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TITOLO: ALCUNI FRAGMENTI DE LE RIME
AUTORE: BANDELLO, MATTEO
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE: SI RINGRAZIA PER LA COLLABORAZIONE LA
BIBLIOTECA DEI CLASSICI ITALIANI:
HTTP://WWW.FAUSERNET.NOVARA.IT/FAUSER/BIBLIO/
DIRITTI D'AUTORE: NO
LICENZA: QUESTO TESTO È DISTRIBUITO CON LA LICENZA
SPECIFICATA AL SEGUENTE INDIRIZZO INTERNET:
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TRATTO DA: "TUTTE LE OPERE DI MATTEO BANDELLO",
DI MATTEO BANDELLO
A. MONDADORI EDITORE, 1943
CODICE ISBN: INFORMAZIONE NON DISPONIBILE
1A EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 6 OTTOBRE 2002
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: AFFIDABILITÀ BASSA
1: AFFIDABILITÀ MEDIA
2: AFFIDABILITÀ BUONA
3: AFFIDABILITÀ OTTIMA
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
GIUSEPPE BONGHI, GBONGHI@FAUSERNET.NOVARA.IT
REVISIONE:
CLAUDIO PAGANELLI, PAGANELLI@MCLINK.IT
CATIA RIGHI, CATIA_RIGHI@TIN.IT
PUBBLICATO DA:
MARCO CALVO, HTTP://WWW.MCLINK.IT/PERSONAL/MC3363/
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Alcuni fragmenti de le rime
di Matteo Bandello
IL BANDELLO A MADAMA MARGARITA DI FRANCIA
FIGLIUOLA DEL CRISTIANISSIMO RE FRANCESCO I.
Venne questi il signor Paolo Batista Fregoso a visitare madama Gostanza Fregosa mia
signora e padrona, e tra molte cose che ci ragionò non si saziò giammai di predicare le molte
vostre rare doti; e sí del bello ingegno vostro e divine maniere predicò, che dal suo affettuoso dire
fui sforzato dirne qualche cosa in rima. Onde ne nacque questa canzone, che ora vi mando, la
quale, se non giunge al vero della eccellenza e sublimitá delle vostre grazie, questo almeno ci
acquisterò io, che a chiunque la vederá, ella fará fede del buono volere dell'animo mio, che vorria
al mondo dimostrare quanto sia il merito vostro, ancorché sia infinito. E accioché la canzone non
venisse sola, esso signor Paolo Batista mi astrinse ad aggiungerle qualche mia Rima, di quelle che
dalla diruba degli Spagnuoli mi sono restate. Ora se forse parerá ad alcuno che io sia troppo
audace presumendo mandare queste mie ciance a tanta e tale madama, quanta e quale voi siete,
iscusimi appo voi il nome che avete de la piú gentile, cortese e umana principessa che oggidí viva,
siccome ne apporta la chiara fama con pubblico grido, e con largo e fedele testimonio il mio
Fregoso afferma, al quale, conoscendolo veridico e uomo di sua parola, non potrei non credere ciò
che egli di voi cosí ragionevolmente dice. Degnarete dunque prendere queste mie cosette con quella
graziosissima umanitá, che a tutta Europa vi rende ammirabile, e ancor che non siano degne di
venire nelle vostre mani, voi tanto piú quelle farete di voi degne, quanto piú a voi piacerá (la vostra
mercé) gradirle. Il che mi persuado che farete, avendo piú riguardo al buono voler del mio animo,
che alle cose mandate. Feliciti nostro signore Iddio tutti li vostri pensieri. E alla vostra buona
grazia umilmente mi raccomando.
D'Agens alli 2 di maggio MDXLIIII.
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I
CANZONE DEL BANDELLO DE LE DIVINE DOTI DI MADAMA MARGARITA
DI FRANCIA FIGLIUOLA DEL CRISTANISSIMO RE FRANCESCO I.
Di tanti eccelsi e glorïosi eroi,
e delle belle e sí sagge eroine,
onor e pompa del Gallico regno,
qual, mia Musa, cantar ora t'inchine,
o qual pria dirai, o qual dapoi,
a tal che ti riesca il tuo disegno?
O questi, o quelle che tu canti, degno
canto sará, perché di nostr'etate
in lor è 'l pregio ed il perfetto onore,
ché 'n quelli albergan con ben saldo core
quante 'l sol vede doti piú lodate.
Ma la divinitate
non t'adeschi de l'alma Margarita,
ch'unica al mondo di bontá s'addita.
Del re de' regi la figliuola dico,
vergine saggia e d'ogni tempo gloria,
le cui vertuti chi può dir a pieno?
Chi avrá l'ingegno ugual, o la memoria
a tant'altezza, se del tempo antico
e del nostro verrebbe ogni stil meno?
Quegli che nacque di Parnaso in seno,
ed Ulisse cantò e 'l grande Achille,
e quel che a Dite il pio Troian conduce,
di cui la fama ancor sí chiara luce,
ben ch'ogni dir in lor Febo distille,
appena una di mille
spiegar potrian de le virtuti rare
di questa ricca perla e singolare.
Chi potrá dir del bell'ingegno, quale
la virtú sia, o quanto sia capace
di ciò che può capir uman sapere?
Chi sará che si mostri tant'audace,
ch'a l'altezza di quel dispieghi l'ale,
e possa il volo dietro a quel tenere?
Qual Icaro costui vedrai cadere,
arso dal fuoco di sua chiarezza,
o qual Fetonte fulminato al basso
con rovina cader e con fracasso,
cieco al splendor de la sublime altezza,
la cui chiara vaghezza
abbaglia sí col lume ogni pensiero,
ch'umana lingua non arriva al vero.
Vorrai forse lodar l'altiera e umana
maniera, ch'ella in ogni cosa mostra,
di maestá servando il bel decoro?
Non vedi come in lei, di pari, giostra,
con quel divin favor, che l'allontana
da cose basse, d'ogni grazia il coro?
Quai donne al mondo mai famose fôro,
tra le piú celebrate in Elicona,
u' tant'umanitá mai si vedesse,
che 'n lor superbia parte non avesse?
Indarno a lei s'aguaglia o paragona
qual piú famosa suona.
Chi dunque dirla quanto merta sape,
s'umano ingegno il suo valor non cape?
O pensi di cantar la cortesia,
che 'n lei sfavilla sovr'ogn'altra chiara,
tant'è gentil e liberal, cortese!
Quest'una dote in lei sí larga e rara
fiorisce, e frutto fa di leggiadria,
tanto mai sempr'a farsi chiara attese!
Ma chi può farla col cantar palese,
se l'uno e l'altro stile quest'eccede?
Chi puote il giorno numerar le stelle,
e la virtú narrar a pien di quelle,
esser potrá di tanta grazia erede,
che canti, e faccia fede
de l'alta cortesia che 'n questa splende,
sí ch'a adorarla tutto 'l mondo accende.
Or l'accoglienze grazïose e schiette,
d'umiltá piene, e piene di grandezze,
ma sempre grate, oneste e signorili,
chi scoprirá con quelle gentilezze,
ch' ivi natura saggiamente mette,
cosí leggiadre, vaghe e sí gentili?
Ov'ha Parnaso sí sonori stili,
che possino eguagliar questa virtute,
e dirne quanto merta simil grazia?
Quivi il giudicio con mill'occhi spazia,
e scerne il tutto con le viste acute,
che fa le lingue mute
di tant'altezza dir la minor parte,
che avanza d'ogni ingegno il dir e l'arte.
Ma la dolce armonia delle parole,
col perfetto parlar, e saggi modi,
ch'altro qui suonan che mortai concenti,
chi fia ch'a par del ver esalti e lodi?
Perché non parla come ogn'altra suole,
ma del ciel spirto ragionar tu senti.
Soavi, ben limati, e cari accenti
empion l'orecchie con sí dolci tuoni,
che fan che 'l suono al corpo l'alma involi,
e ch'ella in quelle labbra ratto voli,
ond'escon sí purgati e bei sermoni,
che son pungenti sproni
a trovar la virtú e seguitarla,
di cose cosí belle e saggie parla.
Chi l'ode e non le resta servo eterno,
uomo non è, ché quel soave suono
fermar i fiumi può, far gir i monti.
E chi dal ciel acquista tanto dono
che dinanzi le stia l'estate e 'l verno,
e gusti le parole e i motti pronti,
dirá che d'eloquenza tutti i fonti
sorgono in questa, cosí freschi e chiari,
che senza par faconda ella si trova.
Indi forza è che l'uom allor si mova,
e mille cose degne quivi impari;
dolci parlari e cari,
che l'uom dal ben alzate a far il meglio,
e sète delle Grazie il vero speglio.
Qual parte dunque, Musa mia, dirai
di tanta donna eccelsa e glorïosa,
s'ogni in lei parte avanza il nostro dire?
Quel divin spirto forse, dove posa
quanto di buon si vide in terra mai,
cerchi lodar, e quanto val scoprire?
Ma chi potrá tant'alto unqua salire?
Chi le virtú di questa s'affatica,
quali elle sono dimostrar al mondo,
vuol questi il largo mar e sí profondo
in picciol rivo por senza fatica.
Dunque altro non si dica
se non del re Francesco la figliuola,
e dirá donna vera, saggia e sola.
Tu n'anderai, canzon, sovra la Senna,
u' l'alma Margarita Francia ammira.
Dille: Un che in riva alla Garonna stassi,
a voi m'invia con riverenti passi,
e vostre lodi indarno dir sospira.
Perciocché Dio sí mira
vi fa, che qui l'idea del valor sète,
e 'l titol di perfetta possedete.
II
Se mai sará chi queste rime prenda,
mosso dal suon de' caldi lor sospir,
pietoso pensi a gli aspri miei martíri,
e, quanto può, d'amar il cor difenda.
Di me si faccia specchio, e non attenda
di duo begli occhi a' sí fallaci giri,
che forza poi sará che invan sospiri
il folle error che mal al fin s'ammenda.
Al ciel si volga, mentre in libertate
l'alma si trova, e 'l tempo in miglior studi
con piú lodati inchiostri al fin consumi.
I' che lunga stagion i regni crudi
seguii d'Amor, trovai che in ogni etate
il cor si pasce sol di sogni e fumi.
III
Di madre bella, ma piú bella figlia,
anzi d'ogn'altra assai piú bella e vaga,
in cui del mondo tutto 'l bel s'appaga
e d'ogni grazia è grazia a meraviglia;
chi i bei vostr'occhi ardenti, e quelle ciglia
mira, ch'han forza piú ch'umana e maga,
vedrá che Amor con quei percuote e impiaga,
ed ogni freddo cor incende e piglia.
I' che di ghiaccio al cor un duro smalto
tenea per non sentir d'Amor il fuoco,
lasso! m'accesi al primo sguardo allora.
Ma chi potrebbe sopportar l'assalto
di quei begli occhi, s'ivi è sol il luoco
u' tien gli strali e l'arco Amor ognora?
IV
Questa nova beltá, ch'oggi si vede
sí bella e rara, e senza par si trova,
le vere pompe di beltá rinova,
anzi le antiche e le moderne eccede.
Ché 'n que' begli occhi, come in propria sede,
armato regna Amor, e vuol che piova
quinci ogni grazia, ogni dolcezza a prova,
per far del mondo inusitate prede.
Alma sí fiera, sí spietata e cruda,
non è, che senta il caldo di que' rai,
che tutta non si cangie al primo sguardo.
I' ch'avea l'alma d'ogni aíta ignuda,
da sí bel fuoco, che non manca mai,
sfatto in faville incenerisco ed ardo.
V
Lascive chiome inanellate e sparte,
che bianco avorio e minio ricoprite,
stellanti ciglia al mondo e al ciel gradite,
ochi u' natura usò l'ingegno e l'arte,
rosate labra, donde fòr si parte
il bel parlar ch'ha tante grazie unite,
alabastrine guancie e colorite,
isnelle membra e belle a parte a parte;
cieco pur è chi le bellezze vostre
non sa veder, che per se stesse sono
sí chiare come 'l sol nel bel sereno.
Ma quel valor, del ciel perfetto dono,
chi sará mai ch'a par del vero mostre,
se 'l mio gran Tosco qui verrebbe meno?
VI
Cantar il biondo, crespo crine e quella,
quella serena fronte a meraviglia,
le nere, vaghe e ben arcate ciglia,
dolce ombra all'una e a l'altra chiara stella,
lodar la bocca corallina e bella
u' l'eloquenza tanta forza piglia,
la guancia, ch'ostro e neve rassomiglia,
la gola, il petto, e la persona snella,
chi non saprá, se chiar si vede ognora
ivi ogni bel del mondo esser raccolto
con quanta grazia mai non fu, né fia?
Ma dir il bell'ingegno qual si sia,
con le grazie di quel divino volto,
opra d'Omero o di Virgilio fôra.
VII
Come fa il sol delle dorate stelle
e de la bella aurora, quando appare,
cosí de le compagne i' vidi fare
quella, ch'è bella piú de l'altre belle.
Rivolte al vago viso stavan quelle
sovra duo carri aurati a contemplare
quel dolce paradiso, che mostrare
ci suole Amor, ascoso in le fiammelle.
Ma come que' begli occhi a me rivolse,
ratto un splendor si vide uscirne fòra,
ch'ogni altra luce a tutto 'l mondo tolse.
E, vinto il ciel da tanta grazia allora,
in pioggia, pien d'invidia, si risolse,
e piú che mai s'adira, e piange ancora.
VIII
I' volli, Donna, giá contarvi a pieno
come per voi m'ancide e avviva Amore,
com'ei mi ruba e poi mi rende il core:
ed altre cose assai ch'io porto in seno.
Ma come i' veggio il bel viso sereno,
e gli occhi sfavillar con quel splendore
che quel del sol offusca e fa minore,
sento a la lingua porsi un duro freno.
E sí freddo timor m'agghiaccia il petto,
ch'io resto innanzi a voi tremante e fioco,
di ragion privo, d'alma e d'intelletto.
Perch'io taccia, Madonna, non è poco
l'occulto incendio ch'ho nel cor ristretto:
chi può dir com'egli arde è in picciol fuoco.
IX
Qual fiamma ognor m'incenda
chi potrá, Donna, a pieno discoprire?
Poco arde, chi com'arde puote dire.
Ben si potrá mostrar alcuna parte
di quell'incendio chiaro
che tant'arsura nel mio cor adopra.
Ché chiar si vede, ch'ogni membro a paro
arde con l'alma, e parte
in me non è che 'l fuoco non ricopra.
Ma non ci è poi chi scopra
quant'è la fiamma: e quanto sia 'l martíre
dir non si può, se ben si può soffrire.
X
Stanco giá di ferir, non sazio, Amore
volò nel grembo di colei che suole,
con duo begli occhi e angeliche parole,
di libertate trarmi ognora fòre.
Ella, sentendo il non usato ardore,
quell'alme e dive luci al mondo sole
chinò sdegnata, e disse: or qui che vuole
il falso, lusinghier, il traditore?
Qual chi col piede il serpe a l'improviso
calca, divenne Amor, e sbigottito
fuggendo, disse: dove m'era assiso!
Non è quell'il bel volto al ciel gradito?
Quei pur son gli occhi, e quell'è 'l vago viso,
le mamme, e 'l petto dove 'i fui nodrito.
XI
Quella che sola al mondo è vera Donna,
di cui piú caro pegno Amor non have,
nel giardin stando al venticel soave,
d'un verde lauro si facea colonna.
Amor, ch'a trar suoi strali non assonna,
ma che dinanzi a lei tremando pave,
l'arco scoccando poderoso e grave
ferille il grembo de l'aurata gonna.
Ella sdegnata disse: invano, invano
ti sforzi, nudo arcier; e poi legollo
d'un dolce sguardo altieramente umano.
L'arme levolli e l'ali, e andar lasciollo,
onde per segno porta l'arco in mano,
le piume in capo, e la faretra al collo.
XII
Non duo begli occhi, anzi due chiare stelle,
non l'alma fronte, di bellezza un mare,
non le labra rosate, dove appare
quant'ebbe il mondo mai di cose belle,
no 'l bianco petto, non le due mamelle,
che ponno un paradiso in terra fare,
non le mani sottili, schiette e rare,
son la cagion che 'l cuor da me si svelle.
Casti pensieri, sol disío d'onore,
alta umiltade e santa leggiadria,
ch'han messo il seggio alla mia Donna in core,
son le catene ove la vita mia
lieta s'intrica con sí bel favore,
che di salire al ciel mi fan la via.
XIII
S'io vuo' di te cantar, o Diva, s'io
de le tue grazie il campo mieter voglio,
se smeraldi, rubini e perle accoglio,
e qualche cosa dir di lor disío;
fra quante fòr ne sceglie il canto mio,
quando fra mille e mille una ci toglio,
piú bella lode in te trovar non soglio
che Madre dirti del Figliuol di Dio.
Quest'una grazia, questo don ti leva
sovra ogni cosa; ché farti maggiore
non puote Iddio, se Dio non ti faceva.
Madre dunque di Dio, per tant'onore,
porgi soccorso a noi, che qui per Eva
l'altrui piangiamo, e insieme il nostro errore.
XIV
Non vider mai gli antichi o nostri tempi
levarsi il sol cosí lucente e chiaro,
né di bellezza in terra tanti esempi
o sí bel viso unquanco rimiraro,
ch'a par del viso sol, dei dolci ed empi
begli occhi che dal volgo mi sviaro
non fosser ombra, e vuo' ch'Amor mi scempi,
ché dolce fa tal vista il pianto amaro.
Siede sovente Amor a la calda ombra
di que' leggiadri lumi, e stassi tale,
ch'a mezza notte l'aer fosco sgombra.
E, folgorando, il giorno batte l'ale
soave sí che l'altro sol adombra
beltá divina e grazia senz'uguale.
XV
Non sparge quinci e quindi l'Apennino,
pagando a l'uno e a l'altro mar il fio,
fonte, né fiume: né da l'Alpi rio
casca nel pian lombardo lor vicino,
ch'aguagli il dotto fiume e cristallino
del Mencio fortunato, ov'apparío
l'alta beltá che tanto m'infollío,
che riverente ognor il cor l'inchino.
Queste le belle sono e lucide acque
u' Virgilio le Muse pria lavaro,
quand'ei fanciullo nella culla giacque.
Né, per quel, tanto al ciel giammai s'alzaro
quant'oggi s'alzan per costei che nacque
di grazia e di beltate esempio raro.
XVI
Se questa, cui non vede par il sole,
per far l'etá d'Augusto piú famosa
fosse allor stata, Donna glorïosa,
com'ella fôra, al mondo non si cole.
Ché 'l mio Virgilio quelle carte sole,
cui canto altrui paragonar non s'osa,
in questa speso avrebbe, com'in cosa
assai piú degna che d'Enea le fole.
Ond'io, che senza stile e senz'ingegno
di lei parlar ardisco, veggio certo
che di gran lunga non arrivo al segno.
E forse il gran Poeta fôra incerto
del piú caro del mondo e vero pegno
poter cantar quant'è il valor e 'l merto.
XVII
A che cercar in terra altro Parnaso,
altr'Aganippe, e pallida Pirene,
o 'l sacro fonte fatto in Ipocrene
dai poderosi piè del gran Pegaso?
Cercate l'orïente e ancor l'occaso,
Mantova, Smirna, Arpino, Ascra ed Atene:
e Febo, che le Muse in guardia tiene,
del liquor santo vi conceda il vaso.
Vostre fatiche indarno spenderete,
se questa Donna tutti non cantate,
Donna non giá mortal, ma ben divina.
Questa per guida adunque omai prendete,
che Febo e Musa è sol di nostr'etate,
cui tutto 'l mondo com'a Dea s'inchina.
XVIII
Quando la bella e saggia Donna mia
soavemente i suoi bei lumi gira,
tant'allor grazia d'ognintorno spira,
che un mar di gioia innanzi se le cria.
Ivi modestia e somma leggiadria
e casto amore impara chi vi mira,
che 'l vago lume dentro ai petti inspira
virtú che scopre al Ciel di gir la via.
E chiar si vede com'in mezzo Amore
stassi a' begli occhi, ed ivi accende il fuoco,
e l'arco scocca, e le quadrella affina.
Da sí felice e avventuroso luoco
m'infiamma, agghiaccia, fere e ruba il core,
mercé di quella vista alma e divina.
XIX
Cosí potesse in voi di me pietate,
tal che piegasse il vostro duro core,
com'io m'accesi al lucido splendore
di quelle vostre luci alme e beate.
Ché l'aspre pene e 'l duol ch'ognor mi date
in parte temprereste, e forse Amore
del petto il ghiaccio vi trarrebbe fuore,
facendo in voi pietá com'è beltate.
Ma tant'altiera e disdegnosa sète,
e di gradire altrui cosí vi spiace,
ch'Amor sprezzate, e 'l suo gioioso regno.
Tacerò dunque, poiché non vi piace
che 'l fuoco scopra dov'ognor m'ardete:
ché men doglia è morir, che farvi sdegno.
XX
S'innanzi ai bei vostr'occhi, Donna, i' tremo,
anzi ardo, e son sperando fòr di speme,
se lieto e tristo il cor s'allegra e geme,
e sente gioia, ed un dolor estremo:
vien da l'amaro, dolce, umil, supremo,
altiero sguardo, che tant'alto freme,
e chiaro gira, ch'io mi trovo insieme
di gioia e di dolor e colmo e scemo.
E bench'io viva e piú sovente mora
nanzi a' vostr'occhi, come vuol mia stella,
pur senza quei non posso star un'ora.
Anzi mi par che 'l cor da me si svella
senza il lume che tant'il mondo onora:
io perché ingordo, e voi perché sí bella.
XXI
Non vi sdegnate, Donna, se talvolta
vi par ch'io passi a rimirarvi il segno,
ché quando innanzi ai bei vostr'occhi io vegno,
m'è la ragion da lor per forza tolta.
E l'alma al vostro viso intenta e volta,
fiso il contempla come suo sostegno,
e dentro al vago lume d'Amor pegno,
com'augelletto al vischio resta involta.
E sí m'abbaglia un vostro sguardo o un riso,
ch'ogni altra voglia mi si fa rubella:
tant'è dolcezza in mezzo 'l vostro viso!
Indi vi cerco in questa parte e 'n quella,
ché non posso da voi mai star diviso;
io perché ingordo, e voi perché sí bella.
XXII
Foss'io bastante dir di voi, di quelle,
di quelle vostre luci alme e cocenti,
che son tra l'altre cosí chiare e ardenti
com'è del sol la luce tra le stelle:
cose direi tant'alte e cosí belle,
con sí leggiadro stil, con novi accenti,
ch'arder farei le piú gelate menti
di starvi sempre innanzi per vedelle.
E fôra tal la fama a l'altra etate
che dopo noi verrá, ch'ogni uom direbbe:
Felice chi cantò tanta beltate.
Ma chi potesse dir quanto sarebbe
il merto lor e vostra dignitate,
annoverar le stelle il dí potrebbe.
XXIII
Donna, cui Donna uguale
non vive in terra, affrena il tuo martíre,
se la mia vita brami e 'l mio gioire.
su nel ciel in mezzo ai vaghi segni
posto m'ha Giove, e vuole
che nova stella, ma benigna, i' sia.
Or quando i' sento che di me ti duole,
e i tuo' begli occhi pregni
veggio di pianto in tanta doglia ria,
manca la gioia mia,
perché m'affligge tanto il tuo languire,
che per piú non morir vorrei morire.
XXIV
Di te non so se mi lamenti, Amore,
e pur mi par cagion' averne assai,
o de' begli occhi, e lor ardenti rai,
onde nel mondo acquisti tant'onore.
Di lor che posso dir, se non ch'ardore
m'instillan con tormenti ed aspri guai,
né ponno sofferir ch'un'ora mai
libero viva e senz'incendio il core?
Tu il vedi, e sai che 'l mio bruciar a gioco
piglia madonna, e piange un can perduto,
né di pietá ver me mai mostrò segno.
Lasso, i' son morto in tanta fiamma e fuoco.
Ma chi mi piange? Chi mi porge aiuto?
E fa Madonna un can del pianto degno.
XXV
Non sa che cosa sia
gioir perfettamente, chi non mira
com'i vostri occhi Amor, o Donna, gira.
Ché 'n mezzo a quell'altiera e santa luce
piena di casto amor e di virtute,
Amor ridendo spazia;
e seco un certo non so che riluce,
che non si può narrar, ma a noi salute
apporta ognor e grazia:
né mai si vede sazia
umana vista, mentre in voi si mira,
ove s'abbassa ogn'alto orgoglio ed ira.
Ma chi potrá giammai mirarvi fiso,
quand'Amor regge il dolce nero e 'l bianco
di que' begli occhi vostri?
Al discoprir del novo paradiso,
occhio mortal convien ch'infermo e stanco,
Donna gentil, si mostri:
perch'ivi vuol che giostri
quanto di grazia il ciel in terra spira,
ond'a sé l'alme fòr de' corpi tira.
Ed io che sento il caldo de' bei rai,
senza il cui fuoco Amor non fôra Amore,
dico pur meco sempre:
Quest'è colei, che gli amorosi guai
e 'l saggio maneggiar e 'l vago errore
tempra in sí dolci tempre,
che forza è al fin si stempre
chi senza lei salir al ciel aspira,
o chi per altra fra mortai sospira.
XXVI
So ben che chiar vedete, ahi caso rio!
Donna, com'io per voi son posto in fuoco,
ma l'aspro mio martír prendete a gioco.
Or s'a voi piace, e pur v'aggrada, ch'io
ardendo pèra, dolce m'è ch'i' mora;
perch'altro al mondo, Donna, i' non disío
che farmi vostro ed ubbedirvi ognora.
E se per voi di vita i' vado fôra,
vostro morendo, qual piú lieta morte
può darmi il Ciel, Fortuna, Amor, o Sorte?
XXVII
Se 'l mio bel fuoco m'arde e agghiaccia in modo
che scemar non si può non che smorzarsi,
ond'io sí dolcemente ed alsi ed arsi,
e gelo ed ardo sí che sempre i' godo:
volete al ghiaccio e al fuoco i' ponga modo,
com'Amor possa a voglia raffrenarsi:
né vi par debba il tempo consumarsi
in lodar quella ond'io me stesso lodo.
Ogni impossibil cosa prima fia,
ch'i' non desidri e cerchi che per lei
tutta si spenda questa vita mia.
Ché s'io potessi far quanto vorrei,
e Laura e Bice il mondo giá vedria
non esser degne d'agguagliar costei.
XXVIII
Un dolce folgorar di duo begli occhi
che fan d'oscura notte chiaro giorno,
un celar e scoprir il viso adorno,
ond'Amor l'arco in van non vuol che scocchi:
l'andar celeste, il far che 'l piede tocchi
la terra a pena, il bel girar intorno
quell'aurea testa, e dar di sé soggiorno,
sí che bellezza e castitá vi fiocchi:
il portamento pien di leggiadria,
que' santi modi fatti in paradiso,
l'alte accoglienze, il parlar dolce e schivo:
mostrar rubini e perle al suon d'un riso
con quanta grazia fu giammai né fia,
son l'ésca al fuoco dov'ardend'i' vivo.
XXIX
Benché la lingua il mio tormento taccia,
che mi conduce a manifesta morte,
non è che 'l duol non sia penace e forte,
ma cosí fa ch'il nodo ognor m'allaccia.
Forza è tacendo ch'i' mi strugga e sfaccia,
e l'aspro mio martír in pace porte,
ché far le genti del mio duol accorte
non scema il mal, e 'l nodo non mi slaccia.
Lagnasi il cor, e con pietosa voce
dentro a' begli occhi di Madonna grida,
ov'ei prigion rimase al primo sguardo.
Ma che mi giovan le dolenti strida,
se piú si stringe il nodo e piú mi coce
la fiamma, ed ogni aiuto si fa tardo?
XXX
Vedi, Madonna, quanto
ti dona il ciel favor, che 'n poco d'ora
doni la vita a chi di vita è fòra.
Colui ch'a te n'invia si trova tale
che senz'il tuo favor unqua non vive,
poich'a' begli occhi tuoi prigion si rese.
Noi morte fummo mentre eramo vive:
or che siam morte, si vedrá palese
che darne vita la tua fronte vale.
Ché quella senz'uguale
ombrando vita avremo, ed egli ancora,
come scherzar ne veggia a la dolce ôra.
XXXI
Hammi ridotto il mio soverchio ardore
che 'n un punto son lieto e malcontento,
tutto di fuoco e come neve al vento,
morto con l'alma e vivo senza cuore.
Dubbia speranza, certo e fier timore,
gioia di pena mista e di tormento
fan che piú volte l'ora i' provo e sento
come mai non morendo ognor si more.
Cosí mi regge Amor, che s'a quest'alma
desse solo martír, o gioia pura,
col peso ne morrei di tanta salma.
Ma mentre l'un con l'altro fa mistura,
morte non può di me portar la palma,
ché se m'impiaga l'un, l'altro mi cura.
XXXII
Omai che piú bramate,
occhi, di que' begli occhi il dolce giro,
s'i' mi sento morir quando lo miro?
Non v'accorgete come l'arso core,
misero piange, sempre
che vi specchiate in que' superbi rai?
Cangiasi l'alma d'una in mille tempre
e di se stessa fòre
va vaneggiando con tormenti e guai,
onde con duri lai
scoprir volendo l'aspro mio martiro,
invece di parlar sempre sospiro.
XXXIII
Timida lepre ed al fuggir leggiera,
ch'a me dinanzi qual saetta vai,
ferma il tuo corso e ti riposa omai,
che qui non c'è chi ti persegua o fera.
Lascia fuggir a me, che come fera
da veltri ognor cacciata teme guai,
e temo e fuggo i folgoranti rai
di tal che vuol ch'al suo bel guardo i' pèra.
Tu pur, in qualche fratta ascosa, spesso
de li sagaci cani il naso falli,
ond'ei ne perdon di seguir la traccia.
Ma me per piagge, per li campi e valli,
sempre persegue Amor, e lunge e appresso
arde col fuoco di begli occhi, e agghiaccia.
XXXIV
Chi chiamerá cotante volte l'ora
il nome di Madonna dolcemente;
qual fia l'augel che gridi chiaramente:
Viva la Mencia in mar e 'n terra ognora?
Di vita il papagallo uscito è fuora,
che Madonna chiamar solea sovente:
ond'ella, sospirando acerbamente,
le sue delizie sconsolata plora.
La colomba di Stella, e di Catullo
il passer, tanto vince il papagallo,
quanto ei di lor si vede esser piú grande.
Hiante e Lesbia a par del viso bello
son della Mencia tai, com'io son nullo
al nome che Catullo e Stella spande.
XXXV
Dal nostro clima, come 'l ciel dispone,
il verno si diparte e perde il regno,
e per li campi giá si mostra il segno
di piú temprata e florida stagione.
Apollo si dilunga dal Montone
sferzando i suoi corsier per far disegno
d'un vago April col Toro, ed ogni legno
spiega di fior e frondi le corone.
Con Zefiro gentil s'accampa Flora,
e rende a nostra madre i tolti onori,
ed agli augelli il lor soave canto.
Escon le fere de le grotte fòra,
scherzan le Ninfe e cantan lor amori:
sol io m'abbrucio e mi consumo in pianto.
XXXVI
Quando l'Aurora coi bei crini d'oro
adorna il ciel di rose e di vïole,
e fòr del Gange i suoi corsier il sole
sferzar comincia al vago lor lavoro,
i' che la notte mi consumo, e ploro
l'aspre mie pene sí penaci e sole,
rinforzo il pianto allor: cosí mi duole
lontano andar dal mio vital ristoro.
I' vado errando, com'Amor mi guida,
ed agli altri m'involo, ond'in luoghi ermi
sovente il mio caval perduto arriva.
Lasso! mai fia che senza pianto o strida
mi trovi il sole, e questi piedi fermi
nanzi a colei che sí lontan m'avviva?
XXXVII
La chiara fama, che volando grida
le vostre rare doti e 'l gran valore,
esser del vero trovo assai minore:
tant'alta è la virtú che 'n voi s'annida.
Lingua mortal, ancorché dotta e fida,
a par del vero non può farvi onore,
Virbia, ché tanto il ciel vi dá favore,
che di bellezza e grazia il mondo sfida.
A che dunque tentar di porre il mare
chiuso in un vaso, e pienamente dire
le sparse arene e i lumi d'ogni sfera?
Chi vostre lodi, Donna, può scoprire,
veracemente ognor potrá contare
quante erbe e quanti fior ha primavera.
XXXVIII
Qual sia 'l mio stato non cercate udire,
Virbia gentil, che tropp'è acerbo e crudo,
e tal, ch'a un petto di pietate ignudo
nascer pietá faria del mio martíre.
Amo chi me non ama, e 'l mio languire
disprezza e quanta pena in petto chiudo;
e 'l fuoco ov'io sí spesso tremo e sudo,
punto non cura, né mi vuol gradire.
Ride ella sempre, e sa lo strazio mio,
ma cosí poco del mio mal le cale,
che finge non veder ciò ch'ella vede.
In questo stato sono, Virbia, e male
posso salvarmi. Ahi! duro caso e rio,
ch'indi ritrar non so, né voglio, il piede.
XXXIX
E questa e quella i piedi snelli or basso
mover or alto in sí veloci giri,
e qual rota mirar ch'ognor s'aggiri,
col suon reggendo la persona e 'l passo,
rallegran spesso un cor dolente e lasso,
cangiando in gioia i mesti suoi sospiri;
ma tutto questo gli aspri miei martíri
rinfresca e fa maggior di passo in passo.
Ché non veggendo quella che mi siede
donna nel cor con quei vaghi sembianti
che sovente mi fan cangiar aspetto,
forza è che questi balli, suoni e canti,
ed il veder sprezzar mia pura fede,
faccian che 'l cor non senta alcun diletto.
XL
L'alte maniere e umíli, e la divina
alma, che 'l crudo viso bello e pio
governa, e que' begli occhi d'onde uscío
l'eterno fuoco e la gelata brina,
sí dolce di me fanno ognor rapina,
che 'n me son morto, e 'n lor vivo son io,
e a lor dinanzi star sempre desío,
sí n'ho la mente fissa, intenta e china.
Veggio la forma angelica e serena,
l'andar celeste e quell'aspetto vago
che del mondo la mostran vera Diva:
e sí gioisco e del mio duol m'appago,
ch'i' rido, s'ella a morte ognor mi mena,
perch'un guardo de' suoi m'ancide e avviva.
XLI
Vorrei, mia Donna, com' i vostri rai
passan per gli occhi miei di dentro al core,
ivi accendendo tant'estremo ardore
ch'impossibil sará che scemi mai:
cosí nel vostro cor piú freddo assai
che ghiaccio alpino e privo dentro e fòre
di que' dolci pensier figli d'Amore,
fesser pietate i miei dolenti guai:
ché bramar di vedervi fuoco in petto
è bramar secco il mar, calda la neve,
e dar le stelle il chiar splendor al sole.
Sol chieggo che da voi si dia ricetto
a tanto di pietá, ch'una sol breve
voce mi dica che di me vi duole.
XLII
Questo colombo e me di par ardore
arde fervente Amor in crudo fuoco;
egli sen va cercando in ogni loco
la sua colomba, e di desir sen more.
Ed io la notte e 'l dí, da tutte l'ore
cerco la Donna mia, e sí m'infuoco
non la trovando, e di chiamarla roco
vengo, che quasi mi si svelle il core.
Ei se l'amata sua ritrova, tanti
baci soavi dálle, e sí s'avviva,
che poi va gonfio di soverchia gioia.
Ma s'io mi trovo a la mia Donna avanti,
tremando e ardendo stommi, ed ella schiva
si volge altrove, e vuol al fin che moia.
XLIII
Di quelle prime mammole vïole,
che fur sí fresche e di soave odore,
ma sí tosto cangiaro il bel colore
al tramontar del lor nativo sole,
questa, che fa di me quant'ella vole,
l'immagin m'appresenta in mezzo al core,
e fuoco accresce al mio fervente ardore,
che sí m'incende e punto non mi duole.
Veggio quell'aria del bel viso santo,
con la tenera etá, con quella grazia
che la dolce memoria ognor rinfresca:
ma non vi scorgo mai da nessun canto
al mio languir pietá, perché mi strazia
ognor piú questa, quanto piú m'invesca.
XLIV
Torcete pur il viso, e gli occhi ancora
volgete altrove acciò non miri mai
ver me girarsi que' soavi rai,
sí che di doglia lagrimando i' mora.
Fuggite com'il vento irata ognora,
e piú crudel ch'un'aspra tigre assai,
prendete a gioia i miei tormenti e guai,
e sia di vostra grazia in tutto fòra.
Se 'n mezzo 'l cor l'immagin vostra porto,
che giorno e notte sempre adoro e veggio,
perché dinanzi a me, Donna, fuggire?
Ma se morir in tanta pena deggio,
almen ritrovi in voi questo conforto,
che mi veggiate innanzi a voi morire.
XLV
Credete voi che quelle donne, quelle
che fur tanto famose e sí pregiate,
si sian con forza d'oro al ciel levate,
e da lor stesse fatte chiare e belle?
Aver bel viso con due vive stelle,
e dalle Grazie starsi accompagnate,
nulla giovava, se non fosser state
le lingue che cantar le lodi d'elle.
Cosí Corinna e Cinzia furon chiare,
e tutto 'l dí si cantan Laura e Bice
con l'altre che le Muse han poste in cielo.
E chi 'l contrario, Donna, scrive o dice,
si sforza il ner per bianco dimostrare,
far freddo 'l fuoco, sempr'ardente il gelo.
XLVI
Non è martír ugual al mio martíre,
che d'estremo dolor mi spolpa e accora,
e sí m'avviva ancor e mi colora
che non v'è gioia a par del mio languire.
Ma non lo voglio al mondo discoprire,
perché di lui non venga l'ultim'ora,
poiché capace alcun mortal non fôra
senza morir lo stato mio sentire.
Ché quella ond'io men moro e vivo, è tale
di bellezza, costumi e leggiadria,
che donna a lei non vede il sol eguale.
Onde ciascun beato mi diria,
lodando la cagion del mio gran male,
ma percosso d'invidia ne morria.
XLVII
Quella, cui par non è, non fu, né fia,
di bei costumi specchio e di beltate,
onor e pompa de la nostra etate,
di grazia albergo e rara leggiadria,
da maligna e cocente febbre ria
arsa languiva, e quelle sue rosate
labbra movea con tanta maestate
che 'n ciel non s'ode simile armonia.
Udilla e vide Amor, e a lei s'assise
a canto e disse: Venere, che vuoi?
Ecco mie voglie per servirti pronte.
Com'ella ciò sentí, di lui si rise,
la benda gli pigliò, e quella poi
s'avvinse intorno a l'alma e altiera fronte.
XLVIII
S'un guardo sol di que' begli occhi vaghi,
possenti ad abbruciar Nettuno in mare,
m'arse, e le fiamme son sí dolci e care
ch'altro non vuo' se non che 'l cor s'impiaghi:
Amor, perché quest'occhi non appaghi
de l'alma vista delle luci chiare?
Perché non fai ch'i' possa ognor mirare
que' rai, che son cosí celesti e maghi?
Ché s'io potessi innanzi a lor fruire
quel caldo lume che sfavilla ognora,
qual fôra gioia a par del mio tormento?
I' canterei sí dolcemente allora
le lodi di Madonna e 'l mio martíre,
ch'ella felice, ed io sarei contento.
XLIX
Era turbato il ciel, e tutto pieno
di folte nubi e torbide procelle,
con tuoni e lampi ed orride facelle,
che quasi il giorno ne veniva meno.
Scoteva l'aria il turbulento seno
l'acque versando tempestose e felle,
quando Madonna le sue vaghe stelle
soave aperse al lume d'un baleno.
Sparver le nubi a l'apparir del sole
di que' begli occhi, e l'aria queta e pura
rasserenossi tutta, attorno attorno.
Cosí la Mencia, come sempre suole,
agli elementi fa cangiar natura:
né mai si vide cosí chiaro giorno.
L
Tant'è paragonar a la mia diva,
senza par bella, onor di quest'etate,
qual sia nel mondo o fosse mai beltate
maggior veduta, o che poeta scriva,
quant'è paragonar a l'alma e viva
luce che spande il sol la chiaritate
de l'argentea luna, o le dorate
stelle ch'ei scalda e col suo lume avviva.
Beltá sí bella mai non fu piú vista,
né si vedrá, cred'io, ch'ognor maggiore
s'accresce, e nuova grazia sempre acquista.
Oh me beato, se quel chiar splendore
lieto si volge a me di quella vista,
cui senz'Amor non fôra in terra Amore!
LI
Madonna, i bei vostr'occhi chi rimira,
con quella fronte spazïosa e pura
e quelle guancie fatte di mistura
d'ostro e di neve, il paradiso mira.
Chi poi le labbra coralline ammira,
e quelle schiette perle ove natura
pose ogni studio ed ogni mastra cura,
di soverchia dolcezza ognor sospira.
E chi l'alabastrina e bianca gola
col petto, albergo d'onestate vede,
gode quanto di bel quaggiú si move.
Vede beltá senz'arte e fuco, sola,
come la fece Iddio per farci fede
ch'ogni in voi grazia largamente piove.
LII
Spesso mi volgo, e intentamente miro
l'alte, felici e fortunate mura,
fatte a colei che adoro sepoltura,
ond'io dolente lagrimo e sospiro.
E qual si vide mai maggior martiro,
che 'l piú bel d'ogni bel de la natura
veder celarmi? Lasso! chi mi fura
di quel bel viso l'aria ond'io respiro?
Mora la crudeltá, mora l'asprezza
di ch'è cagion che non si veggia il sole
di quelle stelle, vita di mia vita.
I' sento che morrò se, come suole,
l'incredibil, soave, alma dolcezza
di que' begli occhi non mi porge aíta.
LIII
Vide madonna Amor altiera gire
rubando a' corpi l'alme, e tal favore
da' begli occhi spirar con tal ardore,
che tutto 'l mondo la vedea seguire.
Ond'allor disse: Se costei ferire
potrò giammai, sí che le scalde il core
che tutt'è ghiaccio e privo d'ogni amore,
a somma gloria mi vedrò salire.
Questo dicendo una saetta in mano
pigliò, ver lei mirando intento molto,
per ferirla nel lato suo sinestro.
Ma vinto dal splendor del vago volto
sí s'abbagliò che 'l colpo scese invano,
e sol toccolle alquanto l'occhio destro.
LIV
Non è mortal l'angelica bellezza
che qui m'apparve, quand'Amor mi prese,
e l'ossa e le midolle sí m'accese
ch'altra beltá da me piú non s'apprezza.
I' vidi allor in lei tanta vaghezza
che tanta occhio mortal mai non comprese,
ch'ivi le Grazie d'ogni grazia accese
rendon del bel del ciel certa contezza.
M'entrar negli occhi sí que' suoi begli occhi,
e le parole in cor con gli atti santi,
ch'ogn'altra fiamma al mondo è fredda e vana.
Or se vi par che 'l bel color ammanti
febbre maligna, e l'arco piú non scocchi,
piaga per allentar d'arco non sana.
LV
Dal terso or biondo che polisce Amore,
dal ciel di perla sovra gli archi teso,
cui sotto duo zaffir sí m'hanno acceso
che 'n cener s'è converso l'arso core:
da schietto avorio, che spiegando fòre
fin'ostro è qui fra noi dal ciel disceso,
da un fil di perle orïentali steso
sotto coralli di natio colore:
dal petto, ch'alabastro vivo mostra
con que' duo pomi colti in paradiso,
u' vera castitate alberga ognora:
da quella Donna, ahimè, son qui diviso,
ch'è gloria e pompa de l'etate nostra,
e spiro, e parlo, e non son morto ancora?
LVI
I' non credea giammai da voi lontano,
dolce mia pena, quell'ardor soffrire
ch'i bei vostr'occhi mi facean sentire
quand'era innanzi al lume altiero e piano.
Ma trovo il creder mio fallace e vano;
cosí fin qui mi suol ognor seguire
ch'un passo mai lasciato non m'ha gire,
ch'egli non m'arda e strugga a mano a mano.
Che dunque giova andar di luoco in luoco
e ritrovarmi ognor da voi piú lunge,
s'arder mai sempre debbo in tanto fuoco?
Ah! pèra quell'asprezza che mi sgiunge
da voi, Madonna, o prove almeno un poco
com'Amor sferza il cor e l'arde e punge.
LVII
A piè d'un verde alloro sulla riva
d'un chiar ruscel cantava Delio allora
che 'l sol s'alzava dal bel Gange fòra,
e l'aria si temprava a l'aura estiva:
sará la lepre timidetta e schiva,
e l'agnel puro, col vitello ancora,
scaltra la volpe, e 'l toro ardito ognora,
e di pietate la leonza priva.
Sará rapace il lupo, e l'orso fiero,
il capro snello, e ognor veloce il cervo,
ché cosí dato è lor da la natura.
Ed io mai sempre, vivo e morto, servo
de la Mencia sarò, n'altro piú chiero:
sí co' begli occhi suoi il cor mi fura!
LVIII
Questi bei fior e pallide vïole
prendi tu, Delio, e piglia, Mencia cara,
di cui le voglie l'aspra morte amara
sol dividrá, che 'l tutto partir suole.
I colti fior a l'apparir del sole,
allor che l'aria si fa calda e chiara,
Delio, mettrai nel sen de l'alma e rara
tua bella Mencia, che sí t'ama e cole.
E tu poi, Mencia, le vïole poni
in petto a Delio, che te sola onora,
e Mencia, Mencia sempre cerca e chiama.
Cosí si veggia piú fervente ognora
il vostro fuoco, e 'l ciel ancor vi doni
che di voi viva eterna e chiara fama.
LIX
Se quanto è 'l gran desir ch'a dir mi sprona,
gentil mia Donna, e sforzami lodarvi,
tanto fosse il poter, vedreste farvi
riverenza Aganippe ed Elicona.
Che, se la lingua mia di voi ragiona,
vinta da l'immortale
vostra bellezza, quale
alberghi in voi valor, com'è non suona,
né giunger può di vostre lodi al segno,
ond'io di piú cantar quasi mi sdegno.
Sdegnasi il cor, che vede il certo danno
che per questo ne segue a vostr'altezza,
ché, non sapendo dir tanta bellezza,
senz'il lor pregio l'alme doti stanno.
E le virtú ch'al mondo fatta v'hanno
perfetta senza pare,
e tante grazie rare
quand'a pien mai lodate si vedranno?
Ma chi sará d'ingegno sí sottile,
se debil fôra l'uno e l'altro stile?
I' ben le veggio, le contemplo e miro,
(vostra mercé), che tolto avete a farme
gentil, acciò dal volgo allontanarme
tanto piú possa quanto in voi mi miro.
Veggio in voi cose, e tanto me n'ammiro,
che non so poi di fòre
mostrar il lor valore,
e de' begli occhi quel soave giro:
e quest'è che m'ancide fier martíre,
che quanto bella sete non so dire.
E pur mi sforzo con parole e cenni,
come m'inspira Amor, scoprir al mondo
quanto nel petto dolcemente ascondo
da ch'io fedele, ligio vi divenni:
e so che, poi ch'a ragionar i' venni
di voi, quel poco ch'io
ne scopro col dir mio
par che rallegri il mondo, e Amor impenni.
Or che saria, se si potesse aperto
cantar di vostre lodi il vero merto?
Direbbe allor ogni uomo: ecco chi sola
a' nostri giorni donna è pur perfetta,
ecco chi saggiamente i cori alletta,
e di proprie virtuti altiera vola.
Questa gli spirti a' corpi rende e invola,
e sparge tanta gioia,
che non può scorno o noia
durar dinanzi al suon di sua parola.
Cosí di vera gloria su la cima
vi vedereste, e tra le prime prima.
Ond'io n'andrei per questo altiero tanto
quant'altro amante mai fosse beato,
ché dir i' sentirei in ogni lato:
Questi sen vola a la sua donna a canto;
a questi è dato dimostrar col canto
cose celesti e nove
non mai vedute altrove,
ché pose il Re del ciel nel viso santo,
bella Donna, ver' dir, felici Amori,
caste faville, onesti e santi ardori.
E queste lodi, ch'udirei spiegarse
per mille dotte bocche in ogni luoco,
dolc'ésca al vivo e sempiterno fuoco
sarian che dolce sí nel ghiaccio m'arse.
Cosí vedreste, o bella Donna, farse
l'un nome e l'altro eterno,
e volar in eterno
poi con le vostre le mie lodi sparse;
ma disuguali ognor le mie da quelle,
come del sol men chiare son le stelle.
LX
Mopso sen va superbo perché Nisa
d'un bel drappo di lin gli fa favore:
Neera al caro Aminta manda un fiore,
ed uno anel a Glico dona Lisa.
A Meri Galatea con dolci risa
un cinto cinge, e Cice cava fòre
dal bianco seno un nastro e dice: Amore
meco lega Dameta d'una guisa.
La Mencia a que' pastor che vede dona
rose, amaranti, gigli e croco, e mai
di me non le sovvien, che 'n fuoco coce.
Scherza con tutti e a me sol dona guai,
da me sen fugge, e 'n tutto m'abbandona:
diceva Delio con dolente voce.
LXI
Donna, che sète il sol degli occhi miei
e vita date a la mia vita sempre
con sí diverse tempre,
che senza vostra aita i' ne morrei;
ecco che fòr del corso di natura,
or che si vede chiaro
la neve e 'l ghiaccio a paro
coprir le piagge e i colli d'ognintorno,
ch'odorate le viole oltre misura
il vostro lume chiaro
(effetto altiero e raro)
fa germogliar, e 'l sol è in Capricorno.
Felice, avventuroso e sacro giorno
u' col favor de' vostri caldi rai,
come nei mesi gai,
col ghiaccio le vïole a par vedei.
LXII
Se con mie basse e mal limate carte,
Donna gentil, vostre vurtú celebro,
il dir mio rozzo non prendete a sdegno:
ché quanti ornar la chioma sovra il Tebro
di lauro o d'edra, di mille una parte
dir non potrian, non ch'arrivar al segno.
E s'io sí fral a tant'impresa vegno,
fo per mostrarvi l'alto voler mio,
ché 'n le gran cose basta il buon desio.
LXIII
In ciel di perla duo bei soli ardenti,
che fanno ognor invidia a l'altro sole,
i' vidi fiammeggiar, e udii parole
con non uditi mai soavi accenti.
E vidi altiera donna a passi lenti
mostrarsi, com'in Pafo Vener suole,
con bellezze divine al mondo e sole,
da far di fuoco le piú fredde menti.
E vidi que' begli atti onesti e vaghi,
possenti a tor di mano a Giove l'arme,
quando gli strali avventa colmo d'ira.
Ond'io sentii di fiamma tutto farme
sí che non vuo' che 'l cor d'altro s'appaghi,
perch'è beato chi per lor sospira.
LXIV
Quanto di te, superbo e crudo Amore,
piú la mia Donna possa, da vostr'opre
si vede chiar. Che tu gli strali adopre
forz'è, se vuoi del mondo esser signore:
ma senza lei che fai? s'in tuo favore
que' suoi begli occhi vaga non discopre,
eterno ghiaccio le tue fiamme copre,
né sei potente pur scaldar un core.
Ch'ella per sé con gli occhi, ed atti gravi,
con le maniere belle e parlar dolce
tutt'i mortali infiamma, prende e lega.
E l'alme vinte sí leggiadra molce,
e fa parer le pene sí soavi,
che teco il mondo a riverirla piega.
LXV
Come dinanzi al lupo suol fuggire
il semplicetto agnel pien di paura,
come la lepre si dilegua e fura,
quando si vede da li can seguire;
come dinanzi a l'aquila sparire
a li colombi insegna la natura,
come l'anitra vola, né sicura
tiensi mentre il falcon la vuol rapire:
cosí dinanzi a me presta e leggera
la Mencia vola, ed ogni studio aodpra
perch'io que' suoi begli occhi non rimiri.
Ma che poss'io, se dato m'è di sopra
che lei seguendo mi distrugga e pèra?
Delio dicea con lagrime e sospiri.
LXVI
Donna, chi voi con occhio sano mira,
e le vostre bellezze a parte a parte
contempla intentamente in ogni parte,
vede beltá suprema, sola e mira.
Quindi la fronte a dir di voi lo tira,
lo lega il biondo crin negletto ad arte,
l'accendon que' begli occhi, ove comparte
suoi strali Amor, e tutto 'l mondo ammira.
E le vaghezze del bel viso sempre
l'infiamman, col leggiadro e vago petto
ch'albergo d'onestate il mondo appella.
Come può dunque mai mancar soggetto
a chi volge a cantarvi le sue tempre,
s'ogni in voi parte è cosí rara e bella?
LXVII
Chi dice che duo soli gli occhi vostri
avanzan col divin splendore, e poi
ch'ogni bellezza ed ogni grazia in voi
stan come perla che s'indori e inostri,
e che non fu, né v'è ne' tempi nostri,
né mai sará mill'anni ancor e poi,
sí vago e sí bel petto, u' tutti i suoi
favori vuol Amor che 'l ciel ci mostri.
V'è chi 'l bel viso senza par estolle,
chi 'l saggio ragionar e dolce loda,
e que' bei modi leva sin al cielo.
D'ogni bel, d'ogni buon ciascun la loda
Dice: Costei a tutte l'altre tolle,
se non ch'ha il cor di marmo, e pien di gelo.
LXVIII
I' vo mirando quello e questo viso
di tante belle donne, se si vede
di voi sembianza, che qui fate fede
di tutto 'l bel che s'ha nel paradiso.
E quanto piú vi guardo intento e fiso,
so che s'inganna chi trovar qui crede
a par di voi beltá cui tutto cede,
quant'è di bello in qual si voglia assiso.
Dunque voi sola il bel del bel del cielo,
e d'ogni buono il buon perfetto e vero,
unitamente, oh rara grazia! Avete.
Oh me beato, poi che 'l mio pensiero
a voi si volge, e sotto 'l mortal velo
scerno che sola al mondo bella sète!
LXIX
I' benedico, Amor, e lodo ognora
il caro laccio, e l'alma fiamma ardente,
con che m'allacci ed ardi dolcemente
e fai ch' i' viva in altri ed in me mora.
M'annoda il biondo e crespo crin, ch'a l'ôra
soave scherza, e abbrucia ardentemente
di que' begli occhi il lume chiar, cocente,
che per mio sol il mondo ammira e onora.
Cosí lodando le catene e 'l fuoco,
mi pasco di pensar a la beltate,
onde la corda ed il fucile prendi.
E cosí godo privo di pietate,
ch'ogni tuo strazio, Amor, mi par un giuoco,
mercé di lei, per cui mi leghi e incendi.
LXX
I' che fui solo 'l tutto, cui tra tanti
Roma trionfo fu, Roma matrigna
al padre della patria aspra e maligna,
che 'l riso mi cangiò in doglia e pianti,
Cesar qui sono, cui da quattro canti
del mondo, il mondo, che dal ben traligna,
tremante s'inchinò: con sí benigna
man fur da me li miei nemici affranti.
A me piú nocque assai la mia pietate,
che ne' campi il nemico armato e atroce:
ciò che forza non puote, inganno face.
Gli empii e ferali spirti dispogliate,
crudi omicidi: a Cesar non si noce,
ma Roma seco cade, e 'n terra giace.
LXXI
Cavalco il dorso de l'ombroso e altiero,
nubifero Apennin, ch'Italia parte,
e quinci veggio il bel Toscano Impero,
che riga l'Arno, e stagna in qualche parte;
quindi poi scorgo il fertile terreno
di Romagna coi colli e valli sparte.
Ma che mi giova, se di doglia pieno
sospiro il Mencio, e 'l viso bel sereno?
LXXII
Aspere rupi, incolti sassi e aperte
dal terremoto e profondate grotte,
d'orror, di fredda tema e d'atra notte
piene, e caverne inospiti e deserte;
strade mai sempre perigliose ed erte,
d'alte roine attraversate e rotte,
acque schiumanti con furor condotte
per valli ognor di nuvole coperte;
di famelici lupi e crude fiere,
d'orsi, di serpi e di mill'altre belve,
covi, spelonche, buconi, antri e tane,
e voi sí spaventose e oscure selve,
com'è che mi facciate qui vedere
chi m'arde e fa le mie speranze vane?
LXXIII
Se nel partir da voi
senz'alma non restai, qual mai martíre
mi fará, Donna, fòr di vita uscire?
So ben che quanta mai provasse doglia
piú sfortunato amante,
di nulla è par al duol ch'io porto in core.
Ma come fòr di pena in pene tante
quest'alma non si toglia,
dir nol saprei, cosí mi concia Amore.
Onde per men dolore
nanzi a' vostr'occhi bramo di morire,
ch'i' soffro quel che non si può soffrire.
LXXIV
Gli animi vantatori e invitti Ispani,
e quella audace gente,
li fraudolenti e indomiti Affricani,
col ferro e 'l fuoco ardente
aver a Roma soggiogati, e umani
que' fatti in un repente,
è qualche cosa, ma la vera gloria
fu del vittor d'Italia aver vittoria.
LXXV
Qual dio è teco? o qual di dèi fu quello,
qual dio, che ruppe con tua man Toscana?
Chi ti donò che 'n corpo umano e snello
fosse forza sí forte e sovrumana?
Chi fe' de' fati vana
innanzi a te la forza?
Porsenna, ecco chi sforza
solo il tuo campo. Levalo, che fai?
Cocle sol, tutti val quanti tu n'hai.
LXXVI
Quell'indole superba, e 'l sacro seme
ch'anticamente il Re del ciel spargea
in l'alta stirpe del famoso Enea,
lasso! ch'eterna notte adugge e preme.
Allor unito si vedeva insieme
valor, ingegno, e quanto porge Astrea,
ed eroi Roma al mondo producea
degni di fama eterna e lode estreme:
era di tutti allor un sol desire
con pensier maschi cose far divine,
e dopo morte in terra lasciar fama.
Or ad altro non par che piú s'inchine
Roma giá Roma, che l'ozio seguire,
e gir u' l'appetito ognor la chiama.
LXXVII
Qui dove Roma il sacro Tebro parte
mi trovo, Donna, e piango amaramente
l'esser da voi sí lungo tempo assente;
né so se viva, o mora in questa parte.
Di me qui la mortal ho meco parte,
a voi l'eterna sempre sta presente,
vi s'inchina, v'onora, ammira e sente
l'ardor ch'io soffro, che da voi si parte.
Ben stran mi par ch'io duri tant'in vita,
quand' i' penso la terra, l'aria, e 'l mare,
che vuol il ciel da voi che mi divida.
Chi dunque sí lontan mi porge aíta,
chi vivo in tante morti mi fa stare?
voi, Donna, voi che qui mi siete guida.
LXXVIII
Rupi arenose, grotte alpestri e oscure,
annose quercie, cerri duri e vivi,
ove convien che lagrimando arrivi,
fur mai querele a par de le mie dure?
Acque correnti, cristalline e pure
che spargon questi fonti in mille rivi,
selvaggi augelli, crudi, fieri e schivi,
chi fia da morte omai che m'assicure?
Erbetta, al lagrimar ch'io faccio, molle
e piú de l'altra verde, quando fia
che cesse il duol ch'ogni piacer mi tolle?
Febo, ch'allumi il mondo, e questa mia
vita contempli ond'io sono fatto folle,
quando vedrai che senza doglia i' sia?
LXXIX
Se' tu quella cittá, se' tu quel loco
che piú di Roma nocque ad Anniballe?
Se' tu la piaggia dov' il fier le spalle
sottomise ad Amor e venne fioco?
A me che pensi far s'io vivo in fuoco
ch'avviva l'alma e tanta gioia dálle,
che da me scevra gode in quella valle
ove sul Mencio sta madonna in giuoco?
Lasso! donne gentili, a che tendete
vostri lacci, se meco non ho core,
né vita è ciò che viver mi vedete?
Ombra son io: però per quest'errore
si spieghi al vento e questa e quella rete,
ché qui non può, né sa legarmi Amore.
LXXX
Del valor vostro ed alta cortesia,
magnanima, gentil, Real Signora,
ciò che la Fama va gridando ognora
con mille lingue, e fa che noto sia,
mirabil è; ma certo quel che pria
n'udii, a par di quel che si vede ora
è nulla o poco, e veramente fôra
qual chi le stelle al sol oppor desia.
Non soddisfate sol a ciò ch'aspetta
ogni disir uman da vostra mano,
ma prevenite quest'e quel desio.
O mente saggia, o spirto sovrumano,
o Donna rara al mondo, alma, perfetta,
che quanto piú si può rassembri a Dio.
LXXXI
Canti chi vuol di voi, che nata sète
d'antichi regi chiari e glorïosi;
altri che di natura i sensi ascosi
filosofando, come son, vedete.
Altri che di Corvino foste moglie,
e que' regni reggeste con tai modi
che mai tenzone non vi fu, né lite.
Altri la vostra castitate lodi,
i pensier saggi e le modeste voglie,
e tante grazie in voi dal ciel unite.
Son vostre doti rare ed infinite,
son qual arena al mar, al maggio i fiori.
Ma chi sará che spieghi i grandi onori
che d'esser sí cortese al mondo avete?
LXXXII
È questo il glorïoso, sacro e altiero
venerando sepolcro di Marone,
gloria di Cirra e pompa d'Elicone,
che tra poeti fu il poeta vero?
Ebb'egli sulle Muse quell'impero
ch'al poetar eccelso ogn'uom dispone,
e tal che mai non ebbe paragone:
sí fu sublime, dotto, dolce e intero.
O fortunato sovr'ogni altro, monte
che giá sentisti la divina tromba
cantante Enea con suon sonoro e sacro.
E tu fra l'altre piú lodata tomba,
l'alte cui lodi son famose e conte,
quest'edra e quest'alloro i' ti consacro.
LXXXIII
In questo seno di Pozzuolo e Cume,
e dove Baie fur cosí nomate,
quant'alme, quante stanze giá son state,
ch'ebber di fama glorïoso lume!
Il tempo fa che 'l tutto si consume,
le vite e ancor le cose inanimate;
resta la fama, e bene spesse fiate
chi non l'aíta ha di morir costume.
Che val teatri far, alzar colossi,
forar i monti e porre al mar il freno,
e soggiogar paesi e spander l'oro?
In breve tempo il tutto verrá meno,
se li purgati ingegni non son mossi
a dargli vita con gli scritti loro.
LXXXIV
Il gran terror di Roma Mitridate
a bada tenni, e fu da me cacciato:
con prestezza Tigrane ho superato,
e tante lor provincie soggiogate.
A' Parti le saette avrei spezzate,
se chi dovea m'avesse seguitato;
e 'l mar Ircano, e 'l fin dell'Asia dato
termine a Roma, no 'l fecondo Eufrate.
Per un de' miei, migliaia eran nemici,
ma 'l mio valor valeva tutti quei,
che sen fuggiro e che restar mendici.
Or tu, Pompeo, se detto vittor sei
di tanti Re, non sai le lor radici
esser tagliate pria dai ferri miei.
LXXXV
I' mi credea partendo da Sebeto
la grandezza fuggir del vostro core,
ma l'animo real a tutte l'ore
qual è si mostra pubblico e segreto.
Ch' u' Bacco regna cosí dolce e lieto,
e giá Vesevo empí d'orrend'ardore,
u' Silaro a Salerno presta umore,
e con Pomona e Flora stassi queto,
la liberal, cortese ed infinita
vostra grandezza mai non m'abbandona,
ma piú si mostra ognor profusa e larga.
Quando sará che un giorno in Elicona
Febo mi meni, e doni tant'aíta
che vostre lodi i' canti e al mondo sparga?
LXXXVI
Quando sará che gli occhi Amor appaghi
della fatal, divina lor viva ésca,
quando che i passi fermi, che coi maghi
atti leggiadri la tua face adesca?
Felice Endimïon, ch'i lumi vaghi
tanto godesti in l'amorosa tresca,
e tu, Leandro, che i marini laghi
lieto solcasti a l'aura dolce e fresca!
I' per me privo de l'amata vista
ch'alluma e scalda il mondo freddo e cieco,
erro piangendo travagliato e lasso.
Dunque se grazia mai da te s'impetra,
Amor, perché non fai ch'un giorno seco
mi trovi ed indi mai non mova il passo?
LXXXVII
Alma Reina, cui di questa vita,
qual ella resti, debitor mi trovo,
venirti a riverir credea; ma novo
morbo mi fere, e non mi giova aíta.
In me l'un mal un altro innova e invita
con accidenti tai, che spesso i' provo
la morte istessa e punto non mi movo,
qual si fosse da me l'alma partita.
A darmi aiuto non si trova via,
onde, al fin giunto, a ritrovar men volo
il sacro mio maestro ai regni suoi.
Piú de la morte dolmi questo solo:
che mosdtrarti non posso quant'i sia
grato di tanti beneficii tuoi
LXXXVIII
Non era assai, Regina, quant'hai fatto
in tanti e varii modi a dimostrarme
che troppo se' cortese, senz'or farme
sí real, generoso e nobil fatto?
Se ricca perla Cleopatra ha sfatto,
per un amante fu: ma tu, per darme
contra 'l velen aíta, fai donarme
ricco smeraldo in polve a ber disfatto.
Quella, d'amor lascivo ardendo, a tale
la perla dié che fu di lei signore,
con speme di tener l'antico regno.
Tu, mossa sol da generoso core,
a me che nulla vaglio, infermo e frale,
di grandezza real doni tal pegno.
LXXXIX
Anima afflitta, che cosí sovente,
come ti sforza il forte mio desire,
ov'è Madonna gire
hai per usanza e seco star in gioia:
se senza te mi trovo in un repente,
e resto morto, come posso dire
ch'io soffra allor martíre,
e che vivendo ognor, ahi lasso! i' moia?
Qual dunque, oh strano caso! duol m'annoia
se teco i sensi miei ne porti ancora?
Allor dove dimora
con tant'affanni il fido mio pensiero,
che cosí morto fa ch'io vivo e spero?
Che dico! o dove sono! Allor, o l'alma,
che queste membra lasci, e al vago viso
vai, che da me diviso
m'ha con que' vivi di begli occhi rai,
un certo non so che nel cor s'inalma
sí che mi fa veder il dolce viso,
che mostra il paradiso
di quanto bel si vide in terra mai;
che fra rubini e perle allor ten stai,
ove chi mira mai non langue o more,
ed in sí caro errore
m'abbagli in mille dolci e amare tempre.
Oh me beato, se durasser sempre!
Lasso! che poi né dir so come i' veggio,
che vaneggiando vo la notte e 'l giorno,
ond'a me stesso torno
qual che sognando nel piú bel si desta.
E come di sí dolce error m'avveggio,
in cosí fatta guisa al cor ritorno
ch'aver mi par attorno
folgori e tuoni e lampi con tempesta.
E tu stordita, dolorosa e mesta
lasci Madonna, e qui tornando trovi
che nulla piú mi giovi,
perché, stando lontano da colei,
meglio è morir che viver senza lei.
Anima errante, s'a Madonna torni,
con lei ti ferma, e non tornar piú meco.
Ché mentre tu se' seco
s'ogni dolcezza vaneggiando avemo,
resta lá sempre, o venga il giorno estremo.
[LXXXIX bis]
Dunque i' son vivo ancora,
lontan dal vago viso
che m'ha lasciand'anciso?
I' non son vivo, Amore,
da che qui sol restai;
ch'allor l'afflitto core
s'ascose in que' duo rai
del sol piú vaghi assai,
ove, da me diviso,
lá gode il paradiso.
XC
Perché non trovo, ahimè, quella Cumea
Sibilla sacra in queste sue caverne,
ove l'uom chiaramente ancor discerne
qual strada fesse a lei venendo Enea?
Ché s'ella a' dimandanti rispondea
de le cose del ciel, di terra e inferne,
i' sol le chiederei s'ella mai scerne
che di me si ricorda la mia dèa.
Ché 'n questa lontananza che da lei
mi trovo, ahi lasso! s'una volta sola
di me l'è sovvenuto, oh me beato!
So ben che l'alma ognor a lei sen vola,
e tutti le dispiega i martír miei,
e qual men viva in sí doglioso stato.
XCI
Qual a te non veder del Savio l'acque,
o in ripa a quel non star a capo chino,
doglia s'accresce, caro Pasolino,
da ch'ei cotanto a la tua vista piacque:
tal, anzi assai maggior, in cor mi nacque,
quando rimasi a mezzo del cammino,
poiché divisi a l'ombra del gran Pino
il caval, non so come, in terra giacque:
ché tra gl'irsuti e noderosi pini,
che 'n foce al Savio crescer fa natura,
rimasi com'il mondo senza sole.
Cosí, per la foresta orrenda e scura,
a le mie voci i monti piú vicini
davan con Eco l'ultime parole.
XCII
Or son pur giunto al fin del mio vïaggio,
che tanto tempo m'ha tenuto lunge
dal vago lume il cui splendor aggiunge
anzi del sol sormonta il chiaro raggio.
Caldo, vivace, altier senza paraggio
lume, ond' Amor mai sempre il cor mi punge,
poiché sí poco spazio mi disgiunge
da te, ragion di sospirar non haggio.
Ché del chiar Mencio solco le bell'acque,
e giá propinquo sono al sacro loco
ove la figlia di Tiresia giacque.
E sento de' begli occhi il vivo fuoco,
per cui d'arder al mondo sol mi piacque,
e piú m'allegro quanto piú m'infuoco.
XCIII
Pure fontane, e voi fioriti campi,
amene piagge, ombrose rive e quete,
riposti luoghi ch'oggi qui vedete
de' begli occhi soavi i chiari lampi;
erbetta molle, che 'l vestigio stampi
del schietto piede a l'ombre piú secrete,
quercia, olmo, faggio, cerro, pino, abete
ove zeffiro par ch'ognor s'accampi;
felice villa ov'il mio sol alberga,
anzi la luce pur di tutto 'l mondo
cui tante carte la mia mano verga:
quando sará che 'l viso almo e giocondo
le mie ferite di sua grazia asperga,
e tempri il mio dolor aspro e profondo?
XCIV
Dolce cantar d'Amore
il terzo dí d'aprile,
udii la bella e altiera Donna mia.
Ma qual potrá di fòre
mostrar ingegno o stile
l'angelico concento e l'armonia?
Ché tra mortali, o sia
lá su nel paradiso,
un cantar piú soave
o simil giá non s'have,
ch'ogni aspro pianto può cangiar in riso
e tirar l'alma dove
tanta il ciel grazia piove.
Al suon de le parole
che sí soave usciva
da le rosate labbra dolcemente,
scoprir si vide il sole
con l'alta luce viva,
lume del mondo e vita d'ogni gente.
Ch'allor allor repente
cessò la pioggia e 'l vento,
e senza nubi o velo
sereno apparse il cielo,
alla dolce armonia fermato e intento.
Ahi! che soave voce
che m'arde e non mi noce.
E gli augelletti gai,
che 'n questi giorni lieti
van disfogando il duol acerbo e amaro,
i lor pietosi lai
su per li rami queti,
da bel concento vinti, intralasciaro.
Ché lor ben parve raro
quel canto, anzi divino,
veggendo l'erbe, e i fiori
novi vestir colori,
e farsi allor piú vago il bel giardino
dove cantava quella
dolce d'Amor rubella.
Ella cantava allora
con tanta maestate
che mortal lingua nol potria scoprire.
E, ben che mostri ognora
nova divinitate
che tutto 'l mondo fa di sé gioire,
faceva allor uscire
tante dolcezze e tali,
e non so che da quelli
coralli schietti e belli,
vago uscio a vere perle orientali,
ch'ogni uom di lei dicea:
Donna non è, ma dèa.
Indi la bianca mano,
del canto guida e norma,
movea sovente con sí bella grazia
che fòr del mondo umano,
sol a mirarne l'orma,
è nostra voglia ognor contenta e sazia.
Ché quel che mai non sazia,
nei suoi begli occhi stassi
Amor vero e celeste,
con tai maniere oneste
che, quanto m'arde piú, piú saldo fassi.
E tal mi porge gioia,
che piú non temo noia.
E se talor attorno
i suoi begli occhi ardenti
lieta girava con onesto modo,
Amor, a lei d'intorno
scherzando, le cocenti
facelle ardeva ond'io m'abbrucio e godo.
E 'l mio destino lodo,
e l'ora e 'l dí ringrazio
ch'udir mi fece il canto,
tanto soave e tanto
che di sentirlo non sarei mai sazio.
Ma di lodarlo a pieno
verrebbe ogni uomo meno.
Dunque il rozzo dir mio
frenando, a voi mi volgo,
Donna, che sète il cor de la mia vita.
E come ogni desio
da' bei vostr'occhi colgo,
n'altronde vuo' soccorso ovver aíta:
quando vedrò gradita
quanto conviensi, ahi lasso!
mia servitú sincera,
e quella fede vera
che senza lei non lascia girmi un passo?
Quando sarò mai certo
aver, Madonna, il merto?
Canzon, come Madonna vedi, dille
d'esser prezzata: sono
perché di voi ragiono.
XCV
Quel rossignuol che giorno e notte ognora
nel bel giardin cantando in dolci lai
forse si sfoga, o saluta i dí gai
che Primavera adduce e pigne Flora,
rammentar fammi e m'appresenta l'ora
quand' i begli occhi vostri rimirai,
Donna gentil, e dentro a quei lasciai,
misero, l'alma, che v'alberga ancora.
Da indi in qua tornato al Toro è il sole
cinque fïate, e finch'io resti in vita
mi vedrá sempre nei vostr'occhi preso.
Ma duolmi sol che 'l vento le parole
ne porte, ahi lasso! né ritrovi aíta,
ch'allenti il fuoco ov'io son tanto acceso.
XCVI
Se l'infinita vostra alma beltade
ov'ogni grazia, ogni valor si miete,
fa ch'Amor preso e disarmato avete
con quelle de' begli occhi ardenti spade:
or ch'egli a voi dinanzi vinto cade,
e l'arco e le facelle sue tenete,
voi la beltá, l'amor, la gloria sète,
per cui superba splende nostr'etade.
E de' begli occhi vostri i dolci rai
mostrano aperto quanta mai dolcezza
donasse il ciel a donna qui fra noi.
Ch'onestá tanta, né sí gran bellezza
occhio mortal non vide in terra mai,
e men vedralla chi verrá dappoi.
XCVII
Se 'l gran Poeta che cantò d'Ulisse
e del tanto lodato Achille ancora,
di voi cantasse, la sua fama fôra
per voi piú chiara che per quei che scrisse.
Se quel che seco a par cantando disse
le fatiche d'Enea, vivesse ancora,
l'alto suo stil in voi spendendo ognora,
visso esser non vorrebbe quando visse.
Ché de le grazie e raro valor vostro
è tal il prezzo, e sí famoso stuolo,
che tal non ha latino o greco inchiostro.
E chi di voi ragiona, vosco a volo
si leva ornato non di gemme o d'ostro,
ma di chiar nome a l'uno e a l'altro polo.
XCVIII
Di quanto scalda il sol e copre il cielo,
tutta la grazia, e tutto 'l bel che 'n terra
raccolto splende in questa vaga Donna;
cosí quant'acque al mar da monti e valli
rendon tributo, e stagnan per li campi,
sormonta il Mencio, onor degli altri fiumi.
L'Eridano chiamato Re de' fiumi
ora soggiace per destin del cielo
al figlio di Benaco in questi campi,
di cui le limpide onde l'alma terra
in grembo accoglie e sparge per le valli
ove son l'ossa de la maga Donna
che, fuggendo da Tebe, quella donna
dopo i solcati laghi, mari e fiumi,
la stanza elesse in queste acquose valli:
e prima che morisse, alzati al cielo
il viso e gli occhi da la bassa terra,
disse cantando in mezzo a questi campi:
Vedrete dopo lunga etate, o campi,
posarsi qui sí glorïosa Donna,
che simil non sará sovra la terra:
ch'ella col lume de' begli occhi i fiumi
arder fará sovente. Allor il cielo
benigno guarderá le nostre valli;
ché, per veder il Mencio e queste valli,
mille elevati spirti, i proprii campi
lasciati, ne verran cangiando cielo,
e poi, dinanzi alla felice Donna
spargendo d'Elicona i dotti fiumi,
faran le Muse aver il seggio in terra.
E tal ch' allor ritroverassi in terra,
a la fama di queste ondose valli
verrá sprezzando Schirmia e Po soi fiumi,
e, fatto agricoltor di questi campi,
canterá sempre de la bella Donna
che gli destina per sua guida il cielo.
Diede il ciel segno allor che questa terra
con la Donna le Muse in mezzo ai campi
vedrebbe, e seco gir le valli e i fiumi.
XCIX
Se mai si vide Amor tra l'erbe e fiori,
fra bei boschetti e per campagne apriche,
o s'ebbe mai cittadi o ville amiche,
spargendo d'ognintorno i sacri ardori;
se donna mai mertò li primi onori
tra le piú sagge ognor e piú pudiche
di queste nostre, oppur di quelle antiche,
ch'ancor il mondo come santa onori,
oggi il riposto e fortunato nido
del dotto e chiaro Mencio è quel sol loco
ch'alberga Amor ed ogni grazia seco.
E questa ch'arde il ghiaccio e agghiaccia il fuoco
è quella Donna di famoso grido,
del latin degna e del Poeta greco.
C
I' che volea cantar di Marte l'armi,
che nostr'etate rendon glorïosa,
appena con lo stile a l'amorosa
impresa posso uguale dimostrarmi.
Non vuol Amor ch'a dir di Marte i' m'armi,
che puote quanto vuol in ogni cosa.
Marte l'orrenda spada e sanguinosa
lascia, se vuol Amor che si disarmi.
E forse non sarò men noto e chiaro
cantando Amor, che s'io cantassi Marte:
ché l'uno e l'altro chiara fama dona.
Di Pindaro e d'Alceo le molli carte
van con l'armate foglie a paro a paro:
né men di quelle il gran Petrarca suona.
CI
Pasceva Delio le sue gregge allora
vicine al Mencio quando il sol ardea,
e sotto l'ombre quelle conducea,
poi la voce cosí mandava fòra:
Pan, dio d'Arcadia, se Siringa ancora
ti piace ed arde come allor solea
che te fuggendo canna si facea,
e tu piangendo la chiamavi ognora:
di farina e di mèl questa placenta,
e di vin generoso un vaso pieno
accetta, e la mia greggia intera serba.
Cosí sempre ti sia il ciel sereno,
e de la canna il suon da te si senta
allor che con le ninfe scherzi in l'erba.
CII
Se tu snodassi, Amore,
a la mia lingua il nodo,
come m'ingombri il cor di bei pensieri,
l'estremo e fier ardore
che m'arde senza modo
non mi daria martír sí crudi e fieri.
E tu come prima eri
lodato ne saressi,
ché forse si vedria
l'aspra nemica mia
di tant'orgoglio subito spogliarsi,
e piú benigna farsi
dolce ascoltando ciò ch'i' le dicessi:
ond'io andrei a volo
seco poggiando a l'uno e a l'altro polo.
Ma tu mi lasci sempre
al cominciar senz'armi,
né del mio scorno par ch'unqua ti caglia.
E pur con varie tempre
non cessi d'invitarmi
ch'i' canti come m'arde e ancor abbaglia.
Or lascia ch'io mi vaglia
di quanto in cor m'inspiri
e pingi d'ora in ora,
che se dimostro fòra
fosse come colá u' tu l'informe,
giammai piú belle forme
non fur dipinte, né sí bei desiri:
ché ciò che 'n petto i' celo
è cosa d'alegrar la terra e 'l cielo.
E se dinanzi a quella,
a quell' Amor, che sola
m'arde ed agghiaccia non mi lasci dire,
(ché l'una e l'altra stella
cosí 'l poter m'invola
ch'ivi tremando resto senz'ardire)
lasciami almen scoprire
a queste limpid'acque
parte di quel che 'n petto
con sommo mio diletto
di nove ognor dolcezze l'alma ingombra,
e fòr di quella sgombra
ciò che tu sai ch'a lei mai sempre spiacque:
E fa' che in modo i' dica,
che 'n lode torni a l'alta mia nemica.
Tranquillo e altiero fiume,
che da Benaco prendi
queste bell'acque e queste picciol'onde,
prima ch'io mi consume
odi, ti prego, e attendi
l'alte mie voglie a null'altre seconde.
Che ciò che l'alma asconde
pensier sí fatto move
ch'ognor la Donna nostra
leggiadra le dimostra,
e cosí bella e vaga la discopre,
che questa di quell'opre
è pur che il ciel di rado in terra piove:
né palesar si sanno
cosí perfette, come in l'alma stanno.
Dico che 'l giorno quando
i' qui la vidi prima
seder sí vaga sull'erbetta e fiori,
stavasi Amor scherzando
dentro a' begli occhi, prima
cagion de' miei felici e santi ardori.
I pargoletti Amori
sovra quel casto seno
spiegavan le bell'ali
scoccando mille strali
per gli occhi al freddo cor in un momento,
che m'arser sí ch'io sento
la fiamma ognor del guardo almo e sereno:
ed odo il dir che face
fra mille guerre e mille vera pace.
Dal fondo allor usciro
guizzando i pesci snelli
tratti dal fuoco di que' vivi rai.
E ratto si sentiro
i vaghi e pinti augelli
cantar piú dolce de l'usato assai.
Ben tel ricordi e sai
com'in quell'ora e punto,
per mirar la beltate
con tanta maestate
quanta ne mostra quel divino volto,
che Febo a lei rivolto
rattenne il carro a mezzo il corso giunto:
ch'innanzi al vago viso
vide la gloria d'un bel paradiso
Ella volgendo gli occhi
(ma chi dir puote come!)
rasserenava l'aria d'ognintorno:
e par ch'ancor mi tocchi
quando le bionde chiome
vidi scherzar al vago viso intorno.
In quel felice giorno
l'umil e altiero sguardo
qui fe' venir i monti,
e fermi star i fonti,
a sé tirando l'aspre fere a canto:
ché 'l vago lume e santo,
ond'io sí dolcemente agghiaccio ed ardo,
tal ha valor e forza,
che cangiar puote gli elementi a forza.
L'erbette al vivo caldo
di que' begli occhi ardenti
di mille fior vestiro allor la piaggia,
che tutta di smeraldo
parea che bei lucenti
rubin, zaffiri e perle per dentr'aggia.
Questa dura e selvaggia
quercia che per colonna
al vago fianco pose,
con gigli, nardo e rose
produr si vide, e d'oro far le ghiande.
E l'ombra fresca e grande,
mentre vi ste' la glorïosa Donna,
odor cosí soave
spirò, ch'Arabia piú gentil non l'have.
E tu, famoso rivo,
il corso allor fermasti
per meglio vagheggiar tanta bellezza
ch'al Re de' fiumi il vivo
tributo non mandasti:
sí t'abbagliò di quella la chiarezza.
Chi vide mai vaghezza
ch'a par di questa fusse?
Eterna la memoria
serberá l'alta gloria
ch'a la mia Donna aver allor qui vidi.
Lieti e riposti nidi
u' de' begli occhi il lume sí rilusse,
e piú felice l'erba
che del bel piede alcun vestigio serba.
Giammai non vide il sole
congiunte in un sol loco
tante donnesche doti e tanti doni:
né sí dolci parole
piene di casto fuoco
s'udiro unquanco in quai si sian sermoni.
Ma che val ch'io ragioni,
se par che si dilegue
quant'in la mente accoglio,
e ciò che dir i' voglio
com'ivi sta nel mio parlar non mostro?
Indarno a quest'i' giostro,
perché 'l pensier la lingua poi non segue:
e meno il mio pensiero
aguaglia di costei il merto vero.
Ciò che tu parli a par del vero è nulla,
però sí rozza e ignuda
meglio è, Canzon, tra l'erbe ch'io ti chiuda.
CIII
A che spiegar le chiome a l'aria fòre
perché le asciughi il sol con li suoi rai,
s'al vostro sguardo pien d'invidia e lai
s'asconde, né soffrir può quel splendore?
S'asciugar le volete, quell'ardore
che fan vostr'occhi fia bastante assai.
Ben conoscete il suo calor, ché mai
non mi trovate senza fiamma in core.
E s'ei non basta, s'un po' l'appoggiate
al fuoco che nel cor porto ristretto,
quelle vedrete subito asciugate.
Ma forse seguirebbe un altro effetto,
ché le vedreste in cenere cangiate
dal fier incendio che mi strugge il petto.
CIV
Lambro, che sí sovente udito m'hai
solingo sospirar sulle tue rive,
e voi, fresch'ombre a le stagioni estive,
ov'io giá piansi e insieme ancor cantai:
se vosco i' stetti poscia ch'io lasciai
del Mencio l'ombre e le bell'acque vive,
or vado errando, e forz'è che mi prive
d'ogni allegrezza e viva sempre in guai.
Ove vi lascio, luoghi cari e fidi,
e veri testimon de la mia fede,
che salda piú si mostra d'ora in ora?
I' m'allontano, e per diversi lidi,
quantunque cangi or questa or quella sede,
non si cangia l'ardor che m'arde e accora.
CV
Se nei passati tempi spesso udivi,
favoso Mencio, la divina lira
di Titiro pastor, ch'ancora spira
canti soavi, glorïosi e divi:
or vedi que' begli occhi altieri e vivi,
in cui stupendo nostr'etá si mira,
ed odi quella ch'a sé l'alme attira
col bel parlar, con gli atti dolci e schivi.
E se le Ninfe allor, Satiri e Pani
venian sovente per udir il suono
che senza par sará sempre tra noi;
per mirar questa or qui ridotti sono
da vicini paesi e da lontani
con gli alti semidei gl'invitti eroi.
CVI
Dal piú leggiadro e amorosetto viso
che mai pigliasse Amor per fuoco ed ésca,
da l'ampia fronte dov'ei vuol che cresca
quel ben che l'uom dal volgo tien diviso:
da' begli occhi che fanno un paradiso
ov'ogni alma gentil s'incende e invesca,
da' coralli e da neve calda e fresca
u' perle orïentali scopre un riso:
dal casto petto, di virtute albergo,
e d'onestate altiera torre e salda,
ove mai sempre col pensiero albergo;
da bella Donna timidetta e balda
del mondo onor, cui tante carte vergo,
nasce la fiamma che m'agghiaccia e scalda.
CVII
Rose vermiglie nate sulla neve,
chiome d'or terso inannellate e sparte,
l'arcate e nere ciglia a parte a parte,
duo lumi, onde 'l suo lume 'l sol riceve:
il parlar saggio, or schivo, or dolce, or greve,
ch'ogni basso desir da me diparte:
le labbra, che natura, non fint'arte,
di schietto avorio imperla in minio breve:
una colomna d'alabastro puro,
che dritta sta sulle marmoree spalle
col caro peso della vaga testa:
son la cagion che per diritto calle
al ciel men volo, e 'l mondo piú non curo:
sí mi governa bella Donna e onesta.
CVIII
Cieco mi trovo, e veggio in ogni loco,
e voglio sempre quel che mai non voglio,
umile i' sono, e pieno son d'orgoglio,
gelo nel fuoco, e dentro il ghiaccio infuoco:
in odio ho 'l pianto, e fuggo 'l riso e 'l giuoco,
ognor mi cangio, e son quel ch'esser soglio,
quanto piú sono allegro piú mi doglio,
Amor non curo, e 'l suo soccorso invoco.
Son muto, e parlo; e sordo, e 'l tutto intendo,
il fuoco e l'acqua porto uniti in mano,
né v'è chi mi contrasti, ed io mi rendo.
Morta è 'n me l'alma, ed io son vivo e sano,
chi mi tien fuggo, e chi mi fugge prendo:
cosí m'ha concio il guardo altiero e piano.
CIX
Brivio, da l'Indo al Mauro tutto 'l mare
solchi chi vuol, e gemme e perle ed oro
si metta in seno, e accumuli tesoro,
ed abbia stati e regni senza pare.
Altri, la notte e 'l dí leggendo, fare
acquisto cerchi del famoso alloro:
altri ne l'armi sudi, altri nel foro
divenga sovra tutti singolare.
Segua ciascun sua stella a farsi grande,
che 'l tutto i' sprezzo, e ancor le Muse, salvo
quanto le veggio alla mia Donna in grazia.
Questa seguir portai dal matern'alvo,
questa che da' begli occhi in terra spande
tesoro ognor che l'appetito sazia.
CX
D'un schietto e bianco serico d'attorno
fregiato di fin'oro era la mia
donna vestita, e 'l capo le copria
un ricco e aurato velo vago e adorno.
Il bel candido collo aveva intorno
rubini e perle, ed ella allor per via
moveva i piè con tanta leggiadria,
ch'ivi ogni grazia allor facea soggiorno.
E spesso rivolgendo mastramente
i dolci suoi begli occhi, in quelli Amore
con l'arco armato n'era, e con gli strali:
che col divino di costei favore
superbo trïonfava altieramente
di quanti allor la videro mortali.
CXI
Perché si levi da le perle schiette
l'ordine lor ed una se ne svella,
non è che la bellezza, in voi sí bella,
non sia piú bella ancor de l'altre elette:
ché quante grazie furon mai perfette
dal ciel amico o da benigna stella
in questa donna sparse e sparse in quella,
tutte raccolte in voi natura mette.
Ed or scemando fòr de' bei rubini
parte del bianco avorio, tal vaghezza
v'accresce che non fu giammai maggiore.
Ch'Amor, in quel bel luogo assiso, sprezza
quant'è di bell'in terra, e fa s'inchini
il mondo a riverirvi e farvi onore.
CXII
Vago ruscello che l'erbetta molle
con le chiar'acque vai bagnando ognora,
come a l'usato teco non dimora
quella ch'ogn'altro ardor dal cor mi tolle?
Che qui piú volte i piè bagnar si volle,
scherzando con le ninfe a la fresc'ôra,
poi qui la vidi uscir de l'onde fòra,
tal che null'altra a par di lei s'estolle.
Qui poi s'assise onestamente a l'ombra,
ove le chiome l'auro sí le attorse,
che la memoria ancor il cor m'ingombra.
Or ch'ella i passi altrove andando torse,
ogni piacer da me cosí si sgombra,
che di restar in vita sono in forse.
CXIII
Com'è 'l debito eterno e la mia voglia,
venir a voi dinanzi non mi lece,
Donna Real, cui diece volte e diece
quest'alma debbo e questa frale spoglia.
Si meraviglia ogni uom che tanto i' soglia
vostr'altezza lodar, da poi che 'n vece
di pagar tanto fio, altra piú spece
non ho di grazie che da me si toglia.
Chi sa (vostra mercé) che per voi vivo
mi chiama ingrato, e dice ch'i' dovrei
ove voi state sempre far dimora.
Se far potessi ciò che far vorrei,
m'avrebbe ancor Sebeto, o morto o vivo:
or ch'altro posso che lodarvi ognora?
CXIV
Corre la notte cinta il viso adorno
d'aurate stelle, ed a ciascun quïete
apporta dolcemente, tal che quete
riposan le genti egre a me d'intorno.
Sol io mi doglio e sento d'ognintorno
silentia, ch'ella sol le mie segrete,
acerbe pene ascolta, e mansüete
mi porge orecchie, finché viene il giorno.
Quanto ti debbo, cara notte e amica
che sí pietosa i miei martíri ascolti
con l'interrotte voci in duro pianto?
Sonniferi papauri a l'ombra colti
ti spargo in premio de la tua fatica,
e le tue lodi riverente i' canto.
CXV
Come da noi partendo lascia il sole
quest'emispero freddo e nubiloso,
e col ritorno caldo e luminoso
in un momento poi tornar lo suole:
cosí partendo il mio bel vivo sole
freddo lasciommi e tutto sospiroso:
or che ritorna, caldo e ancor gioioso,
che resti e lieto canti ognora vuole.
S'allegra meco il ciel che piú sereno
è de l'usato, e 'l Mencio assai piú chiaro
corre ed ondeggia d'allegrezza pieno.
Fanno gli augelli un bel concento e raro,
ride la terra, e scopre Flora il seno:
ché con Madonna Amor ritorna a paro.
CXVI
Mentre da noi Madonna è stata assente
Parea che l'aria ombrasse d'ognintorno
oscura notte, e tu, bel fiume adorno,
meco piangevi allora amaramente.
Or ch'ella è ritornata, e c'è presente,
non vide Febo mai piú vago giorno;
e tu, superbo, per lo suo ritorno
rendi 'l tributo a Po pomposamente.
Ma se tanto ti cal che teco viva,
(che pur ti dée caler, ché senza quella
ogni grazia da te saria rimossa),
come del suo partir odi novella,
fa che si colmi d'acqua ogni tua riva,
ché di Mantoa partir ella non possa.
CXVII
A che t'affliggi, e piangi il partir mio,
s'io son volata nel celeste coro
ed ivi stommi in mezzo di coloro
cui vita è sempre contemplar Iddio?
Non ti sovvien che quando l'alma uscío
del carcer suo, ch'allor ti dissi: i' moro
lieta, signor, ed emmi gran ristoro,
che qui ti veggio lagrimoso e pio.
Però se m'ami, come dimostravi
mentr'era in terra, non t'affligger tanto,
per non mostrar che 'l mio gioir ti gravi.
Ché se potesse in questo luogo santo
doglia turbar dolcezze sí soavi:
i' che farei al suon del tuo gran pianto?
CXVIII
A che cercar gli specchi e freschi rivi,
se piú d'ogn'altra bella, bella sète?
I vaghi specchi e i fonti chiari e vivi
faran che disdegnosa diverrete.
Ma l'uno e l'altro, ohimè! pigliate ad ira,
s'umana e viva rimaner volete.
Gli specchi fan superba chi li mira,
a morte il fonte ch'il contempla tira.
CXIX
Qual mai diletto o gioia
si senta in terra, Amor, non è giá tale
ch'al ben ch'or godo dir si possa uguale.
Sí tranquillo è lo stato in ch'io mi trovo,
(mercé di duo begli occhi),
che con la speme acquetasi il desire,
né tema ho piú ch'indegnitá mi tocchi.
Ché ciò ch'amando i' provo,
eternamente il cor mi fa gioire.
Qual dunque mai martíre
potrá noiarmi, Amor, s'ancor mortale
mi fai gustar quel ben che fa immortale?
CXX
È la mia fede retta, chiara e pura,
ferma, sincera, e tale
che piú d'ogn'altra vale.
E se morir bisogna, oh mia ventura!
pur che fedel i' mora,
venga la morte or ora.
CXXI
O cameretta, che m'hai fatto degno
baciar la man che 'l cor legar mi suole,
e gli occhi vagheggiar, che fanno il sole
d'invidia discoprirsi e pien di sdegno:
o luogo mio riposto, o caro pegno
ove in sí dolci accenti udii parole
che sovra l'altre sono accorte e sole,
e dolce fan d'Amor l'amaro regno;
chi potrá mai narrar del mio pensiero
l'alte speranze e 'l vaneggiar sí dolce,
se mille volte in ciel egli salio?
Amor, tu dillo, che ne scorgi il vero,
che troppa gioia il cor ognor mi molce,
poiché ben non ha 'l mondo ugual al mio.
CXXII
Chi vuol veder in poco spazio accolto
quant'è di bel al mondo, miri il viso
che mille volte l'alma e 'l cor m'ha tolto,
e fede fa tra noi del paradiso.
Bellezze vederá nel vago volto
divine e sole, e vederá quel riso
ch'un rubin parte in orïente colto,
e perle scopre, u' regna Amor assiso.
E l'armonia poi de le parole,
a chi l'ascolta fa sentir un suono
che l'alme a sé tirar e vincer suole.
Ma se di que' begli occhi altrui fa dono,
vedesi chiar che l'uno e l'altro sole
d'ogni dolcezza il bel e dolce sono.
CXXIII
Da que' begli occhi, da' begli occhi ond'io
involo l'ésca a la mia vita frale,
un sí bel fuoco folgorando sale,
che ride l'alma, mentre s'arde il core.
Ed egli tutt'acceso divien tale
che si trasforma in lor, e a me restio
qualitá cangia, e volge ogni desio,
come l'informa quel divin splendore.
Manda poi spesso dal mio petto fòre
d'alti sospiri una gran nebbia ardente,
con un pensier, che la mia Donna e 'l fuoco
sí chiari mi dimostra in ogni loco,
che null'altro da me si vede o sente.
I' veggio allor presente
quel dolce lume lampeggiar in modo
che senza fine i' godo,
e bramo eternamente mirar fiso
tant'altre meraviglie del bel viso.
Or ciò ch'io senta, s'ella poi ragiona,
come suol sempre, di cose alte e nuove,
ed oda quanta in quelle labbra piove
grazia di parlar umanamente grave,
dicalo Amor, che vuol ch'allor si prove
una dolcezza tal che m'abbandona
subito l'alma, e vola dove suona
dei dolci accenti il ragionar soave.
Ben potrá dir ch'a par di lei non s'have
diletto o gioia: oh, s'io il sapessi dire,
certo so ben che 'l mondo invidia avrebbe
al viver mio felice, e ogni uom direbbe
ch'avanza il mio piacer ogni gioire.
Vedesi allor scoprire
il trionfo d'Amor fra bei rubini,
perle e coralli fini,
e s'io vi guardo intentamente, allora
moro senza sentir come si mora.
Ma che dirá, se 'n parte si discopre
il casto petto albergo d'ogni grazia,
ov'ei trionfa, né giammai si sazia
l'alte sue pompe farne manifeste?
Ivi ridendo dolcemente spazia,
ed or l'un poggio ed ora l'altro copre
con tanta maestá, che di quell'opre,
che 'n terra senza par si fan, son queste.
Ma se per grazia la pomposa veste
talor dá luogo a tanta meraviglia,
come balena il ciel, vive faville
si veggion scintillar a mille a mille,
onde fa strali Amor, e 'l fuoco piglia.
E s'egli mi consiglia
mirar intento quel candor sí vivo,
a la mia morte arivo,
perché m'abbaglia sí quel chiaro lampo,
che come solfo in mezzo 'l fuoco avvampo.
Cosí dagli occhi, dal parlar, da quello,
da quel candido petto i' veggio sempre
nuove dolcezze uscir, ch'ognor mi fanno
tremando e ardendo in dolce e lieto affanno
viver cangiando mille volte tempre:
né so come mi tempre
tra sí soave e dilettevol noia.
Ma perché tanta gioia
mal si può dir e avanza ogni diletto,
tu viverai, Canzon, sovra 'l bel petto.
CXXIV
Amor, se d'ora in or la doglia cresce,
anzi fatt'è immortale,
chi finirá 'l mio male?
Lasso, se 'n vita del dolor non s'esce,
s'ei doverá finire,
mi converrá morire.
CXXV
Vedrò quel giorno mai che pienamente
deporre i' possa in quelle caste orecchie
come Amor fa ch'innanzi tempo invecchie,
per l'estremo dolor che l'alma sente?
Com'arda, e com'agghiacci assai sovente,
s'avvien che 'n que' begli occhi unqua mi specchie,
e quante pene i' soffra e nuove e vecchie,
discoprirò piangendo amaramente.
E, s'ascolta Madonna i miei martíri,
i' spero pur pietá trovar del male
che mi consuma in tante doglie e guai.
Almo Sol, se quel giorno a me tu giri,
i' prego che mai nube o nebbia tale
ombrar non possa i tuoi fulgenti rai.
CXXVI
Amor mai sempre, con duo sproni al fianco
di que' begli occhi ardenti come 'l sole
mi caccia e punge amaramente, e vuole
che questa i' segua ancor ardito e franco.
I' che mi sento tutto lasso e stanco,
e veggio lei che sembra augel che vole
qual lieve vento, né ode mie parole,
al mezzo del cammin m'intoppo e manco.
Ma sí pungenti son gli acuti sproni,
che per forza mi fan seguir l'impresa,
e piú 'l timor mi porta che la vita.
Amor, che sí mi sforzi e sí mi sproni,
perché non fai ch'i' veggia un tratto accesa
questa che puote, e non vuol darmi aíta?
CXXVII
Sará che mai mi trovi fòr di questi
strani accidenti, tra la neve e 'l fuoco,
e possa dir: Amor, in questo gioco
la gioia senza duol mi concedesti?
Sará ch'un giorno sol lieto mi presti,
sí che di gioia senta almeno un poco,
né piú divenga sospirando roco,
e dorma sí, ch'ognora non mi desti?
Sará ch'i' veggia quel bel viso e adorno
ver' me scoprirsi sí benigno e pio,
che piú non tema che l'ingombri sdegno?
O piú d'ogni altro avventuroso giorno,
sereno e chiaro, vieni, e tempo rio
di nebbia o pioggia in te non mostri segno!
CXXVIII
Di campo in campo e d'una in altra piaggia
giva piangendo il mio perduto tempo,
quando nuovo pastor in ripa a l'acque
del figlio di Benaco in dolce stile
udii cantar, ond'io lungo il bel fiume
assiso stetti, ed egli disse i versi.
O biondo Apollo, che celesti versi
a l'ombra d'un bel lauro in quella piaggia
ove l'Eurota corre, altiero fiume,
cantasti: se rammenti di quel tempo,
alza, ti prego, il mio debile stile,
tal che 'l suon ne rimbombi per quest'acque.
E voi, qual vetro pure e lucid'acque,
u' nacque il buon testor di tanti versi,
che da le gregge e campi alza lo stile
a le fiere armi, questa verde piaggia
di varii fior vestite, né sia tempo
che manchi vostra vena al dotto fiume.
Qual rivo, stagno, fonte, mare o fiume
sparge di voi piú cristalline l'acque?
Al piú cocente e al piú gelato tempo,
chi ode di voi piú dotte Muse e versi?
Qual arbor è, che 'n quest'antica piaggia
non senta novi carmi e novo stile?
Ch'al gran Gonzaga innalza altri lo stile,
altri dispiega d'eloquenza un fiume
cantando l'alma Elisa in bosco e 'n piaggia.
Altri poi sparge d'Elicona l'acque,
e loda l'arboscel con alti versi,
che venne di Damasco è giá gran tempo.
Cosí per me finché fia moto e tempo,
se nulla ponno insieme col mio stile
tant'intagliati in mille pioppe versi,
eterna fia Madonna, e tu, chiar fiume,
pomposo te n'andrai gonfiando l'acque,
e sempre avrai poeti in questa piaggia.
Ceda di Tempe la fiorita piaggia
che presso a Pindo è verde in ogni tempo,
a questi campi, ceda a voi, bell'acque,
il chiar Peneo, o qual si trova in stile
cantato lago, o piú superbo fiume,
ed a costei le piú lodate in versi.
Quant'ho mai messo in prosa, o scritto in versi,
di quest'allegra e avventurosa piaggia
e del corrente e limpido bel fiume,
e di costei, ch'onora il nostro tempo,
è breve stilla d'infinito stile:
tai son, Madonna, il Mencio, il luogo e l'acque.
Qual meraviglia, dunque, se de l'acque
che sorgon qui d'intorno gli miei versi
parlan mai sempre, n'altro nel mio stile
ribomba, ed ho cangiato in questa piaggia
il nido mio natio per ogni tempo,
bramando far mia vita in mezzo 'l fiume?
Tranquillo, chiaro ed onorato fiume
che quinci e quindi spargi le bell'acque,
perché non ti conobbi io piú per tempo?
Perché non ho sonori ed alti versi,
che 'l nome di Madonna in ogni piaggia
facesser noto con soave stile?
So ben che non agguaglio col mio stile
tante tue lode, o glorïoso fiume,
né de l'aprica e ognor ridente piaggia
u' cosí fresche e chiare corron l'acque,
né di Madonna ponno cetre o versi
la gran virtú cantar in alcun tempo.
Sacri Poeti che per ogni tempo
immortali vi fate con lo stile,
gli alti e sottili vostri ornati versi
a tanta Donna, a sí famoso fiume
lieti sacrate, e meco di quest'acque
cantate in questa al ciel sí cara piaggia.
Qui 'l pastor tacque, e la piaggia in quel tempo
e l'acque segno fêr, che 'l novo stile
gradiva al fiume dei cantati versi.
CXXIX
Ognor in voi bellezza
cresce, Madonna, e manca la pietate:
in me di giorno in giorno piú s'avvezza
l'alma a fruir le vostre luci amate.
Cresca vostra beltate
e seco la fierezza, mentre ch'io
non perda da' begli occhi il gioir mio.
CXXX
Non t'accostar, Europa, al vago Bue
che va scherzando in questo verde piano,
non ti fidar che tanto paia umano,
ché piú superbo visto mai non fue.
Trasformato s'è Giove, e l'arti sue
adopra per rapirti umile e piano:
or scherza, or salta, or fugge ed or la mano
ti bacia, ed or sospeso sta tra due.
Sciocca, che fai? dove vuoi porre il piede?
Ahi scendi, Europa, scendi, torna torna,
ché lascivo si volge a l'ampio mare.
Ella, stringendo le novelle corna,
il mar turbato d'ognintorno vede,
né piú quel lito a' suoi begli occhi appare.
CXXXI.
Grazia non ebbi mai d'ornar la fronte
del verde alloro, o ber di quel liquore
che fe' Pesago con sí largo umore,
quando ferí del piede il sacro monte;
ma pur, bramoso di far chiare e conte
l'alte virtuti, il pregio e 'l rar valore
di quella che mi dá per Donna Amore,
gustai in fallo l'Acidalio fonte.
Lasso! che 'n vece d'acqua ardente fiamma
trovai nel dolce e velenoso rivo,
ond'arser queste membra in poco d'ora.
Cosí le pene mie cantando scrivo,
non le lodi di quella che m'infiamma,
ove con Smirna Manto debil fôra.
CXXXII.
Poi ch'ebbe Amor in questa parte e 'n quella
ferito uomini e dèi, piegando l'ale
s'assise in grembo di costei, che sale
per vera fama sovr'ogni altra bella:
che, come vide l'arco e le quadrella,
e sentí 'l fuoco ardente ed immortale,
gridò sdegnata: dunque i' sono tale
che mi speri scaldar con tua facella?
A questa voce Amor fòr di se stesso:
Ohimè! chi parla? certo i' pur pensai
essermi in seno di mia madre messo:
di Venere son questi gli occhi, e i rai,
la bocca, il naso, e tutto 'l volto espresso:
ma questa voce non sentii più mai.
CXXXIII
Vinto dal sonno i' riposava alquanto,
allor che di Titon la bella Aurora
esce partendo de l'albergo fòra,
e Progne rinovella il vecchio pianto.
Ed ecco del mio letto al destro canto
Madonna i' sento, che s'assise allora
dicendomi: che vuoi? qui pur son ora.
E quella man mi sporse amata tanto.
Ond'io, che di sognarmi immaginai,
per l'insolita gioia fra me dissi:
Beato me, se non mi sveglio mai!
E perché gli occhi poscia i' non aprissi,
dormir eternamente i' desiai,
ma che Madonna a canto i' mi sentissi.
CXXXIV
Che giova star assente
da' bei vostr'occhi, Donna, se 'l bel fuoco
di quei m'incende e sfammi in ogni loco?
Poiché la cruda e fiera dipartita
da voi lontan mi tiene,
altro non è che morte il viver mio,
perché Amor vuol che 'l cor di duol si svene
e morte la mia vita
finisca in tutto. Ahi stato duro e rio!
Lunge da voi mor'io:
se poi vi son presente sí m'infuoco,
ch'ardendo i' moro a poco, a poco, a poco.
CXXXV
Ricchi, leggiadri ed odorati guanti
cara coperta al bell'avorio schietto,
a quelle perle di color eletto
ch'a perle orïentali son sembianti;
quanto vi degna il ciel a farvi manti
di quella bella man, che 'l cor in petto
spesso mi strigne, e tal mi dá diletto
che dolci fa parermi i crudi pianti!
Volentier vosco sorte cangierei
per toccar sempre quella vaga mano,
che di mia vita è l'un sostegno fido.
L'altro è 'l bel lume altiero, umil e piano
di que' begli occhi a me sí dolci e rei:
che d'altro il cor piú non appago o affido.
CXXXVI
Se de la bella Dafne unqua ti calse,
mentre fu donna, e poi ch'arbor divenne,
o biondo Apollo, e 'n fuoco ti mantenne,
tal che 'l tuo cor piú volte ed arse ed alse:
se de l'amato Ciparisso valse
l'aspro dolor, che nel morir sostenne,
attristarsi cosí, ch'ognor ti tenne
di lagrime pien gli occhi amare e salse;
di questa assai piú bella, ahimè! ti caglia,
ch'inferma langue, e se la vita perde,
perderá 'l mondo tutti i veri onori.
Cosí 'l cipresso e 'l lauro mai non vaglia
sfrondar bifolco, e l'uno e l'altro verde
eterno sparga i suoi soavi odori.
CXXXVII
Queste vïole palidette, e questi
candidi gigli, e questo nardo, e croco,
questi amaranti ardenti come un fuoco,
questi purpurei fior lugubri e mesti:
diva, a te sacro, che nel mar nascesti,
ed hai di Pafo il piú lodato luoco.
Il tuo favor, Ciprigna, cerco e invoco,
che sí pietosa a chi ti prega presti.
O bella dèa, la mia leggiadra Donna
purga da febbre, e fa' che 'l fiero ed empio
maligno ardor non la tormenti omai.
Di bianco marmo un glorïoso tempio,
e di bronzo nel mezzo una colonna,
co l'idol tuo dorato in cima avrai.
CXXXVIII
Misero chi ama, e ciò ch'egli desia
e d'aver cerca, veder non può mai;
chi vede ed ama è piú misero assai,
s'ei non possede il ben ch'aver vorria.
Ma senza par miserrimo pur fia
chi può mirar de la sua Donna i rai,
e innanzi a quella far suoi duri lai,
se come vuol non l'ha cortese e pia.
Or chi la Donna amata vede ognora,
né mai da lei si sente aver a schivo,
beato senza par si può ben dire.
Nel terzo grado pien di doglia i' vivo,
e morir cerco, ché men pena fôra
tosto morir, che 'n tal modo languire.
CXIX
Come si lagna Filomena a l'ombra
d'un'alta pioppa, se 'l duro aratore
le trae del nido i cari figli fòre,
ch'ancor la piuma in tutto non adombra,
che tutta notte sovr'un ramo sgombra
con meste voci l'aspro suo dolore,
e di querele il dí con tristo core
empie li boschi e l'alte selve ingombra;
cosí facc'io che, quando leva il sole
e quando casca, e alluna il ciel la luna,
sfogo col pianto 'l crudo mio martíre.
E tanto in me dolor ognor s'aduna,
che l'alma uscir di questo carcer vuole:
ché ben può nulla chi non può morire.
CXL
Quando sará ch'Amore
tempri quel fier martíre
che vede ognor soffrire
al mio distrutto core?
Ché, se l'aspro dolore
non tempra, o fa finire,
i' non potrò patire
tanto soverchio ardore.
Lasso! che Amor non ode
ciò ch'io gli parli, o dica,
né piú di me gli cale:
ché in gli occhi a mia nemica
egli s'alberga, e gode,
e ride del mio male.
CXLI
Qual si discopre a noi la bella Aurora
dal ciel cacciando le minute stelle,
tal sovra tutte che si chiaman belle
Madonna si dimostra bella ognora.
Seco ne viene Amor e spira fòra
da' begli occhi favor, che l'alme svelle
da' corpi e par che dolce rinovelle
ciò che dipinge Primavera e Flora.
Che dove gira i casti e vaghi rai
l'erba rinverde, e 'l ciel si fa sereno,
e stansi i pesci con tranquilla pace.
Felice, avventuroso e bel terreno
u' corre il Mencio, e dove sempre mai
sí bella Donna il cor m'incende e sface.
CXLII
Con quella bianca man, ch'avorio schietto
e pura neve vince di candore,
femmi gustar Madonna quel liquore
ch'allegra il cor da gravi affanno astretto.
Freddo mi parve al gusto, ma nel petto
subito accese sí cocente ardore,
che 'n un momento m'arse dentro e fòre,
come tra vive fiamme solfo eletto.
Rise Madonna allor con tanta gioia
del fiero incendio mio, del mio martíre,
che la memoria ancor il cor m'annoia.
Che debbo dunque far se non languire,
se quel che altrui conforta a me dá noia,
e di sua man costei mi fa perire?
CXLIII
Chi crederá che sovra questi colli
carchi di neve e ghiaccio d'ognintorno
arda la notte ed arda ancor il giorno,
da quella lunge d'onde, Amor, ti estolli?
Tu vedi pur che tutto son di fuoco
e va crescendo ognor l'ardente fiamma
che 'n me rinfreschi con le tue quadrella;
ma non degni, signor, ch'una sol dramma
sent'ella de l'incendio ov'io m'infuoco
e l'ardor provi de la tua facella.
Che se quant'è leggiadra, vaga e bella,
fosse pietosa, i' diverrei beato,
cangiando in gioia il mio doglioso stato,
ch'or mi tien gli occhi lagrimosi e molli.
CXLIV
Alpi nevose, che le corna al cielo
e quinci e quindi oltre misura alzate,
e ne l'algente verno e calda estate
orride sète di perpetuo gelo:
tra voi pavento, e mi s'arriccia il pelo,
ch'al rimbombo che d'acque e sassi fate,
sí spaventose ognora vi mostrate,
che di paura tutto tremo e gelo.
S'al basso miro, l'occhio non penètra
l'atra profonda ne l'abisso valle,
né a l'alto scerno le fumanti corna.
E pur mi veggio ancor, dopo le spalle,
che mi persegue Amor con la faretra,
ch'ad ogni passo a saettar mi torna.
CXLV
Ben ch'or su l'Alpi ed or in ripa a Sonna
mi trovi, ed or mi bagni Loera, or Senna,
sí dolcemente il Mencio Amor m'accenna,
ch'ad ogni passo è meco la mia Donna.
E 'l cor, che punto non s'infinge o assonna,
l'ali al pensier in un momento impenna,
ed ei movendo or questa or quella penna,
de l'afflitta alma, come vuol s'indonna.
Indi fra selve, rupi, monti e sassi
fermo sovente il piede, cosí bella
parmi veder Madonna assisa a l'ombra.
Ma chi vien meco, affretta, dice, i passi;
ond'io guardando in questa parte e 'n quella
cerco veder chi me da me disgombra.
CXLVI
Vommene errando, ahi lasso!
di pena in pena, e d'uno in altro scempio,
per sassi, selve, fiumi, colli e monti:
né punto il duro ed empio
aspro destino mai mi lascia un passo.
Ma da quest'occhi sorger fa due fonti,
che mai li fiumi al mar non fur sí pronti
il lor tributo dar or grande, or poco,
com'io ricorro allegro a chi m'ancide.
Che val se mi divide
per tanto spazio Amor dal mio bel fuoco,
se 'l pensier stende l'ali
u' sta su 'l Mencio la mia Donna in giuoco?
Ei lá mi lega dove i primi strali
fêr l'altre fiamme in un momento frali.
CXLVII
A questa d'ognintorno chiusa valle,
Parnaso un tempo al gran poeta tosco,
ov'ei bevette l'amoroso tòsco
per cui scrivendo chiara fama dálle:
a questo solitario ed erto calle,
ch'apre la strada di salir al bosco;
al vicin colle, u' l'orme riconosco
di lui che spesso v'affermò le spalle:
al re de' fonti che dal vivo sasso
sorgendo se ne fugge, e tosto arriva
u' maggior vaso accoglie le dolci acque:
i' pur son giunto tormentato e lasso,
e veggio la remota stanza e diva
ch'al gran Petrarca sovra tutte piacque.
CXLVIII
Qui nacquer dunque i bei sospiri ardenti,
d'un vivo lauro sparsi a la fredd'ombra,
la cui dolcezza ancor mill'alme ingombra:
sí fur soavi i mesti lor accenti.
Qui mille volte i vaghi augelli intenti,
quando si schiara il dí, quando s'adombra,
stettero al canto ch'ogni canto sgombra,
Laura gridando tra le frondi i venti.
Di Sorga il fonte crebbe qui sovente
al dolce lagrimar del gran poeta,
ch'anni trent'uno ardendo stimò poco.
Qui s'assise la Laura, poi qui lieta
d'un riso fe' la valle dolcemente:
tal fu di veri amanti il sacro fuoco.
CVLIX
È questo il luogo, la spelonca, e 'l sasso,
la fredda neve e 'l ghiaccio duro e alpino
u' Maddalena il corpo stanco e lasso
tant'anni tenne col favor divino?
È questo il fonte fresco e cristallino
che fòr del sasso stilla,
e l'onda fa tranquilla
ch'ambrosia e nettar porse
a lei che 'l vero ben nel mondo scorse?
Tra questi boschi sí selvaggi ed ermi,
cui par che maligna ombra sempre adugge,
fra 'l sibillar di serpi, e crudi vermi,
fra' fieri mostri che natura fugge,
qui dove fieramente Borea rugge,
né mai si vede Flora,
ma ghiaccio e nevi ognora,
la stanza fu di quella
che peccatrice il Vangelista appella?
Colei che di bellezza un chiaro sole
visse gran tempo delicata e molle:
colei che vide in carne il vero sole
che nostre colpe per sua grazia tolle,
queste deserte rupi abitar volle,
questi luoghi silvestri,
orridi, incolti e alpestri,
e sola star romita,
che dal sommo Fattor fu sí gradita?
Da queste grotte dunque e gravi orrori,
(grazia ch'a pochi il Re donò del cielo),
era levata fra i divini cori
sette fiate il giorno al caldo e al gelo?
Quindi partiva con ardente zelo,
e sovra l'aria queta
Maria gioiva lieta
sentendo in dolce canto
l'angelico concento vago e santo?
Questi pur son i ricchi suoi palagi,
l'aurate logge, i palchi apríci e grati.
Trent'anni in questi boschi in gran disagi
a quel servío, a cui servir siam nati:
e quanto lunge fu da le cittati,
da le castella e ville,
da le sonanti squille,
tanto piú fue appresso
a quell'in cui lo cor avea giá messo.
Ché qui piú volte il dolce a lei Maestro
apparve seco stando dolcemente,
e, ben che fosse il luogo duro e alpestro,
rideva d'ognintorno lietamente.
Ché dove il Re del cielo sta presente,
appar dolcezza e gioia,
fugge il martír e noia;
ch'a lui dinanzi, mai
cosa non sta che dia tormento o guai.
In ogni canto l'aria ancora spira
di quel favor celeste somma grazia,
e con sí occulta forza a sé mi tira,
che del terrestre mondo l'alma è sazia.
Né mai fa l'alma stanca,
anzi l'anima e affranca,
e fa bramar la morte
per trovar quel ch'aprí del ciel le porte.
D'un certo non so che lo cor s'ingombra
che mi fa gli occhi rugiadosi e molli,
e fòr del petto arditamente sgombra
quanti pensier ci son bugiardi e folli.
Parmi che d'ogni banda questi colli,
le quercie, i cerri e i faggi,
e gli augelli selvaggi
faccian sí bel concento,
che qui dolcezza inusitata i' sento.
Chi mi dará ch'io resti e viva vosco,
risposti luoghi, ombre segrete e dive?
Qual grazia fia la mia se 'n questo bosco
restin le membra de lo spirto prive?
Oh valli! oh sassi! oh monti! oh boschi! oh rive!
Maria pregate meco
che qui mi tenga seco,
ov'il morir fia dolce
morendo in grazia a quel che 'l mondo folce.
Lo piede in alcun luogo mai non poso
che non mostri di lei vestigio ed orma.
Beate selve e sasso aventuroso,
cui tanta donna d'ogni parte informa:
Ecco, né giá m'inganno, vera forma
de la persona schietta,
imago benedetta
che nardo e rose spiri,
ed al ciel volgi tutti i miei desiri.
Questo fu pur un tempo il sacro albergo
ove riposo al corpo talor desti.
A questa pietra quante volte il tergo
gli occhi levando al cielo giá mettesti?
Oh quante grazie a Dio di qui rendesti
piagnendo di dolcezza,
ch'al pianger tant'avvezza
fosti con ferma fede
ch'a Dio lavasti l'uno e l'altro piede!
L'ottima parte veramente è stata
ciò ch'eleggesti, n'esser ti può tolta.
S'ogni tua colpa fu da Dio purgata,
è ch'ad amarlo tutta t'eri volta.
E giá lo disse Cristo alcuna volta
per farti in terra esempio,
ch'ogni cor brutto ed empio,
se vuol tornar a Dio,
pietá ritrova del suo fallo rio.
Alma beata, e santa peccatrice,
fa' che 'l mio senso sempre
da la ragione si tempre;
né mai l'ingorda voglia
altro che 'l tuo voler desiri o voglia.
CL
Perch'io mi trovi in questa e 'n quella piaggia
per valli e poggi e per aperti campi,
per selve e rupi dove i chiari lampi
non manda il sol quando piú chiaro irraggia,
tanto fuggir non so che mai tregua aggia
dal fuoco onde convien ch'ognor avampi,
ch'Amor non vuol che mai da lui mi scampi
luogo abitato, o parte piú selvaggia.
Non vuol Amor ch'io cessi d'arder sempre,
mercé di que' begli occhi che mi stanno
nel cor sí fissi ch'altro non v'alberga.
E giunto pur mi trovo al settim'anno
sempre penando in sí diverse tempre;
ch'Amor non vuol che l'alma a sperar s'erga.
CLI
Da questa mano ch'or mi lega or scioglie,
né mai perciò mi lascia senza il nodo,
son vinto e preso, e ne la rete godo:
sí dolcemente come vuol m'accoglie.
Quest'è la mano che la fama toglie
a tutte l'altre; con sí mastro modo
la fe' natura: ond'io ringrazio e lodo
l'ora ch'a lei rivolsi le mie voglie.
Schietto alabastro e bianchi gigli ancora
con perle orïentali ai diti avolse,
e d'ostro fino in parte li colora.
Qual meraviglia dunque se mi tolse
il cor de petto, e se mi lega ognora:
se in lei natura ogni bellezza accolse?
CLII
D'un lieve cervo l'alte corna e antiche,
che giá fregiò Miron di puro argento,
d'un apro il capo, ch'era un fier spavento
di queste piagge a Bacco e Palla amiche,
perché sovente tante sue fatiche
gli agevolasti, e nel cacciar contento
il facesti, né mai si trovò lento
il tuo favor in queste selve apriche,
Delia, ti sacra Delio cacciatore,
che, da' primi anni al tuo servizio dato,
stette tra boschi a discacciar le belve.
Ei sa che vil è 'l don ch'or t'ha sacrato;
ma se gli spiri il solito favore,
di marmo un tempio avrai tra queste selve.
CLIII
Queste prime uve gialle come cera,
che questa nuova vite prima rende,
onde sí dolce il mosto se n'attende
e d'anno in anno via miglior si spera,
l'alma Mencia gentil, mia speme vera,
oggi raccolte a quest'altar appende,
e maschio incenso d'ognintorno accende
vaga, divota e umanamente altiera.
Il tutto sacra a voi del mosto amici,
Satiri ingordi, ed al gran Baco ancora,
che sí dolce liquor al mondo diede;
che voi non le sïate piú nemici,
e Bacco accresca l'uve e 'l vino ognora,
con gli occhi fissi al ciel tre volte chiede.
CLIV
Spesso Madonna a scacchi far m'invita,
e piglia per suo rege un dolce sguardo,
bellezza per reina, ed ond'i' m'ardo
con que' begli occhi per Arfil s'aíta.
Rocche 'l parlar, e fa la speme ardita,
e pace e guerra cavalcar i' guardo,
motti, sdegni, furor, attender tardo,
atti, cenni, no... sí... pedoni addita.
Ed io per rege, l'appresento il core,
col pietoso mirar, con gli occhi morti,
tema, silenzio, ardor e gelosia,
strazio, pianto, servir, riso, dolore,
fede, credenza, e passi mal'accorti:
ma beltá scacco dammi tutta via!
CLV
La bella Donna mia da mezzo giorno
dormia corcata sí soavemente,
ch'ivi (mercé del ciel) sendo presente,
Amor scherzante vidi starle intorno,
ch'or sul bel viso, ed or sul petto adorno,
ed ora su le spalle dolcemente
d'or terso bionde fila assai sovente
spargendo rivolgeva attorno attorno.
Ma come fu svegliata, e lo splendore
di que' begli occhi apparve, i' vidi allora
che dentro a quei sedeva armato Amore.
E vidi in un momento uscirne fòra
ardenti strali, ch'ogni saldo core
pôn far di fuoco, e far di ghiaccio ognora.
CLVI
In quel bel viso dove impresse Amore
quanta mai fosse con bellezza grazia,
il mio pensier sí dolcemente spazia
che giorno e notte vi son sempre intento.
Né punto l'alma di pensar si sazia
l'alte bellezze e quel divin valore,
l'onesta leggiadria con lo splendore,
ch'ogn'altro fuoco dentro al cor m'ha spento.
E sono a ciò pensando sí contento,
che tutto 'l resto senza fin m'annoia:
anzi m'ancide pur, ché sol io vivo
quando al bel viso arrivo
quivi gustando un'incredibil gioia.
Però s'ancor son vivo
fra tanti strazi e tant'acerbe pene,
dal dolce viso e non d'altronde viene.
Ch'a quel presente mille cose 'i veggio,
di cui ciascuna m'apre un paradiso,
tra le quali prima, se si mostra, il riso
un mar di perle orïentali scopre.
Ma chi potrá mai dir cosí preciso
l'alto tesoro lor, per cui vaneggio
cosí sovente ed altro mai non cheggio,
mentre tante ricchezze egli discopre?
E se poi l'ostro fin quelle ricopre,
miro schietti rubin, ch'invidia fanno
al fiammeggiar di qual si sia piropo,
che l'uno e l'altro dopo,
quando sí dolcemente uniti stanno,
mi fan veder che uopo
Amor non ha d'altr'arme a farmi guerra,
ch'egli con queste mi saetta e sferra.
Ma come a que' begli occhi sí soavi
volgo l'ingorda e desïosa vista,
non vuo' che di mirarli mai desista;
sí dolce m'ardon le midolle e l'ossa.
Con questi Amor l'imperio in terra acquista,
e volge d'ogni cor ambe le chiavi,
ma piú del mio, che vuoi ch'arda ed aggravi
questa sol fiamma ad abbrusciarmi mossa.
Per questi quanta in lui dimori possa
aperto si conosce, ché gli strali
indi n'avventa, e tutto 'l mondo abbaglia;
sí incende ed abbarbaglia,
che dolci son gli affanni, e dolci i mali.
Poi dentro il cor intaglia
quanto di bel nel vago viso scorgo
ond'a me col pensar aíta porgo.
Chi vuol del santo viso le ricchezze
sí ricche e belle in carte discoprire,
potrá, Canzon, de l'alto mar l'arena,
e, la notte serena,
del ciel le stelle ad una ad una dire.
Dunque il parlar affrena,
e lascia meco il caro mio pensiero,
che mi mostra di lor il vero vero.
CLVII
Vestita ha carne umana il divin Verbo,
ch'era in principio, e sempr'è al Padre uguale.
Non lascia il cielo, e pur si fa mortale
per addolcir del pomo il morso acerbo.
Lucifero oggi e 'l coro suo superbo
indarno contra noi distendon l'ale,
perché nostra natura tanto sale,
che veste chi la fece del suo nerbo.
O somma dignitate, o gran virtute
non mai piú vista, una terrestre spoglia
rende le grazie a noi da Adam perdute!
Uomo si fece Iddio, né giá si spoglia
l'eterna maiestá. Cosí salute
ritrova il mondo de l'antica doglia.
CLVIII
O dove il Ciel sí largo ogni favore
di grazia e di bellezza infonde, e tale
vi fa ch'a voi non fôra donna uguale,
se crudeltá non v'indurasse il core?
Se l'aureo crin d'argento avrá 'l colore,
e del viso il bel giglio sará quale
l'increspa il tempo, né uscirá piú strale
da que' begli occhi, spento 'l lor ardore:
rimirando nel fido e antico speglio
direte con sospir: che fui! che sono!
qual oggi è 'n me desir, qual voglia nova?
Di mie bellezze altrui far caro dono,
che sí fedel mi fu, quant'era meglio!
Potei, non volli; or sospirar che giova?
CLIX
Tocco dal fuoco di celesti rai,
Icaro cadde in mar: ché 'l grand'ardire
tant'alto il fe' poggiar, che piú seguire
l'orme del padre egli non seppe mai.
Dedalo pur dicea: figliuol, che fai,
ove ne voli, ahimè! frena il salire,
spiega piú basso l'ali: il tuo fallire
veggio che giá m'apporta eterni guai.
Non seppe il mezzo il giovanetto ardito
tener del raro e insolito vïaggio,
ond'ebbe il nome sí famoso lito.
Cosí, Madonna, chi del vostro raggio
s'infiamma il cor, alfin riman schernito,
se la ragion non segue sempre saggio.
CLX
All'ombra d'un bel lauro e d'un olivo
Madonna in sé raccolta sen sedea,
e de' begli occhi il raggio nutritivo
ver me tutta sdegnosa rivolgea.
Videla Amor e disse: ecco il sol vivo
esempio in terra di mia madre dèa,
ma li miei strali cosí prende a schivo,
ch'a me rubella, ed a l'amante è rea.
Indi, il liquido ciel radendo, tolse
duo strali aurati, e, poi che fu fermato,
il petto le ferí d'avorio e ghiaccio.
Ma si piegaro sí su 'l cor gelato,
che 'n loco di maniglie ella n'avvolse,
d'Amor mal grado, l'uno e l'altro braccio.
CLXI
Cerere, queste spiche gialle e pure,
che del giá sparso seme il frutto dánno,
Delio ti dona, e sempre doneranno
gli suoi, fin che 'l frumento in terra dure.
Di queste viti l'uve ben mature,
Bacco, a te sacra, e cosí d'anno in anno
divotamente ancor ti sacreranno
con larga man le genti sue future.
Ora tu, Pale, questo vaso pieno
di fresco latte eternamente avrai
con sacri versi ed amorosi balli.
Cosí non venga a' campi Cerer meno,
Bacco le viti curi sempre mai,
Pale agli armenti i paschi unqua non falli.
CLXII
Qual forza d'erbe o qual piú duro incanto
si vide mai, com'è di questa vaga
Donna gentil, che quinci e quindi vaga,
sí che pace non trovo in alcun canto?
Mal è per me s'io piango, mal s'i' canto,
e pur la mente ho sol di pianger vaga,
poich'ella piú del vento lieve e vaga,
sempre mi fugge ed emmi sempre a canto.
Ché quella altiera, piú ch'umana luce
di que' begli occhi, in terra il vero sole,
m'agghiaccia ed arde, e mai da me non parte.
Ma che mai val, se piú per me non luce
lieta e gioiosa, poi che sempre suole
nubilosa scoprirsi a parte a parte?
CLXIII
Chi brama d'acquistar eterno nome
e fra' pregiati star sempre in memoria,
ed al colmo salir di vera gloria,
vinca se stesso, e gli appetiti dome.
Poco giovan le Muse, e quante some
si trovan d'oro: e certo in van si gloria
chi non acquista del suo cor vittoria,
se ben gettasse a terra mille Rome.
Che val l'imperio aver di tutto 'l mondo
a chi le proprie voglie non affrena,
e dal senso si lascia trar al fondo?
Questa è la fama in terra sol serena
e 'l vero grido che fa l'uom giocondo,
se la ragion la voglia u' vuole mena.
CLXIV
Alte e frondose quercie che le spalle
a questi colli ombrate, faggi ed orni,
genebri e lauri che li bei contorni
di questa ornate al ciel sí cara valle:
sentier erboso, e frequentato calle
che 'n mezzo ai prati d'ogni fior adorni
mi meni, e poi girando mi ritorni
u' par che primavera mai non falle:
cari pastori e pure pecorelle,
lascive capre, armenti ricchi, e voi,
numi del luogo, i' vi saluto e adoro.
La cittá lascio, ed i fastidi suoi,
qui fan ch'i' venga, mie fatali stelle,
u' sol ritrovo al mio languir ristoro.
CLXV
Quand'Amor que' begli occhi ne dimostra,
ove si spiega di bellezza il fiore,
tant'è la grazia ch'indi n'esce fòre,
che sol per quei s'onora l'etá nostra.
Fra 'l nero e bianco dolcemente giostra
con saggia puritá sí vivo ardore,
e un spiritel d'Amor con tal favore,
ch'ogni cor lega in l'amorosa chiostra.
Ed io che senza lor lume non veggio,
al dolce sfavillar i miei desiri
acqueto sí, ch'altro giammai non cheggio.
Oh! chi sapesse dir quanta que' giri
spargon dolcezza dal lor vago seggio,
farebbe a' duri marmi trar sospiri.
CLXVI
Qual meraviglia, o Donna,
s'al mio da voi partire
di vita i' volli uscire?
Da' bei vostr'occhi allora
che son del ciel due stelle,
uscir vedeansi fòra
le lagrime sí belle,
e non so che da quelle,
con certo in voi disire
ch'io mi sentii morire.
CLXVII
Costei, ch'Italia sovra l'altre onora
e de le tosche rime dálle il vanto,
è la gentil Cecilia, il cui bel canto
non ebbe par giammai, né trova ancora.
L'alto suo stil sí dottamente infiora,
e cosí lima, e ripulisce tanto,
ch'ogn'uom l'ammira e riverisce quanto
il chiaro Tosco che la Laura adora.
Forse sará chi Safo par le dica,
Safo sí dotta, sí famosa e chiara,
che tra poeti tiene il luoco anch'ella.
Ceda a la nostra quell'etate antica,
ché se fu Safo, come dicon, rara,
piú casta è questa, né piú dotta è quella.
CLXVIII
Dolci aure, che con lievi penne andate
l'aria scorrendo, ed un concento grato
tra gli alti boschi e selve in ogni lato
temprando il caldo dolcemente fate:
queste ghirlande vaghe ed odorate,
che di bei fior conteste avea donato
Clitora al suo pastor sí caro e amato,
Delio su quest'altar v'ha consacrate.
Temprate, prego, il fier nocivo ardore
che tiene il mar, la terra e l'aria ardente,
or che Febo raccende al Cane il petto.
E mentre il grano ei sparge a le vostr'ôre,
la paglia e 'l loglio misero e nocente
scegliete, sí che resti puro e netto.
CLXIX
Girato ha Febo dal Montone al Tauro
dodeci volte poi ch'Amor mi prese,
e 'l cor con duo begli occhi sí m'accese,
che senza quei non trova alcun restauro.
Né ciel né stella, e meno forza d'auro
il puon piegar da quel ov'ei s'apprese,
quando le luci d'onestate accese
il fêr di selce qual Medusa il Mauro.
Da indi in qua per mari, monti e fiumi,
per piagge e valli sono andato errando,
come mi guida Amor, Fortuna e 'l Tempo.
Ma che mi giova andar ognor penando,
ed ogni dí cangiar luoghi e costumi,
se cresce il fuoco quanto piú m'attempo?
CLXX
Questa selva di cedri, che d'odore
il pregio a l'orïente in tutto tolle,
poi che l'amato Adone in quella volle,
Venere, trasformar il tuo favore:
il fonte che sí chiaro casca fòre
del fruttifero, verde e vicin colle:
d'allori l'ombre u', quando 'l sol s'estolle,
sempre senti spirar fresche e dolci ôre:
questi fioriti prati erbosi e apríci,
il bel palagio che nel mezzo siede,
d'Amor albergo e de le Muse ancora,
il giusto Alcide, o Venere, agli amici
ed a te pone. Or tu sí amena sede
e chi v'alberga ancor, conserva ognora.
CLXXI
Per non vedermi mille volte l'ora
morendo non morir, i' son fuggito
dal fiero albergo d'onde è giá partito
chi aborre il vizio e la virtute onora:
e 'n ripa al Lambro, come vien l'aurora,
m'assido, e meco il cor a star invito,
ch'altrove alberga, e 'l fresco e erboso sito
coi piedi calco, di sospetto fôra.
Ché qui non freme Marte, n'Orïone
vibra la spada, n'a me di me cale,
e men di quanto il mondo dona altrui.
Questo sol bramo: che mai sempre tale,
Attellan mio, tu resti, e chi dispone
del preso cor da che legato fui.
CLXXII
Di Semele figliuolo e del gran Giove,
fòr dell'uso comune in vita dato,
dal mondo riverito ed adorato
per le divine e inusitate prove:
se queste viti generose e nove
che di mia mano, o Dio, t'ho consacrato,
conservi sí che 'l frutto desiato
si colga e lungo tempo a tutti giove:
ogn'anno un capro con le corna d'oro
d'edra adornato col bel tirso avrai,
e 'l tutto asperso d'odorati vini.
Cosí cantava sotto un verde alloro
Delio cultor di viti, allor ch'i rai
comincia Febo al Gange aver vicini.
CLXXIII
Il veder verdi le campagne e i monti,
e gli arboscelli rinovar le fronde,
e tra l'erbose giá spogliate sponde
correr lucenti i freschi rivi e i fonti:
udir gli augelli al canto ognor piú pronti,
quando l'Aurora con le chiome bionde
a l'apparir di Febo si nasconde,
or ch'egli al Toro par che si raffronti:
raccoglier fiori e pallide vïole,
e su l'erbetta molle star assiso
al suon de l'ôre e al fresco d'ombre belle:
lieti amanti allegrar sovente suole;
ma me, che son dal mio bel sol diviso,
fan sempre lagrimar le crude stelle.
CLXXIV
In qual antica selva o sacro bosco,
in qual fiorita piaggia o verde colle
nacque il buon legno su cui Cristo volle
col sangue raddolcir del serpe il tosco?
Ond'ebbe tanta grazia il mondo losco
per l'appetito disfrenato e folle
di nostra madre, che da lui si tolle
morte per morte, e fassi chiar di fosco?
Chi fu tra' vizii mai sí sporco e lordo,
ch'a rammentar sí cruda e orrenda morte
non desti l'alma, e svegli il senso sordo?
Qual che, veggendo aperte in ciel le porte,
ebro di gioia, e di morir ingordo,
non brami che la Parca il fin li porte?
CLXXV
L'orrendo, spaventoso e fiero suono
che lampeggiando e ribombando freme,
le dirupate pietre, e seco insieme
de le spezzate nubi il grave tuono;
le sepolture ch'oggi aperte sono
dal tremendo crollar che 'l centro preme
de la commossa terra, e 'l sol che geme
tant'alta offesa, indegna di perdono;
l'aer gravato d'ognintorno d'ombra,
del tempio sí famoso il rotto muro,
e li cangiati di natura modi,
mostran che 'l Re del ciel morendo il duro
imperio di Pluton da noi disgombra,
felice Croce, dolci e cari chiodi!
CLXXVI
Come non piangi, afflitto cor, se 'l sole
oggi nasconde i suoi fulgenti rai
per la pietá di tante pene e guai
che soffre Cristo che salvar ti vuole?
Di che doler ti suol se non ti duole
del tuo Signor la morte? Ahimè, ch'omai
troppo superbo ed indurato stai,
u' di diamante un cor spezzar si suole.
Mira le piaghe, che con larga vena
qual vivo fiume senza fine il sangue
gettan, perché le colpe purghi e lavi.
Specchio ti sia l'amante Maddalena
ch'innanzi al legno santo mesta langue,
acciò le colpe tue seco ti sgravi.
CLXXVII
Veggio le membra del Fattor del cielo,
chiavate, ahi lasso! sovra 'l duro legno,
sparger di sangue un abondante fiume,
per la pietá di cui suoi raggi il sole
piagnendo al mondo ascose, e ancor la terra
tutta si scosse per sí cruda morte.
Giammai piú indegna né piú ingiusta morte
da che si volge in tanti giri il cielo,
non vide sovra sé l'afflitta terra.
Qual fu ch'udisse mai che d'alto legno
pendesse quel da cui dipende il sole,
e sangue ed acqua derivar d'un fiume?
Queste son l'acque del felice fiume,
che purgan l'altra macchia che fe' morte.
Quest'è quel sangue, che l'eterno sole
sí dolce stilla per condurci al cielo.
Queste le piaghe son, che 'l santo legno
fan trionfante ne l'inferno e 'n terra.
Qual sará dunque sí crudel qui in terra,
al cui piagner non cresca ogni gran fiume,
poiché 'l figliuol di Dio va sovra il legno
con mille strazii al fin condotto a morte?
Ché, s'ei morí, fu pur acciò che 'n cielo
di vita a noi risplenda il vivo sole.
Puote celar la chiara luce il sole
e con orrendo tuon tremar la terra,
ed offoscarsi d'atra nebbia il cielo,
allor ch'aperse l'empio ferro il fiume;
e nostre menti cosí fiera morte
non piegherá dinanzi al ricco legno?
Almo, vittorïoso e altiero legno,
fatto bilancia a l'increato sole
quand'ei morí per far morir la morte,
dammi che 'l peso de la viva terra,
che vaneggiar mi face in riva a un fiume,
la via non mi contenda d'ire al cielo.
Per te s'acquista il ciel, o sacro legno,
che 'l sol reggesti in mezzo de la terra
quando il bel fiume vinse nostra morte.
CLXXVIII
È questo il lieto e avventuroso giorno
fatto da quel che pose in ciel le stelle,
allor che volle, a l'apparir de l'alba,
(quando levò d'inferno a l'atra notte
tant'almi spirti), suscitarsi, e 'l fine
dar a la legge scritta in dura pietra.
Né chiaro fiume uscir di viva pietra,
né nube piú s'attenda in l'aria, il giorno
ch'a le carte di Mose è dato il fine,
perché la vera stella de le stelle,
levato 'l velo da l'oscura notte,
fiameggiando risorge presso l'alba.
O veramente fortunata, l'alba
che da la tomba senza mover pietra
vide uscir Cristo e disparir la notte:
ché qual si mostra il sol a mezzo giorno
diedero 'l lume le dorate stelle,
il Re del ciel lodando senza fine.
Cosí ne venga a la mia vita il fine
se ben venisse pria che venga l'alba,
perché spero trovar con l'alte stelle
la trasparente di giustizia pietra
fatta giá sole al glorïoso giorno
che non vide né mai vedrá piú notte.
E s'io son ito errando lunga notte
in mezzo l'acque, né trovai la fine
che mi scorgesse piú tranquillo giorno,
or veggio presso il rosseggiar de l'alba,
chi del cor rompe l'indurata pietra,
mercé di piú benigne e sante stelle.
Dunque Tu, cui senza il voler, le stelle
non fanno il corso, n'alluman la notte,
e la tua Sposa sovra ferma pietra
fondasti, acciò che duri senza fine,
fa' che 'n me nasca omai quella chiara alba
di cui sei fatto sempiterno giorno.
Felice giorno e fortunate stelle,
quando la notte nel fuggir de l'alba
la viva pietra diede a morte il fine.
CLXXIX
Poich'io partii da quel famoso fiume
ch'assai sovente crebbe al pianger mio,
stommi piagnendo ancor, e sol desío
che 'n pianto a poco a poco mi consume;
ché senz'il dolce, vago e vivo lume
onde mia morte al primo sguardo uscío,
che debbo omai piú far, ahi lasso, s'io
non vuo' ch'altrui splendor mai piú m'allume?
E fôra pur mercé di tanta noia
levar quest'alma, né curarsi omai
di quel ch'Amor mi dice lusingando.
Egli mi giura fuor di tanti guai
voler cavarmi e farmi star in gioia,
ma non m'afferma il traditor il quando.
CLXXX
Alma mia fiamma ch'or da me sí lunge
a la mia lontananza forse pensi,
e quei sospiri d'onestate accensi
al ciel ne mandi, com'il duol ti punge;
quando vedrò dov'a le mura aggiunge
d'Ocno il bel Mencio, e sí famoso tiensi,
ch'ivi prima arsi, e giammai non mi spensi,
sí vivo fuoco Amor al cor mi giunge?
Lasso! che raccontando l'ore e i giorni
da ch'io dinanzi a te non alsi ed arsi,
ho di mia vita lungo spazio corso.
E veggio ambe le tempie giá cangiarsi
bramando indarno il fido mio soccorso,
ch'alberga dentro a' tuoi begli occhi adorni.
CLXXXI
Occhi leggiadri, amorosetti e vaghi,
che 'n fuoco mi poneste
ov'ardo e qual fenice mi rinovo,
quanto mi giova che per voi s'appaghi
il cor, e che si deste
l'alma a seguir il lume altiero e novo,
per cui dolcezze i' provo
tante e sí dolci che d'ambrosia il cibo,
quello che 'n voi delibo
avanza, e quanta mai dolcezza avesse
chiunque Amor per piú beato elesse!
Ma perché l'alma in l'incredibil gioia
tutta s'immerge, ed altro
non cerca, né gustar vuol piú diletto,
resta la lingua muta, e sí m'annoia,
che 'l viver mio no scaltro,
né 'l piacer posso dir quant'è perfetto;
ch'un vostro solo effetto,
se si potesse con parole dire,
farebbe ogni uom gioire.
Ed io mostrato a dito ne sarei,
detto beato e cinque volte e sei.
E pur mi sforzo di vostr'alti effetti
mirabili e divini
quel poco dirne di ch'io son capace.
Ai vostri raggi al mondo sol perfetti
tutti gli altri occhi chini
stanno, cosí gli abbaglia vostra face.
E dov'a quelli piace
volger l'onesto e fiammeggiante giro
attorno attorno in giro,
ride la terra, il mar s'acqueta, e l'aria
le nubi sgombra, ed in seren le varia;
ch'esce un splendor da vostre sante luci,
e tanta apporta grazia,
che potrebbe allumar l'oscuro inferno.
E dove sète voi le scorte e duci,
ogni contento spazia
simile a quel che rende l'uomo eterno,
tal che, per quant'i' scerno,
lume piú bel il ciel non mira o copre.
Né credo che s'adopre
per far natura cosa mai sí vaga,
ove del mondo tutto 'l bel s'appaga.
Voi sète que' begli occhi che donate
del paradiso l'arra
chi divoto il vostro lume segue.
Sí gaiamente ognora vi girate,
che spesso in voi s'inarra
eterna pace senza guerre o tregue.
E tanto si consegue
lieti e gioiosi in vista a contemplarvi,
ch'eternamente starvi
vorria dinanzi ogni uom, e quest'i' bramo,
n'altra a voi grazia, che mirarvi, chiamo.
I' non vorrei giá mai vedermi privo
de la vostra presenza
u' la mia vita sol si fa felice.
Mor'io, begli occhi, moro, né son vivo
allor che resto senza
vostr'alma vista, ond'ogni ben s'elice.
E tanto dir mi lice,
che tutto quel che spira in questo clima
(se 'l dritto e ver si stima)
tant'ha di bello, e tanto par che vaglia,
quant'a voi par che di mirarlo caglia.
Però s'io cerco in ogni luogo e tempo
starvi, begli occhi, innanzi,
e tutto 'l resto poi non curo o prezzo,
e se mi doglio che non piú per tempo
vi vidi, e vuo' ch'avanzi
questa voglia tutt'altre senza mezzo,
vogliate omai che 'l rezzo
di miei sospiri angoscïosi e amari
dilegui, e i vostri chiari
raggi ver me volgete, e quelle ciglia
ch'al mondo son l'ottava meraviglia.
Se guarderai, Canzone,
ch'ignuda se' e parli in basso stile
del bel lume gentile,
sola star non vorrai nel sacro fondo
di quest'acque tranquille, ov'io t'ascondo.
CLXXXII.
Tempo è, begli occhi, omai, che pur vi debbia
veder, e 'l fuoco senta
che dolcemente il cor mi sana e strugge.
Scoprasi il sol, dileguisi la nebbia,
e 'n modo resti spenta
che di mia speme il frutto non adugge.
Il tempo vola e fugge,
e giusto fôra pur dopo 'l digiuno
le mie gran fami d'uno
giro gentil dei vostri sì soavi
quetar, che del mio cor portan le chiavi.
Chi 'l crederà, che quando i' veggio poi
mostrarsi il nero e 'l bianco
degli occhi ond'arde il cor, e insieme agghiaccia,
voglia mi venga di celarmi a voi,
e sí mi treme il fianco,
che di mia tema il segno mostre in faccia?
Non so ciò che mi faccia
di que' begli occhi innanzi al grave assalto,
che d'uomo in freddo smalto
mi cangia a un tratto, a un tratto mi riscalda,
m'ancide e avviva, e ancor m'impiaga e salda.
Dico ch'allor allor ch'intento i' veggio
spiegarsi il paradiso
dei fiammeggianti e altieri vostri rai,
arditamente con li miei patteggio
mirarvi sempre fiso,
n'indi la vista rivoltar giá mai.
Ma com'i lumi gai
spargon le fiamme agli occhi miei per contro,
ed io quel lampo incontro,
ratto m' accieco, com' al chiaro sole
notturno augel la vista perder suole.
Ma perché in lo splendor più che mortale,
anzi santo e divino,
mille dolcezze stanno sempre a paro,
e quanta è quella tema che m'assale
tanto mi sta vicino
di ferma speme l'ottimo riparo,
ardisco pur al chiaro,
vivo splendor girar l'inferma vista,
ch'a poco a poco acquista
il vigor morto, e poi sotto occhio mira
come soave il lume bel si gira.
Che s'io potessi al discoperto un tratto
mirar come volgete
sovra 'l corso mortal que' vostri ardori,
e discoprir altrui com'è poi fatto
il fuoco ove m'ardete,
morir farei d'invidia mille cori.
Vo di me stesso fòri
l'ombra scoprendo de l'ardente lume
ch'a gir al ciel le piume
mi presta, e son di questo poco incerto:
che fôra dunque s'io 'l vedessi certo?
Ch'una rivolta sol di quella luce
ch'ogn'altra luce sgombra,
può far gioir qual sia piú mesta mente:
ché 'n que' soavi lumi alberga e luce
e dentro vi s'ingombra
un certo non so che, che l'alma sente,
ma fòr apertamente
dir non si può, né dimostrar appieno,
ché 'l lume bel sereno,
dolce ed amaro, altiero, umile e piano
mai non s'aguaglia con parlar umano.
Né tu per gir altrove,
Canzon, ti partirai da la sorella,
ché troppo poverella
e mal ornata se' del lume santo,
ond'io la carta vergo al terzo canto.
CLXXXIII
Stancar si può la lingua in dir, begli occhi,
le vostre grazie e doti,
ma non giá tutte, n'io restar mai sazio:
ch'un pensier vuol Amor ch'ognor mi fiocchi
in mezzo l'alma, e noti
cose a lodarvi di gran tempo e spazio.
Ond'io lodo e ringrazio
la sua virtú, che m'ha di voi si accenso
che d'altro mai non penso,
né parlar posso che di vostra fiamma,
benché ne scriva appena una sol dramma.
Tolto di me v'avete sí l'impero,
ch'ad ogni vostra voglia
quel di me fate che vi piace e aggrada.
Ed io, di voi contento, piú non chiero,
né vuo' ch'altro mai voglia
quest'alma, fin che 'l corpo in terra cada.
Voi di virtú la strada
prima m'apriste col tremante raggio,
onde timor non haggio
smarrir la via, poi ch'ei m'è fatto guida,
tant'è vostr'alma luce chiara e fida.
Per voi la vita or non mi spiace, ch'era
a me noiosa e a sdegno
quando viveva peggio assai che morto,
occhi beati, senza cui si spera
indarno gir al segno
che di riposo scopre il vero porto.
Ond'io, ch'accese porto
vostre dolci faville in mezzo l'alma,
con cosí cara salma
vommene lieto e d'alto desir vago,
né piú di basse voglie il cor appago.
Veggio, begli occhi, che temprate in modo
il fuoco ond'io m'incendo,
che d'eterno gioir mi fate erede.
E sí m'acqueto e dolcemente godo,
che chiaro pur comprendo
che questa gioia ogn'altra gioia eccede.
E tengo ferma fede
che s'io son vivo in tant'affanni e pene,
da voi, non d'altro viene;
ché da' bei vostri raggi e lor aíta
nasce il vigor che mi nodrisce in vita.
Vile era, anzi pur morto prima ch'io
del vostr'altiero sguardo,
luci serene, avessi ancor contezza.
Ma com'il vago lume m'infollio
col fuoco ove sempre ardo,
ratto conobbi allor la mia bassezza,
Ed ebbi per certezza
che chi per voi sospira, al vostro fuoco
come s'infiamma un poco,
si cangia tutto, e tutto si trasforma
e nova prende qualitate e forma.
Lasso! se l'ombra poi del fragil velo,
ond'io vo basso e grave,
in me di voi la luce non ombrasse,
amante mai non visse sotto 'l cielo
vita dolce e soave,
ch'al mio piacer di dietro non restasse.
Ma le mie forze casse
di virtute al gentil vostro gran carco
fan che nel dir son parco,
per ciò che cosa voi divina e santa,
ed io vile e mortal di terra pianta.
Pur ciò ch'io scorgo, e spesso in carte spiego,
cosí m'acqueta il core
ch'altro non bramo, tanto mi diletta,
né mai dal mio voler punto mi piego,
ché 'l vostro gran favore
ogni dolcezza ed ogni pace alletta.
Né credo che perfetta
in terra senza voi piú cosa viva,
perché da voi deriva
tutto quel ben che qui s'agogna e cerca,
che vostra grazia, non tesoro merca.
Giá l'ho ben detto, Amor, che la mia lingua
non è bastante e forte
de' begli occhi scoprir la gran virtute.
E se talor avvien che 'n me distingua
la lor beata sorte,
onde dipende sol la mia salute,
i' veggio allor che mute
sarian le lingue dotte ed ispedite.
Perch' a' begli occhi unite
son tante grazie, e parti sí divine,
ch'umano ingegno non vi scorge il fine.
Tu viverai con l'altre,
povra Canzon, tra queste canne e rive
de le bell'acque vive,
ed io col fuoco di bei raggi ardenti
starò per far i giorni miei contenti.
CLXXXIV
Occhi sereni agli occhi miei che date
quanta per occhi mai fu gioia o fia:
occhi beati pien di leggiadrIa,
che quanti son chiarI occhi ognor ombrate:
begli occhi e amorosetti, occhi che fate
felice chi vi mira, occhi, che pria
dal volgo mi sviaste, occhi la via
voi soli agli occhi miei del ciel mostrate.
Dolci occhi e amari, altieri, umili e saggi,
occhi gioiosi, lieti, puri e divi,
chiari occhi, onesti, lampeggianti e vaghi,
quando sará che i vostri umani e vivi
lumi, che piú del sol han caldi i raggi,
queto rimiri, e i miei martír appaghi?
CLXXXV
Dunque qual cera al fuoco
l'alta mia spene consumar si vede,
e vano è il desiar d'aver mercede?
Divengan tutti i miei pensier di ghiaccio
e vada ogni desir qual polve al vento,
né grato il mio servir mai veggia farsi,
in sí bel luogo ed alto il cor i' sento
e con sí stretto nodo quell'allaccio,
che non potrá per modo alcun slegarsi.
Il fuoco mai scemarsi
giá non vedrassi, perché la mia fede
e l'altre tutte, e poi se stessa, eccede.
CLXXXVI
Quando 'l valor e la prodezza vostra
meco, signor, i' penso, dico allora:
questi è sí forte ed animoso ancora,
che di par con Alcide in campo giostra.
E s'eloquenza in voi suoi frutti mostra,
come lo stil sí chiar fa fede ognora,
ecco, allor grido, chi le Muse onora,
e tanto leva in alto l'etá nostra.
Le vostre bellicose imprese tali
son che stancar puon Cirra, e 'l vago dire
può tòrvi a morte, e altrui donar la vita.
Quanto dunque dovete ognor gioire,
che vostra fama sia con sí bell'ali
con Marte e Febo sovra 'l ciel salita!
CLXXXVII
Se del bel viso le fattezze belle
e l'altre membra a parte a parte i' miro,
dico che 'l biondo Apollo allor rimiro,
cosí leggiadro e bel vi fan le stelle.
Ma come il gran valor aggiunto a quelle,
ed il pregio de l'armi, penso e ammiro,
onde vittorie sí famose usciro,
Marte convien per forza ch'i' v'appelle.
Mercurio giuro poi che sète, allora
che ragionando d'eloquenza un fiume
sparge il parlar, ch'acqueta ogni furore.
Qual meraviglia dunque se v'adora
la bell'Italia com'un sacro Nume,
per voi salir sperando al prisco onore?
CLXXXVIII
O bella man gentile
che sovr'ogn'altra mano
di beltá rara il pregio porti e 'l vanto,
come potrá 'l mio stile
umile, basso e piano
appien lodarti con sonoro canto?
O cara mano, quanto
merti ch'io lodi e prezze
quel vivo, bel colore
ch'al mondo mostra 'l fiore
di tante doti tue, di tai bellezze
che tu sei quella sola
che l'alme ai corpi in un momento invola!
Tu sei quell'una, quella
man delicata e molle
ch'hai d'avorio color e d'alabastro.
Tu sei la man sí bella
cui sovr' il ciel estolle
l'alto favor del tuo superno Mastro.
O ciel benigno, ed astro
a me propizio sempre,
o forte mia ventura,
lasso chi m'assicura
che di dolcezza il cor non si distempre?
E qual amante al mondo
ha stato sí tranquillo e sí giocondo?
Ma chi potrá mai dire
de la dolcezza mia
l'incredibil piacer e immensa gioia?
Chi fia che discoprire
quale e quanto sia
possa il diletto che non teme noia?
E ben che tosto i' moia,
i' ne morrò contento
d'aver provato, prima
che morte mai m'opprima,
il ben che l'uom'eterna in un momento
in cui dolcezza sède
che quanta mai dolcezza fosse eccede.
Ch'i replicati baci
su quella man soave
che 'l cor m'annoda e come vuol discioglie,
fur tutti ardenti faci
che m'arser sí, che m'have
qual fenice rifatto a le sue voglie.
Da me stesso mi toglie
la bella mano schietta,
con tanta maestate,
ch'allora mille fiate,
questa, diss'io, dal volgo a sé m'alletta.
E a l'uno e a l'altro polo
seco m'innalza con famoso volo.
Quai d'orïente perle
ben lucide e polite
l'India ne mandi o qual piú ricco mare,
non sará, ch'a vederle
non paian scolorite
a par de l'unghie cosí terse e chiare.
O candor singolare
di que' diti sí vaghi,
cosí leggiadri e snelli,
che 'l cor da me divelli,
e dolcemente nel martír m'appaghi.
Rara beltá divina,
cui tutto 'l mondo onora e ognor s'inchina.
Quando la bocca posi
su quella per baciarla,
soave albergo d'ogni mio desio,
chi 'l crederá, ch'ascosi,
per piú leggiadra farla,
i pargoletti Amor in lei vid'io?
E l'alma quasi uscío
da le mie labbra fòri
per istar sempre seco,
né dir saprei chi meco
la ritenesse allor in quei favori.
Ché s'io n'avessi morte,
qual mai piú bel morir, o lieta sorte?
I' non dovea levarmi,
o bella man, giammai,
ma mille e mille baci ancora darti,
ché sol beato farmi
e trarmi fòr di guai
tu puoi: tant'è quel ben ch'in me comparti.
E di poter baciarti
non fu giá poca grazia,
perché fatta sei tale
che tua bellezza vale
ogni voglia acquetar e render sazia.
Ond'io mi fermo, e grido
che d'ogni gioia in te riposto è 'l nido.
Chi può, Canzon, ad una ad una tutte
annoverar le stelle,
dirá di questa le bellezze belle.
CXXXIX
Il grave incendio dov'ardendo i' vissi
molti e molti anni, come volle Amore,
cercando di smorzar o far minore
in mille carte discopersi, e scrissi.
Ma quanto mai cantai, o piansi, o dissi,
nulla scemò del fier e immenso ardore
che piú che pria mi stempra l'alma e 'l core,
sí fur tra salde fiamme avvolti e fissi.
Ah! quanto puote una prescritta usanza,
ch'i' son al fine, e non m'avveggio a pena
ch'un'ora sol del viver mio m'avanza.
Signor, che trar mi puoi di tanta pena,
fa che 'n te fermi sol la mia speranza;
me tu governa, tu sospingi e affrena.
CXC
Dunque se' morto, e resta il caro armento
privo di guida, o Dafni, in queste piagge;
ecco che giá da l'altre si sotragge
la vacca bianca piena di spavento.
Di qua fuggir la bionda e nera sento:
la notte e 'l dí quell'altra le selvagge
grotte ricerca, e fier muggiti tragge:
sembra al fuggir la rossa un lieve vento.
Fugge il diletto, caro e bianco toro
di quel d'Europa assai piú vago e bello,
e di star stella in ciel piú degno assai.
Cosí piangeva sotto un verde alloro
assiso Delio in riva d'un ruscello,
e 'l vento ne portava i duri lai.
CXCI
Ne le fiorite piagge, e fertil piano
d'ombrose selve e folti boschi pieno,
che la bell'Adda press'Insubria bagna,
Pan dio d'Arcadia venne, poi che 'n vano
seguí Siringa che d'Amor il seno,
superba e ritrosetta, discompagna.
E 'n la ricca campagna
d'antiche quercie mezz'ai santi orrori
l'albergo elesse, e eterno nome diede
al bel Pandino, erede
oggi di piú felici e veri onori,
di virtú nido, e seggio a' casti Amori.
Quivi la bella e glorïosa Donna
ch'a' nostri giorni di virtute e grazia
e di beltate albergo si ritrova,
stassi con sparso crine in nera gonna,
e sol di lagrimar s'appaga e sazia:
tant'in lei doglia il duol ognor rinova,
il duol a cui non giova
altrui conforto: sí l'affligge e sface
la morte di un figliuol, tal ch'ella suole
da l'uno a l'altro sole,
piagnendo sempre priva d'ogni pace
starsi, qual neve al sol che si disface.
Onde, chiavate insieme ambe le mani,
con gli occhi fissi al ciel si lagna e grida
tal ch'a pietate il marmo può piegarse.
E dice sospirando: ahi! sciocchi e vani
nostri pensieri, e pazzo che si fida
in ciò ch'ogni momento suol cangiarse!
Invide Parche e scarse,
che 'l caro mio figluol sí tosto a morte
tiraste con sí duro e orrendo caso,
che da l'orto a l'occaso
del sol non fu giammai sí fiera sorte
tra quanti qui n'ancide l'empia morte.
Come non puoté in me tanto la doglia
ch'i' ne morissi allor ch'i' vidi il sangue
da quelle membra uscir sí caldo fòre?
I' vidi, ahimè! la pargoletta spoglia
d'alto cadendo pallidetta e esangue
restar come tra l'erbe un secco fiore.
Ben è ver che non more
di doglia alcun. I' pur dovea morire
allor che 'l vidi. I' pur morir dovea
quando mancar vedea
il caro mio figliuolo in tal martíre,
che 'n me non può per tempo mai finire.
Questa è pur doglia ch'ogni doglia avanza;
e sovra ogni credenza in me può tanto,
ch'i' ne torrei morir per minor pena.
E peggio si è, che fòr d'ogni speranza
i' vivo che cessar mai debbia il pianto,
ch'esce dagli occhi miei con larga vena.
Ahi! vita amara e piena
d'aspri tormenti! I' veggio ben ch'omai
sperar non debbo piú diletto o gioia,
ma sol angoscia e noia,
che con dogliosi e sempiterni lai
mi tengan sempre, fin ch'io viva, in guai.
Che se per morbo il mio figliuol la vita
finit'avesse a poco a poco, quale
suol avvenir in tal etá sovente,
forse ch'a l'aspro mio dolor aíta
darei. Ma quand'i' penso a l'alte scale
cagion de la rovina sí repente,
mancami allor la mente,
né come viva resti dir saprei.
Ahimè figliuolo! ahimè figliuol mio caro!
In tanto duol amaro
il resto lasci de li giorni miei,
che se morta non fossi i' ne morrei.
Or quando mai potrò, figliuol, vederti?
Ché senza te la vita non m'aggrada,
ove mai sempre il cor doglioso geme.
Lassa! che non feci io per ritenerti?
Ma non puote Esculapio o Apollo a bada
l'alma tener in tante doglie estreme.
Non valse il còlto seme
a piena luna, e meno il suco d'erbe,
né tra le pietre il verde e fin smeraldo
né lo bel diaspro il caldo
sangue fermò che da le piaghe acerbe
correa qual rio che larga vena serbe.
Ind'io mirando que' begli occhi, quelli
occhi tuoi dolci ombrar eterna notte,
e 'l dolce ragionar finir in tutto,
piú di te morta, i giá leggiadri e belli
lumi bagnai con lagrime interrotte
da fier singhiozzi e sospiroso lutto.
E 'l viso bel distrutto
e la soave bocca in ogni lato
baciai piú volte, stand'intenta allora
ch'uscisse l'alma fòra
acciò cogliessi almen lo spirto amato
su le tue labbra con l'ultimo fiato.
Dunque, figliuol, l'acerbo mio cordoglio,
s'hai teco quell'amor che 'n terra avevi,
mira dal ciel, e vieni a consolarmi.
Tu sai che giustamente pur mi doglio,
dapoi che fur i giorni tuoi sí brevi,
ch'assai piú tempo lieta dovean farmi.
Ahimè! perché donarmi
non volle grazia il ciel, ch'a questo passo
teco, figliuol... Qui tacque, né piú disse,
ch'ambe le luci fisse
al ciel avendo, il corpo quasi casso
parve di vita, ed ella farsi un sasso.
Turbosse allor il cielo
per non veder che 'l cor di duol si svella
fra le piú belle donne a la sí bella.
CXCII
Qual luogo avrai, magnanimo signore,
tra' glorïosi ed immortali eroi,
se giovanetto ancor li fatti tuoi
ti dan de l'armi il principal onore?
E qual mai stile fia, che 'l tuo valore
aguagli e spieghi quanto vali e puoi,
se da li nostri fino ai liti Eoi
traluce il sol del chiaro tuo splendore?
Non sperar dunque a li tuoi merti uguale
luogo fra noi, che su nel ciel a canto
a Marte il seggio tua virtú ti dona.
Né sia poeta alcun che stenda l'ale
presso al tuo volo: ch'ei s'innalza tanto,
che dietro lascia Cirra ed Elicona.
CXCIII
Non perder piú saette, o sommo Giove,
ma spegni il tuo furor, ammorza l'ira,
ché di costor che temi nessun spira,
ma di pittor son opre eccelse e nove.
State, giganti; a che mostrar piú prove
se contra voi qui Giove non s'adira,
non folgora, non tuona, o strali tira?
Mirate ch'egli è pinto, e non si move.
Or ben si vede quanto può l'ingegno
e la maestra man del rar pittore,
ove s'inganna l'uomo e Giove ancora.
Tacciasi Zeusi, e stia Parrasio fòre:
Giulio Romano d'altro onor piú degno
sará cantato, e piú famoso ancora.
CXCIV
Poiché dal sol nascente al basso occaso,
e fe', da tramontana al mezzo giorno,
ancisi i mostri, Alcide il mondo adorno,
stracco non giá, ma sazio alfin rimaso,
l'alto suo seggio sovra questo vaso,
che cinge il laco ed il palazzo intorno,
elesse invitto re per suo soggiorno,
qual luogo che non teme sorte o caso.
A questo sol si mosse per mostrarti
che 'n tutto al tuo valor adesso ei cede,
come a chi merta il primo in terra onore.
Se di se stesso adunque fatti erede,
discaccia arditamente chi turbarti
il regno cerca, ché sarai vittore.
CXCV
Per l'alto impero de la gran Matrigna
discese Alcide a li Tartarei chiostri,
cacciò del mondo tanti crudi mostri
quanti n'avea la terra aspra e maligna.
Giunto qui con la destra ancor sanguigna,
vuoi tu, Giunone, disse, ch'io dimostri
la forza? qui non fanno i ferri nostri
tra gente sí cortese e sí benigna.
Qui dunque ancora la mia stanza fia,
quando di Franza il re Francesco primo
di marmo il fonte adornerá con arte.
Allor, se 'l dritto previdendo estimo,
ei di fortezza fia e cortesia
Augusto in pace, in guerra un nuovo Marte.
CXCVI
Se 'l nome chiar di Livio padovano
via piú di Roma a' que' buon tempi puote
per l'alta sua facondia e dolci note
genti tirar a sé dal lito Ispano,
Gallico re, parer non ti de' strano,
che 'l vostro gran valor e rara dote
tiri da l'Austro al frigido Boote
ad ammirarvi ogni uom in questo piano.
Che quanto è qui di bel, ancor che sia
d'ogni edificio bel piú bel, e tanto
s'alzi che sovra tutti gli altri sale:
pur vera fama a voi sol dona il vanto
d'ogni grandezza e larga cortesia
quanto piú l'uom d'ogn'altra cosa vale.
CXCVII
Mentre il gran Giulio Scala in alto sale,
dolce cantando tanti eccelsi eroi,
è tra poeti il primo oggi fra noi,
e rende il nome lor chiaro e immortale.
Beato lui, che tanto vede e vale
che vera vita dona a l'uomo poi,
che fiera morte con gli artigli suoi
sotterra mette il velo infermo e frale.
E s'ei piú viva vita a' morti dona
di quella de la vita, a lui che fia
poi che l'alma sará nel ciel salita?
O ben nata alma, o mente sacra e pia,
s'or il tuo nome sí famoso suona,
ecco ch'allor eterno ogni uom l'addita.
CXCVIII
Miracol di natura qual maggiore
si vide giá, né si vedrá piú mai?
E cerca, e mira pur quanto tu sai,
ch'ogni altro a par di questo fia minore.
Ecco il mirando ed unico stupore,
che 'n un sol corpo vivere vedrai
cinque alme eccelse, che vinser d'assai
quante lodate fur con vero onore.
Il nostro Scala, s'entra in Elicona,
Virgilio è schietto, e se la prosa infiora
quel d'Arpin senti i folgori vibrare.
Se poi natura cribra, e sceglie fòra
le cose occulte, il gran Stagira suona,
e Marte in l'arme, e Febo in l'erbe appare.
CXVIX
Erra chi morta, Cesare, mi crede:
se ben al volgo par che morta sia,
segno fatto è del ciel la forma mia,
di maggior stato e nuovo regno erede.
Ché 'l sommo Giove il luogo mi concede
che d'Erigone il can teneva pria,
e vuol che 'l Sirio ardente meco stia,
che spesso coll'ardor la terra fiede.
Ma per temprar il caldo ch'or sí forte
i vostri corpi stempra, ebbi di grazia
l'urna versar ch'Acquario rinovella.
Meco t'allegra adunque di mia sorte,
e chino il gran Motor loda e ringrazia,
che di Corgnuola in ciel m'ha fatta stella.
CC
Che fôra Ulisse, Achille e gli altri eroi
ch'arser di Troia le superbe mura,
se 'l grand'Omero non pigliasse cura
vivi tenerli con li versi suoi?
Cosí vedesi Enea chiaro fra noi,
che morte o 'l tempo il nome non gli oscura,
perché Virgilio il tra' di sepoltura
e vuol che viva mille etati e poi.
Non val, Savello, in fatti eccelsi e magni
la vita consumar cercando lode,
senz'il favor d'un nobile poeta.
Ché son nostr'opre al fin tela di ragni
soggette al tempo, che la guasta e rode,
se qualche dotta Musa non divieta.
CCI
Come potrò mai dire
ch'io viva, e vita questo viver sia,
s'è senza vita ognor la vita mia?
Il vivo raggio che dagli occhi viene
della mia Donna, Amore,
l'ésca porgeva al lasso viver mio:
onde tal forza ne prendeva il core,
che fra l'acerbe pene
mi dava d'ogni strazio sempre oblio,
e sol intento er'io
al dolce sfavillar di quella pia
vista, che 'n terra un paradiso cria.
Ben mi potea chiamar contento e vivo,
allor ch'a lei presente
gustava in que' bei lumi ogni dolcezza;
or che mia sorte me ne tiene absente,
né veggio il lume divo,
questa mia vita il viver piú non prezza.
Né vita è pur, ché mezza,
anzi giá tutta è morta. Ahi sorte ria!
Di me, senz'il favor di quel, che fia?
Quand'io lasciai sul Mencio quella vaga
luce amorosa, allora
lasciai la vita innanzi a la mia vita.
Quivi da me lontana ella dimora,
sol di quel lume vaga
ov'ogni grazia il ciel tien sempr'unita.
Ivi quel ben s'addita,
che fa ch'un uom senz'alma in vita stia
e paia vivo come giá solía.
I' non son vivo, Amor, né mai potrei
viver lontan da quella,
che, come vuol, il cor or m'apre or serra.
Cosí mi diede il ciel e la mia stella,
il dí che mi rendei
a lei del Mencio in la famosa terra.
Quivi mia pace e guerra
tempra mai sempre, e me da me disvia,
per cui se stesso il cor disprezza e oblia.
Onde non so se morto o vivo sono,
da poi che 'l mio conforto,
come mia stella vuol, abbandonai.
E se di vita il segno in viso porto,
vien cosí raro dono
da' begli occhi piú chiar che 'l sol assai;
ché fanno ancor que' rai,
con la virtú di lor pietá natia,
spirar la vita in me, com'era pria.
Ahi! strana vita che pur morta spiri,
ond'io tal provo strazio
che giunto son di Stige sulla riva:
quanto di fiumi, mari e monti spazio
da que' soavi giri
mi tien diviso, e posso dir ch'i' viva?
In tutto l'alma schiva
meco restar a farmi compagnia,
né trova a darmi aíta piú la via.
Cosí mi veggio, Amor, giá giunto a tale
ch'io vivo non vivendo,
e d'uomo sono un'ombra sol e un segno.
E pur mi meraviglio, morto essendo,
che 'l pianto in me sí sale
qual era allor ch'entrai dentro il tuo regno.
Però per fermo i' tegno
morendo non morir, e tuttavia
per fuggir morte il cor morir disia.
CCII
Ha l'alto ciel un sol infra le stelle,
in terra fra le donne questa è un sole:
Febo a le stelle il lume donar suole,
prendon beltá da questa l'altre belle.
Ovunque gira Febo le fiammelle
gli uomini avviva, i pesci e le vïole:
di questa la beltá com'ella vuole
tutti i cor nutre, e fuor de' petti svelle.
A l'apparir del sol ogn'altra luce
s'asconde e fugge: quando quest'appare,
altro che 'l suo splendor a noi non luce.
Suol nebbia spesso i raggi al sol ombrare:
di questa la beltá cosí riluce,
ch'ognor piú chiara e bella si suol fare.
CCIII
Molte stagion di ghiaccio, e ancor di fiori,
sempr' agghiacciando e sempr'ardendo ho corse,
da che 'l verme d'Amor il cor mi morse,
cagion de' miei soverchi aspri dolori.
Da indi in qua, d'ogni speranza fòri
d'aver mai tregua, quanto in ciò m'occorse
scrissi piagnendo, e de la vita in forse
ancor travaglio in mille strani errori.
E ben che veggia come, fatto veglio,
cangiato ho il pelo e, quasi giunto a riva,
abbia di vita omai o nulla o poco,
pur forza m'è ch'al suo voler i' viva,
e sí da lunge innanzi abbia lo speglio
di quell'eterno di begli occhi fuoco.
CCIV
CANZONE DEL BANDELLO
DELLA BELLEZZA E DELLE RARISSIME GRAZIE
DELLA DIVINA SIGNORA LUCREZIA GONZAGA
DI GAZUOLO.
Amor piú volte mostro
m'ha nei begli occhi de la Donna mia
come per lor trïonfa e spiega l'ali;
e dicemi: i' ti mostro,
amante, cosa ch'impossibil fia
che mai si veggia piú fra voi mortali.
Ché, quante sono o fur mai donne uguali
non vedi a questa, ond'io men vado altiero,
che senza il suo favor nulla sarei.
Poi scopre agli occhi miei
cose che dir altrui poter non spero.
Ma tant'è quel desío,
ch'accende questo dolce lusinghiero
di scoprir ciò ch'ognor in lei vegg'io,
che di parlarne alquanto almeno desío.
Ma come posso, Amore,
mostrar parlando tanta maestate,
se l'intelletto non la scorge a pena?
Ché ciò che splende fuore
(non pur l'interna e sacra chiaritate
al volgo ascosa, e d'alte doti piena),
ogn'alto ingegno abbaglia, avanza e affrena,
e ratto fallo andar fuor di se stesso
per tant'eccelse e rare meraviglie.
E pur tu vuoi ch'io piglie
ardir di palesar e far espresso
ciò ch'impossibil parme
ch'io dica, e dove indarno mi son messo.
I' nol potrò scoprir, ché 'l ciel levarme
non vuol tant'alto, ov'io potrei bearme.
Ché s'io potessi, o Donna,
tanto di voi parlar quant'è 'l desire,
e quanto meco, e con Amor ragiono,
voi diverreste donna
di quanto vuol Iddio che 'l ciel rimire.
Tante in voi doti e tante grazie sono,
che un sol de' vostri discoperto dono,
come l'indica pietra il ferro fura,
tirerebbe ciascuno a contemplarvi,
e china ad adorarvi
vedreste in terra ogni opra di natura.
Ond'io che vosco a lato
sempre mi trovo, (oh forte mia ventura!),
a dito mostro, lieto e fortunato,
(vostra mercé), sarei talor chiamato.
Indi avverrebbe poi
ch'al vostro pregio e a l'alta gloria vostra
ed al mio bene invidia il mondo avrebbe.
Cosí posta per voi
in colmo d'ogni gloria l'etá nostra
vedrei, ché tanta grazia mai non ebbe.
E fôra il grido tal, ch'ogni uom direbbe:
Oh ben divino, oh grazia mai non vista,
né sotto il ciel da riveder piú mai!
Questa coi santi rai
ch'escon sí ardenti dalla vaga vista,
a' corpi l'alme invola:
e questi col suo dir ognor le acquista
eterna fama, e seco al ciel sen vola:
egli beato, ella felice sola.
Or lasso! il ciel mi nega
ingegno e forza a tant'eccelsa impresa,
e resta sol ardita in me la voglia.
Ma sotto 'l peso piega
la debil forza sí che l'è contesa
quell'alta guida ch'a cantar l'invoglia.
E questo è quel che fa che sempre in doglia
vivendo stommi, e resto fòr di spene
d'aver al vostro merto uguale il canto.
Ché ciò che mai da canto
mette il pensier, ch'al mio voler s'attiene,
com'egli è sculto in mente
cosí perfetto poi di fòr non viene.
Perciò la lingua sí confusamente
parla, ch'a par del ver nulla si sente.
Almen mi desse il cielo
che, come in chiaro, fresco e puro rivo
si vede tutto quel che serba al fondo,
cosí 'l terrestre velo
ciò che nel cor pensando formo e scrivo,
non mi togliesse rimirar profondo.
Ivi vedreste allor ch'amante al mondo
non ha pensier uguali a' miei pensieri,
ch'affina Amor nel vostro vago viso.
Ivi mirando fiso
quanti ho di voi concetti santi e altieri,
e ciò che 'n verso e 'n prosa
di dir la lingua par che si disperi,
direste sospirando: questa è cosa
da farmi eterna, chiara e glorïosa.
E ben ch'ognor m'avveggia
come non giungo di tant'opra al segno,
che non la scerne appena l'intelletto,
lo spirto pur vaneggia,
d'eccelse voglie e d'alto desir pregno,
sforzandosi scoprir ciò ch'ho nel petto;
ma non segue al desir ugual l'effetto.
Ond'appo voi il non poter mi vaglia
a giusta scusa, acciò ch'al mondo avaro
sia manifesto e chiaro,
che sí il vostro valor mi preme e abbaglia,
che di quell'il gran carco
contende, che di fòr lo stil non saglia,
come la mente ognor m'informo, e carco,
tal che nel dir or resto vinto, or parco.
A che dunque s'ammira
chi vede 'n mezzo ai bei vostr'occhi ognora
trovarsi Amor da la sua madre dèa,
se chi ben fiso mira
vede ch'Amor, voi senz'Amor non fôra,
che quella sète dov'Amor si crea?
Voi d'Amor madre, voi del mondo Idea,
che fra fastidi de l'umana vita
pace porgete a chi v'adora e segue.
E tanto si consegue,
che gioia date eterna ed infinita
che d'ogni ben n'appaga,
tant'è il favor di vostra dolce aíta.
Onde la fama ognor gridando vaga
la divina LUCREZIA di Gonzaga.
Se forza al mio desir, Donna, darete,
i' canterò di voi cose sí belle
che fermerò col sol tutte le stelle.
RIME ESTRAVAGANTI
I
A LA SUA ECUBA IL BANDELLO.
Ecuba, che sei stata
sí beata e felice,
poi misera e infelice,
quanto mai donna al mondo fosse nata:
ecco che fortunata
e trarti fòr di guai
può quella a cui tu vai;
quella ch'altiera e sola
per le bocche di dotti viva vola.
Quest'è colei che 'n terra
è specchio d'ogni bene,
e tanta grazia tiene
che 'n lei ragion mai sempre il senso atterra.
Pace ivi senza guerra
han le virtuti unite,
e fan che 'n lei s'addite
con vera castitate
quanta ebbe gratia mai qual fosse etate.
Ella a le Muse nido
fatt'ha del casto petto,
con quel chiaro intelletto
angelico, divin, veloce e fido.
Indi ne vola il grido
del suo limato stile
da l'Indo adusto a Tile,
che fanno i tanti versi
a l'alme di profitto dolci e tersi,
che nel suo sacro speglio,
lucido e trasparente,
si mira l'alma, e sente
quanto è grave il peccato noto e veglio.
E volta a Dio, il meglio
cerca allor di seguire,
bramando di morire
per far del ciel acquisto
e star mai sempre lieta col suo Cristo.
Né per ciò punto sdegna
questa nobil Regina,
s'alcun talor s'inchina
di Parnaso seguir l'altiera insegna.
Anzi, quant'è piú degna
di sangue, regno ed oro,
piú prezza il verde alloro,
e col real favore
rend'ai poeti il meritato onore.
Or dunque senza pare
questo mio picciol dono,
ch'umil vi sporgo e dono,
piacciavi umanamente d'accettare.
E ch'altro può donare
a sí reale altezza
l'infima mia bassezza
ch'opra di carta e inchiostri,
se le gemme sprezzate, perle ed ostri?
Via piú voi fate stima
d'un bell'ingegno ed alma
vertú, d'una pura alma,
che di quant'oro e regni il volgo stima.
Questo vi fa la prima
di quanti mai la Fama
al suo trionfo chiama;
che 'n corpo ancor mortale
chiara vi rende, sacra ed immortale.
II
BANDELLI IN OBITUM FRACASTORII.
Lassa pur tosto l'alma gloria mia
com'è fuggita, e seco ogni contento?
Ove piú s'udirá quel rar concento
cui par non fu, né forse mai piú fia?
Ahi, Fracastor, che morte cruda e ria
a me ti ruba, e 'l bel poema ha spento
che la tua Musa, de l'aspro tormento
ch'a' Giudei Tito diè, tant'alto ordia.
I cedri miei, che di tua man sovente
rigavi, con gli Esperii pomi d'oro
languidi stanno, tra gli allori e i mirti.
Queste lagrime ond'io mi discoloro,
dicea Melsinia, devrian largamente
far piagner di Parnaso i dotti spirti.
III
Magnanim'Attelan, s'il gran marchese
un folgor di bataglia è in terra solo,
e 'l Latin col Tedesco e lo Spagnuolo
conduce armati senza lor contese,
e s'il lombardo fertile paese
or ha difeso dal nemico stuolo,
e al fiero Gallo tolto il gir a volo
che con suoi vanni tutta Italia offese,
onde 'l Tesin le rive in ogni banda
tranquillo bagna e glorïoso infiora
de le regali ostili, ricche spoglie,
meraviglia non è, perciò ch'ogn'ora
dal ciel favor il Re del ciel gli manda,
cui giá Vittoria consacrò per moglie.
IV
Contrario al tuo bel sol non è mai stato,
Donna gentil, il ciel, quando tu puoi
portarlo da gli Esperii a i liti Eoi,
ed indi alzarlo sovra il ciel stellato.
Ch'a questo ogn'altro stile è mal limato
e sará sempre, e sol i versi tuoi
porranlo fra' famosi antiqui eroi,
ch'han dopo morte eterna fama a lato.
Né ti scusar ch'a tant'ardor concetto
ti manchi ugual, ch'a quel che tocchi segno
dei nostri tempi stile ancor non sale.
Dispiega dunque in carte il bel disegno
fatto da quel felice alto intelletto
che teco il tuo bel sol fará immortale.
V
Troncat'ha morte l'ali a l'alto volo
de l'invitto, gentil, forte marchese,
cui tante glorïose e rare imprese
portano chiaro a l'uno e l'altro polo:
ché egli era in terra, qual Fenice, solo,
che quant'ascender può mortal ascese,
ond'or si vede il danno assai palese
che la milizia sofre in tanto duolo.
Piagne ella, e seco l'augello di Giove
si lagna, e 'l chiar Sebeto, in duri lai
di fior le sponde lagrimoso spoglia.
E quando mai s'udîr sí crudi guai,
cagion sí giusta a lagrimar che muove
Europa tutta a star mai sempre in doglia?
VI
Anima invitta, glorïosa et alma
ch'avesti sí propizio il Ciel in terra,
che vinse il tuo valor ogn'aspra guerra,
cingendo il capo d'onorata palma;
or che, deposta la terrena salma,
un breve sasso le tue membra serra,
de l'opra tue l'altiera fama atterra
qual sii ne l'arme piú lodata palma;
ché la tua dèa, la tua Vittoria sacra,
col suo leggiadro stil t'innalza tanto
che tant'alto non è n'Achil n'Ulisse,
perché nel tempio di Vertú consacra
al tuo bel nome eterna gloria a canto,
u 'l chiaro tuo vessillo Marte affisse.
VII
Intorn'a l'onorata altiera tomba
ove riposa il gran figliol di Marte,
di lauri e palme sian le frondi sparte,
né mai vi cessi il suon d'orrenda tromba.
Poi vi s'intagli in dïamante, ch'egli
il Rodano frenò, la Sesia e l'Oglio,
il Medoaco, il Reno ed il Santerno;
che ne 'l fiorir de gli anni suoi l'orgoglio
domò de gli nemici, ed i capegli
cinse di lauro con onor eterno.
Dunque, signor, il fier dolor interno
che dal cuor manda a' tuoi begli occhi il pianto,
affrena, e mira ch'egli a Marte a canto
vive nel ciel, e chiaro qui rimbomba.
VIII
Tanti trofei e tante eccelse spoglie
di quanti carco si vedeva ogn'ora
il gran marchese, che, di vita fuora,
piú che mai vive, e chiara fama coglie,
fur la cagion di vostr'amare doglie,
signor, che morte tenne certo allora
ch'ei d'anni pieno, come d'opre ancora,
fosse al fin giunto, che la vita scioglie.
Giovane d'anni fu, ma vecchio d'opre
che tali e tante in breve tempo fôro,
ch'il grande lor valor il mondo ha pieno.
Ma se la tomba sí famosa cuopre
con alte palme un trïonfal alloro,
venga ogni pianto a tanta gloria meno.
IX
Se, preso, mai si vide un uom contento,
io son quell'uno, che sí chiaro nodo
mi veggio al collo, ché del laccio godo,
ed altro che gioir d'amor, non sento.
Il dolce lampeggiar, il rar concento
d'alme virtuti, senza inganno e frodo,
che 'n vui s'han fatto il seggio, fan ch'io lodo
Amor, ch'ogn'altra fiamma in cor m'ha spento.
E quante volte avèn ch'io mi ritrovi
fra vaghe donne, e senta lor parole,
non è ch'a par di vui mi piaccia o giovi.
Ché tanta altezza il ciel donar vi suole,
che tutte l'altre, a' vostri motti novi,
son come stelle al gran splendor del sole!
X
Rivolgi il dolce riso in aspro pianto,
alma, ch'oggi vedesti il cor morire,
né sperar di poter giammai gioire,
ché doglia sol si scopre in ogni canto.
Ite, mie Muse, altrove; e 'l vostro canto
date a piú lieti amanti, che al desire
la speme agguaglian: nui vogliam finire
piangendo nostra sorte in nero manto.
Ché Madonna, piú dura assai che pietra,
non vòl udir i crudi miei lamenti,
anzi di giorno in giorno piú s'impietra.
Lascio le rime, lascio i dolci accenti,
e spezzo, di dolor, mia roca cetra:
meglio è presto morir, che star in stenti!
XI
Quella angelica, dolce, ardente vista
ove pose natura il foco e l'ésca
di che sí dolcemente Amor m'invesca,
quanto piú piagne, piú s'allegra in vista;
ché, mentre il bel cristal ch'altrui sí attrista
giú per le guancie il foco le rinfresca,
prende un splendor che quindi par che n'esca,
come dal sol rugiada il lume acquista.
E cosí allor piú vaga assai si mostra,
che quando, alzata, con sua gran beltate
la bella aurora il ciel n'indora e inostra.
Felice giorno, quando sí beate
vidi quell'alme luci, dove giostra
quant'ha di bello questa nostra etate!
XII
S'amante alcuno gli è, che goda il frutto
che suol donare Amore a' suoi sequaci,
speme non ponga in le tranquille paci,
ché spesso se rivolge il riso in lutto.
Esempio da me pigli, ch'ebbi tutto
quello si brama in l'amorose faci,
e pianga i casi miei cosí veraci,
che pel pianto non mostri viso asciutto.
Fu il dolce mio signor ad altra dato
per fede marital, ond'io non volsi
che senza me vivesse in simil stato.
A lui col ferro pria la vita tolsi,
poi sopra il corpo da me tanto amato,
a simil strazio con mia man mi colsi.
XIII
Se Porzia, dopo Bruto, star in vita
non volse per soperchio e grande amore,
come non le bastava il sol dolore
a far del mondo l'ultima partita?
E quella, ch'ogni istoria mostra e addita,
Lucrezia, avendo perso il casto onore,
perché col ferro si trafisse il core
se tanta doglia in petto aveva unita?
Ché, essendo a me portato il fiero messo,
com'era anciso il caro mio consorte,
al tristo suon mi fu 'l morir concesso.
N'altre arme fur bisogno a darmi morte:
ch'un estremo dolor, un grave eccesso
han seco, di propinquo, un'aspra sorte.
XIV
Piangi, viator, ch'ogni uom che passa, piange,
e, riverente, adora questa pietra,
ove le fredde e belle membra impietra
Antonia, che, morendo, ogni cor ange.
Per lei l'arco e la lira Apollo frange;
certo mai non sentîr sí altera cetra,
la cui dolcezza ogn'altra fama arretra,
dal Pado a l'Istro, da l'Eurota al Gange.
Spesso fu visto, al suon leggiadro e santo
fermarsi, intento, il ciel e ogni stella,
sí dolce con la lira mosse il canto!
L'alma, con Giove, sede in l'alta sella;
la fama al mondo vola, e 'l casto manto
copre quest'urna fra le belle bella.
XV
Quando l'amata vista
col vivo lume in gli occhi miei scintilla,
sí dolce ardor distilla
che dal foco vigore il core acquista.
Ma come poi si volge
e priva l'alma de l'altiero dono,
il viver abbandono,
tant'è la pena ch'al mio cor s'avvolge!
Cosí mi tene in vita
un volger d'occhi con cortese sguardo,
cosí consumo ed ardo
quando la chiara luce non m'aíta!
XVI
Il foco che nel cor m'accese Amore,
traendo l'ésca dal leggiadro aspetto,
arso m'ha l'alma e vòlto il cor in fiamma.
Il che veggendo, il mio signor diletto,
da sí cocente e immortal ardore
a quella che l'accresce e sempre infiamma,
su la sinistra mamma,
nel ballo, fe' stillar viva favilla.
Ma, lasso! quella stilla
che puote sopra avorio, ghiaccio e neve?
Ché 'n spazio molto breve
l'estinse il freddo umor del cor gelato:
onde assai mi ritrovo in peggior stato!
XVII
Da vostre chiare stelle,
che son d'Amor il nido,
ven nel mio cor, Madonna, un dolce foco,
qual fa che, spesso, di dolcezza io grido.
O fatali fiammelle,
altiere, vaghe e belle,
non mi negate quell'ov'io m'infoco,
ché, mentre i dolci rai mi guardan fiso,
fra l'alme luci scorgo il paradiso!
XVIII
Per quel dolce penser che notte e giorno
mai sempre alberga nel mio stanco petto,
dormendo, il viso adorno
di Madonna m'apparve in lieta vista;
e poi s'assise sopra il casto letto,
al loco, d'ogni intorno,
luce spargendo altrove mai non vista.
Indi quel braccio schietto
a me distese, e disse: - Io fo ritorno
per dar riposo a la tua vita trista. -
Ed io, che mai diletto
simil non ebbi, dubitai di scorno,
ch'un tanto ben sí presto non s'acquista.
E feci un mio concetto
che sonno fosse, né volea svegliarmi;
ma da la bella man sentii lasciarmi.
XIX
Né sopra colli star piú bianca neve,
n'al mormorar de l'acque i schietti fiori,
né cosí bella uscir la candida alba,
né piú lucenti in ciel le chiare stelle,
né donna mai, piú vaga, vidi in terra,
come risplende il mio celeste sole.
Questo chiaro, leggiadro e almo sole,
che me riscalda quant'è fredda neve,
e m'insegna lasciar l'avara terra,
ognor riapre nove gemme e fiori,
quando che gira quelle vive stelle,
che fanno invidia a l'apparir de l'alba.
A l'ora ch'a fuggir comincia l'alba,
e fuor de l'oceáno uscisse il sole,
fuggon del cielo le minute stelle,
e stilla, giú da' monti, ghiaccio e neve,
le piagge adornan persi e gialli fiori,
e nova luce piglia l'alma terra.
Cosí costei che sola è donna in terra,
come del viso scopre la chiara alba,
ligustri mostra con vermigli fiori,
e spesso adombra i vivi raggi al sole,
e vince di candor la fresca neve,
sí dolce a noi rivolge le sue stelle.
Non è nel ciel pianeta o ferme stelle,
che sí costringan nostri corpi in terra
come ella fa, piú fredda assai che neve,
ché, cominciando 'l giorno a la bella alba,
e quando al Mauro piú s'attuffa il sole,
volge nostre alme, com'il vento i fiori.
Prima dal ghiaccio uscir vedransi i fiori,
e 'l ciel sereno senza luce o stelle,
ch'io lasci di seguir questo mio sole,
ch'avviva quanto nasce e sorge in terra.
Però, di giorno in giorno, d'alba in alba,
cantando il seguo al caldo e a la neve.
Chi neve vòl veder e vivi fiori,
e, dopo l'alba, fiammeggiar le stelle,
in terra veggia il mio lucente sole.
XX
Amante non fu mai sí fuor di speme
n'alcun mai visse con sí fiero pianto
come viv'io, che, dal mattino a sera,
e quando poi s'asconde il sol la notte,
mai sempre piango e cerco far mia vita,
con le silvestri fiere, in antri e boschi.
Errando vo per solitarii boschi,
ove Amor mi conduce senza speme
d'aver tranquilla un giorno questa vita,
e tanto sono avvezzo al duol, al pianto,
ch'altro non faccio ne la scura notte,
quando veggio imbrunir la tarda sera.
Anzi, pur tutto il giorno, sin'a sera,
come fera cacciata in piagge e boschi,
fuggo, piangendo; e, quando vien la notte,
d'ogni allegrezza privo e d'ogni speme,
allargo il freno al piú dirotto pianto,
per finir presto questa amara vita.
Or chi vòl, cerchi di godersi in vita,
e lieto viva notte, giorno e sera.
Me tanto affligge questo acerbo pianto,
che paio un cittadin dei folti boschi,
n'altro m'avanza piú che sol la speme
di chiuder gli occhi con perpetua notte.
Morta è colei che sola questa notte
può darmi, se mi tronca l'aspra vita,
ma sí mi fugge d'ogni ben la speme,
ch'io non spero trovar pur una sera,
che lieto mi conduca fuor de' boschi
ivi son chiuso in sempiterno pianto.
Né creggio mai finir l'amaro pianto
che piú m'affligge ogn'or, e giorno e notte;
non vive augel in ramo o fiore in boschi
ch'abbian di me piú travagliata vita,
a cui finisce il giorno innanzi sera,
privo di pace, di conforto e speme.
Manca la speme e cresce ogn'or il pianto,
e dal mattino a sera, e poi la notte,
meno mia vita come augel di boschi.
XXI
Non percosse giammai fra duri scogli
nave, da venti combattuta e pioggia,
né Giove, irato, folgorando, legno
con tal ruina svelse in monti e valli,
com'or si trova la mia stanca vita,
che fa, piangendo, duo correnti fiumi.
Rivi, fontane, laghi, mari e fiumi,
ricche cittati, apriche piagge e scogli
non vider mai piú sfortunata vita.
Ovunque io mi rivolgo, un'aspra pioggia
cade dal cielo, che, per basse valli,
girami, lasso! come l'onde un legno.
Senza timone e vela in vecchio legno
menar mi lascio da veloci fiumi
che in mezzo d'alti monti, van per valli
colmi di pietre, intoppi e d'aspri scogli;
e, balenando il ciel con tuoni e pioggia,
di morte sfida la mia persa vita.
Afflitta e fuor di speme, la mia vita
in mar si trova in disarmato legno,
ch'ad ogni vento ed ogni poca pioggia
e quando van superbi i grandi fiumi,
spesso mi spigne fra sassosi scogli,
qual sterpe che ruina giú per valli.
Cosí fuggendo da l'ombrose valli
entrai, ne l'alto, a l'amorosa vita,
talché fra mille groppi e mille scogli
errando corsi col mio fragil legno,
ch'al fin si ruppe in mezzo di due fiumi,
oppresso da tempesta e densa pioggia.
Lasso! che, lagrimando, fredda pioggia
me 'ngombra sí che le campagne e valli
son molli del mio pianto; e tutti i fiumi
prendon tributo da mia dura vita.
Il mar, turbato, ancor travaglia il legno,
fra l'onde incerte e i dubbïosi scogli.
Quando rammento i scogli e l'atra pioggia,
che d'alto legno mi sospinse in valli,
CANZON, MIA VITA FA DE GLI OCCHI FIUMI.
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