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TITOLO: Della dissimulazione onesta
AUTORE: Torquato Accetto (circa 1590 - dopo 1641)
TRADUTTORE:
CURATORE: Salvatore Silvano Nigro
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: Della dissimulazione onesta,
di Torquato Accetto,
a cura di Salvatore SilvanoNigro,
Collana Biblioteca Einaudi n.4,
Torino, 1997
CODICE ISBN: 88-06-14141-4
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 17 dicembre 1999
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Alessandro Levati, [email protected]
REVISIONE:
Edda Valsecchi, [email protected]
PUBBLICATO DA:
Alberto Barberi
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TORQUATO ACCETTO
Della Dissimulazione Onesta
L'autor a chi legge
A questo mio trattato io pensava di aggiunger alcune altre mie prose, perché 'l volume, che
ha difetto nella qualità, fosse in qualche considerazione per merito della quantità; ma per
molt'impedimenti non è stato possibile, e spero di farlo tra poco tempo,
Edita ne brevibus pereat mihi charta libellis,
come disse Marziale. Né solo m'occorre di significar questo alla benignità di chi legge, ma piú
espressa la mia intenzione intorno alla presente fatica, ancorché nel primo capitolo della medesima
opera io l'abbia detto: affermo dunque che 'l mio fine è stato di trattar che 'l viver cauto ben
s'accompagna con la purità dell'animo, ed è piú che cieco chi pensa che per prender diletto della
Terra s'abbia d'abbandonar il Cielo. Non è vera prudenzia quella che non è innocente, e la pompa
degli uomini alieni dalla giustizia e dalla verità non può durare, come spiegò il re David dell'empio
ch'egli vide innalzato simile a' cedri di assai famoso monte; da che conchiude:
Custodi innocentiam et vide aequitatem,
quoniam sunt reliquiae homini pacifico.
Cosí è amator di pace chi dissimula con l'onesto fine che dico, tollerando, tacendo,
aspettando, e mentre si va rendendo conforme a quanto gli succede, gode in un certo modo anche
delle cose che non ha, quando i violenti non sanno goder di quelle che hanno, perché, nell'uscir da
se medesimi, non si accorgono della strada ch'è verso il precipizio. Quelli che hanno vera
cognizione dell'istorie potranno ricordarsi del termine a che si son condotti gli uomini alli quali
piacque di misurar i loro consigli con sí fatta vanità, e da quanto va succedendo si può veder ogni
giorno il vantaggio del proceder a passi tardi e lenti, quando la via è piena d'intoppi. Da questa
considerazione mi mossi a trattar di tal suggetto, e mi son guardato da ogni senso di mal costume,
procurando pur di dir in poche parole molte cose; e se in questa materia avessi potuto metter nelle
carte i semplici cenni, volentieri per mezzo di quelli mi averei fatto intendere, per far di meno anche
di poche parole. Ha un anno ch'era questo trattato tre volte piú di quanto ora si vede, e ciò è noto a
molti; e s'io avessi voluto piú differire il darlo alla stampa, sarebbe stata via di ridurlo in nulla, per
le continue ferite da distruggerlo piú ch'emendarlo. Si conosceranno le cicatrici da ogni buon
giudizio, e sarò scusato nel far uscir il mio libro in questo modo, quasi esangue, perché lo scriver
della dissimulazione ha ricercato ch'io dissimulassi, e però si scemasse molto di quanto da principio
ne scrissi. Dopo ogni sforzo di ben servir al gusto publico, io conosco di non aver questo, né altro
valore, e solo ho speranza che sarà gradita la volontà. In questa è l'uomo, e già disse Epicteto stoico:
"Quandoquidem, nec caro sis, nec pili, sed voluntas".
Viva felice.
I. Concetto di questo trattato
Da che 'l primo uomo aperse gli occhi, e conobbe ch'era ignudo, procurò di celarsi anche alla
vista del suo Fattore; cosí la diligenza del nascondere quasi nacque col mondo stesso, ed alla prima
uscita del difetto, ed in molti, è passata in uso per mezzo della dissimulazione; ma considerando
l'odio che si tira appresso chi mal porta questo velo, e che nel bel sereno della vita non si dee dar
luogo all'importuna nebbia della menzogna, la qual in ogni modo convien che resti esclusa, ho
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deliberato di rappresentar il serpente e la colomba insieme, con intenzion di raddolcir il veleno
dell'uno e custodir il candor dell'altra (come sta espresso in quelle divine parole: "Estote prudentes
sicut serpentes, et simplices sicut columbae"), importando a ciascuno che comandi o che ubbidisca
il valersi d'industria tanto potente tra le contradizzioni che spesse volte s'incontrano; e benché molti
intendano meglio di me questa materia, penso non di meno di poterne significar il mio parere, e
tanto piú quanto mi ricordo il danno che averebbe potuto farmi lo sfrenato amor di dir il vero, di che
non mi son pentito; ma amando come sempre la verità, procurerò nel rimanente de' miei giorni di
vagheggiarla con minor pericolo.
II. Quanto sia bella la verità
Prima che la vista si disvii nel cercar l'ombre che appartengono all'arte del fingere, come
quella che nelle tenebre fa i piú belli lavori, si consideri il lume della verità, per prender licenza di
andar poi un poco da parte, senza lasciar l'onestà del mezzo. Il vero non si scompagna dal bene, ed
avendo il suo proprio luogo nell'intelletto, corrisponde al bene ch'è riposto nelle cose; né può la
mente dirizzarsi altrove per trovar il suo fine, e se 'l vulgo si reputa felice in quello che appartiene al
senso, ed i politici nella virtú o nell'onore, i contemplativi mettono il loro sommo bene in considerar
l'Idee che son nel primo grado della verità, la qual in tutte le cose è la proprietà dell'essere a quelle
stabilito, perché in tanto son vere in quanto son conformi al divino intelletto; ma Dio se stesso ed
ogni cosa intende, e l'esser divino non solo è conforme al divino intelletto, ma in sostanza è lo
stesso: onde Dio è la verità medesima, ch'è misura di ogni verità, essendo prima causa di tutte le
cose, e quelle son nella mente divina, loro principio esemplare; e dalla verità divina, ch'è una, risulta
la verità multiplicata nel creato intelletto, dove la verità non è eterna se non quanto si riduce in Dio
per ragion di esempio e di causa, nella qual ritornan tutte le sostanzie e gli accidenti e le lor
operazioni: e come in Dio è immutabile, perché il suo intelletto non è variabile e non cava altronde
la verità, ma il tutto conosce in se stesso, cosí nella mente creata è mutabile, potendo questa passar
dal vero nel falso, secondo il corso dell'opinioni; o, restando la medesima opinione, mutarsi la cosa.
Sol dunque nell'eterna luce il vero è sempre vero: in quella prima luce che tanto si leva da' concetti
mortali, internandosi nel suo profondo, con nodo d'amore, tutto quello che si spande per l'universo;
e la vera bellezza è nella verità stessa, e fuor di quella sol quanto di là dipende. Ma questo è piú
luogo da considerar la verità morale, con che l'uomo tal si dimostra qual è; ond'or, lasciando il
discorrer per que' chiari abissi del primo vero, toccherò quest'altra parte che tanto appartiene alla
nostra umanità, per renderla forte, e sincera, mentre l'adorna di ogni abito gentile, o (per dir piú
espresso) la va spogliando di que' veli, che son fatti di mano propria della fraude, che ingombra
l'anima di cosí duri impacci, e ne fa sospirar quel secolo, che tra gli altri beni fu chiamato d'oro per
la verità, la qual con dolcissima armonia metta tutte le parole sotto le note de' cuori, poiché noti, e
quasi fuor de' petti, in ogni discorso si sentivano impressi. È chiaro che anche per altri rispetti furo
onorati quegli anni con sí glorioso nome, ed in particolar fu secolo d'oro perché non ebbe bisogno
d'oro, e, prendendo dalle semplici mani della natura il cibo e la veste, seppe trovar ne' boschi stanza
civile, non bramando piú caro tetto che 'l cielo, né piú sicuro letto che la terra, sí che gli uffici del
tempo ed i servigi degli elementi si riscontravano negli animi ben disposti all'intelligenza del piacer
fermo; ma tutte queste sodisfazzioni sarebbono state invano, se la verità non fosse andata per le
bocche di quella pur troppo bene avventurata gente, se non fosse stata scritta nel candore di que'
magnanimi petti con caratteri (benché invisibili) di buona corrispondenza; però non bisognava che 'l
sí, e 'l no, si menasse i testimoni appresso. L'amico parlava all'amico, l'amante all'amante, non con
altra mente che di amicizia e di amore. Alla verità si ubbidiva perché ella invitava ciascuno a
dimostrarsi senza nube, e cosí si rappresentava l' authechastos, ch'è il verace ne' detti, e ne' fatti, in
considerar in vero ch'è di sua natura onesto; ed essendo egli philaletes ama il vero
non per ragion di utile o per
solo interesse d'onore, ma
per se stesso, ed ha piú
occasione di amarlo
quando vi s'ag-
giunge la salu-
te della re-
publica o
dell'a-
mico.
III. Non è mai lecito di abbandonar la verità
Non tanto la natura fugge il vacuo, quanto il costume dee fuggir il falso, ch'è il vacuo della
favella e del pensiero: "dicere enim et opinari non entia, hoc ipsum falsum est, et orationi et
cogitationi contingens", dice Platone. Non si può permetter che della menzogna (considerata
secondo se stessa) appena un neo si lasci veder nella faccia dell'umana corrispondenza; e di piú,
quando il vero non par di esser vero, convien di tacere, come afferma Dante:
<...> a quel ver(o) c'ha faccia di menzogna
dee l'uom chiuder le labbra quant'ei puote,
però che senza colpa fa vergogna.
Bisogna dunque di volger gli occhi alla luce alla luce del vero prima di muovere la lingua
alle parole; ma come fuor del mondo si concede quello che da' filosofi è nominato vacuum
improprium, dove si riceverebbe lo strale che si vibrasse da chi fusse nell'estrema parte del cielo,
cosí l'uomo, ch'è un picciol mondo, ha talora fuor di sé un certo spazio da chiamarsi equivoco, non
già inteso come semplice falso, a fine di ricever in quello, per cosí dire, le saette della fortuna, ed
accommodarsi al riscontro di chi piú vale ed anche piú vuole, in questo corso degli umani interessi;
e dico che ciò avviene fuor di sé, perché niuno, il qual non abbia perduto il bene dell'intelletto, ha
persuaso se stesso al contrario del suo concetto che sia da lui appreso con la ragion in atto; onde a
questo modo non si può far inganno a se medesimo, presupposto che la mente non possa mentire
con intelligenza di mentire a se stessa, perché sarebbe veder e non vedere; si può nondimeno
tralasciar la memoria del proprio male, per qualche spazio, come dirò; ma dal centro del petto son
tirate le linee della dissimulazione alla circonferenza
di quelli che ci stanno in-
torno. E qui bisogna il ter-
mine della prudenza che,
tutta appoggiata al ve-
ro, nondimeno a luo-
go e tempo va ri
tenendo o di-
mostrando il
suo splen-
dore.
IV. La simulazione non facilmente riceve quel senso onesto che si accompagna con la
dissimulazione
Io tratterei pur della simulazione, e spiegherei appieno l'arte del fingere in cose che per
necessità par che la ricerchino; ma tanto è di mal nome, che stimo maggior necessità il farne di
meno; e benché molti dicano: "Qui nescit fingere nescit vivere", anche da molti altri si afferma che
sia meglio morire, che viver con questa condizione. In breve corso di giorni o d'ore o di momenti,
com'è la vita mortale, non so perché la medesima vita si abbia da occupar a piú distrugger se stessa,
aggiungendo il falso delle operationi dove l'esser quasi non è; poiché la vera essenzia, come disse
Platone, è delle cose che non han corpo, chiamando imaginaria l'essenzia di ciò ch'è corporeo.
Basterà dunque il discorrer della dissimulazione, in modo che sia appresa nel suo sincero
significato, non essendo altro il dissimulare, che un velo composto di tenebre oneste e di rispetti
violenti: da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a tempo; e
come la natura ha voluto che nell'ordine dell'universo sia il giorno e la notte, cosí convien che nel
giro delle opere umane sia la luce
e l'ombra, dico il proceder
manifesto e nascosto, con-
forme al corso della ra-
gione, ch'è regola
della vita e degli
accidenti che
in quella oc-
corrono.
V. Alcuna volta è necessaria la dissimulazione, e fin a che termine
La frode è proprio mal dell'uomo, essendo la ragione il suo bene, di che quella è abuso; onde
nasce ch'è impossibile di trovar arte alcuna, che la riduca a segno di poter meritar lode: pur si
concede talor il mutar manto, per vestir conforme alla stagion della fortuna, non con intenzion di
fare, ma di non patir danno, ch'è quel solo interesse col quale si può tollerar chi si suol valere della
dissimulazione, che però non è frode; ed anche in senso tanto moderato, non vi si dee poner mano
se non per grave rispetto, in modo che si elegga per minor male, anzi con oggetto di bene. Sono
alcuni che si trasformano, con mala piega di non lasciarsi mai intendere; e spendendo questa moneta
con prodiga mano in ogni picciola occorrenza, se ne trovano scarsi dove piú bisogna, perché
scoperti ed additati per fallaci, non è chi loro creda. Questo è per avventura il piú difficile in tal
industria; perché, se in ogni altra cosa giova l'uso continuo, nella dissimulazione si esperimenta il
contrario, poiché il dissimular sempre mi par che non si possa metter in pratica di buona riuscita. È
dunque dura impresa il far con arte perfetta quello che non si può essercitar in ogni occasione, e
però non è da dir che Tiberio fosse molto accorto in questo mestiero, ancorché da molti si affermi; e
ciò considero perché, dicendo Cornelio Tacito: "Tiberioque etiam in rebus quas non occuleret, seu
natura seu adsuetudine, suspensa semper et obscura verba"; non solo disse prima: "plus in oratione
tali dignitatis quam fidei erat", ma conchiude: "At patres, quibus unus metus, si intelligere
viderentur", ecc.; ecco che si accorgeano chiaramente della sua intenzion in quelli continui artifici.
In sostanza il dissimular è una professione della qual non si può far professione, se non nella scola
del proprio pensiero. Se alcuno portasse la ma-
schera ogni giorno, sarebbe
piú noto di ogni altro,
per la curiosità di tutti;
ma degli eccellenti
dissimulatori, che
sono stati e so-
no, non si ha
notizia al-
cuna.
VI. Della disposizione naturale a poter dissimulare
Quelli in chi prevale il sangue o la malinconia o la flemma o l'umor collerico, è molto
indisposto a dissimulare. Dove abbonda il sangue, concorre l'allegrezza, la qual non sa facilmente
celare, essendo troppo aperta per sua propria qualità. L'umor malinconico, quando è fuor di modo, si
fa tante impressioni, che difficilmente le nasconde. Il soverchio flemmatico, perché non fa gran
conto de' dispiaceri, è pronto ad una manifesta tolleranzia; e la collera, che è fuor di misura, è
troppo chiara fiamma, da dimostrar i proprii sensi. Il temperato dunque è molto abile a questo
effetto di prudenza, perché ha da esser, nelle tempeste del cuore, tutta serena la faccia; o, quando è
tranquillo l'animo, parer turbato il viso, come anderà richiedendo l'occasione; e ciò non è facile, se
non al temperamento che dico. Non voglio contradir all'opinione di que' che sogliono attribuir a
certi popoli la disposizione del dissimulare e, ad altri, stimarla quasi impossibile; ma ben posso dire
che, in ogni paese, son di quelli che l'hanno e di que' che non vi si sanno accommodare; ma piú è
certo che gli uomini non nascono con gli animi legati a necessità alcuna, onde libera la volontà si
gira all'elezzione; e ciò leggiadramente fu espresso da Dante in que' versi:
Voi che vivete ogni cagion recate
pur suso al cielo, sí come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se cosí fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per mal aver lutto.
Il cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto che 'l dica,
lume v'è dato a bene e a malizia,
e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie del ciel dura,
poi vince tutto, se ben si nutrica.
A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; <e> quella cria
la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura.
VII. Dell'esercizio che rende pronto il dissimulare
Da chi ha per non plus ultra le porte delle natie contrade, o che da' libri non apprende il
lungo e 'l lato del mondo, e' suoi vari costumi, con difficultà si viene al consiglio della
dissimulazione; perché in persona cosí molle e poco intendente, riesce molto dura questa pratica, la
qual contiene l'esser d'assai e talora parer da poco: è dunque conforme a questo abito chi non s'è
tanto ristretto, poiché dal conoscer gli altri nasce quella piena autorità che l'uomo ha sopra se stesso
quando tace a tempo, e riserba pur a tempo, quelle deliberazioni che domane per avventura saranno
buone, ed oggi sono perniziose. Chiaro è che 'l viaggio per diversi paesi, come Omero cantò di
Ulisse, "qui mores hominum multorum vidit et urbes", o l'aver letto ed osservati molti accidenti, è
cagion potente a produrre una gentil disposizione di metter freno agli affetti, acciò che non come
tiranni, ma come soggetti alla ragione, ed a guisa di ubbidienti cittadini, si contentino ad
accommodarsi alla necessità, della quale disse Orazio:
Durum, sed levius fit patientia
quicquid corrigere est nefas.
Sí che tant'altezza di spirito si accresce per mezzo della vita occupata negli affari del mondo,
e nella considerazione del tempo passato, per non contradir al presente e poter far giudicio
dell'avvenire. Stando la mente cosí sodisfatta, non le parrà nuova qual si sia mutazio-
ne che le si vada rappresen-
tando, ed in conseguenza
dipenderà da lei, e non
dal precipizio del
senso, l'espres-
sion di quan-
to le suc-
cede.
VIII. Che cosa è la dissimulazione
Da poi che ho conchiuso quanto conviene il dissimulare, dirò piú distinto il suo significato.
La dissimulazione è una industria di non far veder le cose come sono. Si simula quello che non è, si
dissimula quello ch'è. Disse Virgilio di Enea:
Spem vultu simulat, premit altum corde dolorem.
Questo verso contiene la simulazion de la speranza e la dissimulazione del dolore. Quella
non era in Enea, e di questo avea pieno il petto; ma non volea palesar il senso de' suoi affanni:
ricordava però a' compagni l'aver sofferti piú gravi mali, e nominando la rabbia di Scilla e lo strepito
degli scogli ed i sassi de' Ciclopi, se ne valse come per sepellir tra que' mostri, e tra quelle passate
ruine, tutte le rie venture che lor già davan noia; e col dolcissimo "meminisse iuvabit", conchiude:
Per varios casus, per tot discrimina rerum
tendimus in Latium, sedes ubi fata quietas
ostendunt; illic fas regna resurgere Troiae.
Durate, et vosmet rebus servate secundis.
Ma in ogni modo l'animo era ferito, e troppo dolente, perché "Talia voce refert curisque
ingentibus aeger." Si vede in questi versi l'arte di nasconder l'acerbità della fortuna, e prima fu
espresso da Omero come da Ulisse si dissimulava il dolore, quando in altra figura dava di se stesso
nuova alla sua Penelope; della qual disse:
Hac autem <iam> audiente fluebant lacrymae, liquefiebat autem corpus
sicut autem nix liquefit in altis montibus,
quam Eurus liquefecit, postquam Zephyrus defusus est
liquefacta autem igitur hac, fluvii implentur fluentes:
sic huius liquefiebant pulchrae genae lachrymantis
flentis suum virum assidentem. At Ulysses
animo quidem lugentem suam miserabatur uxorem.
Oculi autem tanquam cornua stabant vel ferrum.
Tacite in palpebris dolo autem hic lachrymas occultabat.
Ecco la prudenza con che Ulisse mettea freno alle lagrime, quando era tempo di nasconderle;
e la comparazion di liquefarsi Penelope, come la neve, mi dà occasione di soggiunger quello che sia
l'umido e 'l secco, dicendo Aristotile: "humidum est quod suo ipsius termino contineri non potest;
facile autem termino continetur alieno. Siccum est quod facile suo, difficulter autem termino
terminatur alieno". Da che si può apprender che il dissimular ha del secco, perché si ritien nel
proprio termine; e questi son gli occhi di Ulisse rassomiliati, in tempo di dolore, alla fermezza del
corno e del ferro, quando que' di Penelope eran molli e non avean termine prescritto, conforme a
quelle ch'eran versate nell'animo di Ulisse, tenendo il
ciglio asciutto, ed a questo
par che corrisponda
quella sentenza di
Eraclito: "Lux
sicca, anima
sapientissi-
ma".
IX. Del bene che si produce dalla dissimulazione
Presupposto che nella condizion della vita mortale possano succeder molti difetti, segue che
gravi disordini siano al mondo quando, non riuscendo di emendarli, non si ricorre allo spediente di
nasconder le cose che non han merito di lasciarsi vedere, o perché son brutte o perché portan
pericolo di produrre brutti accidenti. Ed oltre a quanto avviene agli uomini, se pur si considera la
natura per tante altre opere di qua giú, si conosce che tutto il bello non è altro che una gentil
dissimulazione. Dico il bello de' corpi che stanno soggetti alla mutazione, e veggansi tra questi i
fiori, e tra' fiori la lor reina; e si troverà che la rosa par bella, perché a prima vista dissimula di esser
cosa tanto caduca, e quasi con una semplice superficie di vermiglio, fa restar gli occhi in un certo
modo persuasi ch'ella sia porpora immortale; ma in breve, come disse Torquato Tasso:
quella non par che disiata avanti
fu da mille donzelle e mille amanti;
perché la dissimulazione in lei non può durare. E tanto si può dir di un volto di rose, anzi di quanto
per la terra riluce tra le piú belle schiere d'Amore; e benché della bellezza mortale sia solito dirsi di
non parer cosa terrena, quando poi si considera il vero, già non è altro che un cadavero dissimulato
dal favor dell'età, che ancor si sostiene nel riscontro di quelle parti e di que' colori che han da
dividersi e cedere alla forza del tempo e della morte. Giova dunque una certa dissimulazion della
natura, per quanto si contiene tra lo spazio degli elementi, dov'è molto vera quella proposizione che
afferma di non esser tutt'oro quello che luce; ma ciò che luce nel Cielo ben corrisponde sempre,
perché ivi tutte le cose son belle dentro e fuori. Or, passando all'utile che nasce dalla dissimulazione
ne' termini morali, comincio dalle cose che piú bisognano, dico dall'arte della buona creanza, la qual
si riduce nella destrezza di questa medesima diligenza. E leggendosi quanto ne scrisse monsignor
della Casa, si vede che tutta quella nobilissima dottrina insegna cosí
di ristringer i soverchi di-
siderii, che son cagion di
atti noiosi, come il mo-
strar di non veder gli
errori altrui, ac-
ciò che la con-
versazione
riesca di
buon
gusto.
X. Il diletto ch'è nel dissimulare
Onesta ed util è la dissimulazione, e di piú, ripiena di piacere; perché se la vittoria è sempre
soave, e come disse Ludovico Ariosto,
Fu il vincer sempre mai lodabil cosa,
vincasi per fortuna o per ingegno,
è chiaro che 'l vincer per sola forza d'ingegno succede con maggior allegrezza, e molto piú nel
vincer se stesso, ch'è la piú gloriosa vittoria che possa riportarsi. Quest'avviene nel dissimulare, con
che, dalla ragione superato il senso, si riceve intiera quiete; ed ancorché si senta non poco dolor
quando si tace quello che si vorrebbe dire, o si lascia di far quanto vien rappresentato dall'affetto,
nondimeno piace poi grandemente d'aver usata sobrietà di parole e di fatti. A questa conseguenza di
sodisfazzione, ha da rivolger il pensiero chi disidera di viver con riposo; e ciascun, che vuol ben
accorgersene per gl'interessi suoi, vegga sopra di ciò gli altrui falli, e cosí ben conosca che tanto è
nostro quanto è in noi medesimi. Non dico che non si han da fidar nel seno dell'amico i segreti, ma
che sia veramente amico; ed è degno di gran considerazione, in quell'epigramma di Marziale, dove
parla a se stesso della vita beata, che nominando a questo fine dicisette cose, fa che stia nel mezzo
"prudens simplicitas", dicendo:
Vitam quae faciunt beatiorem,
iucundissime Martialis, haec sunt:
res non parta labore, sed relicta;
non ingratus ager, focus perennis;
lis nunquam, toga rara, mens quieta;
vires ingenuae, salubre corpus,
prudens simplicitas, pares amici,
convictus facilis, sine arte mensa;
nox non ebria, sed soluta curis;
non tristis torus, attamen pudicus;
somnus qui faciat breves tenebras;
quod sis esse velis nihilque malis,
summum nec metuas diem nec optes.
Il prudente candor dell'animo è dunque il centro della tranquillità. "Hoc opus, hic labor".
XI. Del dissimulare con li simulatori
Quelli che si applicano al piacer della parte ch'è in noi soggett'alla morte, sprezzando l'uso
della ragione, si mutano in abito di fiere; perché tali son da riputarsi, come fu espresso da Epicteto
stoico, dicendo: "Certe misellus homuncio, et caro infoelix, et revera misera. At melius <etiam>
quiddam habes carne; quare, misso illo et neglecto, carni duntaxat es deditus? Ob huius societatem
declinantes a meliore natura quidam, lupis similes efficimur, dum sumus perfidi et insidiosi et ad
nocendum parati: alii leonibus, quia feri, immanes ac truculenti: maxima vero pars vulpeculae
sumus".
Da che si può considerar un de' duri impedimenti nel dissimulare; poiché il guardarsi da lupi
e da leoni è cosa piú pronta per la notizia che si ha della lor violenza, e perché poche volte si
riscontrano; ma le volpi son tra noi molte e non sempre conosciute, e quando si conoscono, è pur
malagevole usar l'arte contra l'arte, ed in tal caso riuscirà piú accorto chi piú saprà tener apparenza
di sciocco, perché, mostrando di creder a chi vuol ingannarci, può esser cagion ch'egli creda a nostro
modo; ed è parte di grand'intelligenza che si dia
a veder di non vedere,
quando piú si vede, già
che cosí 'l giuoco è
con occhi che pa-
ion chiusi e stan-
no in se stessi
aperti.
XII. Del dissimulare con se stesso
Mi par che l'ordine di questo artificio metta prima la mano nella persona propria; ma si
richiede prudenzia in estremo, quando l'uomo ha da celarsi a se medesimo, e questo non piú che per
qualche picciolo intervallo e con licenza del "nosce te ipsum", per pigliar una certa ricreazione
passeggiando quasi fuor di se stesso. Prima dunque ciascun dee procurar non solo di aver nuova di
sé e delle cose sue, ma piena notizia, ed abitar non nella superficie dell'opinione, che spesse volte è
fallace, ma nel profondo de' suoi pensieri, ed aver la misura del suo talento e la vera diffinizione di
ciò ch'egli vale, essendo di maraviglia che ogni uno attend'a saper il prezzo della roba sua e che
pochi abbian cura o curiosità d'intender il vero valor dell'esser loro. Or, presupposto che si sia fatto
il possibile di saperne il vero, conviene che in qualche giorno colui ch'è misero si scordi della sua
disavventura, e cerchi di viver con qualche imagine almeno di sodisfazzione, sí che sempre non
abbia presente l'oggetto delle sue miserie. Quando ciò sia ben usato, è un inganno c'ha dell'onesto;
poiché è una moderata oblivione, che serve di riposo agl'infelici: e benché sia scarsa e pericolosa
consolazione, pur non se ne può far di meno, per respirar in questo modo; e sarà come un sonno de'
pensieri stanchi, tenendo un poco chiusi gli occhi della cognizion della propria fortuna, per meglio
a-
prirli dopo cosí breve risto-
ro: dico breve, perché fa-
cilmente si muterebbe
in letargo, se troppo
si praticasse que-
sta negligenza.
XIII. Della dissimulazione che appartiene alla pietà
Quando considero che il vino fu trovato dopo il diluvio, conosco che non bisognava minor
quantità d'acqua per temperarlo; e qui son da veder due cose: una di Noè, che ne restò ignudo, e ciò
ne dimostra che 'l vino è molto contrario alla dissimulazione, e quanto questa s'impiega a coprire,
tanto quello attende a scoprire; l'altra della pietà delli due figli, che con la faccia indietro ricoprirono
il padre, dissimulando di vederlo a tal termine, quando dal lor fratello, già alienato da ogni legge di
umanità, era schernito ignudo colui che l'avea vestito delle proprie carni. Oh quanti son al mondo
che imitano questa mostruosa ingratitudine, facendo materia da ridere chi loro doverebber'esser
oggetto d'amore e di reverenza! Pochi son gl'imitatori di que' due che seppero trovar il modo di
volger le spalle, per pietà, al padre, non come molti fanno, che si lascian la paterna necessità dietro
le spalle. Non solo que' pietosi figli si occuparono a ricoprir il padre, ma vollero mostrar di non
averlo veduto in tal condizione. Cosí ciascuno dee corrisponder a scusar i disordini, ed in particolare
que' de' superiori, ogni volta che alcuno di loro v'incorre. Altri pietosi uffici mi si rappresentano
nell'istoria di Giuseppe che, venduto da' fratelli, mostrò poi di non conoscerli, a fine di piú
riconoscerli per mezzo de' benefici; e, con esempio di rada mansuetudine, dissimulava il dono di
quegli elementi che lor in apparenza vendeva, perché i medesimi sacchi ne riportavano i danari a
casa; finché, fatto venir anche l'ultimo de' fratelli, e usati tutt'i modi di manifestar a tempo la sua
benignità, "non se poterat ultra cohibere Joseph multis coram adstantibus". In questo ebbe fine
quella sincera ed innocente dissimulazione; e segue nel Genesi a narrarsi la sua pietà: "unde
praecepit ut egrederentur cuncti foras, et nullus interesset alienus agnitioni mutuae. Elevavitque
vocem cum fletu, quam audierunt Aegyptii, omnisque domus Pharaonis, et dixit fratribus suis: - Ego
sum Joseph -". Era egli nell'Egitto con suprema gloria, e già chiamato salvator del mondo; con tutto
ciò, non tenendo conto dell'offese, dissimulò d'esser fratello, per dimostrarsi piú che fratello. Io non
so chi possa ritener le lagrime, leggendo quella pietosa istoria, dalla qual si può apprender la
dolcezza del perdono e del dissimular l'ingiurie, e massimamente quando vengon da persone tanto
care quanto son i fratelli.
XIV. Come quest'arte può star tra gli amanti
Amor, che non vede, si fa troppo vedere. Egli è picciolo, e come disse Torquato Tasso:
Picciola è l'ape, e fa col picciol morso
pur gravi e pur moleste le ferite;
ma qual cosa è piú picciola d'Amore,
se in ogni breve spazio entra, e s'asconde?.
Nondimeno è pur tanto grande, che non ha luogo da potersi in tutto nasconder, è quando è
giunto al suo centro, ch'è il cuore, se non si mostra per altra via, accende quella febre amorosa della
qual era infermo Antioco e di che il Petrarca fe' che dicesse Seleuco:
E se non fosse la discreta aita
del fisico gentil, che ben s'accorse,
l'età sua in sul fiorir era fornita.
Tacendo, amando, quasi a morte corse;
e l'amar forza, e 'l tacer fu virtute;
la mia, vera pietà, ch'a lui soccorse.
Quindi si può considerar come, mettendosi fuoco a tutta la casa, le faville, anzi le fiamme,
ne fan publica pompa per le finestre e dal tetto. Tanto avviene, e peggio, quando amor prende stanza
ne' petti umani, accendendogli da dovero, perché i sospiri, le lagrime, la pallidezza, gli sguardi, le
parole, e quanto si pensa e si fa, tutto va vestito con abito d'amore. Cosí dunque di Antioco,
nell'amor verso Stratonica sua matrigna, ancorch'egli tacesse, si palesò l'incendio nelle vene e ne'
polsi. Non avea consentito di chiamarsi amante Didone, mentre Amor in figura di Ascanio trattava
con lei; ma niuna cosa mancava, perché già si vedesse accesa, come Virgilio va significando:
Praecipue infelix pesti devota futurae
expleri mentem nequit, ardescitque tuendo
Phenissa et puero pariter donisque movetur.
Ed ancorché andasse velando gli stimoli della piaga interna, nel progresso del suo affetto,
At regina gravi iamdudum saucia cura
vulnus alit venis at caeco carpitur igni,
pur, quello che la lingua non avea publicato, fu espresso nelle strida della piaga ch'ella stessa
disperata si fe', conchiudendo Virgilio:
Illa, graves oculos conata attollere, rursus
deficit: infixum stridet sub pectore vulnus.
Di Erminia si ha, da Torquato Tasso, che avea dissimulato il suo pensiero, e ch'ella poi disse
a Vafrino:
Male amor si nasconde. A te sovente
desiosa i' chiedea del mio signore.
Vedendo i segni tu d'inferma mente:
- Erminia - mi dicesti - ardi d'amore. -
Io te 'l negai, ma un mio sospiro ardente
fu piú verace testimon del core;
e 'n vece forse della lingua, il guardo
manifestava il foco onde tutt'ardo.
Il medesimo dolor che tormenta gli amanti, se non bast'a far che dicano i loro affetti, si muta
in ambizione amorosa di dimostrarli; e se gli animi onesti si contentano di non manifestarsi, con
gran fatica si riducono a portar intiero il manto che ha da coprir tanti affanni.
XV. L'ira è nimica della dissimulazione
Il maggior naufragio della dissimulazione è nell'ira, che tra gli affetti è 'l piú manifesto,
essendo un baleno che, acceso nel cuore, porta le fiamme nel viso, e con orribil luce fulmina dagli
occhi; e di piú fa precipitar le parole, quasi con aborto de' concetti che, di forma non intieri e di
materia troppo grossa, manifestano quanto è nell'animo. Molta prudenza si richiede, per rinchiuder
cosí gagliarda alterazione; e di chi è trascorso a tanto impeto, disse Platone: "tanquam canis a
pastore, ita denique revocatus ab ea quae in ipso est ratione mitescat." Era Achille in questa
passione contra Agamennone, quando "truculento intuens aspectu: - O vir - inquit - ex dolo totus
atque imprudentia factus ac genitus, et quis tibi Graecorum posthac libens pareat? -". Ma l'ufficio
della ragione, significata per Minerva scesa dal cielo, va temperando: " - Non venit - inquit - a caelo,
Achilles, ut te iratum in ultionem iniuriae acceptae erumpere videam, sed ut ira<cundia>m tuam
compescam -". Sí che Omero, in questa occasione di Achille, spiega insieme quanto importi la
dissimulazione. Da due potenti stimoli procede tanta licenza di parole nell'ira, cioè dal dispiacere e
dal piacere, perché ella è appetito, con dolore, di far vendetta che si dimostri vendetta, per dispregio
che crediamo fatto di noi, o d'alcuno de' nostri, indegnamente, come disse Aristotile; ed a questo
dolor segue il diletto, che nasce dalla speranza di vendicarsi, e perché l'animo è in atto di vendetta: e
però Aristotele soggiunse: "recte illud de ira dictum est quod, defluente melle dulcior, in virorum
pectoribus gliscit". Dunque, da cosí fatto misto di amaro e di dolce, dee guardarsi chi non si vuol
mostrar facilmente turbato, come sogliono parer gl'infermi, i poveri e gli amanti, e tutti quelli che si
fan vincer dal disiderio. Importa il prevenir con la considerazione di quanto è maggior diletto vincer
se stesso, in aspettar che passi la procella degli affetti, e per non deliberare nella confusione della
propria tempesta; ma nel sere-
no dell'animo che, ritirato
ogni pensiero nell'altissi-
ma parte della mente,
potrà sprezzar molte
cose, o non curar
di vederle.
XVI. Chi ha soverchio concetto di se stesso ha gran difficultà di dissimulare
L'error che si può far nel compasso, il qual si gira nell'opinion di noi stessi, suol esser cagion
che trabocchi ciò che si dee ritener ne' termini del petto; perché, chi si stima piú di quello che in
effetto è, si riduce a parlar come maestro, e parendogli che ogni altri sia da men di lui, fa pompa del
sapere, e dice molte cose che sarebbe sua buona sorte aver taciuto. Pitagora, sapendo parlare,
insegnò di tacere; ed in questo esercizio è maggior fatica, ancorché paia d'esser ozio. I concetti che
risuonano nelle parole, non solo portano l'imagine di quelli che stanno nell'animo, ma son fratelli
mentali (già che non posso dir carnali) del concetto che l'uomo ha del suo sapere. Questo è il
concetto primogenito (per dir cosí), al qual succedono gli altri; e se non è con misura, ne procedono
molti e vari ragionamenti, e di necessità però si scopre quanto è nel pensiero; ma chi di sé fa quella
stima che di ragion conviene, non commette alla lingua maggior giuridizzione di quanto è il lume
dell'intelligenzia che la dee muovere.
XVII. Nella considerazione della divina giustizia si facilita il tollerar, e però il dissimular le cose
che in altri ci dispiacciono
Convien di trattar di alcune cose piú in particolare, che ricercano d'esser tollerate, ch'è lo
stesso a dir dissimulate, poiché sono molt'i dispiaceri dell'uomo ch'è spettator in questo gran teatro
del mondo, nel qual si rappresentano ogni dí comedie e tragedie; ed or non dico di quelle che son
invenzioni de' poeti antichi o moderni, ma delle vere mutazioni del mondo stesso, che da tempo in
tempo, in quanto agli accidenti umani, prende altra faccia ed altro costume. L'ordine è forma che fa
il tutto simigliante a Dio, che lo creò e lo serba col dono della sua providenza, la qual per lo gran
mar dell'essere ogni cosa conduce con prospero viaggio; e disponendo la medesima regola sopra il
merito o demerito delle opere umane, si vieta nondimeno alla debolezza de' nostri pensieri il passar
negli abissi de' consigli divini, alli quali si dee infinita riverenza, avendosi da ricever per giusto
quanto consòna alla volontà di Dio. E se pur sempre non vediamo nelle cose mortali quell'ordine
infallibile che si manifesta nel moto del sole, della luna e dell'altre stelle, anz'in molta confusione
spesse volte si truovano i negozii di qua giú, non manca però la certezza dell'eterna legge, che tutto
sa applicar ad ottimo fine; e 'l premio e la pena, che non sempre vien pronta, si aspetti come decreto
inseparabile dal giudizio divino, che per tutto va penetrando con la sua non mai limitata potenzia. A
questa verità, ch'è via di quiete, per dissimular le sinistre apparenze, soggiungerò piú distinto il
modo di accommodarsi a quelle.
XVIII. Del dissimular l'altrui fortunata ignoranzia
Gran tormento è di chi ha valore, il veder il favor della fortuna, in alcuni del tutto ignoranti;
che senz'altra occupazione, che di attender a star disoccupati, e senza saper che cosa è la terra che
han sotto i piedi, son talora padroni di non picciola parte di quella. Veramente chi si mette a
considerar questa miseria, è in pericolo di perder la quiete, se insieme non s'accorge che la
medesima fortuna, che talora fa qualche piacere alla turba degli sciocchi, suol abbandonar l'impresa,
e quando piú luce, si rompe, lasciando scherniti que' che non son degni della sua grazia; e di piú la
gente di questa qualità, non ha che pretender per l'acquisto di quella gloria, che solamente
appartiene a chi sa da dovero; e se qualche uomo di eccellente virtú, alcuna volta sta quasi sepellito
vivo, in ogni modo si ha da udir il grido del suo merito; e non solo la voce ne dee risonar tra quelli
che vivono nel medesimo tempo, ma se ne va passando da un secolo all'altro; perché il vero valor è
che fa per fama gli uomini immortali,
come disse il Petrarca; e prima di lui Dante:
vedi se far si dee l'uomo eccellente
sí ch'altra vita la prima relinqua.
Di questa maniera si libera il nome dalle mani della morte,
ed un'anima piena di cosí alta
speranza, non sente noia che
a qualche indegno e da
poco, per poco tempo, si
faccia applauso, es-
sendo un salto di
fortuna che se
ne passa senza
lasciar ve-
stigio,
come il fumo
nell'aria.
XIX. Del dissimular all'incontro dell'ingiusta potenzia
Orrendi mostri son que' potenti, che divorano la sostanza di chi lor soggiace; onde ciascuno,
che sia in pericolo di tanta disaventura, non ha miglior mezzo di rimediar, che l'astenersi dalla
pompa nella prosperità, e dalle lagrime e da' sospiri nella miseria; e non solo dico del nasconder i
beni esterni, ma que' dell'animo; onde la virtú, che si nasconde a tempo, vince se stessa, assicurando
le sue ricchezze, poiché il tesoro della mente non ha men bisogno talora di star sepolto, che il tesoro
delle cose mortali. Il capo che porta non meritate corone, ha sospetto d'ogni capo dove abita la
sapienzia; e però spesso è virtú sopra virtú, il dissimular la virtú, non col velo del vizio, ma in non
dimostrarne tutt'i raggi, per non offender la vista inferma dell'invidia e dell'altrui timore. Anche lo
splendor della fortuna ha da esser cauto nel palesarsi, già che, passando a dimostrazioni di soverchi
arnesi e di oziosi ornamenti, oltre al distrugger il capital nelle spese, suol accender gran fuoco nella
propria casa, destando gli occhi degl'ingordi a pretenderne parte, e forse il tutto. Ma piú dura è la
fatica di dover pigliare abito allegro nella presenza de' tiranni, che soglion metter in nota gli altrui
sospiri, come di Domiziano disse Tacito: "Praecipua sub Domitiano miseriarum pars erat videre et
aspici, cum suspiria nostra subscriberentur, cum denotandis tot hominum palloribus sufficeret
saevus ille vultus et rubor, a quo se contra pudore muniebat". Sí che non è permesso di sospirare,
quando il tiranno non lascia respirare, e non è lecito di mostrarsi pallido, mentre il ferro va facendo
vermiglia la terra con sangue innocente, e si niegano le lagrime che dalla benignità della natu-
ra son date a' miseri come
propria dote, per formar
l'onda che in cosí pic-
ciole stille suol por-
tar via ogni
grave noia e la-
sciar il cuor, se
non sano, al-
men non
tanto
oppresso.
XX. Del dissimular l'ingiurie
L'ingiuria, che si può dissimulare, e nondimeno si manifesta nel disiderio della vendetta, è
fatta piú da colui che la riceve che dal suo nimico. Non tutti sanno ben conoscer il decoro
dell'onesta tolleranzia, in che si accordano tutt'i filosofi, che per altre opinioni, in varie sette, non
son di conforme parere, dicendo Tertulliano: "tantum illi subsignant, ut cum inter se<se> variis
sectarum libidinibus et sententiarum aemulationibus discordent, solius tamen patientiae in
com<m>une memores, huic uni studiorum suorum commiserint pacem: in eam conspirant, in eam
foederantur, illi in adfect<at>ione virtutis unanimiter student, omnem sapientiae ostentationem de
patientia praeferunt". Alcuni, non distinguendo la forteza dal temerario ardire, son pronti ad ogni
qualità di vendetta, e per un cenno che non sia fatto a lor modo, vogliono penetrar negli altrui
pensieri e dolersene come di offese publiche. I sensi cosí fieri son vicini ad estremi mali, e
l'esperienza dimostra che le picciole ingiurie, se non si lascian passar sotto qualche destrezza,
sogliono diventar grandi; ed a tutti color che son potenti, molto piú convien di ritirar la vista da
simili occasioni: perché ogni un che possa poco, è buon maestro a' suoi pensieri, per accommodarsi
a tollerare; ma chi ha forza di risentirsi, sente stimolo di correr a precipizio, e molti di questi che
stanno in alta fortuna, scordati non solamente di usar perdono, ma della proporzion della pena,
prendono mezzi violenti per l'altrui ruina; da che avviene ch'essi pur rimangono in tanta turbazione
de' fatti loro che, oltre all'odio publico, son anche in odio a se medesimi, per la perdita della quiete
interna, ch'è bene inestimabile ed appartiene all'innocenzia.
XXI. Del cuor che sta nascosto
Gran diligenza ha posta la natura per nasconder il cuore, in poter del quale è collocata, non
solo la vita, ma la tranquillità del vivere: perché nello star chiuso, per l'ordine naturale si mantiene;
e quando gli occorre di star nascosto, conforme alla condizion morale, serba la salute delle
operazioni esterne. E pur in questo modo, non a tutti si dee nasconder; onde, nell'elezzione, si
consideri quello che fu detto da Euripide:
<...> Sapienti diffidentia
non alia res utilior est mortalibus.
L'esperienza, che si suol doler degl'inganni, potrà far luce in questa materia, ch'è una selva
oscura per l'incertezza del ben eleggere; e però ogni ingegno accorto vagliasi degli abissi del cuore,
ch'essendo breve giro, è capace d'ogni cosa; anz'il mondo intiero non lo riempie, poiché solo il
Creator del mondo può saziarlo. Si ammira, come grandezza degli uomini di alto stato, lo starsi ne'
termini de' palagi, ed ivi nelle camere segrete, cinte di ferro e di uomini a guardia delle loro persone
e de' loro interessi; e nondimeno è chiaro che, senza tanta spesa, può ogni uomo, ancorch'esposto
alla vista di tutti, nasconder i suoi affari nella vasta ed insieme segreta casa del suo cuore, perché ivi
soglion esser quei templi sereni, de' quali cantò Lucrezio:
sed nihil dulcius est, bene quam <munita> tenere
edita doctrina sapientium templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantes quaerere vitae.
Applicando io però questi versi al senso che conviene a significar un'altezza d'animo, ed una
quiete, che conduce al piacer ed alla gloria immortale, e non al diletto fallace.
XXII. La dissimulazione è rimedio che previene a rimuover ogni male
Era tanto stimata da Giob la dissimulazione onesta che, non avendo lasciato di valersene nel
suo regno, poi che si vide privo di prosperità, parendogli di aver fatto assai dalla parte sua perché
non gli fosse caduta dalle mani, disse:
Nonne dissimulavi? nonne silui? nonne quievi?
et venit super me indignatio.
Egli con tranquillità governò il suo stato, e sempre che potette dissimular, lo fe' volentieri; e
però s'era persuaso che non avesse da seguir mutazione nelle cose sue, ben assicurate dalla
prudenzia, che in sé raccoglieva dissimulazione, silenzio e quiete. Ma se con tutto ciò cadde in
miseria, fu voler di Dio, che si compiacque di far vedere nella persona di quel santo una invitta
costanza e 'l trionfo della pazienzia, che nel carro della vera gloria si menò appresso come catenati
tutt'i mali, fin ch'egli ebbe la prístina felicità con duplicate sodisfazzioni; e quella sua giustizia, che
nel termine della semplice natura si dimostrò al mondo, sarà esempio in tutt'i secoli per affermare
che i servi di Dio, in ogni condizione, son sempre beati. Dunque Giob era tale, anche nel tempo de'
suoi tormenti; ma per non uscir dalla materia di che vo trattando, dico ch'egli, facendo il conto con
la sua conscienzia, dicea: "Nonne dissimulavi? nonne silui? nonne quievi?", volendo significar che
a questa diligenza non suol mancar piacer alcuno; e quando succede qualche accidente che perturbi
tanto sereno, vuol il cielo che, dopo l'avversità, si accresca splendor agli animi che son alieni dagli
affetti della terra.
XXIII. In un giorno solo non bisognerà la dissimulazione
È tanta la necessità di usar questo velo, che solamente nell'ultimo giorno ha da mancare.
Allora saran finiti gl'interessi umani, i cuori piú manifesti che le fronti, gli animi esposti alla publica
notizia, ed i pensieri esaminati di numero e di peso. Non averà che far la dissimulazione tra gli
uomini, in qualunque modo si sia, quando Iddio, che oggi "est dissimulans peccata hominum", non
dissimulerà piú; ma poste le mani al premio ed alla pena, metterà termine all'industria de' mortali, e
que' sagaci intelletti, che hanno abusato il proprio lume, si accorgeranno come allora non gioverà
l'arte del cucir la pelle della volpe dove non arriva quella del leone, che fu consiglio di un re
spartano: perché l'onnipotente Leone, facendo ruggir il mondo dagli abissi fin alle stelle, chiamerà
tutti; e ciascuno dee saper e dire "circumdabor pelle mea", come disse Giob. Quell'aurora porterà un
giorno tutt'occupato dalla giustizia, e nel mostrar i conti, non vi sarà arte da far vedere il bianco per
lo nero. S'udirà il decreto, che sarà l'ultimo delle leggi, e darà legge eterna alle stelle ed alle tenebre,
al piacer ed alla pena, alla pace ed alla guerra. Sarà forz'alla dissimulazione di fuggirsene in tutto,
quando la verità stessa aprirà le finestre del cielo e, con la spada accesa, troncherà il filo d'ogni vano
pensiero.
XXIV. Come nel cielo ogni cosa è chiara
Se per questa vita in un giorno solo non bisognerà la dissimulazione, nell'altra non occorre
mai; e lasciando di trattar delle anime infelici che, con la luce del fuoco eterno, anzi nelle tenebre,
mostrano gli orribili mostri de' peccati, dirò dello stato delle anime eternamente felici. Ivi hanno lo
specchio, ch'è Iddio, il qual vede tutto, e ben nella lingua greca il suo nome, come osservò Gregorio
Nisseno, dimostra efficacia di vedere, perché theós viene a theáome, ch'è mirare e contemplare.
Veggono i beati colui che vede, sí che nel cielo non occorre che alcuno si celi. Ivi tutto è manifesto,
perché tutto è buono, tutto è chiaro, tutto è caro. Quanti piú sono a possedere il sommo bene, tanto
piú son ricchi. Dov'è tanto amor, non può succedere occasion di custodire interesse alcuno. Ma qui,
dove siamo vestiti di corruzzione, si procura con ogni sforzo il manto, con che si dissimula per
rimedio di molti mali; ed ancorché ciò sia onesto, pur è travaglio; onde si dee aspirar al termine di
questa necessità, e spesso, rimovendo lo sguardo dagli oggetti terreni, vagheggiar le stelle come
segni del vero lume che, anche per mezzo d'esse, c'invita alla propria stanza della verità. Ivi, nella
divina essenza, i beati godono della chiara vista, ch'è l'ultima beatitudine dell'uomo, essendo la piú
alta operazione dell'intelletto, per mezzo del lume della gloria che lo conforta; perch'essendo la
divina essenza sopra la condizione dell'intelletto creato, può questi vederla, non per forze naturali,
ma per grazia; e come uno ha maggior lume di gloria dell'altro, cosí può meglio conoscerla,
ancorché sia impossibile vederla quanto è visibile, perché il medesimo lume della gloria, in quanto è
dato a tal intelletto, non è infinito. Or, considerando cosí sodisfatti,
cosí felici, ed in eterno sicuri,
gli abitatori del Paradi-
so, si vede come non
han da nasconder di-
fetto alcuno; e per
conseguenza la
dissimulazio-
ne rimane
in ter-
ra,
dove ha tutti
i suoi ne-
gozii.
XXV. Conclusione del trattato
Avendo affermato che in questa vita non sempre si ha da esser di cuor trasparente, mi par
bene di conchiuder con affettuoso rivolgimento alla dissimulazione stessa.
Oh virtú, che sei il decoro di tutte l'altre virtú, le quali allora son piú belle quando in qualche
modo son dissimulate, prendendo l'onestà del tuo velo, per non far vana pompa di se medesime. Oh
rifugio de' difetti, che nel tuo seno si sogliono nascondere. Tu alle fortune grandi sei di gran
servigio, per sostenerle, ed alle picciole porgi la mano, perché in tutto non si veggano andar per
terra. Nel buono e nel mal tempo bisognano le tue vesti, e nella notte non meno che nel giorno, e
non piú fuori che in casa. Io non ti conobbi per tempo, ed a poco a poco ho appreso che in effetto
non sei altro che arte di pazienzia, che insegna cosí di non ingannare come di non essere ingannato.
Il non creder a tutte le promesse, il non nudrire tutte le speranze, son le cose che ti producono. Le
porpore, nel meglio del lor vermiglio, sogliono ricorrere al nero del tuo manto; le corone d'oro non
han luce che talora non abbia bisogno delle tue tenebre. Gli scettri, che spesse volte non si portano
dalla tua mano, facilmente vacillano; e 'l folgore delle spade, se non si serve di alcuna tua nube,
riluce invano. La prudenza, tra ogni suo sforzo, non ha miglior cosa di te; e benché di molte altre si
mostri ornata, a tempo sa goder del tuo silenzio, piú che di ogni altro effetto delle sue industrie.
Misero il mondo, se tu non soccorressi i miseri. A te appartiene di usar molti ufici nell'ordinar le
republiche, nell'amministrar la guerra, e nel conservar la pace; e dall'altra parte si veggono quanti
disordini, quante perdite e quante ruvine son succedute, quando sei stata posta in abbandono e s'è
dato luogo a manifesti furori, da che son seguíti quegl'infortunii che tante volte han diturpate le
provincie intiere. Quando un, che doverebbe perire di fame, ha fortuna di poter dar il cibo a molti,
quando un ignorante è riputato dotto da chi sa meno di lui, quando un indegno ha qualche degnità, e
quando un vile si tiene per nobile, come si potrebbe vivere se tu non accommodass'i sensi a cosí
duri oggetti? Vorrei che mi fosse permesso di manifestare tutto l'obligo che ho a' benefici che mi hai
fatti; ma invece
di renderti grazie, offen-
derei le tue leggi non
dissimulando quan-
to per ragione ho
dissimulato.
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