo significò tutto quello che il
labbro taceva.
- Or ora, - proseguì la regina, - udranno che Semiramide non accetta le loro condizioni.
Potrei forse?...
- T’intendo! - interruppe Faleg, notando il rossore subitaneo che imporporava le guance della
regina. - Ma perchè dir loro il tuo proposito fin d’ora? Tempo ti resta a pensare.
- Ho pensato; - soggiunse ella; - perchè tacerei?
- Perchè eglino, i tuoi nemici, che stanno aspettando un forse preveduto diniego, rimangano
ancora crucciosi nella loro incertezza. Pensa, o regina, al giubilo che sentiranno, alle ire che non si
periteranno di rinfiammare prontamente nel popolo, e consentimi di risponder loro per te. -
La regina assentì con un gesto lievissimo, e Faleg allora, vòltosi da’ piedi del trono ai
congregati, parlò:
- Cittadini di Babilu, Casdim venerati, e voi tutti seguaci delle fortune di Ninia, che mettete
condizioni al ritorno nell'antica obbedienza per la regina degli Accad, oramai la nostra possente
signora vi ha udito. Altro vi resta da aggiungere?
- No; - risposero i grandi rifuggiti in Barsipa; muoia l’Armeno, e l’autorità di Semiramide
non avrà più fidi sostegni di noi.
- Se gli Dei non sono placati, - soggiunsero i Casdim, - Ninia regnerà in sua vece. Così viva
egli in perpetuo!
-E noi, - gridarono gli anziani, - aspetteremo che il signor delle sorti ci mostri a cui dovremo
obbedire. Ninia è il re consacrato, e i soccorsi di Media non sono lontani.
- Sta bene; - replicò Faleg, con voce impressa di guerresca baldanza; - li vedremo noi primi,
i vostri soccorsi di Media... se la regina vorrà. Andate, frattanto; la possente signora degli Accad,
cui Belo ha concesso l'impero dello scettro e la vittoria della spada, si raccoglierà nella solitudine
de’ suoi alti pensieri, mediterà le proposte, chiederà lume d’inspirazione a Nebo, al veggente
consigliero dei re. La tregua spira domani; prima che il raggio di Sam si specchi nei sette colori
della gran torre di Barsipa, i ministri della reggia vi annunzieranno ciò che la regina avrà risoluto di
fare. -
Il parlamento ebbe fine con queste oscure parole di Faleg. Taciturni, dubbiosi, uscirono i
congregati dalla sala di Nemrod. Invero, essi erano inquieti a ragione. Il silenzio della regina somi-
gliava troppo a quella cupa tranquillità di natura, che precede lo scoppio della tempesta.
Come furono partiti, anche Semiramide si ritrasse nelle sue stanze.
- Ah, Faleg! - diss’ella al guerriero. - È finita; io non lo ucciderò! Egli è un fellone e un
ingrato; ma se io lo odiassi, avrei forse atteso i consigli del volgo ribelle? E adesso, io, regina degli
Accad, dovrei piegarmi per avventura ai comandi?
- Certo, non lo sperano essi! - rispose Faleg. - Le armi adunque scioglieranno la contesa; e
meglio per noi se ciò avvenga domani.
- No; nè domani, nè poi! - esclamò Semiramide. Faleg la guardò trasognato; e v’ebbe un
istante che egli temè non aver bene udito, o aver la regina male inteso la sua proposta; l’ultima, a
parer suo, che recasse un costrutto.
- Nè cedere, nè combattere! - sclamò egli poscia. - Che dunque faremo?
- Nulla! - rispose la regina, levando in alto la fronte e chiudendo gli occhi in atto di
raccoglimento solenne. - Domani sarà avvenuta tal cosa, che sciolga il nodo per sempre.
- Ah! - proruppe il guerriero, impallidendo. - E vorresti....
- Non mi dir nulla! Spesso han d'uopo dell'altrui consiglio i regnanti; ma v'hanno giorni, ore
supreme, in cui non è dato pigliarne, fuorchè dalle voci arcane dell’anima. Tu, se mi ami e
rammenti....
- I tuoi benefizii, o regina? Come potrei averli dimenticati, io che ripeto da te ciò che sono,
io oscuro figlio del borgo di Susqueanna, io innalzato da te ai primi gradi della milizia del regno? E
come suddito e come servo di gratitudine, son tuo; la mia vita ti appartiene, fanne ciò che più ti
talenta.
- Grazie, buon Faleg! - ripigliò Semiramide, crollando mestamente il capo. - Dedicare la vita
dei nostri servi ed amici ad utili imprese non è più dato oramai; nè alcuna io vorrei sacrificarne, per
consolare una stolta vanità colla pompa d’una rumorosa caduta. Tu sei libero, o Faleg; nessun
vincolo d’obbedienza ti lega più alla regina; soltanto al fedele servitore, al costante amico, Semi-
ramide chiede oggi un servizio.
- Parla! - diss'egli commosso. - Ogni tuo desiderio sarà legge per me.
- Esci di Babilonia, e sia teco una scorta d’uomini, quanti reputerai bisognevoli, ma scelti tra
i più fedeli e i migliori de’ tuoi. Si tratta di campare un uomo da morte; - aggiunse ella con
imperioso e rapido accento; - la salvezza di quest’uomo è l’ultima volontà della regina degli Accad.
Vanne dunque subito a lui.... m'intendi? a lui! Per le segrete scale che conducono al gran
sotterraneo, guidalo fuori di Imugur Bel. Se alcuno dei cittadini lo ravvisasse, potrebbe aizzare con-
tro lui la rabbia d'una moltitudine forsennata. Ciò devi ad ogni costo evitare....
- E impedire, fino all'ultima stilla del nostro sangue! - soggiunse Faleg. - Non dubitare! Sacro
per te, il re d’Armenia è sacro per ogni tuo servitore.
- Sta bene; - ripigliò Semiramide - Travestito, o celato in quel modo migliore che a te
consiglierà la prudenza, lo condurrai per la via di Gomer, sulla sinistra dell'Eufrate, fino alle con-
trade di Assur. Meglio sarebbe che tu potessi accompagnarlo fin oltre il paese di Nahiri....
- Ed anco al passo di Lukdi! - interruppe Faleg sollecito, andando incontro ai voti della re-
gina. - Non mi dire di più; la vita sua sarà salva. –
Semiramide si accostò ad uno stipo d'ebano, riccamente scolpito, e ornato di bei fregi
d'argento.
- Prendi; - ella disse; - qui son gemme d'altissimo pregio. Sia tutto tuo, quanto potrai recare
con te. Eccoti ancora; questo è il mio suggello regale; forse, lunge dalla città che reca l’impronta de’
miei benefizi, la sua autorità sarà ancora onorata, ed esso potrà in alcun tuo bisogno giovarti. Ed
ora, o Faleg, giurami che tutto farai giusta il mio desiderio; giurami che condurrai salvo il
prigioniero fuor della terra di Sennaar, nè lascerai di custodirlo fino a tanto egli non sia lontano da
ogni pericolo.
- Pe’ sommi Dei te lo giuro! Mi colga lo sdegno di Auv; mi faccia Nergai il più codardo e il
più dispregevole dei guerrieri di Babilu; gli spirti d’abisso m'involgano nelle tenebre eterne, se a
questo nobile ufficio io non consacrerò le forze tutte dell’animo, la virtù del braccio e la vita. Ma tu,
frattanto, o regina?....
- Io? Non temere, - gridò Semiramide, con aria di serena baldanza; - io mi sottrarrò, checchè
avvenga, alle insidie dei tristi. Son figlia a Derceto; nol rammenti tu forse? Il giorno che a me non
resti più luogo sulla terra, le sacre colombe della materna Dea mi rapiranno a volo pe’cieli. Statti di
buon’animo, o Faleg; va, e pensa a ciò che m’hai giurato di fare. –
Il forte animo di Faleg veniva meno per tenerezza e sgomento. Il fedele servitore, condotto a
quel punto supremo, non sapeva darsi pace; vedeva di non poter più rimanere, e tuttavia non gli
bastava il cuore a spiccarsi di là. Semiramide gli sporse la mano; egli cadde in ginocchio, l'afferrò
tra le sue, la baciò ripetutamente, la inumidì colle sue lagrime; indi, tutto vergognoso della sua
debolezza, coll'anima infranta, senza pure alzar gli occhi a guardare la sua venerata signora, a passi
concitati si allontanò dalla stanza.
La regina rimase immobile a lungo, attonita, smemorata, come chi, perduta ogni speranza, o
desiderio della terra, più non abbia un concetto in cui riposare la mente. Gli occhi suoi
inconsapevoli si erano rivolti al cielo sereno, che si scorgeva per mezzo alle colonne di un ampio
loggiato. Il sole volgeva al tramonto; e le torri, le cupole, i terrazzi di Babilonia, si tingevano in
colore di fiamma viva ai raggi obliqui dell'astro morente. Offriva un meraviglioso spettacolo,
quell'aureola di fuoco, entro a cui s'involgeva Babilonia, come una regina nel suo manto di porpora.
Ahimè! quanti pensieri senza fine dolorosi doveva risvegliare nell’animo della gran vedova di Nino,
quella gloria della sua città prediletta! Il possente raggio di Sam, innanzi di sparire dietro le arene
del lontano deserto, innanzi di nascondersi per sempre allo sguardo di lei, vagheggiava le vaste
mura che ella aveva innalzate, salutava i pinnacoli dei suoi templi e delle sue moli superbe,
glorificava al cospetto dei cieli, esaltava l'opera sua.
Ed ella intanto si spegneva nella sua solitudine, la dolente regina! Quel maestoso splendore
si sarebbe diffuso il giorno vegnente sulle mura dilette; ma ella non le avrebbe più contemplate; e
Babilonia, e il popolo degli Accad, e il figlio, ingrati tutti ad un modo, avrebbero dimenticata la
gloriosa fondatrice, la regina, la madre!
A poco a poco le alte gradinate dei templi, i terrazzi e le casupole si venivano ascondendo
nell’ombra. Un vasto semicerchio di fuoco, simile a vampa d’incendio lontano, radiava
nell’orizzonte, faceva uno sfondo rossastro alle negre torri di Barsipa.
– Deh! – esclamò la regina, seguendo cogli occhi quella gloria morente. – Come tu volgi
precipitoso al tramonto, astro superbo, che rallegravi il mondo della tua luce! –
E di sè, non dell’astro, pensava ella in quel punto. Umane grandezze, splendidi sogni,
sconfinate ambizioni, gloria, potenza, amore.... ah sì, questo d’ogni altra cosa più prezioso a
grandezza! questo era il grande, l'irreparabile eccidio; tutto l’altro era nulla. E forse, in quel mentre,
il re d’Armenia, lieto della ricuperata libertà, non memore di lei che per l'odio, s'affrettava sulle
orme di Faleg. Ingrato! Ah, la sconoscesse il popolo, la tradissero i grandi del suo regno,
dimenticassero tutti le sue gesta, i suoi benefizi; che poteva importarle di ciò? Ma egli! l’uomo che
era caduto ebbro d’amore ai suoi piedi, che colle infiammate parole, coi giuramenti solenni, aveva
strappato dalle sue trepide labbra una confessione, dal suo seno palpitante i santi veli del moribondo
pudore! l'uomo che ella aveva amato, pur combattendolo, che aveva sperato vedersi un'altra volta a’
piedi, vinto, più ancora che dalle sue armi, dalla certezza della sua innocenza! No, ella non avrebbe
creduto mai possibile una ingratitudine sì nera. E per quella sua stolta fede, non già per le arti di
Zerduste, non già per la ribellione di Ninia, non già pel traviamento del suo popolo, ella si
disponeva alla morte. Ingrato, sì, ingrato e codardo! La gentilezza dell’affetto, la magnanimità, la
costanza, la fede, e infine tutto quanto è di bello e di nobile nel fango umano, tutto si rifugiava, e per
morire, in un povero cuore di donna.
Eppure!... eppure ella aveva sperato fino all’ultimo istante. Le pareva enorme cosa, inaudita
vergogna, immeritato oltraggio de’ cieli, essersi imbattuta nell'uomo più sleale e più vituperoso del
mondo. Ma ohimè! così era per lei; così avviene pur troppo per tutti; ai vili le più alte venture; ai
nobili cuori le più atroci amarezze, i disinganni, le onte più gravi. E in questo pensiero, peggior
d’ogni morte, si prostrò, si rinchiuse lo spirito di Semiramide, che là, di rincontro alla luce del sole
morente, pareva, non più donna viva, simulacro di pietra.
In quel mentre un passo frettoloso si udì nella camera. Hurki si fece innanzi alla regina.
– Potente signora.... – diss'egli peritoso.
– Che è? – dimandò la regina, destandosi repentinamente da quel suo doloroso torpore.
– Un uomo chiede parlarti.
– Il suo nome? – proruppe ella, a cui il cuore avea dato un sobbalzo.
– Regina, te ne prego, non ti turbi l’annunzio; – soggiunse l’eunuco, che era lungi dallo
argomentare la cagione di quell’ansia subitanea; – è il principe di Bakdi, che dimanda di essere
introdotto alla tua sacra presenza. –
La vista improvvisa d’un serpe cui lo sbadato viandante abbia molestato ne’ suoi meridiani
riposi, non arrecò mai così fiero turbamento, come quello che sentì la regina, all'udire quel nome e
la richiesta inattesa.
– Zerduste! – esclamò, quasi sperando di avere male inteso.
– Sì, egli stesso, o regina. Egli viene sulla fede sacra della tregua, che spira domani.
Conduce seco una scorta numerosa; ma solo ed inerme entrerà al tuo cospetto. Gravi cose lo
spingono a questo passo; nè egli si allontanerà, fino a tanto non ti degni ascoltarlo. –
Semiramide stette alquanto perplessa, combattuta da sdegno, da ripugnanza e stupore.– Che
vuole costui? – diceva ella tra sè. – Ah, certo, un nuovo tradimento egli medita; un nuovo colpo si
prepara a ferire. Riposa sulla fede della tregua, il malvagio! E l’ha tenuta egli forse, la fede giurata
alla regina degli Accad? Ha egli risposto lealmente alla sincera fidanza della nostra amicizia? Alta
sapienza dei tristi! Credono essi alla virtù che non hanno, fondano i loro perversi disegni, tendono le
insidie scellerate, sulla magnanimità delle vittime loro. E mi conoscono bene addentro, costoro! Mi
sanno generosa, gl’infami! Esser diversa da loro, com’è diversa la luce dall’orror delle tenebre, ecco
il vantaggio che mi resta sovr'essi; ed ecco altresì l'arcana ragione della loro vittoria. Oh, perchè non
sarei io malvagia un istante, un solo istante com’essi? –
Così pensando, la regina non aveva più posto mente alla presenza e alla aspettazione di
Hurki.
– Che debbo io dirgli, mia clemente signora?– si fece egli allora a domandarle.
– Che io ricuso di vederlo; – rispose la regina.
– Ma pensa.... – balbettò egli inchinandosi. – Forse da, questo colloquio potrebbe
dipendere....
– Che cosa? – tuonò Semiramide. – Che cosa potrebbe egli dire, che a me fosse grato
ascoltare da lui?
– Non so; – disse di rimando, e con umilissimo accento, l’eunuco, – Di te mi preme e della
tua gloria, o signora. È un nemico che chiede parlarti.... è il maestro e il custode di Ninia.... –
E non ardì proseguire. Ma il nome di Ninia aveva toccato un’intima fibra del cuore materno.
Stette ella alquanto sopra di sè; indi, scuotendo il capo, come chi, veduti i pericoli e le molestie a
cui va incontro, ha tuttavia pigliata la sua risoluzione, si volse ad Hurki e gli disse:
– Venga il malvagio; lo udrò. –
XXIII.
IL TENTATORE.
Indi a pochi istanti, comparve sulla soglia Zerduste. Pallido in volto più dell'usato,
scintillanti gli occhi profondi sotto il grand'arco delle sopracciglia d’ebano, chiuso nella sua tunica
nera, frangiata d’oro sui lembi, bello di quella sua marmorea bellezza, cui faceva più austera il
rannuvolato sembiante, sembrava egli il destino, venuto colà per dire alla sua vittima: la tua ora è
suonata!
S'inchinò, ma, contegnoso e superbo. L’atto era d’ossequio; ma ben altro diceva lo sguardo.
A quella vista sentì la regina riardere il sangue per tutte le vene. Era là, le stava dinanzi il
suo mortale nemico, l'uomo che forse più non aveva a temer la sua collera, ma che certamente non
poteva sperare perdono da lei. Pallida, ansante, fremebonda per l’ira a stento repressa, ella si era
seduta sul rilevato suo scanno, chiedendo al riposo delle membra quell’apparenza di forza che le era
negata dall'interno tumulto.
Egli v'ebbe un momento di paura tra i due, e in quel muto intervallo si guardarono a lungo, si
scrutarono a vicenda; il principe di Bakdi tentando di legger nell’animo di lei, per misurare le sue
parole allo sdegno di cui la vedesse compresa; ella cercando d’intendere qual causa lo avesse
condotto; ambedue più turbati nell'animo, che non apparisse al sembiante.
La regina fu prima a parlare.
– Sii breve! – diss'ella asciuttamente a Zerduste.
– Non potrei; – rispose quell'altro. – Tu m’odii, ed io non voglio essere odiato da te. –
Semiramide lo guardò, tra corrucciata e stupita.
– Non t’odio; – soggiunse ella poscia, con accento che egli non durò fatica ad intendere.
Diffatti, in quella che ricacciava nel profondo del cuore un moto istintivo di rabbia, egli
subitamente ripigliò:
– E disprezzarmi non devi! –
Un sorriso d’amara ironia tese le labbra di Semiramide, e, come freccia sibilante dall'arco,
volò la parola a saettare l'impronto nemico.
– Perchè, Zerduste, perchè? Non sei tu forse il più malvagio tra gli uomini? V'ha egli per
avventura tra gli spiriti d'abisso un'anima più invereconda e più nera? Parlerò a te, principe di
Bakdi, come si parla ad un uomo che tutto agogna e da nulla rifugge, che molto presume di sè, e la
cara virtù, la santa fede, la gentile alterezza dell'animo, non riconosce e non pregia se non per farne
sgabello alle sue scellerate ambizioni. Quanto più alto ti ripromettevi di salire nella stima del
mondo, tanto più in basso sei sceso, simile al verme che striscia nell’immondo terreno, e invidia
l’aquila levata a volo pe’ cieli, che sdegna, onestamente altera, di farne suo pasto. Invero, qual è la
mia colpa a’ tuoi occhi? Principe di nobil sangue, non regnatore di Media, t’ho io forse rapito il
trono, o la speranza di ascendervi? No; fu Nino, l’invasore della tua patria; nè io regnavo, quando,
per ardimento mio, ma coll’armi di Babilonia, la tua Bakdi fu presa. L’eccidio del vostro regno
poteva essere indugiato, non impedito per fermo; la conquista della Media e del mondo era opera
fatale, serbata alla progenie di Cus. Non io, dunque, non io veramente, t'ho offeso; non io ti ho tolto
la libertà, le speranze, la patria. Ben io, vedova di Nino, desiderosa di dare al nuovo ed accresciuto
impero testimonianza solenne di giustizia e di amore, non tiranna, ma reggitrice e madre di tutte le
genti chiamate a parte del glorioso nome degli Accad, ben io t'ho scorto nel tuo umile stato, t’ho
fatto grande ben io; ne’ miei consigli t'ho accolto; la tua sapienza ho onorato; il figliuol mio t’ho
dato in custodia. Fu errore, ma io sola posso darmene biasimo, non tu farmene colpa. In che t’ho io
recato danno? In che ho io tralasciato di giovarti? E non dovrei ora coprirti del mio disprezzo,
traditore codardo, che hai abusato della mia fede, aspide velenoso, che non ardivi assalirmi
all’aperto e m’hai morso al piede, m’hai ferito nell'ombra? Vedi, d'una cosa sola mi duole, ed è
questa: che la potenza del mio disprezzo non agguagli la malvagità delle opere tue. –
Accigliato, fremente, stette ad udirla Zerduste. Le parole di Semiramide irata sibilavano a
guisa di flagelli, lo percuotevano in volto; ma vampa di rossore non gli corse alle guancie; e la
contegnosa rigidezza del sembiante marmoreo custodì il segreto degl’interni sussulti. La udì, senza
torcere pure un istante lo sguardo da lei; e come si avvide ch’ella era giunta al termine della sua
invettiva, così prese tranquillo a rispondere:
– Una cosa vera hai tu detto nell’ira, o regina; e di questa sola io vo’ far conto per ora. No,
nè per la patria umiliata, nè per la delusa speranza di regno, poteva odiarti Zerduste. La patria è vana
parola, per uso del volgo, nato a servir sempre, qualunque sieno i confini alla sua stirpe assegnati.
Chi regna ha la sua patria nel trono; chi ha vasti disegni, eccelse imprese da compiere, ha la sua
patria dovunque. Il fulmine, il raggio di sole, non prediligono questa, o quella parte, del firmamento
azzurro. Quello si sprigiona dalla volta celeste e guizza per quanto è lunga la via dalle nuvole al
suolo; questo dardeggia e risplende dall’orto all'occaso. Che sarebbe stato il regno di Media per la
ma ambizione? Ben altro regno io vagheggiai col pensiero; ben altro regno io chiesi alla sorte, nella
lunga agonia de’ vani desiderii, che m'hanno contristato lo spirito. Nè posso oggi allegrarmi di
questa grande vittoria, che ad altri parrà il colmo d'ogni fortuna nel mondo. Avrò Babilonia in poter
mio e tutta la terra del Sennaar; non ciò che agognavo, non ciò che mi ha stimolato all’impresa.
Godi a tua volta, trionfa di me, o figlia di Derceto, o espugnatrice di Bakdi; io t'ho amato, ho
sperato, e ne porto oggi la pena. –
Le labbra di Semiramide si atteggiarono ad un sarcastico riso, che mal dissimulava il
profondo fastidio dell’anima,
– Di ciò volevi parlarmi? – diss’ella.
– Ah non temere! – ripigliò prontamente Zerduste. – Io non ti stancherò de’ miei gemiti, non
ti bisbig1iero melate parole, così dolci ad udirsi tra i salici, alla tacita luce degli astri, allo spirar
della brezza notturna in riva all’Eufrate. È sfogo d’immenso dolore, il mio, non preghiera di labbro
soave, che dissimuli il tradimento meditato e prepari le tarde vergogne. Dicevi poc’anzi di
Bakdi....Orbene, colà un uomo ti vide la prima volta; e ancora non eri la sposa di Nino. Sulle mura
combattute vide egli apparire l’audacissima donna, col ferro in pugno, le neve chiome diffuse in
larghe anella, fuori del lucido elmetto, acceso il sembiante, rigate le guance di nobil sudore,
sfavillanti i grandi occhi di guerresca baldanza, bella più assai, più sfolgorante a’ suoi occhi, che
non dovesse apparirgli più tardi, nello splendor d’una reggia, mollemente vestita di bisso, ornata di
gemme, all’ombra de’ suoi pensili orti, in mezzo ad uno stuolo d’ancelle e di servi devoti. La
contemplò con desiderio infinito, e disse tra sè: Ahura, potentissimo signore del mondo, io darei la
mia vita, la mia fama, e ogni altra cosa più cara, purchè fosse mia quella donna! Nemica era; egli
armato in difesa delle sue mura; poteva scagliarsi su lei, ucciderla di un colpo, e nol fece....
– Meglio sarebbe stato ferirla allora con l’arma dei prodi, – interruppe Semiramide, – che
combatterla poscia, aggirarla colle insidie, trarla a rovina con le arti dei vili. –
Chinò la fronte Zerduste e prosegui, con accento d’amarezza profonda:
- Così avess'egli preveduti gli affanni che gli dovevano essere derivati da lei! Ma allora,
dimentico della sua terra, delle speranze perdute, degli ostacoli insuperabili, dei danni futuri, amò la
cattività che lo avvicinava a costei. Pochi giorni di poi, ella era sposa di Nino; egli dolente
prigioniero in Babilonia. E l’amor suo crebbe tanto più forte, quanto più solitario e nascosto.
Vegliava sulle tavole dei Casdim, le raffrontava colle dottrine de’ loro savi, meditava di purificare il
culto dell’unico Iddio dalle rozze idolatrie della stirpe di Cus; e non si sostentava nell'aspra fatica,
non si nutriva egli che di quel suo amor dissennato. Perchè non lasciarlo nell’oscurità della sua
prigionia? Perchè dargli inaspettata grandezza e rinfiammare nel cuor suo le audaci speranze?
Regina degli Accad, vedi in ciò l’opera tua. Mentre egli ti chiedeva disperato al suo Dio, e la morte
improvvisa di Nino gli pareva una prima grazia a lui concessa dal cielo, perchè hai tu mostrato
avvederti di lui? perchè l’hai tu chiamato alla tua presenza, onorato del tuo favore, accolto nei tuoi
regali consigli? Fatto vicino a te, conscio della sua forza, sperò, e sperando tentò di piacerti, ardì
concepire il più eccelso disegno. Ma tu non lo amasti; il tuo cuore fu muto a lui; non t’avvedesti, o
fingevi. E finse egli pure; ricacciò nel profondo la parola che inutile e spregiata doveva morirgli sul
labbro; accresciuto di potenza, non consolato d’affetto, si piantò custode inavvertito della tua
desiderata bellezza, vigile nemico di quanti s’appressavano a te, di quanti temè potessero un giorno
accenderti in seno la maledetta fiamma d’amore. Voleva egli che tutto fosse silenzio e vuoto intorno
a te; nessun altro doveva ottenere ciò che a lui era negato. Così vigila il drago i tesori che non sono
per esso, e vampe di morte gli sprizzano dalle fauci rabbiose.
– Io lo ravviso nella fedelissima effigie! – notò la regina, con acerbo sarcasmo.
– Ridi ancora per poco; – disse di rimando Zerduste, senza punto scomporsi. – Parecchi
scontarono colla morte la colpa di aver desiderato e sperato. Un d’essi, il più audace, a cui gl’inni
sgorgavano dalle rosee labbra, troppo più infiammati che non si convenisse alla riverenza del
suddito, s'argomentava di giungere fino a te, chiamato ne’ silenzi della notte da un messaggero
discreto; già nella cupida mente assaporava le dolcezze ineffabili d’un amoroso colloquio; ma un
abisso di repente si schiuse a’ suoi piedi e gli ardori dell’incauto si estinguevano insieme colla vita,
nei gorghi profondi del fiume. Lo so ben io; tu non amavi costui, tu ignoravi ogni cosa; ma egli
amava te, egli era leggiadro, poteva un giorno piacere a’ tuoi occhi; così mutevole e pronta negli
affetti è la donna! Zerduste vegliava; egli era forte e prudente. I tuoi nemici furono gli amici suoi; fu
egli che affratellò, congiunse in un odio solo tante collere sparse, diede un capo, una mente, a
migliaia di braccia levate a maledizioni impossenti contro la regnatrice del mondo. Raccolte nel suo
valido pugno le fila di una vasta congiura, tutte poteva egli deporle a’ tuoi piedi, sgominare i
tenebrosi assalti, distruggere nel silenzio i tuoi nemici, se tu gli fossi stata più umana; volgerli
contro di te, colpirti a sua posta, se tu avessi durato ne’ tuoi superbi dispregi. E tu, frattanto, o
regina? Contegnosa ed austera, gli troncavi a mezzo ogni parola che timidamente accennasse alla
sua devozione per te. Le cure del regno ti possedevano intiera; non d’altro ti davi pensiero; doveva
esser muto all’affetto il cuore della donna, che voleva esser signora e madre d'un popolo. Così
dicevi a Zerduste; ma una notte bastò per mutarti, bastò una tenera parola per darti in braccio ad un
altro. Ah, per lui dunque la stima, per altri l’amore? Grave fallo, o regina! E sei donna, ed ignori che
l’uomo ha da essere tutto o nulla, per la donna che egli ama? Non io ti ho tradito; bensì tu stessa ti
sei condannata a’ miei colpi. Potevo soffrire ed attendere; quella notte ha lacerato il mio cuor e....
Eri in mia mano; io mi son vendicato. Il tuo primo amore ti costa un impero. –
In tal guisa parlò il principe di Bakdi, per la prima volta scoprendo i tenebrosi recessi
dell’anima. Faceva stupore l’udirlo; più stupore eziandio il veder e quel suo calmo sembiante
atteggiarsi a tanta novità di passione, di asprezza feroce e di mestizia profonda, di odio implacato e
di ardente preghiera ad un tempo. Ed era pauroso a vedersi, come un portento di trasformazione
improvvisa; nè più avrebbe arrecato meraviglia e sgomento, se uno di que’ colossi alati, che
raffiguravano gli spiriti custodi della gente del Sennaar, avesse lampeggiato una torva occhiata dalle
pupille di smalto, e snodate le membra poderose dai vincoli della pietra tenace.
Lo udì Semiramide, lo guatò lungamente, e un senso di paura le ricercò le vie segrete del
cuore. Ella era, vissuta tanti anni d’accanto a quel mostro, nè mai s'era avveduta dell’imminente
pericolo! Così siam noi spensierati, quando non abbiam ragione di temere. E un giorno viene, che il
nemico ci è sopra, egli che spia le occasioni, e a noi più non è dato resistere. Fu atterrita, non
sopraffatta, la fortissima donna; e tosto riprese balia di sè stessa.
– Nobile affetto invero, – ella disse, – e degno d’esser mostro alle genti, quello che accende
tutti i più malvagi istinti della umana natura!
– È amore, possente amore, che non cercato c’investe e si fa in un punto signore di noi; –
replicò prontamente quell’altro. – A te lo chiedo, che il sai; si governa esso forse? e spregiato, non
divampa più forte? È fiamma; la sua natura è di ardere. Tu l’hai destata in me; non ti lagnare, se ella
s’è fatta a tuo danno un incendio.
– T’ho io mai dato lusinga, o speranza? – dimandò la regina, con piglio severo.
– No, e di questo mi duole! – rispose amaramente Zerduste. – Ah, fiero tormento, che tu tra
tanti mali, non hai provato, o Semiram! Sentirsi forte, vedersi grande, sapersi capace di altissime
imprese, e tuttavia desiderare invano un sorriso d’amore; per una donna esser nulla, quando, per
ogni altra creatura, e in faccia al destino, si è tutto! Cede ogni ostacolo alla tua volontà, o la tua
avvedutezza lo rimuove, o la tua pazienza lo strugge; solo una donna ti resiste, e tu, che pieghi a tua
posta uomini e cose, ti rodi dentro te colla tua rabbia. Ella non t'ama; ella ti deride, fa peggio ancora,
non si cura, nè s’avvede di te. E allora, o Semiram, allora il più nobile affetto si corrompe, come,
negletto nella coppa, si corrompe e inasprisce il più generoso liquore. Fu un senso d’invidia
profonda e di desiderio deluso, che produsse il male e rese gli spiriti ribelli all’Eterno. Ah, il forte, il
costante amatore, l’uomo che tutte le virtù della mente gagliarda avrebbe adoperate a comporti il
trono più glorioso e più saldo, si sprezza? E il primo garzone vanitoso che giunge, e ripete con
labbro avvezzo una soave parola, si accoglie con ansia, si ama, cedendo a lui come una vil
femminetta del volgo? Bada, o Semiram, io sono ambizioso, ma nol fui nell’amarti. Non chiedevo
di salir teco sul trono degli Accad; sarei rimasto nella polve ai tuoi piedi, e patria, e speranza di
regno, altari e tutto, avrei dimenticato, per non avere altro culto che l’amore, altro pensiero fuor
quello della tua sfolgorante bellezza. Ed oggi ancora, io, fatto più forte dalla vittoria, io signore de’
tuoi destini, io re di Babilonia tra breve, imperocchè il tuo Ninia non ha mano così ferma da
impugnar virilmente lo scettro, io oggi ti dico ancora: tutto può ripararsi. Amami, credi a questa
fiamma divoratrice, consola uno spirito afflitto! Per la mia potenza io te lo giuro, per la mia stessa
ambizione che non conosce confini: io, il principe di Bakdi, il leone di Media, sarò il tuo umile
schiavo. –
E, tratto dall'impeto della sua furibonda passione, si prostrò l’acerbo Zerduste, si abbandonò
contro i gradini del soglio di Semiramide, così che la sua fronte sfiorò il piede di lei. Diede ella un
sobbalzo di raccapriccio, e si trasse indietro sollecita.
– Va, non mi tentare! – gridò. – Che pensi di me? Di qual fango mi credi tu nata? Non amerà
te, non ti ascolterà più oltre, chi ha amato il re degli Armeni.
– Ara! – sclamò Zerduste, con accento sdegnoso. – Ara che ti disprezza e ti fugge!
– Sì; e perchè mi fugge? perchè mi disprezza egli? – tuonò la regina. – Non l’avete voi con
arti tenebrose ingannato, o santi della Triade?
A quelle parole, in cui si mostrava così intieramente scoverto il segreto delle sue
macchinazioni, levò la fronte Zerduste e rimase alcuni istanti stupefatto a guardarla.
– Ah! – notò egli poscia, dissimulando in un ghigno l’interno dispetto. – Fiacco credevo, non
traditore Sumàti. A che dunque morire, precipitarsi disperato nelle acque salse di Van (imperocchè
questo da parecchi giorni m’è noto), se tutto ti aveva egli disvelato l’inganno? –
Così disse, nel colmo della sua meraviglia, Zerduste, parendogli sciocca la loquacità di
Sumàti, se era deliberato di morire, e più sciocca la morte, dopo essersi disposto a parlare. Ma
neppur egli fu savio; quello il rimorso, lui faceva imprudente l’amore. E invero le sue parole ebbero
eco lì presso; un avido orecchio le accolse.
Intanto la regina a lui di rimando:
– Chiedilo all’ombra sua, tu che evochi dal negro abisso gli spiriti e fai mentire gli estinti! –
Ma già Zerduste si era riavuto dal suo primo stupore. Ciò ch’egli sapeva del regal prigioniero e della
sua ira tenace, gli mostrava come fosse tornata inutile a lei la loquacità dell’Indiano.
– Per altro, a che ti giova? – proseguì egli, senza por mente al sarcasmo. – Ara è caduto in
poter tuo; è tuo prigione; e tu non hai potuto altrimenti mitigare quell’odio, che la Triade gli ha così
profondamente stillato nell’anima. Egli ti abborre e ti sfugge; questo io so, senza mestieri di evocare
uno spirito imbelle. Hai vinto il re, non soggiogato l’amante; e Bared si è sottratto colla fuga al
pericolo dei tormenti, Sumàti colla morte alla vergogna della sua debolezza; nè l’uno, nè l'altro
furono al capezzale del risanato garzone, per dirgli che tu eri sempre degna di lui, e che lo aveva
ingannato il malvagio Zerduste. Che farai tu? Morrai; me lo dice il tuo sguardo già disviato dalle
miserie terrene. Ma bada; non morrai come speri, da regina e da figlia di Dea; morrai dispregiata da
lui, non giustificata da coloro che tu volesti nemici. Pensa dunque, o Semiram; vedi per chi tu
muori, e perchè. Ti amava egli davvero, un uomo che dubita di te, che ti disprezza, solo perchè
un'ombra vana ha parlato? Ah, l'amor mio non sarebbe caduto in questo laccio volgare! L’amo,
avrei detto al fantasma; tu amico un giorno, essa la donna mia per tutta la vita! – Ma pensa; ella fu
nelle braccia di ben altri anzi che nelle tue.... – L’amo! – Ma bada; ella uccide, impudica e feroce,
gli strumenti delle sue voluttà...... L’amo; che importa? L’amo. Non è egli un gaudio celeste,
l’amore? La morte al colmo della beatitudine, non è forse il dono più grato de’ cieli?
– Vile amore, che nel disprezzo si nutre! – esclamò la regina.
Ma ancora non aveva ella pronunziate quelle acerbe parole, che un rumore di passi
precipitosi si udì e il re d’Armenia balzò dal colonnato nella camera; il re d’Armenia cogli occhi
fiammanti di collera, non più potuta reprimere, e la spada lampeggiante nel pugno.
– È questa la tua pura dottrina, o santo vecchio dal fiore d’amòmo?tuonò egli iracondo. –
Ma tu morrai, lo giuro a Zervane, che ha numerato i tuoi giorni! –
E si scagliò, così dicendo, sul principe di Bakdi, che stramazzò all’urto possente del giovine
atleta. Nel tempo medesimo la spada di Ara cercava il petto della stordita sua vittima. La corazza di
ferro che Zerduste portava sotto la tunica nera, sviò il colpo gagliardo, che avrebbe dovuto passarlo
fuor fuori.
– Ah, un tradimento! – gridò Zerduste atterrito.
E si divincolava sotto le strette. Ma l’aquila delle montagne lo aveva tra gli artigli; era più
poderosa di lui; le raddoppiava le forze il furore. E già stava per cacciargli il ferro nella strozza,
allorquando la voce della regina si udì.
– Chi ardisce snudar l’armi al cospetto di Semiramide? – gridò ella con voce di tuono.
Ara, il furente Ara, si alzò intimorito, e il braccio gli ricadde inerte sul fianco.
Semiramide lo guardò un tratto, pallida, ansante, per commozione profonda; indi si volse a
Zerduste.
– La tregua è sacra per tutti; – gli disse. – Va, rettile, vivi! –
Zerduste si alzò fremente da terra; li saettò ambedue d'uno sguardo, si strinse i pugni al
petto, per rabbia impossente, e fuggì. Ogni sua speranza era perduta; l’audace suo tentativo, così
profondamente maturato, falliva.
CAPITOLO XXIV.
LE COLOMBE DI DERCETO.
Erano rimasti soli, Semiramide e il re d’Armenia; ella profondamente turbata, ma
contegnosa e severa all’aspetto; egli vergognoso e tremante, come chi è spettatore d’un’alta rovina e
la sa opera sua. I pensieri che turbinarono in quelle due anime, tutto ciò che significarono i loro
sguardi in quel solenne istante di pausa, si può immaginar nella mente, non dire.
Un senso di scontentezza, forse più veramente d'indomato rancore, serpeggiava nel petto
della regina. Lontano e fuggente, com’ella credeva, Semiramide lo aveva difeso contro i sarcasmi di
Zerduste; vicino e certamente pentito, le pareva di odiarlo,
– E tu, che vuoi? – gli disse ella con accento sdegnoso.
– Il tuo perdono; – rispose Ara umilmente. – Ho tutto udito, e tutta misuro la grandezza del
mio fallo. Non v'ha pena, per quanto grave ella sia, che io non meriti da te. Sono in odio a me
stesso, ed ho la morte nel cuore. –
La voce del giovine era supplichevole e imbevuta di lagrime; ma in quella voce lusinghiera a
lei parve di udire il sibilo del tentatore. Non era forse quello l’accento soave che già una volta
l’aveva soggiogata e tradita? Però stette ella inflessibile.
– Come tu qui? – soggiunse ella poscia. – Ov’è Faleg?
– Poc'anzi, – rispose egli sollecito, – io mi sono spiccato da lui. Avevo udito delle proposte a
te fatte, delle condizioni messe dagli anziani di Babilonia al loro ritorno nell'antica obbedienza.
Potevo io partire? accettare una vita ed una libertà che a te costassero il regno, fors’anco la
sicurezza della persona? Risolsi di portarti il mio capo; io stesso sarei disceso dalla reggia, ma per
via discoperta, incontro a’ tuoi nemici, ai carnefici miei. Ed eccomi pronto.
– No, gli è inutile! – esclamò la regina. – Non lo consentirebbe la maestà del mio nome; –
aggiunse ella gravemente, dopo un istante di pausa, in cui parve risolversi a temperare l’asprezza
delle sue prime parole. – Ciò che ho risoluto sarà. Tu sei libero; parti, che non abbiano a ritrovarti in
Babilonia domani.
– Ma tu, allora? – disse Ara sgomentito. – Ma tu?
- Io.... – ripigliò Semiramide, con labbra atteggiate ad un freddo sorriso. – Io mi sottrarrò alla
rabbia dei tristi.
– Fuggire! – gridò il re d’Armenia, tratto in inganno dalle ambigue parole. – Ah sì, n’è
tempo, o regina. Quello scampo che generosa mi profferivi, non rimane anche a te? Ma dimmi,
innanzi di correr la sorte della fuga; dimmi, o dolce signora, mi hai tu perdonato?
– Sì; – bisbigliò Semiramide, lasciandosi afferrare la mano, che il giovine amante coperse di
baci e di lagrime.
Ella era fuor di sè stessa in quel punto. La infinita mestizia de’ suoi casi, il recente colloquio
col suo atroce nemico, l’improvviso apparire del re, l’aveano percossa per modo, che ella ne era
rimasta un tratto smemorata ed attonita, senza pensieri, senza volontà, senza forza.
Ara incalzò nelle amorose preghiere.
– Vieni adunque, vieni senz'altri indugi, o diletta! Pensa a Zerduste. Lo scellerato, che tu hai
voluto campar da’ miei colpi, ben altre vendette prepara. Vieni, usciamo da questa reggia, da questa
città, ove tutto è pericolo per te. Andremo lunge, assai lunge di qua; io ti sosterrò, mia regina: ti
difenderò io, fino all’ultima stilla di sangue; ti amerò, ti amerò tanto, o Semiram, che tu
dimenticherai le mie colpe, le angosce patite, il trono perduto e quant'altro avesti mai di più caro.
– Fuggire! – esclamò ella, scuotendosi a un tratto da quel suo doloroso torpore. – Fuggire io!
E lo pensi tu forse? Non si giunge dov’io son giunta, o malka d’Armenia, per finir così male; non
s'imprime un’orma così profonda nella memoria degli uomini, per cancellarla con un esempio di
solenne viltà. Altro scampo io m'ho scelto, lo scampo de’ forti. Morrò. Checchè ne pensi il
malvagio, morrò nobilmente, morrò da regina.
– Tu morire, o Semiram? – proruppe forsennato il garzone. – No, non sarà, non sarà mai; è
impossibile!...
– È necessario; – soggiunse ella, con malinconico accento. – Vivere con maestà non è più
consentito; altra via non rimane.
– Ah, scherno de’ cieli! – gridò egli disperato, cacciandosi le mani a furia entro i capegli. – È
per me.. per colpa mia!..
– No; – interruppe Semiramide. – Non ti accusare; non dar cagione a te stesso! È il signor
delle sorti, è Nisroc, che ha voluto così; son io che gli ho armata la mano a ferirmi. Non ho io forse
invocata sul mio capo questa grande sventura! Non ho io chiesto a Militta di concedermi un amor
vero e possente, anche a patto dei più acerbi dolori. Ho amato, e furono ore d’immensa allegrezza
per me. Tristi giorni seguirono.... Orbene, che importa? Non son io vendicata del tuo disprezzo?
Non sei tu umiliato, piangente, a’ miei piedi?
– Ah, tu sei generosa e magnanima; – disse Ara con impeto; – e sebbene io veda tuttavia sul
tuo volto la nube d’un nemico pensiero, non debbo lagnarmi del mio destino, nè voglio. Concedimi
tempo a meritar la tua, grazia, o regina! Vivere tu devi, e risorgere. Non mi dire che ciò è
impossibile!... Forse tu vedi troppo grave il tuo caso. Altra via non rimane, dicesti; e perchè? Non è
sempre aperta la via della pugna? Nè già tutto l'esercito s'è collegato ai ribelli; schiere numerose e
fedeli ti restano ancora; tu puoi, tu devi tentare.
– E vincessi pur anco! – esclamò Semiramide, crollando il capo, in atto di supremo fastidio.
– Imperocchè, vedi, io l’ho pensato, ciò che tu mi consigli, e non è vero che tutto sia
irreparabilmente perduto per me. S'inganna il malvagio, e quel suo traviato fanciullo con lui. Prima
che trionfassero i vili, molto sangue potrebbe tingere ancora l'Eufrate, e più d'un cuore, che oggi si
gonfia di facili speranze, impicciolirsi ad un tratto e gelarsi per alto spavento. Ma tutto questo a qual
pro? Io non mi curo più oltre di malvagi, o d’ingrati. L'anima ha le sue tristezze invincibili, sente
talvolta il fascino de’ superbi raccoglimenti, la voluttà delle inerzia mortali; e allora, poni mente,
riesce a tedio la pugna, e più che il vincere, più che il soverchiare di nostra gloria i mortali
ossequiosi, o tementi, è dolcezza il cadere, l’estinguersi. Così farò, re d’Armenia; e se ti duole.... –
soggiunse ella con un fil di amarezza, – se ti duole, io l’ho caro. Sarà questa la tua punizione, per
aver creduto ad altrui, per aver dubitato di me.
– Non m'ero io dunque ingannato! – disse Ara sospirando. – Il tuo cuore non mi ha
perdonato del tutto! –
La regina non fece risposta a quel grido di un’anima afflitta.
– Vedi? – soggiunse ella, cedendo all'amaro proposito ond’era tutta compresa. – Il mio
disegno è formato, –
E avvicinatasi ad uno stipo che era lì presso, ne tolse una piccola ampolla di vetro e la librò
in alto, di rincontro alla fioca luce del vespero, davanti agli occhi di Ara, che stette muto, sbigottito
a guardarla.
– Da questo tenue involucro, – proseguì Semiramide, – non traspare che un umile liquore
verdastro. Ma la vita, la pace, l'allegrezza, la morte, tutto è qui dentro, come nel cuore umano
s'accolgono i germi d’ogni contentezza e d’ogni pena eziandio. Ampolla preziosa! Essa è dono del
vecchio Sumàti. –
Ara chinò il capo, fremendo. Imperocchè egli aveva udito dal colloquio di Zerduste colla
regina, quanto fosse colpevole l'Indiano.
– Ah, non parlare di lui! – gridò egli, con accento di rabbia.
– Perchè, ch’egli è morto pentito? – ripigliò la regina. – A me, dopo tanti immeritati dolori,
il vecchio della Triade ha lasciato un conforto. Tutta la mia regia possanza non avrebbe potuto
procacciarmi questo maraviglioso liquore, stillato da erbe d’arcana virtù, nei silenzi d’una dotta
vigilia. Meraviglioso invero, e ben degno della famosa sua patria! Una goccia soltanto, stemperata
nell’acqua purissima, rinfranca gli spiriti languenti; poche goccie dànno l’ebbrezza; un sorso intiero,
la metà di quest’ampolla, è, la morte; morte soave, lenta e sicura. Tu lo vedi, o malka d’Armenia; io
non son troppo da compiangere. Va dunque, poichè l’ora è già tarda, ed ogni istante è prezioso. Io
t’ho amato, e non m’incresce di confessartelo: ti ho perdonato ogni cosa; non ho più odio nel cuore.
Tu piangi e le tue lagrime mi compensano di molte amarezze; va dunque, e ti sovvenga di me nella
vita, come io penserò a te nella morte. –
Così parlò Semiramide, cercando di allontanare il dolente. Ora, ella aveva a mala pena finito
di parlare, che un atto improvviso di Ara la colpi, e un grido le ruppe dal petto, grido di stupore, di
sgomento o di gioia inattesa.
Il re d’Armenia l’aveva ascoltata in silenzio, ora guardando lei, ora l'ampolla, che le stava tra
mani. Pallido, ansante, confuso, pendeva dalle sue labbra, non osando dir nulla per tentare di
smuoverla dal suo fiero proposito; ma ben si scorgeva al sembiante come fosse trambasciato, al
pensiero di perderla. Ciò appunto aveva mossa a compassione la regina, persuadendole alcune più
amorevoli parole di commiato; ed egli dal canto suo ne aveva preso ardimento ad afferrarle un
braccio, accostandosi con atto supplichevole a lei. Ma tosto, senza ch’ella facesse più in tempo a
ritrarre la mano, le aveva egli strappata l'ampolla e in un baleno l’aveva accostata alle labbra,
trangugiandone un sorso.
– Che hai tu fatto, disgraziato? – gridò ella, tendendo le palme verso di lui.
– Nulla; ho bevuto la parte mia. Ecco, vedi, io non ti ho tolto nulla del tuo. –
E le mostrò l’ampolla, ancora a mezzo ripiena; indi, sorridendo, la posò sullo stipo.
– Ah, dissennato! – esclamò la regina, con accento di tenerezza ineffabile. – E tu, giovine,
bello al pari d'un Dio, con tante speranze nella vita lontana....
– Senza te sarei morto; – interruppe egli sollecito; – è in te la mia speranza, in te la mia vita.
E cadde a’ suoi piedi, tremante d’amore. Ella gli pose le braccia intorno al collo e rimase a
lungo muta, ma accesa, palpitante, appoggiata su lui, con tutto il soave suo peso. L’astro notturno,
che era spuntato poc’anzi sull’orizzonte, risplendeva tra i cespugli del giardino, e la sua tacita luce,
penetrando tra le colonne del loggiato, inondava que’ due volti confusi.
Ad un tratto ella si sciolse da lui.
– Smemorata! – gridò. – Ed io?..
Balzò rapida in piedi, corse, afferrò l’ampolla, e avidamente bevve ciò che restava del
verdastro liquore.
– Come è dolce! – diss'ella poscia, tornando verso l'amato. – Come è dolce, poichè tu l'hai
recato alle labbra! –
Il giovine innamorato la strinse tra le sue braccia.
– Eccoti bella, amica mia! – le diceva egli, guardandola con occhi rapiti. – Eccoti bella tra
tutte le donne, o tu, cui l'anima mia ama! Tu m’hai involato il cuore, o sposa mia nella morte; tu
m’hai involato il cuore col primo de’ tuoi sguardi; nè più, da quella notte di celesti ebbrezze, io
sono stato signore di me. Tu sei tutta bella, amica mia, nè cosa alcuna è in te che non mi faccia
riardere il sangue per febbre acuta d'amore. I tuoi baci sono più dolci del liquor della palma: la
fragranza che spira da te, vince tutti gli aromi.
– Ara, o diletto, sostienmi nelle tue braccia! Oh, sei pur bello! E avventurosa tra tutte le
donne fu certamente colei che ti diede la vita! Ara, rivolgi gli occhi tuoi, che non mi guardino fiso,
imperocchè essi mi faranno smarrir la ragione. Amico dell'anima mia, e come hai tu potuto
allontanarti da me? Oh, grazie sian rese agli Dei; non ci separeremo mai più! Morire con te! Gioia
che io non avrei più osato sperare! Sostienmi, o diletto! Sia la tua mano sinistra sotto al mio capo e
abbraccimi la tua destra.
– Amica mia, sposa mia, le tue labbra stillano miele; il tuo collo vende più odore, che non le
mandragole e i gigli. Dimentica ed ama; mettimi come un suggello in sul tuo cuore; come un
suggello in sul tuo braccio; imperocchè l’amore è possente come la morte che invocata ci attende; la
gelosia dura come l’inferno, e le sue fiamme divorano. Io le ho nutrite a lungo del mio sangue, qui
dentro; ma l’amor tuo è il più soave dei balsami. –
Così favellarono, confusi in un palpito, l'uno dell'altro beati, immemori d'ogni cosa creata.
Gloria, potenza, ambizione, dolori, miserie, splendori e fumi della terra, che siete voi per due anime
amanti? Sulla vetta inaccessa d’un monte, la fenice compone de’più odorosi rami il suo rogo, e lieta
s'appresta a morire. Così eglino, in quel rapimento supremo, nell’alto silenzio d’una notte
avventurosa, lunge dal volgo profano, avevano tempio e rogo ed oblìo. Che era già più Babilonia
per essi, col suo popolo ribelle e colle sue ire feroci? Che era l’impero degli Accad, e che tutti gli
altri destinati a succedergli, giù per la china dei secoli? Odiati dal mondo, lo ricambiavano colla
noncuranza e il disdegno; più forti delle sue collere, si perdevano in un'estasi, che non aveva a
conoscer dimani.
– Ara, diletto mio, come breve è la notte! I segni celesti ascendono rapidi la volta del
firmamento azzurro, come viandanti frettolosi che hanno veduta da lunge la meta.
– Fermati, – esclamò Ara, tendendo al cielo le palme. – Fermati, se mai udisti parola
d’amore; rattieni, o Sin, il veloce tuo corso e sia questa notte eterna! O se ciò non è consentito alla
nostra preghiera e te pure incalzano i fati, accresci almeno la virtù dell'arcano liquore e rapisci le
nostre vite coll'estremo tuo raggio! –
La brezza precorritrice dell’alba susurrava dolcemente fra gli alberi. I gigli, le mandragole e i
gelsomini spandevano odore. Ascose tra i rami, gemevano le colombe il flebile verso amoroso. Era
un senso di voluttà infuso per tutta la natura, un inno cantato su in alto alla gloria di Dio. Le ire
codarde, le ambizioni, i tradimenti, si agitavano laggiù, nella città sottoposta, il cui frastuono a mala
pena si udiva, come rombo di tempesta lontana.
Dolcezza ineffabile, bevuta a lunghi sorsi ed interi; ebbrezza che scalda le fibre e infonde per
tutte le membra un amico sopore; qual voce potrebbe ridirle, o penna descriverle? Non si ritraggono
a parole i soavi errori, le fantasie, le visioni, con cui, nel silenzio della sua cella, un’anima
innamorata inganna le ore notturne e cede senz’avvedersene al sonno, che forse le proseguirà
l'incantesimo.
Il raggio tremolante di Istar già impallidiva sull'orizzonte, poco lungi dallo smorto disco di
Sin. Il cielo rapidamente sbiancava, e con esso il volto dei due felici, che ancora si tenevano
abbracciati, e cogli occhi smarriti, nuotanti nelle ombre di morte, si ricercavano ancora.
Poco stante, sorgeva glorioso il sole dai balzi lontani di Elam, e uno stuolo di colombe fu
visto levarsi dal colmo delle piante, che allegavano di bella verzura i pensili orti di Semiramide. Le
candide volatrici si librarono sulla città, valicarono il fiume e disparvero ad occidente dietro le torri
di Barsipa.
Il popolo di Babilonia argomentò che Derceto, la gran Dea d’Ascalona, avesse mandate le
sue colombe a campare da morte la sventurata sua figlia.
E invero, nessuno più vide Semiram, nè il biondo malka d’Armenia. Gli orti pensili, le
stanze della regina, frugate dal popolo ribelle, non recavano traccia di loro.
Forse Hurki avrebbe potuto chiarire l'arcano. Ma il fedele eunuco era scomparso; e Faleg, il
fedele soldato, del pari.
Zerduste, ministro di Ninia per brevi giorni, re di Babilonia dopo l'arrivo delle soldatesche di
Media, dubitò che i due amanti fossero stati sepolti dalla pietà d'un fedel servitore in qualche segreta
dell’immane recinto. Ma la tomba, se così era, custodì gelosarnente i suoi ospiti.
F IN E.
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